00 13/04/2006 00:51
CORRIERE DELLA SERA ON LINE
"Fine della storia per il Padrino", è il titolo con il quale il quotidiano inglese "The Independent" accoglie il risultato delle elezioni in Italia. Lo stesso giornale aggiunge un "catenaccio" piuttosto allusivo: "E in Sicilia arrestato il capo della mafia"



*****************************************************************



LA REPUBBLICA
12 aprile 2006
PRESO PROVENZANO, IL BOSS DEI BOSS
di Attilio Bolzoni


È finita sulla Montagna dei Cavalli la più lunga e protetta latitanza dell´Italia post unitaria, luogo dove si fa la festa dei fuochi nel giorno del santo patrono di Corleone, meno di due chilometri in linea d´aria dalla chiesa madre, da sua moglie Saveria e dai suoi due figli. Come tutti i veri capi di Cosa Nostra l´hanno preso nel cortile di casa. Lo cercavano là e là l´hanno trovato Bernardo Provenzano. In fuga ma senza muoversi mai, sempre attaccato alle sue radici.

Era in jeans, addosso aveva un giubbotto blu, intorno al collo una sciarpa bianca. Su una piccola scrivania della sua tana c´era la foto di Padre Pio, c´erano cinque bibbie e un manuale di tecniche investigative antimafia. Sul tavolo della cucina un pentolone, il boss la sera prima aveva fatto bollire la cicoria. I suoi capelli bianchi erano un po´ lunghi, forse aveva preso anche qualche chilo negli ultimi tempi. La sua faccia era meno scavata da quella disegnata nell´ultimo identikit con scritto a penna il giorno e il mese e l´anno dell´inizio della sua clandestinità: 16 settembre 1963.

Ci sono omicidi di mafia a urne aperte come quello del povero Francesco Fortugno in Calabria e ci sono catture di mafia a urne chiuse come quella del vecchio boss di Corleone, misteri criminali, coincidenze diaboliche, concorsi di eventi insondabili, comunque sempre molto carichi di significati politici.

Ci sono combinazioni strane nelle vicende mafiose. Neanche due settimane fa il suo avvocato ci aveva confidato che «lui era morto», messaggio da decifrare, forse l´annuncio della sua fine come capo mafia. È proprio come se fosse morto don Bernardo, zio Binnu, quello che una volta sparava come un dio ma aveva il cervello di una gallina, quello che poi faceva già affari nella Sanità pubblica e privata quando i suoi compari ancora trafficavano solo in stupefacenti, quello che dopo le stragi siciliane del ´92 aveva preso Cosa Nostra per mano e l´aveva accompagnata fuori dalla sua crisi più difficile. Con il silenzio. E con la politica. Era lui che mediava.

Che trattava a destra ma anche a sinistra, che aveva «nelle mani» don Vito Ciancimino ma faceva «mangiare» anche le coop rosse, era sempre lui che non voleva più morti a Palermo. Era lui che in qualche modo garantiva l´ordine pubblico nella Sicilia occidentale. Più dei questori e più dei prefetti. Lui, nascosto in uno di quei casolari tra la Montagna dei Cavalli e contrada Marabino, tra i campi di Strasatto e quel fiume che ormai è un rivolo d´acqua dove con i suoi amici Lucianeddu e Totò andavano da ragazzi ad acchiappare anguille.

Si era riparato in uno di quei 51 casolari che i «cacciatori» stavano setacciando nelle campagne tra Mezzojuso e Corleone, il «teatro delle operazioni» della cattura. Come in un war game. Gli sbirri più bravi ed esperti della polizia da una parte e Bernardo Provenzano con quel suo badante pastore dall´altra, un gioco a distanza durato poco più di due settimane.

Si erano appostati dietro una collinetta con i loro uomini più fidati Gilberto Calderozzi e Renato Cortese, due segugi che da una mezza dozzina d´anni seguivano le tracce dello «zio» di Corleone.

A un chilometro, a un chilometro e mezzo da quei casolari avevano cominciato a notare movimenti, automobili che andavano avanti e indietro, sempre agli stessi orari, sempre uomini diversi che trasportavano qualcosa. Vestiti. Cibo. Casse di acqua minerale. Un televisore. Un paio di scarpe.

Alcuni arrivavano fin dentro uno spiazzo che divideva due costruzioni basse, una con i tetti spioventi e l´altra con una grande porta bianca. C´era una macchia verde alle spalle delle due costruzioni e poi c´era un piccolo avvallamento, terra brulla e sassi che scendevano fino a un recinto.

C´era troppa tranquillità in quella masseria dove abitava Giovanni Marino, uno che vendeva ricotta per le vie di Corleone. Di giorno andava in paese e poi restava chiuso là da solo, con le sue pecore e i suoi pensieri. Di sera non usciva mai. I «cacciatori» hanno aspettato con pazienza. Senza avvicinarsi mai più del dovuto. «Tra quei 51 casolari individuati abbiamo cominciato a scartarne alcuni e poi altri», racconta uno dei poliziotti che stava qui dalla fine di marzo.

Era come una catena di Sant´Antonio. Gli «ambasciatori» partivano dalla casa di sua moglie Saveria in contrada Punzonotto. Tutti uomini incensurati. I primi giungevano in un casolare e poi tornavano indietro, in paese. Altri prendevano il loro posto. E puntavano verso un altro casolare. E anche loro tornavano indietro. E altri ancora incontravano lo sherpa del grande boss, il suo badante, quello che vendeva ricotta. Solo lui poteva avvicinarsi allo zio.

Gli appostamenti sono continuati per due settimane. Con telecamere che di notte funzionavano male, non si vedeva quasi niente. E poi di giorno però quelli tornavano a incontrare il venditore di ricotta. E portavano di tutto. Il ricambio della biancheria. I messaggi. Il cibo. La solita filiera. Uno che incontra l´altro, l´altro che incontra lo sherpa. E quello, sempre e solo lui, che va dal grande capo. Fino all´ultima alba. Fino a quando i «cacciatori» sono sicuri che dentro una di quelle due costruzioni basse c´era qualcuno altro.

È stato ieri mattina intorno alle 9. Un braccio che spunta dalla porta e poi l´irruzione. Il covo di due stanze. E poi una piccola cucina, l´armadio per i vestiti, la scrivania con la famosa macchina elettrica di marca «Brother» con la quale il boss dei boss ha scritto per anni e anni i suoi famigerati «pizzini», quei biglietti che viaggiavano da una parte all´altra della Sicilia con ordini e «preghiere», il suo privatissimo ministero delle Poste fatto di portalettere, un esercito di prestanome. Più di 420 gliene hanno arrestati dal 1995. Più di 2.500 siciliani pedinati per arrivare a lui, per tentare prima o poi di prenderlo. Per almeno dieci volte non ce l´avevano fatta, lui era sfuggito all´ultimo momento. Sempre per una spiata. Sempre per un «amico» che gli passava l´informazione giusta sull´ultima indagine o sull´ultima microspia piazzata dentro un´auto o sotto un letto. È andata così per tanto tempo. Fino a quando qualcuno ha deciso che bisognava stanarlo.

Nonostante gli spifferi. Nonostante tutto.

L´inizio della fine della latitanza di Bernando Provenzano si può datare 1993, subito quell´arresto misteriosissimo di Totò Riina. Prima non lo cercava nessuno. Ma da allora - con Gian Carlo Caselli e poi con Pietro Grasso - alla procura di Palermo hanno cominciato a fare sul serio. È stato soprattuttto un magistrato che ci ha creduto fino in fondo: Michele Prestipino. Uomo a volte spigoloso, serissimo, competente, ha lavorato sull´obiettivo come nessuno altro aveva fatto prima. Ha scelto gli sbirri più fedeli.

E non si è fermato più.

Il resto di questa cattura lo sapremo un po´ nei prossimi giorni e forse un po´ anche nei prossimi anni. Le storie di mafia sono sempre assai complicate per ricostruirle a caldo in ogni loro piega o per raccontarle subito e solo attraverso le carte giudiziarie, le storie di mafia nascondono sempre tante verità.

Anche quando un´operazione poliziesca è di livello elevatissimo e senza sfondo di patti o di ricatti, proprio come quella che si è appena conclusa sulla Montagna dei Cavalli. Ma sempre storie di mafia sono.

Vi vogliamo ricordare ancora la tortuosa confessione dell´avvocato del boss di due settimane fa, pressappoco il giorno in cui i «cacciatori» si appostarono sulla collinetta davanti al casolare. Vi vogliamo ricordare ancora i tempi, l´arresto che scatta a urne chiuse.

Saranno contemporaneità, saranno concomitanze ma chi vive da queste parti lo sa che certe cose non avvengono mai per caso.

Da Corleone probabilmente vi stiamo trasmettendo una delle ultime cronache di alta mafia. È morto Luciano Liggio. È sepolto in carcere Totò Riina. È condannato a dieci ergastoli Leoluca Bagarella. Hanno preso Bernardo Provenzano. La tribù di Corleone - quella che per gli altri boss della Sicilia è sempre stata un cancro e un´anomalia per la sua carica antistatale, quella che ha goduto comunque di eccellentissime protezioni a Palermo e a Roma - sembra finita per sempre. L´ultimo «contadino» di Corleone è stato fatto prigioniero.
INES TABUSSO