00 05/03/2006 22:54


di Marco Travaglio


Ci vorrebbe una legge Bacchelli per gli ex presidenti della Repubblica. Una legge che garantisca una serena vecchiaia, con tanto di vitalizio, a chi ha guidato lo Stato, ma in cambio di una firma su una minuscola clausoletta: quando, a insindacabile giudizio di un pool di esperti, l’"ex" comincia a farla fuori dal vaso, oltre al pannolone scatta il silenzio stampa.

Giornali e tv dispongono un cordone sanitario e si accordano per non raccogliere più le sue esternazioni. Nessuna censura, per carità. Solo una giusta tutela per la carica occupata dall’ex, ma soprattutto per la persona dell’ex, che altrimenti rischia di essere ricordato per i suoi delirii senili, anziché per quello che di buono eventualmente ha fatto. Lo stesso accorgimento potrebbe essere esteso a scrittori e intellettuali famosi, che alla fine rischiano di cancellare i meriti acquisiti in una lunga e gloriosa carriera.
La proposta sorge spontanea ogni volta (una all’anno) che piovono da Manhattan le scombiccherate fatwe di Oriana Fallaci e ogni volta (almeno due al giorno) che piovono da Roma le sgangherate esternazioni di Francesco Cossiga. Il "Presidente Emerito della Repubblica", come tocca chiamarlo, non è sempre stato così. Vi fu un tempo in cui, pur tra mille bizzarrie e catastrofi (dal caso Moro, fatto gestire da un comitato di piduisti, a tanti altri misteri d’Italia), manteneva una certa dignità. Fu il solo ministro dell’Interno, nella prima Repubblica, a dimettersi per aver fallito: nel senso che quasi tutti fallirono, ma l’unico dimissionario fu lui, dopo lo choc di via Fani. E nella prima parte del suo settennato al Quirinale mantenne una condotta ineccepibile, discreta e "istituzionale".

Poi, provocato dalle manovre di Andreotti su Gladio, cominciò a sbarellare. Tre anni di "picconate", insulti a questo e a quello, soprattutto al suo partito e al Pds, durante i quali la credibilità della massima istituzione del Paese finì sottoterra. Anche perché non si trattava, come a Cossiga piaceva far credere, dell’estrema conseguenza della crisi della Prima Repubblica, della quale lui aveva capito in anticipo gli effetti dopo il crollo del muro di Berlino. Dal suo piccone, infatti, si salvò un partito, il più corrotto: il Psi di Craxi. E quando Massimo Fini gliene chiese il motivo, lui rispose ineffabile: "Sfido io, Craxi è l’unico che mi difende!".
Da allora, ogni qualvolta spunta sulla scena qualcosa di pulito, di onesto, di positivo, di innovativo, Cossiga non ha dubbi: si schiera dall’altra parte. Indimenticabile (e dunque dimenticata) la sua campagna contro i "giudici ragazzini": "Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto un concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia o contro il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza" (10 maggio 1991). Sei mesi prima, ad Agrigento, le lupare di Cosa Nostra avevano falciato la giovane vita del giudice antimafia Rosario Livatino, 28 anni. Quando il Csm tentò di difendere i giudici di Milano, calunniati da Craxi come complici del terrorismo di Prima Linea nel delitto Tobagi, Cossiga bloccò il dibattito minacciando di mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. E non smise mai di vantarsi di quell’atto paraeversivo.

In compenso, pesanti ombre si erano addensate qualche anno prima proprio su di lui, a proposito di Prima Linea: quando i giudici istruttori di Torino chiesero di processarlo per la strana fuga di notizie "istituzionale" che aveva consentito al pluriomicida Marco Donat-Cattin, figlio del ministro dc, di sfuggire alla giustizia. Il Parlamento, ovviamente, negò l’autorizzazione a procedere.

Nella primavera del 1990 irruppe sulla scena politica la Lega Nord, che con la sua vittoria alle elezioni amministrative minacciava soprattutto a Milano il consociativismo tangentizio Dc-Psi-Pci. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, come racconterà Gianfranco Miglio nel suo libro del 1994 "Io, Bossi e la Lega" (pagina 24), telefonò al professore leghista per minacciare esplicitamente il Carroccio. Era il 26 maggio 1990. Queste, secondo Miglio, le parole del capo dello Stato: "Di’ ai tuoi amici leghisti che devono piantarla. Non mi mancano i mezzi per persuaderli. Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega, li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di finanza e della Polizia; anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento". Non risulta che Cossiga abbia mai smentito né querelato Miglio per quell’accusa da Corte Marziale.

Da quando lasciò a malincuore il Quirinale, Cossiga ha annunciato un centinaio di volte il suo ritiro dalla politica attiva. Salvo poi intervenire quotidianamente nella medesima, sempre coerentemente per difendere il peggio. Attaccò i magistrati di Mani Pulite, che all’inizio aveva difeso per una vecchia amicizia con Di Pietro. Maledì il pool antimafia di Palermo. Insultò Gian Carlo Caselli. Difese appassionatamente la P2, Giulio Andreotti (l’ex nemico ora è un amico, o così pare) e Bettino Craxi, visitato fino all’ultimo nella latitanza tunisina. Parlò di Berlusconi, ora per definirlo "il nuovo Anticristo", ora per chiedere di "non demonizzarlo".
Tracimò sulla Quercia, ora a favore (disse addirittura di averla votata), ora contro. E poi cominciò a lavorare per rifondare quella Dc che aveva contribuito ad affossare, con l’Udr e poi con l’Udeur (compagni di strada davvero insigni, tipo Cirino Pomicino), da cui peraltro si dimise un attimo dopo la fondazione, col solito strascico torrenziale di battutine, allusioni, insinuazioni, botta e risposta, promesse di silenzio stampa interrotte un secondo dopo con altri fluviali sproloqui in una bulimia esternatoria praticamente inarrestabile.

E' grazie a lui se nell’ottobre 1998 D’Alema potè assistere impassibile alla caduta del governo Prodi, e subentrargli l’indomani: il Lìder Massimo già sapeva che l’Emerito gli avrebbe portato in dote una pattuglia di transfughi berlusconiani (da Buttiglione a Mastella: "la piccola armata di Valmy") per rimpiazzare i rifondaroli e metter in piedi un nuovo governo sulla tomba dell’Ulivo. Racconterà Cossiga che così volevano gli amici amerikani, sicuri che Prodi non avrebbe dato il via libera all’imminente guerra in Kosovo senza l’avallo dell’Onu ma solo con quello della Nato, mentre D’Alema sì.

Nel 2001 l’Emerito è con Berlusconi, o almeno così pare. Il Cavaliere ci casca e gli fa eleggere in Parlamento tutto il parentado: dal figlio Giuseppe Cossiga al cugino Piero Testoni. Ma, appena i due congiunti entrano alla Camera sui banchi di Forza Italia, lui ricomincia a cannoneggiare Forza Italia a palle incatenate. Poi cambia bersaglio, anche perché i giudici han ricominciato a indagare. Il pm di Potenza Henry John Woodcock scopre certe attività poco chiare del generale Orlando, amico dell’Emerito, che comincia subito a strillare contro il magistrato (poi assolto in sede disciplinare dalle sezioni unite della Cassazione).

Nel 2002 il pm antimafia di Palermo Antonio Ingroia spedisce negli archivi centrali della Polizia e dei servizi segreti un consulente molto esperto, Aldo Giannuli, a caccia di elementi utili sugli intrecci fra Cosa Nostra, malapolitica, barbefinte e trafficanti d’armi che nel 1988 ha portato all’uccisione a Trapani di Mauro Rostagno. Cossiga salta su come la rana di Galvani alla scossa elettrica. Accusa Ingroia di "raccogliere informazioni" su di lui, sul generale Mario Mori (capo del Sisde) e su Berlusconi, chiede spiegazioni al procuratore Grasso, minaccia il magistrato: "Quanto è vero Dio, gliela farò pagare". In realtà Giannuli non deve raccogliere un bel nulla su Cossiga, Mori e Berlusconi: tanto per cambiare, l’Emerito racconta solo bufale. Ma ottiene l’effetto sperato: Grasso redarguisce Ingroia e intanto scadono i termini per indagare sul delitto Rostagno. Il consulente Giannuli non parte più per Roma e il fascicolo viene archiviato.

La scena si ripete pari pari quando a Monza emergono i traffici di un imprenditore amico di Cossiga per gli appalti del Ponte di Messina: l’Emerito va a Porta a Porta a denunciare le intercettazioni a legali suoi amici e, già che c’è, si vanta di aver autorizzato intercettazioni illegali ai tempi del terrorismo ("ora lo possiamo dire, tanto è tutto prescritto...").

Intanto, a Milano, è partita Bankopoli, l’indagine sulle scalate Bpl-Antonveneta, Ricucci-Rcs e Unipol-Bnl. Saltano fuori telefonate di Cossiga con Fazio, Fiorani, D’Alema e Consorte. è lui stesso a vantarsene nelle continue comparsate televisive, mentre annuncia per l’ottantesima volta il suo irrevocabile "ritiro dalla vita pubblica" e poi partecipa persino a un talk show sul Grande Fratello. Questa volta se la prende con i magistrati di Milano, ma soprattutto con il maggiore della Guardia di Finanza Antonio Martino, che coordina le indagini a stretto contatto col procuratore Francesco Greco, additandolo in varie interrogazioni parlamentari come l’ufficiale infedele che viola ogni giorno il segreto e passa notizie riservate ai giornali. Comprese le telefonate segretate fra Consorte e Fassino. Naturalmente non è vero niente: non solo non ci sono prove, ma c’è la prova del contrario, visto che il cd con tutte le intercettazioni a disposizione di Martino e della Procura è sigillato in cassaforte fin dal primo giorno. Ma intanto Martino ritrova ogni giorno il suo nome sui quotidiani.

Il mobbing cossighiano funziona sempre, grazie anche alla collaborazione straordinaria di decine di conduttori televisivi che lo invitano a sproloquiare su tutto lo scibile umano (Scalfaro, per dire, non lo invita mai nessuno). Chissà se c’entra qualcosa, in questo killeraggio, un’indagine condotta da Martino qualche anno fa: quella nata nel 1995 dalle rivelazioni di Stefania Ariosto e approdata sui conti svizzeri di Berlusconi, Previti e Renato Squillante. Il giudice corrotto, consulente di Craxi e amico di Berlusconi, era pure "consigliere giuridico" di Cossiga al Quirinale. Su 9 mila magistrati, lui aveva scelto proprio Renatino. Un fiuto da rabdomante.

Linus
Nolan van der Meulen


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Mae hen wlad fy nhadau yn annwyl i mi, Gwlad beirdd a chantorion, enwogion o fri;
Ei gwrol ryfelwyr, gwladgarwyr tra mad, Tros ryddid gollasant eu gwaed.