Carlo Goldoni nacque a Venezia il 25 febbraio 1707 da Margherita Salvioni e da Giulio, medico di professione; una famiglia benestante, in cui la passione per il teatro risaliva al nonno paterno, che era solito organizzare recite nella propria villa di campagna. E furono proprio alcuni "domestici" spettacoli di marionette ad accendere nel fanciullo il primo entusiasmo per le rappresentazioni sceniche. A dodici anni aveva già letto diversi autori comici e composto una commediola.
Nel 1719 Carlo raggiunse il padre, che nel frattempo si era trasferito a Perugia, e cominciò a seguire corsi di grammatica e retorica presso il locale collegio dei gesuiti. Successivamente la famiglia si trasferì a Chioggia, e il quattordicenne Carlo fu lasciato a studiare filosofia presso una scuola di domenicani a Rimini. Qui poté familiarizzare con una compagnia di commedianti professionisti, tanto che per seguirli fuggì dalla scuola su un barcone, per poi raggiungere i genitori a Chioggia. Impiegato per qualche tempo presso uno studio legale, il giovane Goldoni fu mandato a Pavia, alla facoltà di giurisprudenza, dove studiò con profitto, non tralasciando però mai la lettura dei grandi comici. Ma un’impudente satira contro le donne pavesi gli costò, nel 1725, l’espulsione dall’università.
Dopo alcuni anni di peregrinazioni, tra studi irregolari, brevi componimenti teatrali e vari lavori, nel 1731 Goldoni conseguì a Padova la sospirata laurea in legge. Ma due anni più tardi il giovane avvocato, per sciogliersi da qualche debito e da un’avventata promessa di matrimonio, fuggì a Milano, dove confidava di diventare ricco e celebre con il libretto del melodramma Amalasunta; fu invece un fallimento, e l’autore si convinse che la sua reale vocazione era per il teatro comico.
Nel 1734 era a Venezia, prima come consulente di alcuni teatri cittadini e tre anni dopo come direttore artistico del teatro di San Giovanni Grisostomo; dal 1741 al 1743 ricoprì l’incarico di ambasciatore della Repubblica genovese a Venezia; dal 1745 al 1748 fu avvocato a Pisa. Ma il suo principale obiettivo rimaneva quello di comporre commedie.
La sua prima opera degna di nota è il Momolo cortesan (173
ribattezzato poi L’uomo di mondo, di cui era interamente scritta solo la parte del personaggio principale. La donna di garbo, invece, è la prima partitura completa in tutti i ruoli. Ciò costituì una vera e propria rivoluzione, dato che gli autori al servizio delle compagnie teatrali erano semplici "soggettisti": si limitavano cioè a delineare una vicenda e a sceneggiarla sommariamente, lasciando gli attori liberi di improvvisare dialoghi, monologhi, battute comiche e movimenti scenici. Naturalmente anche Goldoni dovette sottostare a tale consuetudine e compose un’enorme quantità di trame (dette tecnicamente "scenari"). Una delle sue commedie più note e fortunate, Il servitore di due padroni , solo in un secondo tempo fu sottratta all’arte dell’improvvisazione, quando Goldoni ne scrisse interamente il copione.
Ma la prima grande svolta della carriera goldoniana fu l’incontro con uno dei più famosi capocomici del tempo, Girolamo Medebach, che gli offrì di lavorare per il teatro veneziano di Sant’Angelo. Goldoni abbandonò la carriera di avvocato e nell’aprile del 1748 seguì la compagnia Medebach a Venezia, facendo prima tappa a Mantova e a Modena. Fu Medebach a dargli ampia libertà di condurre la sua battaglia per una riforma che mirava a restituire centralità al ruolo dell’autore nell’opera comica.
Nella stagione teatrale 1748-1749 (a Venezia i teatri aprivano ai primi d’ottobre per chiudersi l’ultimo giorno di carnevale) furono rappresentate diverse vecchie commedie, ma anche alcune nuove, tra cui I due gemelli veneziani, La vedova scaltra, La putta onorata. Superato brillantemente quel primo vero esame, seguì un periodo di fertile creatività artistica: memorabile fu l’anno teatrale 1750-1751, in cui lo scrittore promise all’esigente pubblico veneziano ben sedici commedie nuove; promessa rischiosa e incredibilmente mantenuta, che gli diede la definitiva consacrazione. Il trionfale successo portò anche i primi dissapori con Medebach, prodigo di elogi ma non altrettanto di denaro.
Della ricchissima produzione di quel periodo è doveroso ricordare almeno alcune delle commedie più rinomate e riuscite: Il teatro comico (dove l’autore rappresenta se stesso alle prese con attori poco propensi a cambiare modo di recitare), La bottega del caffè , La donna volubile, I pettegolezzi delle donne — appartenenti al gruppo delle sedici commedie nuove —, La famiglia dell’antiquario, La serva amorosa, La figlia obbediente e infine La locandiera , che da sola bastò a conferire all’autore il carisma dell’eccezionalità.
Goldoni onorò fino alla stagione 1752-1753 il contratto che lo legava a Medebach (il quale lo rimpiazzerà proprio con l’avversario che in quegli anni gli andava contendendo il primato sulle scene, Pietro Chiari), quindi passò al teatro di San Luca, di proprietà di due fratelli di nobile famiglia veneziana, Antonio e Francesco Vendramin. Soprattutto il secondo, che curava personalmente la gestione del teatro, volle accaparrarsi l’autore allora più rinomato, e fino al 1762 Goldoni gli rimase legato, non senza conflitti: l’impresario era infatti piuttosto avaro e autoritario, e gli impediva di intraprendere altre esperienze professionali; il successo, inoltre, aveva suscitato rivalità sempre più velenose con altri commediografi, specie con Chiari e con Carlo Gozzi; gli attori continuavano a rivendicare maggiore autonomia e lo stesso pubblico, sempre assetato di novità, cominciava a dare qualche segno di stanchezza per la commedia "riformata". Non mancarono anche in quel decennio — tra molte buone commedie e lavori più frettolosi — alcuni capolavori assoluti dell’arte goldoniana: Il campiello , Gl’innamorati, I rusteghi , Trilogia della villeggiatura (il cui pezzo meglio riuscito è Le smanie per la villeggiatura), Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte e Una delle ultime sere di carnovale.
Esauriti gli impegni contrattuali che lo vincolavano al Vendramin, nell’aprile del 1762 Goldoni lasciò Venezia (che non avrebbe mai più rivisto) allettato da una nuova avventura: andare a dirigere il teatro della "Comédie italienne" di Parigi.
Qui però le difficoltà si rivelarono maggiori del previsto a causa di una più dura resistenza dei "comici dell’arte" a rinunciare ai loro privilegi per inchinarsi alla volontà dell’autore, e della diffidenza del pubblico francese. Parigi infatti aveva già una lunga tradizione di teatro comico riformato, avviata da Molière; quando il pubblico si recava alla "Comédie italienne", voleva assistere a un teatro diverso, meno nobile di quello messo in scena alla "Comédie française" e meno accademico. I primi due anni di permanenza parigina furono decisamente deludenti. Spesso, in lettere confidenziali ad amici, Goldoni manifestò il desiderio di tornare in Italia alla scadenza del contratto biennale con la "Comédie italienne". Ma sul principio del 1765 Luigi XV gli offrì l’incarico di maestro d’italiano delle principesse reali Clotilde ed Elisabetta, sorelle del futuro Luigi XVI. Da allora, per più di vent’anni, Goldoni divise la sua vita tra la reggia di Versailles e i palcoscenici cittadini, dove fu assai attivo come organizzatore di spettacoli; ma la sua vena di commediografo s’era ormai inaridita. Con un ultimo sussulto del suo estro creativo si prese una grande rivincita componendo in francese il suo ultimo capolavoro, Il burbero benefico (Le bourru bienfaisant), che nel 1771 andò in scena alla "Comédie française" e alla corte reale estiva di Fontainebleau, dove ottenne uno strepitoso successo.
Dal 1784 si diede alla stesura in francese della propria autobiografia, i Mémoires (Memorie), che uscirono nel 1787. Intanto, da parte di vari editori, si procedeva alla pubblicazione di tutte le sue opere: il veneziano Zatta ne intraprese la più completa, in 44 volumi. Si arricchirono gli editori, ma ben pochi proventi derivarono all’autore, che visse negli ultimi anni con una dignitosa pensione di Corte; scoppiata la Rivoluzione, anche quel vitalizio gli fu però negato. Ormai vecchio e malato, trascorse l’ultimo anno della sua vita in una condizione di penosa miseria; morì il 6 (o il 7) febbraio del 1793; solo qualche giorno prima era stato deciso il ripristino della sua pensione.