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CORRIERE DELLA SERA
14 dicembre 2006
Fannulloni e corrotti al sicuro:
condannati e licenziati 2 su 100
Gian Antonio Stella

Abbiano l' onestà di dirlo: non vogliono licenziare nessuno, neanche i mascalzoni arrestati con la bustarella in mano. Appioppare una condanna per corruzione a più di due anni di carcere, oggi, è pressoché impossibile. Capita in due casi su cento. Quindi la nuova «severità» sbandierata dal governo verso i dipendenti pubblici disonesti, accettiamo scommesse, si rivelerà una bufala. Eppure questo ha detto ieri al Corriere il ministro per la funzione pubblica Luigi Nicolais*. Al prossimo consiglio dei ministri presenterà «un disegno di legge sui procedimenti penali e disciplinari nel pubblico impiego» che saranno «molto più severi» di adesso: «Oggi c' è il licenziamento in caso di corruzione, concussione e peculato con pene superiori a tre anni. Molti sfuggono patteggiando o con il rito abbreviato. Da domani basterà una pena patteggiata di oltre due anni per essere licenziati automaticamente». Domanda: il ministro sa quante condanne a oltre due anni di carcere vengono comminate oggi per quei reati? Se gli interessa, faccia una telefonata a Piercamillo Davigo, Consigliere di Cassazione, già protagonista del Pool Mani Pulite e autore con la professoressa Grazia Mannozzi di un libro in uscita per Laterza proprio sulla corruzione. Gli risponderanno: «Pochissime». Dettagli? Eccoli: elaborando i dati dei casellari giudiziari dal 1983 al 2002, risulta che le condanne per concussione (il reato più grave, articolo 317) a meno di due anni di galera con allegato il beneficio della condizionale sono il 78%. Quelli per corruzione propria (articolo 319) meno ancora: il 93%. E quelli per la corruzione normale (articolo 318 ) superano il 98%. Ovvio: la pena prevista per la corruzione va da due a cinque anni. Il giudice, per prassi, sceglie di partire generalmente da una via di mezzo, tipo quattro anni. Basta che il corrotto chieda il rito abbreviato o il patteggiamento, se proprio non ha la pazienza di tener duro, di rinvio in rinvio, contando sulla prescrizione o un indulto, e già ha diritto allo sconto di un terzo: e siamo a due anni e otto mesi. Meno un altro terzo per le attenuanti generiche (che non si negano a nessuno) e un altro sconto se si restituisce il maltolto et voilà, siamo già saldamente al sicuro: sotto i due anni. E questo, del resto, dicono un pò tutte le banche dati sui processi per corruzione. La pena finisce per essere spesso inferiore a un anno. Per scendere fino a sette od otto mesi. Una oltre i due anni è una vera rarità. Soprattutto in certe aree del sud come Reggio Calabria, dove le condanne per corruzione risultano essere state due. In venti anni. Morale: la «severità» delle nuove norme finirebbe in realtà per lanciare nel mondo del pubblico impiego un messaggio devastante: tranquilli, non cambia niente, nessuno paga. Lo dice la storia di questi anni. Non solo sul versante delle mazzette. Basti ricordare il caso di Antonio Donnarumma, un custode di Pompei. Lo arrestarono nella stupenda Casa di Cecilio Giocondo mentre cercava di violentare una ragazzina americana adescata con la scusa di mostrarle affreschi chiusi al pubblico. La flagranza del reato era tale che non cercò neanche di difendersi: patteggiò un anno con la condizionale. Bene: non riuscirono a licenziare manco lui. E si dovettero accontentare di mandarlo «in punizione» a Sorrento. Un «esilio» a 29 chilometri. Una botta al morale di chi come Pietro Ichino invoca da anni una mano più pesante coi fannulloni proprio per dare più spazio e più soldi ai dipendenti pubblici che lo meritano, la diede ad esempio un certo Salvatore Castellano, che stava al museo di Capodimonte (dove gli usceri rifiutavano le divise perché "non sono confacenti al clima di Napoli") e dopo aver fatto 220 assenze in un anno (più le ferie, più le festività...) era stato indicato al ministero come uno da sbattere fuori. Accusa: la salute cagionevole non aveva impedito all' uomo, mentre risultava quasi agonizzante, di tenere aperto un laboratorio di cornici. Eppure, di ricorso al Tar in ricorso al Tar... Anche A.T., un dipendente del comune di Genova, non si rassegnò al licenziamento che dopo vari ricorsi al Tribunale regionale: non riusciva a capire perché il municipio fosse così fiscale con lui, che aveva accumulato (facendo contemporaneamente altri lavori, secondo l' accusa) quasi 1.400 giorni di malattia. Perse, alla fine, ma solo perché non trovò magistrati come quelli del Consiglio di Stato che annullarono il licenziamento di un bidello calabrese introvabile quando arrivava il medico fiscale, perché «prima di assumere il provvedimento l' amministrazione deve comunque accertarsi delle reali condizioni di salute». E se quello fosse stato alle Maldive, come successe con un impiegato comunale di Pesaro? Andavano accertate le sue condizioni psicofisiche all' atollo Ari? Una sentenza fantastica. Pari almeno a quella del Tar di Milano che qualche anno fa fece riassumere al liceo scientifico Severi un bidello licenziato perché, preso in prova, in tre anni si era fatto vedere in totale per 60 giorni. No, dissero i giudici: nel pubblico impiego non si può interrompere un rapporto di lavoro prima che sia concluso un periodo di prova. Quanto lungo? Sei mesi. Cosa che, lavorando il giovanotto ("Sono diplomato e invece di farmi fare le pulizie fatemi lavorare in ufficio!") venti giorni l' anno, avrebbe richiesto qualche decennio. Il postino P.M., che qualche mese fa a Ortoliuzzo, Messina, fu sorpreso con due tonnellate e mezzo di lettere, fatture, telegrammi, assicurate, raccomandate che da nove mesi non aveva voglia di consegnare, se ne stia dunque sereno: avanti così, non lo licenzierà nessuno. Come nessuno è riuscito in questi anni a liberarsi, a Napoli, di quei vigili urbani che proprio non tengono voglia ' e faticà nel traffico e hanno intasato la direzione del personale di centinaia di certificati: quello ha problemi all' udito, quell' altro non sopporta lo smog, quell' altro ancora si stressa... Tutta colpa del virus dell' «incrocite»": appena sono di turno a un incrocio, si sentono male. Il risultato, spiega il Mattino, è il seguente: su 2.128 poliziotti municipali, quelli che lavorano ancora nelle strade sono circa 500. Un quarto. Tutti gli altri faticano dietro qualche scrivania.



98% *** È la percentuale dei corrotti che se la cava con meno di 2 anni di carcere




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CORRIERE DELLA SERA
del 13/12/2006
Int. a NICOLAIS
LUIGI NICOLAIS: NIENTE ASSUNZIONI A PIOGGIA PER I PRECARI
(SENSINI MARIO)
a pag. 13

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www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/dettaglio.asp...

Consiglio dei Ministri n. 31 del 22 dicembre 2006

La Presidenza del Consiglio dei Ministri comunica:

Il Consiglio dei Ministri si è riunito oggi alle ore 11,10 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del Presidente del Consiglio, Romano Prodi.
Segretario, il Sottosegretario di Stato alla Presidenza, Enrico Letta.

Il Consiglio ha approvato i seguenti provvedimenti:

(...)

su proposta del Ministro per le riforme e l’innovazione nella pubblica amministrazione, Luigi Nicolais:
- un disegno di legge che interviene sul rapporto fra procedimento penale e procedimento disciplinare per i lavoratori dipendenti della pubblica amministrazione, con il fine di evitare che istituti che semplificano ovvero accelerano la definizione di giudizi penali possano avere effetti indiretti sul rapporto di lavoro con l’amministrazione, pregiudicando l’esercizio dell’azione disciplinare;




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www.funzionepubblica.it/nuovosito/in_evidenza/licenziam...

DDL licenziamenti


Il Consiglio dei Ministri del 22 dicembre scorso ha approvato un disegno di legge presentato dal ministro per le riforme e innovazioni nella p.a. che prevede il licenziamento immediato per i dipendenti pubblici condannati per corruzione, concussione e peculato e che abbiano patteggiato la pena con condanna a due anni.

Fino al 1993, i dipendenti pubblici condannati penalmente, qualunque fosse la pena, venivano automaticamente licenziati.

La Corte Costituzionale nel 1999 ha definitivamente eliminato ogni forma di automatismo imponendo che un eventuale licenziamento debba comunque arrivare solo dopo un procedimento disciplinare da parte dell'amministrazione.

Per rispettare questi principi invalicabili il Parlamento ha dovuto innovare nel 2001 il sistema dei licenziamenti dei pubblici dipendenti, prevedendo il licenziamento diretto solo nei casi di corruzione, concussione e peculato dopo una sentenza di condanna superiore a tre anni.

Questa scelta non ha però tenuto conto delle riduzioni di pena possibili grazie a patteggiamento o a rito abbreviato: è proprio su questa lacuna che il ministro Nicolais ha deciso di intervenire, con il disegno di legge.

Ma la mancanza di tempestività e di rigore da parte delle amministrazioni pubbliche nasce anche da un altro, gravissimo problema: la mancanza di controlli.

E' stato deciso quindi di rafforzare le funzioni centrali di monitoraggio per superare l' inaccettabile inerzia di molte amministrazioni nell'avviare e nel condurre i procedimenti disciplinari nei confronti dei propri dipendenti. Il disegno di legge prevede infatti che:


a) la segretaria del giudice, contrariamente a quanto avviene oggi, dovrà trasmettere la sentenza di condanna all' ufficio responsabile affinché questo possa avviare tempestivamente i procedimenti disciplinari: i tempi per la conclusione del procedimento decorreranno da quel preciso momento, riducendo così troppo facili prescrizioni;


b) il funzionario responsabile del mancato avvio del procedimento disciplinare dovrà essere giudicato per danno all'immagine dell'amministrazione davanti alla Corte dei Conti;


c) tutte le sentenze di condanna superiore ad un anno, qualunque sia il reato commesso, dovranno essere trasmesse all'ispettorato della Funzione Pubblica che chiederà conto alle amministrazioni dell'avvio e dell'esito del procedimento disciplinare.




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Disegno di legge
Integrazioni e modifiche alle disposizioni sul rapporto
tra procedimento penale e procedimento disciplinare

Art.1
(Modifiche all’art. 32-quinquies codice penale)
1. All’articolo 32-quinquies c.p. dopo le parole: “tre anni” sono inserite le seguenti: “, ovvero a due anni ove irrogata all’esito dei giudizi di cui agli articoli 438 e 444 del codice di procedura penale,”.
Art. 2
(Modifiche all’art. 445 codice di procedura penale)
1. All’articolo 445, comma 1, del codice di procedura penale, dopo le parole: “pene accessorie” sono inserite le seguenti: “, salvo quanto previsto dall’articolo 32-quinquies del codice penale,”.
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Art. 3
(Modifiche ed integrazioni alla legge 27 marzo 2001, n. 97)
1. All’articolo 5 della legge 27 marzo 2001, n. 97, comma 4, secondo periodo, le parole: “dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per” sono così sostituite: “dalla ricezione della sentenza da parte dell’ufficio competente ad avviare”.
2. All’articolo 5 della legge 27 marzo 2001, n. 97, dopo il comma 4, è aggiunto il seguente comma:
“5. Fatte comunque salve le ipotesi di responsabilità penale e disciplinare, la mancata applicazione della sanzione disciplinare per decadenza dai termini o per altri motivi attinenti alla regolarità del procedimento, comporta la responsabilità del soggetto preposto all’istruttoria del procedimento ovvero del soggetto titolare del relativo ufficio, nonché, ove diversi, degli organi competenti ad adottare o deliberare la sanzione disciplinare, per il danno cagionato all’amministrazione. Gli organi di controllo interno sono tenuti alle necessarie verifiche e segnalazioni agli organi competenti in materia di accertamento della responsabilità disciplinare o dirigenziale.”.
Art. 4
(Comunicazione della sentenza di condanna o di applicazione della pena)
1, Dopo l’articolo 154-bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, è aggiunto il seguente articolo:
“154-ter Comunicazione della sentenza di condanna o di applicazione della pena.
1. La cancelleria del giudice che ha emesso una sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p., nei confronti di un dipendente di un’amministrazione od ente pubblico, ovvero di ente a 2
prevalente partecipazione pubblica, ne comunica l’estratto, preferibilmente con modalità di trasmissione telematica, all’amministrazione o ente da cui il soggetto dipende.
2. Nei casi di condanna o di applicazione di pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno, nonché in tutti i casi di condanna o di applicazione di pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. per i reati di cui all’articolo 32-quinquies del codice penale, l’estratto della sentenza deve essere comunicato, con le modalità di cui al comma 1, anche al Dipartimento della funzione pubblica – Ispettorato per la funzione pubblica, per gli adempimenti di competenza, ivi compresa la verifica dell’attivazione del procedimento disciplinare.”.
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Relazione illustrativa
Il provvedimento intende intervenire sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare, al fine di evitare che istituti e procedure finalizzate a semplificare ed accelerare la definizione dei giudizi penali possano determinare dei benefici indiretti sul rapporto di lavoro con l’amministrazione, pregiudicando l’esercizio dell’azione disciplinare.
L’art. 1 estende l’estinzione del rapporto di lavoro ai casi in cui il lavoratore abbia beneficiato di riduzioni nella commisurazione della sanzione, per essere stato condannato al termine del giudizio abbreviato ovvero in virtù dell’applicazione della pena su richiesta della parte. Perché si abbia estinzione del rapporto, la pena deve comunque risultare non inferiore a due anni, sia in caso giudizio abbreviato che in caso di applicazione della pena su richiesta di parte (in modo proporzionale alla rispettiva riduzione prevista “di un terzo” o “fino a un terzo” della pena per tali giudizi).
Il ricorso ad istituti processuali deflattivi, se a pieno titolo può incidere sull’afflittività penale, non può compromettere gli effetti estintivi del rapporto di lavoro attribuiti dalla legge al giudicato. Invero è il fatto-reato in sé a minare il carattere fiduciario del rapporto tra l’amministrazione datore di lavoro ed il dipendente. La circostanza che la pena possa essere decurtata per ragioni processuali non può, dunque, attenuare l’impatto del fatto sul rapporto di lavoro. In ogni caso, poiché l’estinzione segue a condanne superiori a due anni in caso di giudizio abbreviato o di applicazione della pena a seguito di patteggiamento (fermo restando il limite di tre anni ove la pena sia irrogata al termine del rito dibattimentale) deve ritenersi rispettata l’interpretazione della Corte costituzionale, secondo cui l’automaticità degli effetti sul rapporto di lavoro può collegarsi solo a vicende che rendano comunque intollerabile la prosecuzione del rapporto di impiego.
L’articolo 2 modifica il comma 1 dell’articolo 445 del codice di procedura penale (“effetti dell’applicazione della pena su richiesta”). La predetta norma prevede, infatti, che, quando la pena irrogata ex art. 444, comma 2, cpp, non superi i due anni, la relativa sentenza non comporta, tra l’altro, l’applicazione di pene accessorie. La clausola di salvezza introdotta dall’art. 2 del disegno di legge in esame (“salvo quanto previsto dall’articolo 32-quinquies del codice penale”) consente, invero, di applicare l’art. 32-quinquies, oltre che alle ipotesi di condanna ad una pena superiore a due anni, anche ai casi in cui la sentenza di cd. patteggiamento preveda la condanna ad una pena detentiva di due anni.
L’art. 3 precisa, invece, che il termine di estinzione entro cui deve concludersi il procedimento disciplinare decorre dalla data di ricezione della sentenza da parte dell’ufficio competente ad avviare il procedimento stesso (comma 1). Tale prescrizione intende escludere dal computo del termine generale di conclusione del procedimento il lasso temporale intercorrente fra la conoscenza dell’esito del giudizio
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da parte dell’amministrazione e l’avvio del procedimento. Combinando questa prescrizione con la disposizione introdotta nel comma 5 aggiunto all’art. 5 della legge 27 marzo 2001, n. 97, si concentra nell’ufficio competente ad avviare il procedimento disciplinare la responsabilità del procedimento stesso.
Il secondo comma intesta – ferme restando le ipotesi di responsabilità penale e disciplinare – la responsabilità per l’inerzia nell’attivazione o prosecuzione del procedimento disciplinare in capo al soggetto preposto all’istruttoria del procedimento ovvero al titolare dell’ufficio a ciò deputato, nonché, ove diversi, in capo ai soggetti competenti ad adottare o deliberare la sanzione disciplinare (comma 5, aggiunto all’art. 5 della legge n. 97/2001). La conservazione del rapporto di lavoro o la mancata sanzione disciplinare come conseguenza di inadempiuta valutazione del comportamento del dipendente pubblico per vizio procedimentale imputabile a tali soggetti predetermina la responsabilità di questi ultimi per danno all’immagine dell’amministrazione, ferma restando la valutazione dell’elemento soggettivo per dolo o colpa grave. Oltre ai profili afferenti il danno, l’inerzia o tardività nell’attivazione dei procedimenti in questione costituiscono elementi di valutazione ai fini della responsabilità (disciplinare o dirigenziale) del soggetto al quale sia imputabile il predetto comportamento. L’obbligo di istruttoria e trasmissione degli accertamenti in tema di attivazione dei procedimenti disciplinari, conferito agli organi di controllo interno, implica, infatti, come ulteriore conseguenza, il necessario apprezzamento di tale elemento fra quelli sottesi al sindacato sulle performance dirigenziali.
L’articolo 4 introduce, inoltre, obblighi di comunicazione, da effettuarsi preferibilmente con modalità di trasmissione telematica, fra uffici amministrativi.
In particolare, il comma 1 dell’art. 154-ter disp. att. c.p.p. (decreto legislativo n. 271 del 1989), come introdotto dall’art. 4, comma 1, del disegno di legge in esame, sana un vulnus del sistema vigente, nel quale la Procura della Repubblica competente comunica all’Amministrazione l’avvio dell’azione penale, senza tuttavia dare notizia dell’eventuale sentenza di condanna. Da qui l’incertezza in cui versano le amministrazioni, costrette a dover richiedere, periodicamente, agli uffici di supporto dell’autorità giudicante gli aggiornamenti in merito all’esito del giudizio. Una volta posto a carico della cancelleria dell’organo giudicante l’onere di trasmettere l’estratto della sentenza di condanna, le amministrazioni sono poste nelle condizioni di avviare più agevolmente i procedimenti di propria competenza.
L’analogo obbligo per la cancelleria dell’autorità giudicante di trasmettere all’Ispettorato del Dipartimento della funzione pubblica gli estratti delle sentenze recanti condanne (o applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p.) alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno ovvero per i reati di cui all’articolo 32-quinquies del codice penale (comma 2, art. 154-ter disp. att. c.p.p.) alimenta ulteriormente il circuito informativo tra gli apparati pubblici, consentendo all’Ispettorato del Dipartimento della funzione pubblica di monitorare i comportamenti degli uffici delle pubbliche amministrazioni.
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Relazione tecnica
La presente relazione tecnica è volta a precisare che l’attuazione del presente disegno di legge non determina ulteriori oneri a carico del bilancio dello Stato.
Si evidenzia, in particolare, quanto segue.
Il comma 5 dell’art. 5 della legge n. 97 del 2001, aggiunto dall’art. 3, comma 2, del disegno di legge in esame, prevede la responsabilità dei soggetti preposti all’istruttoria dei procedimenti disciplinari ovvero titolari dei relativi uffici, nonché degli organi competenti ad adottare o deliberare la sanzione disciplinare, per il danno cagionato all’immagine dell’amministrazione nei casi di mancata applicazione della predetta sanzione per decadenza dei termini o per altri motivi attinenti alla regolarità del procedimento. Dall’applicazione di tale disposizione – che è volta ad incidere su situazioni patologiche relative all’esercizio della funzione amministrativa sanzionatoria – potranno derivare maggiori introiti per la finanza pubblica, che non possono, però, essere previamente quantificati, essendo il riconoscimento del danno all’immagine della P.A. eventuale (in quanto è necessaria la violazione della norma) ed essendo la sua entità rimessa alla valutazione equitativa dei singoli giudici chiamati ad accertare l’eventuale responsabilità civile dei soggetti contemplati dalla norma in questione.
I maggiori introiti derivanti dall’entrata in vigore della disposizione sopra illustrata potranno in ogni caso certamente compensare le eventuali maggiori spese derivanti dall’onere di effettuare la comunicazione dell’estratto della sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. alle amministrazioni ed enti pubblici (o a prevalente partecipazione pubblica) di appartenenza dei singoli dipendenti ed all’Ispettorato della funzione pubblica (nei casi di condanna alla reclusione per un tempo inferiore ad un anno ed in tutti i casi di condanna per i reati di cui all’art. 32-quinquies c.p.), previsto dai commi 1 e 2 dell’art. 154-ter disp. att. c.p.p., come aggiunto dall’art. 4, comma 1, del presente provvedimento, la quale, comunque, dovrà essere effettuata facendo ricorso agli ordinari stanziamenti di bilancio.
Occorre, inoltre, sottolineare che il predetto onere di comunicazione potrebbe essere assolto preferibilmente utilizzando le modalità di trasmissione telematica, eliminando, quasi del tutto, ogni onere a carico dell’amministrazione della giustizia.
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www.lavoce.info/news/view.php?id=&cms_pk=2201
29-05-2006
Gli effetti collaterali della ex-Cirielli
Grazia Mannozzi
tratto dal sito www.lavoce.info

La modifica della prescrizione introdotta nel 2005 dalla legge nota come "ex-Cirielli" è in direzione di un accorciamento dei tempi che fanno estinguere la pretesa punitiva dello Stato. Se l’obiettivo della riforma era quello di combattere la lunghezza dei processi, fenomeno per il quale l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, gli effetti pratici andranno però probabilmente nella direzione opposta. (1) Per spiegare il perché occorre richiamare brevemente alcune caratteristiche strutturali del nostro processo penale.


Il patteggiamento come contropartita del processo accusatorio


In Italia vige un sistema processuale di tipo accusatorio, paragonabile per alcuni aspetti a quello nordamericano, in base al quale la prova del reato si forma nel dibattimento, attraverso l’esame e il controesame dei testimoni. L’adozione di tale modello processuale, proprio perché impone un dibattimento assai complesso, impone come contropartita la presenza di "riti differenziati", che immettono spazi di negozialità: tra questi, il patteggiamento e il giudizio abbreviato, introdotti in Italia con il nuovo codice di procedura penale. (2) Sono istituti privi della fase dibattimentale, e quindi conducono a una pronuncia giudiziale in tempi molto più rapidi.
In via di principio, il processo accusatorio dovrebbe essere riservato ai casi più complessi; i riti differenziati, in cui l’accusato accetta di essere giudicato allo stato degli atti oppure accetta l’applicazione di una pena la cui misura è concordata con il pubblico ministero, dovrebbero essere utilizzati invece per i casi strutturalmente più semplici o con minore difficoltà probatoria.
Nella prassi le cose vanno però diversamente: spesso, infatti, non è la complessità di un caso a far propendere per il processo accusatorio, ma è la realtà del sistema penale-processuale, endemicamente a corto di risorse e caratterizzato da una patologica lunghezza dei processi, a indurre le parti (principalmente il pubblico ministero) ad aderire al patteggiamento, quando non a incoraggiarlo offrendo vantaggiosi sconti di pena.
Se non aleggiasse il rischio della prescrizione dei reati, che come una idrovora risucchia sia la criminalità minore, che si rinuncia ab initio a perseguire, sia la criminalità economica, che invece è sempre più difficile da reprimere, e se vi fossero risorse illimitate per arrivare in tempi ragionevoli a una sentenza con prove che resistano a ogni ragionevole dubbio, il processo accusatorio sarebbe preferibile alla giustizia negoziata. Ciò non solo per il maggiore rispetto delle garanzie procedurali, ma anche per la "razionalità" della sanzione: la pena che scaturisce dal patteggiamento o dal giudizio abbreviato è infatti scarsamente giustificabile rispetto alla finalità che l’ordinamento le assegna. Essa rappresenta infatti una frazione modesta della pena originariamente prevista dal legislatore; come tale non risponde più né al criterio di proporzione, né sembra soddisfare le esigenze della prevenzione generale (perché intrinsecamente mite) o della risocializzazione (perché non dosata in ragione dei bisogni di rieducazione del reo).
Il processo adversary, persa la sua funzione ‘servente’ rispetto al diritto penale sostanziale, produce ormai lentamente delle non-sanzioni, come la sospensione condizionale della pena. Oppure delle non-risposte, come la prescrizione, che spesso interviene prima che si concludano tutti i gradi di giudizio, vanificando il molto lavoro già svolto, lasciando di fatto le vittime prive di una tutela reale dei loro diritti, con evidente diseconomicità complessiva.


Conviene ancora patteggiare la pena?


Sebbene i riti differenziati siano stati introdotti per rispondere in primis a criteri di efficienza, proprio questo obiettivo assomiglia sempre di più a una chimera.
Si potrebbe sostenere che il cattivo funzionamento del modello accusatorio dipenda dal fatto che si ricorre ai riti differenziati in misura ancora troppo contenuta e che perciò i processi con rito ordinario sono molti di più di quelli che la macchina giudiziaria riesce a sostenere.
Nei paesi di common law, da dove abbiamo importato il patteggiamento, la giustizia negoziata viene utilizzata in quasi il 90 per cento dei casi per i quali viene formulata un’accusa. In Italia le percentuali sono molto più contenute: i dati forniti da Casellario giudiziale centrale indicano che solo il 40 per cento delle condanne viene ottenuta attraverso il patteggiamento. (3)
L’andamento del ricorso al patteggiamento, monitorato da quando è entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale, è visualizzato nel grafico che segue.


Grafico n. 1: percentuale delle condanne ottenute in Italia attraverso il patteggiamento tra il 1990 e il 2002.

www.lavoce.info/news/images/mannozzi.gif

Fonte: Casellario giudiziale centrale.


Alcuni reati hanno fatto registrare un andamento differenziato e per certi aspetti "anomalo" quanto al rapporto tra condanne ottenute con il patteggiamento e con il rito ordinario: si tratta dei delitti di corruzione e concussione scoperti a seguito delle inchieste Mani pulite. All’epoca, i soggetti accusati di corruzione o concussione hanno scelto massicciamente di ricorrere al patteggiamento (con percentuali intorno all’85 per cento, vicine dunque a quelle anglosassoni).
Essendo state tuttavia poche (in cifre assolute) le condanne per corruzione e concussione, il loro numero non ha inciso in modo apprezzabile sulla tendenza generale del ricorso al patteggiamento.
Cosa ha reso particolarmente allettante il ricorso all’applicazione della pena su richiesta delle parti per i delitti scoperti con Mani pulite?

Possiamo ipotizzare che diversi fattori abbiano spinto in questa direzione. Dal punto di vista della difesa, i vantaggi del patteggiamento sono riassumibili in:
a) irrogazione di una pena più mite di quella che sarebbe stata inflitta attraverso il rito ordinario: il patteggiamento ne consente infatti una riduzione fino a un terzo.
b) ottenimento di una sentenza "non accertativi": la sentenza con cui il giudice sigla il patteggiamento non ha valore di sentenza di condanna e quindi non può fare stato in altri procedimenti sia penali che civili. (4)
c) ricorso a un rito camerale, perciò poco visibile, e quindi tale da evitare lo strepitus fori.
d) rapida fuoriuscita dell’accusato dal circuito processuale, con riduzione dell’impegno economico e del danno all’immagine.

Dal punto di vista dell’accusa, i vantaggi sono stati essenzialmente di tre tipi:
a) semplificazione probatoria.
b) economia della giustizia: la mole enorme di procedimenti avviati a seguito di Mani pulite imponeva una drastica riduzione attraverso la rapida definizione di molte posizioni con il patteggiamento.
c) necessità di scongiurare il rischio della prescrizione.

La stessa vantaggiosità non è presente per la restante massa dei reati. Spesso, infatti, l’autore del reato, confidando nella lentezza della giustizia penale, può trovare più attraente l’aspettativa della impunità rispetto a quella della applicazione di una pena mite ma certa.
Peraltro, la recente riforma legislativa che ha ridotto il tempo necessario alla prescrizione dei reati, contribuisce a minimizzare il rischio di condanna qualora si opti per il rito ordinario e, per converso, alimenta il ricorso a tattiche processuali dilatorie, con conseguente riduzione della convenienza a ricorrere al patteggiamento.
Con tale riforma, calata in un ordinamento già pesantemente afflitto dal numero elevato e della lunghezza dei procedimenti, si rischia, da un lato, di ingolfare ancora di più la macchina giudiziaria, dall’altro lato, di provocare una perdita di efficacia dell’intero sistema, che sembra ora essere programmato per produrre "impunità".


(1) Cfr. Dolcini, Le due anime della legge ex Cirielli, in Il Corriere del Merito, 2006, p. 55 s.
(2) Nel nostro ordinamento, il patteggiamento non nasce propriamente con il nuovo codice di procedura penale ma ha il suo "ceppo storico" in un istituto – l’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 77 legge 24 novembre 689, n. 1981, ora abrogato – che si radicava in un modello processuale di tipo inquisitorio. Un intarsio azzardato, ma evidentemente "fattibile", a scopi deflativi.
(3) I dati riferiti nel testo derivano da una più ampia ricerca, condotta con Piercamillo Davigo (consigliere presso la Corte di cassazione), i cui risultati sono in corso di pubblicazione per i tipi di Laterza.
(4) Il nostro patteggiamento consente cioè di accettare la pena, senza però accettare la qualifica di colpevole e le implicazioni sociali, anche in chiave di stigmatizzazione, che seguono inevitabilmente a essa. Vedi Ferrua, Studi sul processo penale, vol. II, Giappichelli, 1992, p. 68.



INES TABUSSO