IL CERCHIO DI FUOCO
Storia, mito, folklore, magia dei Celti
Fino agli Anni Cinquanta gli studi sui Celti, sui Germani e in genere sulle popolazioni indoeuropee erano pochissimi, dotte disquisizioni riservate agli specialisti. La massa dei lettori si orientava verso altri temi, molti dei quali inerenti la cultura classica greca e latina. Poi qualcosa è cambiato.
A livello popolare è arrivato Tolkien, con la sua saga celtico-medievale su Il Signore degli Anelli; a livello colto George Dumézil, con le sue ricerche sulle origini, la storia, la mitologia e la religione degli Indoeuropei, i Celti, i Germani, gli Sciti, che hanno dato il via ad approfonditi e sistematici studi storici, antropologici e filologici su questi popoli.
Negli Anni Sessanta c’è stata la riscoperta del valore delle origini della propria identità nazionale da parte degli Irlandesi, soprattutto nel periodo più duro degli scontri religiosi nell’Ulster, ma anche degli Scozzesi, dei Gallesi e dei Cornovagliesi; nei primi Anni Settanta gruppi musicali famosi come Dubliners e Chieftains hanno portato in tutto il mondo la musica celtica, ricostruita accuratamente con l’uso degli strumenti tradizionali, come l’arpa, il bodhran, le cornamuse. E ascoltando certe melodie di grande potenza suggestiva si può capire perché i Celti fossero convinti che la musica appartenesse all’Altro Mondo, a dimensioni ultraterrene, e perché le leggende parlino di meravigliosi cantori rapiti dalle fate e costretti a suonare e cantare solo per il Piccolo Popolo.
Il revival della magia ha fatto il resto. Si è diffusa una religiosità paganeggiante, mediata anche dalla New Age, sull’onda della riscoperta delle antiche culture, che mescola spesso impropriamente i Celti con la Nuova Stregoneria. Essa ha attecchito tanto più fortemente quanto più viene sentita l’esigenza di un ritorno ad una vita più semplice, meno caotica, più vicina ai ritmi naturali, alle piante, agli animali. In altre parole, più spirituale e meno materialista.
Oggi nessuno si stupisce più di trovare libri sui Celti e sul druidismo che insegnano l’uso dei simboli celtici ad aspiranti neo-druidi, a fare previsioni con le rune, a curarsi con le piante sacre, a meditare come i guerrieri ed a suonare l’arpa. L’organizzazione di “Feste Celtiche” o fest-noz, con balli, canti, giochi e tanta musica, è ormai comune in molte città europee, soprattutto nel periodo estivo, in Italia come in Francia e in Gran Bretagna.
Anche l’atteggiamento verso i Celti, fino a pochi decenni fa considerati solo barbari ignoranti, dall’influenza marginale se non addirittura nulla sulla nostra cultura, è del tutto diverso. Ora non sono solo i popoli “storicamente” di origini celtiche a cercare in loro le proprie radici. I Celti, con il loro rapporto diretto e armonico con la natura, il culto delle acque, gli alberi, le pietre, incarnano il senso magico dell’esistenza che noi abbiamo perduto e che speriamo di ritrovare con la conoscenza dei riti e dei costumi ancestrali di questo affascinante popolo.
Il folklore celtico, non più oscurato dalla tradizione greco-latina, conosce una nuova giovinezza e ci regala saghe e leggende popolate da fate ed elfi, nani e folletti, gnomi e pentole colme d'oro, giganti e draghi, oscure fortezze, principesse ed eroi, potenti maghi, saggi re, prodi guerrieri, luoghi sacri e misteriosi, spade magiche: l'ombra di un mondo incantato, molto simile alle fiabe che ci hanno raccontato da bambini, che non può fare a meno di stregarci anche adesso che bambini non lo siamo più.
Le origini dei Celti
I Celti sono un affascinante e forse inestricabile mistero. Sappiamo che giunsero in Occidente, con molta probabilità in Ungheria, attorno al 1200 prima di Cristo, e che da lì si spostarono verso il Mare del Nord, le Isole Britanniche, l'Europa centrale, la Francia, l'Italia del Nord, fino a raggiungere le coste atlantiche della Spagna (1). Però, reperti ritrovati in Ungheria e nella regione inglese del Wessex farebbero supporre che fossero già presenti in Europa nel terzo millennio a. C. Probabilmente erano di origine indo-europea, ma su questo non tutti gli studiosi contemporanei di storia, di linguistica e di etnografia concordano. E neppure in epoche antiche riuscirono a mettersi d’accordo: Ammiano Marcellino raccolse gli studi di vari scrittori e decise di elencare tutte le ipotesi sulle origini dei Celti .Dopo un po' si stancò, a causa dell’eccesso di ipotesi. Alcuni li vedevano come esuli Greci e Lidi fuggiti dall'oppressione, altri come Troiani dispersi dopo la distruzione della loro città. C'era chi giurava che fossero popoli autoctoni della zona del Reno, che se ne erano andati in cerca di posti migliori dopo che una lunga serie di disastri meteorologici aveva distrutto i loro villaggi. Erodoto disse che arrivavano dalle sorgenti del Danubio e che il loro territorio si estendeva fino ai Cineti, che abitavano presso le colonne d’Ercole. Lo storico Pitea (attorno al 320 a. C.) distinse i Celti dai Germani, popolo che abitava tra i fiumi Reno e Vistola. Ecateo sosteneva che avevano la loro patria nella zona delle Alpi Marittime, vicino ai Liguri. Non era escluso che fossero i discendenti dei mitici Iperborei, giunti dalle stelle per stabilirsi a Thule e in seguito rifugiatisi a Iperborea dopo un’immane scontro tra maghi bianchi e maghi neri. I loro pronipoti avrebbero dato origine al popolo dei Celti.
Al di là delle leggende, gli studiosi ipotizzano due successive migrazioni, facendo riferimento alla lingua. Il Celtico Q, base del gaelico, rappresenterebbe il gruppo più antico, giunto in Irlanda e in parte della Spagna. La sopravvivenza dell’irlandese fino a oggi come lingua a sé stante deriva dal fatto che l'Irlanda non fu mai assoggettata a Roma e la lingua indigena persistette, dando perfino origine ad una letteratura indipendente. Il Celtico P, parlato in parte della Britannia, nella Gallia e nell'area centro-europea, sarebbe la lingua del gruppo arrivato più tardi. Le definizioni Q e P significano che il gruppo "kw" si trasformò in qu, k o c, oppure in p, differenziando le lingue nel corso dei secoli.
Il nome Keltoi fu loro dato dai Greci, pare "grecizzando" la definizione che essi davano di se stessi: celts, il popolo nascosto. I Romani li conobbero come Galli. Diodoro Siculo (3) raccontò una divertente leggenda per giustificare l'origine del termine. Tra gli antenati dei Galli si doveva enumerare anche l'eroe greco Ercole; infatti questi, che passava di ritorno da Tartesso, in Spagna, dove aveva compiuto la sua decima fatica impossessandosi della mandria del re Gerione, trovando il luogo di suo gradimento si fermò e vi fondò la città di Alesia. Qui un giorno incontrò la figlia del re dei Celti, fanciulla di altissima statura e di abbagliante bellezza, ma dal pessimo carattere, che aveva rifiutato qualunque partito non considerando nessuno degno di lei. Appena messi gli occhi sull'eroe, si innamorò follemente di lui e gli diede (nei tempi rapidissimi concessi solo alle divinità) un figlio, Galate, da cui poi si chiamarono Galli. Lo storico greco Timeo, che non li amava, sosteneva invece che avevano preso nome dal loro antenato Galate, figlio della ninfa Galateia e del crudele ciclope Polifemo, che si era mangiato in un sol boccone alcuni compagni di Ulisse: l'origine mostruosa giustificava appieno la loro ferocia.
I Celti furono i primi ad emergere dalla massa dei diversi popoli che abitavano l'Europa Orientale, Centrale e Settentrionale, tra i quali c’erano anche i Germani, che vengono talvolta confusi con i Celti. Le popolazioni di origine indo-germanica, divise grossomodo in orientali (tra cui Burgundi, Gepidi, Goti, Teutoni, Vandali), occidentali (come Alamanni, Angli, Bavari, Franchi, Longobardi, Sassoni, Svevi) e settentrionali (come Danesi, Svedesi e Norvegesi) si fecero conoscere soprattutto dopo il III secolo d. C., quando parteciparono alle guerre che distrussero l’Impero Romano e diedero origine ai regni romano-barbarici.
Già dal VI secolo prima di Cristo i Celti erano noti per le loro straordinarie imprese da soldati. Platone li dipinse come bellicosi e con un amore eccessivo per il vino; Aristotele disse che in battaglia erano temerari e molto disciplinati, perché temprati nelle arti guerresche fin da bambini, ma poco intelligenti. Anche il poeta Callimaco li descrisse come bestie ottuse e violente, incapaci di logica e ragione perché discendenti dai Titani, gli avversari degli dei della luce. Molti diventavano mercenari e giravano in cerca di qualcuno che li pagasse per combattere. In alcuni casi furono forse assoldati come sicari: il re Filippo di Macedonia fu ucciso da qualcuno che usava un pugnale di foggia celtica.
Nell'Europa Continentale le ricerche archeologiche hanno scoperto due principali civiltà proto-celtiche: quella di Hallstatt e quella di La Tène. Hallstatt è nella regione di Salzkammergut, in Austria; nel 1846 vi fu scoperta una grande necropoli celtica con tombe a tumulo risalente al 700 a. C. circa, ma la zona era già popolata da molti secoli per l'abbondanza di miniere di salgemma, materiale all'epoca preziosissimo: il sale è stato uno dei più antichi beni commerciali del mondo. La civiltà di Hallstatt fu molto fiorente. I Celti erano abilissimi agricoltori; inventarono una particolare metodologia di coltivazione del terreno, basata su di un sistema di divisione a strisce dei campi. In ogni settore il suolo veniva bonificato se argilloso, poi concimato per arricchirlo di sostanze nutritive. I campi erano tenuti periodicamente a riposo e lasciati incolti; questa tecnica, non sfruttando eccessivamente il terreno, premiava con doppi raccolti di cereali. La ricchezza di sale e di legna permise l’esportazione di vivande sotto sale, oltre alle solite affumicate. Essi divennero anche minatori e sfruttarono i ricchi giacimenti di stagno, ambra e rame. Sale, carne conservata, cereali e metalli grezzi o lavorati erano tutti materiali che si potevano facilmente vendere; quando l'evoluzione della loro società permise la formazione di signorie locali con governi stabili, le genti dell'area mediterranea cominciarono ad avere con loro i primi scambi. Si attribuisce ai Celti di Hallstatt, anche se non si sa quanto la cosa sia vera, l'invenzione del compasso, dell'aratro di ferro, del tornio da vasaio e della macina rotante per ridurre in farina i cereali. Cominciò in questo periodo la differenziazione dei vari gruppi etnici: non più genericamente Celti, ma Averni, Edui, Vindelici, Ambarri, Boi, Galli, Belgi, Elvezi, Senoni, Britanni, Pitti, Scoti, ecc.
L'altra civiltà è quella, più recente, di La Tène, in Svizzera, sulla riva settentrionale del lago di Neuchatel. Qui fu scoperto un gran numero di reperti, risalenti al 450 a. C.: armi, monete, utensili, gioielli ed ornamenti, molto diversi dallo stile usato dai popoli mediterranei, che ci ha permesso di conoscere l'arte celtica, con i suoi caratteristici motivi fatti di linee arcuate, intrichi, volute, viticci lussureggianti e grovigli di grande eleganza, con schemi che presuppongono una complessa combinazione tra pura forma artistica e metodo matematico e geometrico.
Per quel che riguarda l'Italia, autori classici confermano la presenza di una popolazione di lingua celtica abitante presso i Veneti già dal VI secolo e l’archeologia ha trovato le tracce di piccoli gruppi nella zona pedemontana lungo tutto l’arco alpino, alcuni databili addirittura al IX secolo a. C. Gli attuali passi del Gran San Bernardo, del San Gottardo e del Tarvisio erano le vie di comunicazione più usate per i commerci e per i contatti tra le popolazioni a Nord e a Sud delle Alpi. Plutarco e Pompeo Trogo (che era di origini celtiche) affermavano che i Celti, quando volevano trasferirsi in un territorio più ospitale, facevano grande attenzione ai segni mandati dagli dei, come uno stormo di uccelli: la direzione indicata dal segno decideva la destinazione, e molti seguirono gli uccelli migratori verso il Sud.
Nelle Alpi Occidentali fiorì la cultura di Golasecca, in provincia di Varese (vicino a Castelletto Ticino), zona che era una delle aree preferite di transito e di contatto tra la cultura celtica a Nord e gli Etruschi a Sud (4). Dopo la metà del 1800 si scoprirono nella zona tombe a incinerazione, risalenti al periodo tra il IX e il V secolo a. C. Alla cultura di Golasecca appartengono le più antiche iscrizioni in “lepontico”, lingua celto-etrusca (alfabeto etrusco e lingua celtica), prova che i Celti, non avendo un alfabeto proprio, usavano quello del popolo col quale avevano maggiori contatti: in questo caso gli Etruschi.
Le grandi invasioni dei Celti in Italia, però, si ebbero solo nel IV secolo prima di Cristo. Polibio, nelle Storie, racconta come gli aggressivi Celti, che tiravano a campare in villaggi miseri, in case poverissime e senza suppellettili, costretti a dormire su pagliericci, del tutto ignari delle scienze e dell’arte, giunti nella Pianura Padana per commerciare, vista la bellezza e la ricchezza del territorio si organizzarono in un potente esercito, attaccarono gli Etruschi e li cacciarono, insediandosi al loro posto. Nel 391 assediarono la città etrusca di Chiusi, chiamati da un certo Arrunte, la cui moglie aveva una relazione con un nobile ricchissimo della città. Il marito tradito, bramoso di vendetta, ma perfettamente conscio di non poter competere con un avversario tanto più potente di lui, si alleò con i Celti per farla pagare al rivale. Poco dopo i Galli Senoni guidati da Brenno riuscirono ad arrivare fino a Roma, che saccheggiarono quasi interamente. Solo il Campidoglio resistette, perché i difensori, secondo la leggenda, furono messi in allerta da un branco di oche, che con i loro strepiti segnalarono l’arrivo del nemico. Il colpo fu durissimo, sia per le vite perdute che per la distruzione della città, per non parlare della perdita di prestigio. Il 18 luglio, giorno della sconfitta, fu per sempre ricordato nella storia romana come il dies ater, il giorno nero dell’umiliazione. E da allora i Celti furono visti dai Romani come mortali nemici.
Società e famiglia presso i Celti
La società celtica era basata sulla famiglia e sulla parentela, sul clan, che significa “figli”, i cui membri erano legati da obblighi e responsabilità comuni, con poteri assoluti del padre. La monarchia era molto diffusa; le prime tribù a rinunciarvi furono quelle a più diretto contatto con l'influenza romana. La tripartizione celtica era legata alla formula di tutte le società indo-europee: gli aristocratici, cui spettava il compito di combattere e di governare, i sacerdoti e i lavoratori manuali, ma la divisione non era rigidissima. Cesare affermava che a contare davvero erano i cavalieri, guerrieri e aristocratici, e i Drudi, sacerdoti e intellettuali. I lavoratori manuali, cioè artigiani, carpentieri, minatori, fabbri e contadini, costituivano la plebe e avevano pochi diritti e tanti doveri, tra cui i tributi molto onerosi, che spesso li costringevano a farsi servi dei nobili per sopravvivere.
I membri delle varie tribù combattevano per la supremazia, la gloria, il rispetto degli altri membri del clan e il bottino; le faide tra tribù vicine erano comunissime e feroci. In caso di necessità si convocava l'assemblea di guerra e tutti, uomini e anche donne, si armavano per combattere il nemico. Il grosso degli eserciti era formato da fanti, spesso armati solo di lancia e fionda, in alcuni casi perfino privi di scudo, se troppo poveri per averne uno. Solamente i nobili potevano permettersi il lusso di tenere un esercito privato di uomini (in gallico ambacts, clienti) costantemente al loro servizio; era usuale che l'esercito seguisse il proprio signore fino alla morte, addirittura fino al suicidio nel caso di caduta del capo sul campo di battaglia. Tra gli ambacts c'erano i fanti e anche i cavalieri, che talvolta vestivano una cotta protettiva di maglia ad anelli di metallo, un'invenzione celtica. Elmo, spada, pugnale, scudo e lancia completavano l'armamento del cavaliere. In guerra fanti e cavalieri avevano l'appoggio dei carri a due ruote, robusti e velocissimi.
I primi incontri sul campo di battaglia con i Galli spaventarono a morte i Romani. A parte l’esperienza del sacco di Roma, presso Greci e Romani la loro fama era da sempre pessima: audaci fino ad essere temerari, non avevano paura di niente, tanto da affrontare, in qualche caso, il combattimento con indosso solo un perizoma. Si sapeva che mancavano completamente di organizzazione strategica, ma andavano incontro al nemico in preda a quello che i Romani definirono furor gallicus: una sorta di terribile smania di sangue, una follia guerresca che si faceva beffe della morte, anzi sembrava cercarla, come se la morte eroica in battaglia fosse da preferire ad ogni altra cosa. Come diceva l’eroe Cuchulain, protagonista della principale saga irlandese, “a patto che io sia famoso, non mi importa di vivere anche un solo giorno in questo mondo”. Le ordinate, ben vestite e ben equipaggiate legioni romane furono traumatizzate dalla vista di nemici irsuti e quasi nudi, che li affrontavano urlando forsennatamente, con un assordante sottofondo di tamburi e trombe. Scagliavano giavellotti con la punta ornata da rilievi, così da dilaniare i corpi con orrende ferite. In caso di vittoria, onoravano i nemici morti tagliando loro le teste e appendendole come trofei alle pareti.
Tacito riferì la loro abitudine di tingersi il corpo di colore scuro e di ripararsi con scudi neri: i loro attacchi notturni assomigliavano ad una calata di orde di spettri che terrorizzava i nemici. Dione Cassio si soffermò ad enumerare, con dovizia di particolari, le atroci e ripugnanti torture a cui i Celti di Britannia sottoponevano i nemici. Il comandante Paolino Svetonio, arringando le sue truppe, le esortava a vincere o morire in battaglia, sorte meno infausta che cadere vivi nelle mani dei nemici, che non si comportavano come esseri umani, bensì come animali selvaggi, senza leggi e senza dei.
I Galli non erano una compagnia molto piacevole neppure in tempo di pace. Diodoro Siculo descrisse il loro aspetto insolito e le poco simpatiche abitudini:
“Alti di statura, con i muscoli guizzanti sotto la pelle chiara; i loro capelli sono biondi e non solo di natura, perché se li schiariscono anche artificialmente lavandoli con acqua di gesso e pettinandoli poi all'indietro sulla fronte e verso l'alto. Taluni si radono la barba, altri ostentano sulle guance rasate dei grandi baffi che coprono l'intera bocca e fungono da setaccio durante in pasto, per cui vi restano imprigionati pezzi di cibo e quando bevono la bevanda passa attraverso una specie di filtro. Quando prendono il pasto, sono tutti seduti non su sedie, ma sulla terra, usando per cuscini le pelli di volpe e di cane” .
Erano molto ospitali, incredibilmente chiacchieroni, con discorsi pieni di superlativi e di esagerazioni; ma erano anche rozzi e violenti, con tendenza a discutere volgarmente e a litigare, venendo spesso alle mani, gettandosi addosso il cibo e sfasciando tutto quello che capitava loro a tiro. Avevano un appetito voracissimo: in un banchetto con pochi commensali era buona norma servire almeno un bue intero, se non si voleva lasciare qualche ospite a digiuno. Inoltre bevevano vino puro in tale quantità da stramazzare a terra svenuti, quando addirittura non cadevano in uno stato di follia alcoolica. Si rimpinzavano di vino, ci dice Diodoro, “con passione furiosa”. Per questo i mercanti chiamavano il vino "dono del cielo", dati i lauti guadagni che ne ricavavano. Lo trasportavano in anfore via terra, su carri, o in battelli sui fiumi navigabili, e si arricchivano oltre misura perché “per un’anfora ricevono uno schiavo. Essi cambiano, è il caso di dire, la bevanda con il coppiere”. Oltre al vino si beveva la corma, una birra di frumento e miele. L’idromele era riservato ai banchetti solenni, essendo considerato la bevanda degli dei. Agli ospiti poteva capitare di vedersi mostrare orgogliosamente le teste dei nemici più coraggiosi, mummificate con olio di cedro, e conservate in cesti apposta per essere comodamente esibite durante i banchetti.
Il loro abbigliamento era “stupendo, con mantelli tinti e colorati con colori vari (...) vestono manti a strisce, fermati da una spilla sulle spalle, capi di stoffa pesante durante l’inverno, leggera durante l’estate, con sopra disegnati quadrati molto fitti e di vari colori” (8). Un particolare colpì i Romani: le "braccae" (da cui deriva la parola braghe), antenate dei pantaloni, che i Romani non avevano, essendo indossate dai popoli dell'Oriente, come ad esempio i Persiani e gli Indiani. Usavano molti gioielli: cinture con fibbie elaborate, spille smaltate a vivaci colori e un caratteristico ornamento da collo, il torquis, fatto di fili intrecciati con due estremità lavorate, che si suppone avesse anche una valenza magico-religiosa.
Da Plinio sappiamo che avevano grande cura del proprio corpo e si lavavano con un materiale che chiamavano sepum, cioè il sapone, termine e sostanza che, secondo lui, avevano inventato proprio loro. Lo facevano con ceneri di piante e oli vegetali ed esisteva un tipo a pasta dura (ottenuto da piante marine) e un altro a pasta molle e cremosa (ottenuto da piante di terra). Si tingevano con mano pesante i capelli, il corpo e il viso; il poeta Properzio, rimproverando alla donna amata il trucco eccessivo, l'accusò di “dipingersi come i Celti”.
Fu sempre Diodoro ad osservare, con imbarazzato stupore, che le donne dei Galli erano coraggiose come i loro uomini ed anche assai libere nei costumi sessuali: non avendo affatto il pudore delle romane (donne che sapevano tacere e stare docilmente al proprio posto, o almeno così i Romani speravano), con grande ardore sollecitavano, spesso perfino in pubblico, gli abbracci degli uomini e, se qualcuno le rifiutava, consideravano questo un gesto estremamente disonorevole. I Greci non davano alle donne diritti politici; esse non potevano possedere case o terreni, entrare in affari importanti e neppure ereditare. Vivevano in casa, relegate nel Gineceo. Presso i Romani il capofamiglia comandava tutte le donne di casa, che avevano il compito di occuparsi degli affari domestici, della cucina e di fare figli; la donna sposata era un po' più libera della nubile, perché le era concesso di uscire sola,
I Celti davano alle loro donne una libertà d'azione impensabile per il mondo classico. Si hanno testimonianze di donne ambasciatrici, sacerdotesse, guerriere, regine, capi di tribù, giudici, medici e avvocati. Tra i Celti le donne potevano ereditare, possedere beni in proprio, divorziare se il marito non era più di loro gradimento. Gli uomini potevano contare sull'appoggio delle loro donne anche in guerra. Nei Tain e nel Mabinogion, raccolte di storie gallesi risalenti ad antichissime tradizioni orali, compaiono dee ed eroine, descritte mentre cavalcano intrepidamente, guidano i carri da guerra e combattono con lancia, ascia e spada come guerrieri. I Tain (11), che risalgono ai primi anni dopo Cristo, ma sono stati trascritti nell’ottavo secolo dai monaci, hanno per protagonista Medb, una regina guerriera che elimina personalmente in duello alcuni valorosi nemici. Donna astutissima ed infida, dal carattere pestifero, ma anche bellissima, molto affascinante e dai grandi appetiti sessuali (tanto che il suo amante in carica sta “addossato all’ombra del prossimo amante”), Medb comanda millecinquecento soldati e altrettanti uomini liberi. Quando apprende che il re Ailill, suo marito, è proprietario di Donn Cualinge, il più bel toro bruno del paese, gli muove guerra per impadronirsene. Toccherà al famoso eroe Cuchulainn l’ingrato compito di difendere l’animale; proprio a Cuchulain, abilissimo in battaglia e quasi invincibile, perché allievo dalla famosa guerriera Scathach.
L'esempio più citato dagli autori classici è quello di Boadicea. Moglie del re Prasutago, alla morte del marito divenne reggente del regno degli Iceni, in attesa che le due giovanissime figlie raggiungessero la maggiore età e governassero, come stabilito dal loro padre. Dione Cassio la descrisse come una donna alta, con una gran massa di capelli rossi lunghi fino alla cintola. I Romani, che avevano avuto in Prasutago un alleato, reagirono sfavorevolmente al fatto che una donna fosse regina; sequestrarono il tesoro del re e, cosa ben peggiore, frustarono pubblicamente la regina e violentarono le due figlie. Boadicea guidò gli Iceni alla rivolta contro gli invasori romani.
Assalì la città di Camulodunum (l’odierna Colchester) e la distrusse, dandole fuoco e massacrando gli abitanti romani, poi marciò verso Londra. Fu mandata a fermarla la legione di Petilio, che sottovalutò il pericolo. Agli Iceni si erano uniti i Trinovanti, la tribù originaria della zona di Colchester, e altre tribù delle zone limitrofe: la legione fu sterminata fino all’ultimo uomo. L’umiliazione peggiore fu, per i Romani, essere sconfitti da una donna. Nel frattempo il comandante Paolino Svetonio, che aveva distrutto Mona, l’isola sacra dei Druidi, raggiunse Londra a tappe forzate, per difendere la città. Accortosi che la città era indifendibile, la abbandonò. Londra subì la stessa sorte di Colchester, cui seguì anche Verulamium (oggi Saint Albans). Tacito e Dione Cassio parlano di settantamila morti e di spaventose torture sugli abitanti, ad opera dei Britanni, che poi uccisero tutti perché preferivano non fare prigionieri. A questo punto Svetonio attaccò e sconfisse gli Iceni e i loro alleati, ma non riuscì a catturare Boadicea: la regina si uccise col veleno per non cadere viva nelle mani del nemico.
Il caso di Boadicea è il più famoso della storia dell’invasione romana della Britannia, ma altre donne non furono da meno. Rapita per il riscatto e violentata per dispregio da un centurione romano, la regina Chiomara, al momento della riconsegna al marito, sfilò la spada al suo rapitore, mentre questi si chinava a raccogliere l'oro del riscatto, e gli staccò di netto la testa dal collo, prima di tornare dal marito col trofeo sanguinante. La sacerdotessa Camma, come racconta Plutarco, costretta a sposare colui che le aveva assassinato il marito, avvelenò il vino del brindisi rituale, che i neo-sposi dovevano bere dalla stessa coppa, ed in questo modo morì insieme all'assassino, vendicando il marito.