00 27/04/2007 13:20
Giuseppe Podda
amico dalle tante passioni:
Pci, giornalismo, cinema e Cagliari







Ajò, Giuseppe, andaus ma no a su Poettu: come il titolo del tuo bellissimo libro pieno di nostalgia e d'amore per Cagliari e la sua spiaggia allora non ancora perduta, anche se non più spiaggia africana come la cantava il nostro Luigi Pintor. “Podda”, come continuava a presentarsi al telefono dopo 30 anni di amicizia, quando chiamava per commentare un articolo che gli era piaciuto o dispiaciuto, stavolta se n'è andato per sempre dopo averci tenuto col fiato sospeso per un anno.

Chi gli voleva bene sa e dice, anche se è un banalissimo luogo comune: era arrivata l'ora che fosse liberato del suo corpo prima di perdere, dopo un altro salvataggio in rianimazione, la coscienza di sé. Come non voleva e non avrebbe voluto, ricorda Francesco Cocco. L'amico fraterno che più di altri doveva reggerne gli scatti, gli sfoghi e le intemerate contro il mondo intero, temperandone con paziente razionalità gli eccessi anche autolesionisti nella comune condivisione della moralità integrale. Lo ricordiamo e rimpiangiamo con la modesta consolazione che almeno questo, il venir meno della lucidità, e altri patimenti fisici, gli sono stati risparmiati: dopo quel maledetto giorno che lo vide falciato da un'auto nella strada sotto casa.

Ajò, Giuseppe, purtroppo era ora. Anche se troverai sponde buie: non quella luminosa e sfolgorante del Poetto. Né i vicoli in mezz'ombra, odorosi di mare e reti e nasse di Marina, dov'eri nato e vissuto con tuo padre pescatore. Né il profumo particolare dei cinema scomparsi - il Massimo e il Giardino, l'Odeon e l'Eden, l'Olympia, l'Iride e il Due Palme, l'Astra e tanti altri - dove avevi coltivato la tua passione e conoscenza enciclopedica di film, registi, attori: sconvolgendo anche gli incredulili uomini di cinema che avevi incontrato.

Né più respirerai l'aria e le tensioni, il fumo, le passioni e le battaglie, i momenti esaltanti e di sconforto delle sezioni e della direzione di quel Pci che è stato il motore della tua vita politica e di giornalista militante ma di razza. Anche se da ultimo ti eri discostato dal partito perché faticavi a riconoscerlo: soprattutto per la rimossa questione morale che era la tua indomabile molla interiore, insofferente dei troppi soldi alla politica e ai politici, anche a quelli della tua parte, dei finanziamenti ai gruppi consiliari che ti indignavano.

Né più affronterai i tuoi vittoriosi, fecondi duelli quotidiani con la macchina da scrivere con milioni di articoli per l'Unità, Rinascita più riviste, libri tuoi o su e per altri. Né più risentirai quel particolare profuno nelle tipografie odorose di piombo e inchiostro dove hai impaginato migliaia di riviste, numeri unici, libri, accanto ai compagni tipografi che allora si dicevano l'aristocrazia della classe operaia.

Niente più di tutto questo. Pero, ajò lo stesso, Giuseppe. Non riuscirai a farci piangere. Ma solo a ritrovare il sorriso ricordando il tuo carattere impossibile e irrinunciabile, da suocera del partito e del giornalismo, che si indignava, si commuoveva e sorprendeva sempre - come sperava Corrado Alvaro dagli uomini veri - ma subito sbottava in risata dissolvente e contagiosa, in gesticolare travolgente, in battute definitive dell'humour cagliaritano che pochi hanno posseduto e coltivato come te. Pronto a “su certu” ma anche a sdrammatizzare quando serve, segando l'albagia degli arroganti con le immaginifiche espressioni del nostro grosso, grasso dialetto che non abbiamo mai chiamato limba.

Ora lo difenderesti, scendendo ancora in piazza contro la pretesa di imporci la LSC, ovvero Lingua sarda comuna, per folle decisione autoritativa della Regione. Non per caso, l'ultimo articolo che ti ho ri-pubblicato prima dell'incidente, era un ritratto a tutto tondo del tuo amico Aquilino Cannas appena scomparso. Con quelle pennellate così icastiche e insieme profonde, rese scintillanti dalle sapide interpolazioni nel nostro casteddaiu che richiama echi del discorrere e litigare nel mercato colonnato di via Baylle, allo stadio di via Pola e poi dell'Amsicora, nelle piazze e nei vicoli, in is piolas cancellate, nei ristorantini delle feste dell'Unità con salsiccia di cane e carne di cavallo: quasi tutto spazzato via dalla vecchia Cagliari scanzonata, beffarda, un poco erede de is piccioccus de crobu che avrai evocato centinaia di volte.

Ajò, Giuseppe siamo seri ma non tristi. perché di te ci restano libri bellissimi sui cinema, qualcuno col contributo di Giuseppe Fiori. Quel magistrale “Ajò a su Poettu”, i volumi su Nilde Jotti e l'amatissimo Renzo Laconi. Non hai fatto a tempo a leggerti in quello curato da Aldo Brigaglia ed Eugenio Orrù dedicato a Umberto Cardia. Il tuo padre cultural-politico che non hai mai mancato di visitare ogni settimana nella sua casa di viale Merello, nei tempi luminosi e in quelli bui, con Simonetta che ti accoglieva come un parente stretto e Umberto che si divertiva ai tuoi furori: e talvolta me ne metteva poi a parte, ancora provandone allegrezza.

Per non dire quel libro, sconvolgente anche per me, che hai preparato, in parte scritto, illustrato con la tua clamorosa collezione fotografica, per ricordare con Cristina Scano Rodriguez suo marito Alberto, tuo amico e mio compare. Tuo compagno per vent'anni a Rinascita, nella redazione di viale Regina Margherita e pranzi a menù fisso e prezzo stracciato (la mensa di fronte al Due Palme dei dirigenti comunisti) alla trattoria “da Avendrace”, imponente ex sommergibilista dai baffi a manubrio e la “gran premio” sempre all'altezza.

Tra Giuseppe e “Rodriguez” (chiamato sempre e solo per cognome), un singolare, strepitoso sodalizio del giovane, bello, colto e fascinoso borghese travolto dal jazz e dalla passione politica con Laconi, Cardia, e l'improbabile, rissoso comunista presunto popolare. L'umorismo di Alberto lo faceva sorridere, ma con grande imbarazzo, quando Giuseppe, nelle prime teatrali al Massimo organizzate da Piero Coppoli, gli sussurrava con voce tonante: «O Rodriguez, ma questi delle prime file, con pellicce e cappotti di montone, sono tutti portoghesi, entrano a sbafo». E Alberto, disperato e trattenendo a stento le risate: «Zitto, Giuseppe, anche noi siamo qui col biglietto omaggio». «Non vale, nosus non seus arriccus e qui stiamo facendo il nostro lavoro: non siamo portoghesi».

Ajò, Giuseppe, è arrivata l'ora e te ne vai, ma non sperare di farci piangere mentre ci tornano alla mente mille episodi come questi e valutiamo il tuo lavoro fatto di passione civile e non solo politica. Sempre con gli ultimi, con rigore e fatica immane che nel clima monastico di quegli anni portava tanti comunisti a un disinteresse pazzesco. Era la diversità berlingueriana, autentica, profonda. A te era rimasta appiccicata come una stimmata: sfido che non sopportavi (come Francesco Cocco) i compagni che si facevano le ville e i macchinoni, i soldi a onda che dal Consiglio cominciavano (ora dilagano) a defluire verso le casse dei gruppi, ad personas.

Non era possibile il contrario, per te che hai rischiato di andare in pensione senza pensione. Perché l'Unità claustrale non versava i contributi benché da trent'anni, tutti in tram e autobus, senza patente né macchina, ti affannassi per consegnare in tempo il fuorisacco stracarico di pezzi per le pagine sarde del giornale del Pci. Non fosse stato per Luigi Pintor, che quasi ti obbligò a chiedere il tuo quando fu spedito a Cagliari in esilio, il caro “Podda” non avrebbe avuto neanche una pensione decente pur avendo faticato mezzo secolo per il partito e il giornale.

Hai fatto da chaperon e aiutato coi toni bruschi e spicci una barcata di giovani. Sergio Atzeni, tormentatissimo figlio dell'amatissimo leader operaio Licio, ti doveva molto più di quanto nessuno sapesse nel suo approdo a scrittore nazionale. Me ne resi conto quando, due anni fa, per l'anniversario della morte, arrivasti al giornale con una quintalata di ritagli. Lettere e scritti originali che Sergio aveva dato a te. Svelando ancora una volta le altre facce del comunistaccio che io, mai un giorno con tessera e partito, trent'anni prima - col diffuso pregiudizio contro di allora - credevo tu fossi, e pure di razza trinariciuta.

Al dunque, Giuseppe. Ajò e la chiudiamo qui. Nei tuoi 77 anni hai avuto quattro grandi passioni che ti hanno riempito la vita. Il partito per il quale hai speso l'esistenza a fianco del Popolo, della povera gente: mai chiedendo e anzi rifiutando candidature di qualunque livello. Il giornalismo non solo politico ma via via sempre più culturale, d'impegno sociale, militante ma anche ironico e di scrittura. Il cinema che hai interiorizzato fino a una conoscenza assolutamente sbalorditiva, sostenuta da una memoria incredibile.

E infine, oltre i parenti veri e propri, una grande famiglia chiamata Cagliari. Vissuta e amata come una moglie e una madre, un caldo grembo accogliente, amico, ironico, pieno di lazzi ma anche di delicatezze camuffate. E in questa famiglia, tanti compagni e molti veri amici, che talora ti temevano per i tuoi furori incontenibili ma più spesso restavano incantati ad ascoltarti. Non accade a molti di avere tanto, nella vita. Perciò, per l'ultima volta, Giuseppe: ajò alla prossima.