LE ALTRE VOCI Filosofie, Ideologie, Religioni e Culture

Sondaggio: Eutanasia

  • Sondaggio Eutanasia
  • # 1  
    24%
    # 2  
    28%
    # 3  
    48%
    Il tuo Rank utente è troppo basso per poter votare questo sondaggio
  • Dati Sondaggio
  • Numero Totale Voti: 29
    Numeri Voti Utenti Registrati: 29
    Numeri Voti Utenti Anonimi: 0
  • Lista Utenti
  • Messaggi
  • OFFLINE
    L.A.V. Staff
    Post: 47
    Post: 47
    Sesso: Maschile
    Utente Junior
    00 26/03/2006 00:59

    L'Olanda è il primo paese al mondo che - rispettate determinate condizioni - riconosce l'eutanasia come un atto legale.

    E' entrata infatti in vigore dalla mezzanotte la legge approvata il 10 aprile 2001 in cui sono definiti i criteri di non perseguibilità dei medici che praticano la 'dolce morte'.

    In sostanza, la legge segna il passaggio dal regime di tolleranza già osservato nel paese da diversi anni ad un quadro preciso che stabilisce i 'paletti' entro i quali i medici non potranno essere più perseguiti sul piano giudiziario.

    Le condizioni fondamentali sono che il paziente abbia fatto una richiesta chiara e riflettuta di eutanasia, si trovi in una situazione senza speranze dal punto di vista medico e sia di fronte a ''sofferenze insopportabili''.

    E mentre in molti paesi del mondo il tema eutanasia continua a dividere, la commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite ha fatto sapere di nutrire non pochi dubbi sulla 'sicurezza' delle procedure olandesi contro la possibilità di abusi.

    Paragoni vengono fatti con la Germania nazista, che metteva a morte migliaia di bambini handicappati e malati di mente, nonostante la legge olandese stabilisca chiaramente che la richiesta di eutanasia debba arrivare esclusivamente dal diretto interessato mentre è nelle sue piene facoltà di intendere e di volere. Critiche che il primo ministro Wim Kok liquida in queste ore, ricordando che i medici del regno non hanno affatto ricevuto 'licenza di uccidere'.

    ''Per molti malati terminali, la possibilità di scegliere se morire o meno rappresenta una grossissima consolazione'', ha detto alla Bbc Coot Kuipers, medico di Uden da sempre favorevole alla pratica dell'eutanasia.

    E intanto nel paese si è già costituito un gruppo pronto a chiedere l'applicazione della dolce morte senza richiesta scritta per i pazienti comatosi e la libertà di prescrizione di pillole della morte agli anziani che non se la sentono più di vivere.

    In Belgio il senato ha votato a ottobre a favore di un progetto di legge sull'eutanasia. In Francia, il ministro della sanità, Bernard Koucher si è impegnato a far pressione in parlamento affinché si segua il modello olandese. In Australia il dibattito sull'eutanasia non si è mai placato da quando la regione dei Territori del Nord la legalizzò nel 1996 per abrogare la legge nove mesi dopo. Infine di pochi giorni fa il caso della signora inglese, paralizzata da oltre un anno e destinata a vedere le proprie facoltà mentali deteriorarsi irrimediabilmente che ha ottenuto dall'alta corte di Londra, dopo essersi rivolta anche alla corte per i diritti umani di Strasburgo, l'autorizzazione a spegnere la macchina che le permette di vivere e a morire in pace e dignità.

    Fonte:

    www.antiproibizionisti.it/notizia.asp?n=199


    [Modificato da L.A.V. Staff 26/03/2006 1.05]

  • L.A.V. Staff
    00 26/03/2006 17:00

    L’eutanasia e il diritto all’autodeterminazione

    di Valerio Pocar, Milano*

    La discussione sul tema dell’eutanasia è caratterizzata da molta confusione, sia presso l’opinione pubblica sia persino presso gli addetti ai lavori, addirittura per ciò che concerne l’argomento stesso del discorso. Una delle ragioni della confusione, infatti, è che con un unico termine si allude spesso a situazioni anche profondamente differenti, che debbono essere valutate alla stregua di criteri diversi. Fare d’ogni erba un fascio è un’operazione non priva d’astuzia sotto il profilo puramente dialettico da parte degli avversari dell’eutanasia, che consente di recare argomenti che possono avere qualche validità per una situazione riferendoli a tutte. È opportuno, dunque, fare chiarezza.
    Riprendendo la tassonomia proposta dal noto rapporto van der Maas (1996), possiamo individuare almeno cinque situazioni relative alle decisioni concernenti l’anticipazione della fine della vita: (1) l’eutanasia propriamente detta, vale a dire la somministrazione di farmaci con l’intento di porre fine alla vita del paziente dietro sua esplicita richiesta; (2) il suicidio medicalmente assistito, vale a dire la prescrizione o la fornitura di farmaci con l’esplicito intento di rendere possibile al paziente di porre fine alla sua vita; (3) l’interruzione della vita senza richiesta esplicita, vale a dire la somministrazione di farmaci con l’intenzione esplicita di porre fine alla vita del malato senza la sua esplicita richiesta; (4) la somministrazione di farmaci (oppiacei) al fine di controllare il dolore, ma in dosi tali da abbreviare la vita; (5) la non-istituzione o la sospensione di trattamenti di sostegno vitale. Considererò solamente le prime due situazioni, che hanno a che fare col concetto di autonomia del malato, e non le altre che hanno piuttosto a che fare col rifiuto dell’accanimento terapeutico, col problema dell’intenzione e la teoria del doppio effetto, con la medicina palliativa, e via dicendo. La distinzione, insomma, è la seguente: da un lato, le pratiche eutanasiche propriamente dette, che determinano l’anticipazione della morte di una persona capace di intendere e di volere, come conseguenza dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione della persona, comprese le scelte dettate tramite direttive anticipate (living will), che può realizzarsi secondo diverse tecniche e modalità del suicidio; dall’altro lato, i casi di anticipazione della morte in cui, più che al diritto all’autodeterminazione, si faccia riferimento ai criteri di beneficenza e di non maleficenza o di equità, al concetto di qualità o di dignità della vita, e via dicendo. Per quanto ho detto, non scorgo poi differenze di sostanza tra l’eutanasia propriamente detta (eutanasia attiva) e il suicidio assistito, vale a dire che non rilevo differenze tra il caso del malato terminale o inguaribile che, potendolo fare, si suicida, quello del malato che, rifiutando il trattamento, determina la propria morte, quello del malato che si faccia somministrare l’iniezione letale e quello del malato che per suicidarsi si faccia fornire il kit fai-da-te per l’autosomministrazione. Tutte queste scelte, infatti, sono espressione dell’autonomia dell’individuo, autonomia che, per inciso, deve essere rispettata dall’operatore sanitario, in applicazione dei criteri di beneficenza e non-maleficenza che dovrebbero informare tutte le pratiche sanitarie, criteri che si esplicano anzitutto nel rispetto della volontà e della libertà del malato. Qui potrò toccare brevemente soltanto alcune delle numerose questioni che si propongono.

    Eutanasia e inviolabilità del diritto alla vita. Non è corretto dire che l’eutanasia si ponga in contraddizione con l’inviolabilità del diritto alla vita, che rappresenta un diritto fondamentale agli occhi di tutti, anche di chi sostiene la liceità dell’eutanasia, e del resto è affermato dalle disposizioni costituzionali e dalle convenzioni internazionali sui diritti umani. La questione è, però, se il diritto all’inviolabilità della vita comporti anche il dovere di vivere a tutti i costi e se si tratti dell’inviolabilità della vita altrui o anche della propria. Ritengo, da un lato, che nessuno possa disporre della vita altrui, ciò che comporta il rifiuto delle guerre, della pena di morte e via dicendo, e anche il rispetto della vita di soggetti senzienti non appartenenti alla specie umana, e anzitutto degli animali, questioni sulle quali gli oppositori dell’eutanasia non hanno saputo assumere posizioni altrettanto chiare, sicché sarebbe inviolabile soltanto la vita dei malati terminali o inguaribili (ma i martiri?), ma affermo anche, dall’altro lato, che ciascun individuo ha il diritto di disporre della propria vita. Il contrasto, dunque, riguarda il riconoscimento del diritto a disporre della propria vita, cioè, a ben guardare, proprio il riconoscimento di un diritto di libertà. È normale e anzi fisiologico che, nelle grandi come nelle piccole questioni etiche, si prospettino posizioni anche inconciliabili, tutte però legittime, ma non si può accettare che taluno, seguendo un modello di pensiero integralistico e pensando di essere l’unico depositario di un’unica verità, si senta autorizzato ad imporla. Seguendo un modello di pensiero laico, ispirato al principio della tolleranza, è invece da ritenere che le idee e i convincimenti degli individui possano essere diversi e che la coscienza di ciascuno debba essere rispettata senza imposizioni. Il pluralismo etico, nella nostra società, non rappresenta più un auspicio, ma costituisce un fatto concreto, che è tanto opportuno quanto doveroso rispettare. Proprio al fine di rispettare la coscienza e i valori di ciascuno dovrebbero preferirsi, anche per quanto concerne l’eutanasia, soluzioni di tipo pragmatico che non pretendano di risolvere il problema etico in nome di convergenze generali e offrano una regolazione che consenta agli individui, liberi di ispirare le proprie scelte ai valori che condividono, di non cadere in contraddizione con se stessi. Del resto uno scopo delle leggi dovrebbe essere, fra gli altri, quello di mantenere la pace sociale creando spazi per le libertà di tutti e non quello di imporre comportamenti che conducano in paradiso.

    Esiste un diritto a morire? Se non v’è dubbio che esiste un diritto a vivere, non v’è neppure il dubbio che, almeno nel nostro ordinamento, esiste il diritto a morire. Anticipare o determinare la propria morte tramite il rifiuto delle cure, secondo quanto è disposto dall’art. 13 e dall’art. 32 secondo comma della nostra Costituzione, è lecito così come lo è suicidarsi. Ora, poiché nel caso dell’eutanasia occorre l’intervento di un terzo, dobbiamo però chiederci se questo intervento sia moralmente lecito. Negarne la liceità rappresenta un’evidente discriminazione tra coloro che sono in condizione di anticipare la propria morte col suicidio o il rifiuto delle cure e coloro che, per le particolari condizioni di malattia nella quale si trovano, dunque per una loro specifica debolezza, non sono in condizioni di farlo o di farlo in modo dignitoso e senza un maggior carico di sofferenza. Appare evidente che le norme del codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente (art. 579, pena da sei a quindici anni di reclusione) e l’aiuto al suicidio (art. 580, pena da cinque a dodici anni) sono censurabili di incostituzionalità per violazione dei principi di eguaglianza e di libertà, almeno per ciò che concerne i malati terminali o inguaribili.

    Come regolare l’eutanasia? Contrariamente a ciò che molti pensano, l’eutanasia nel nostro ordinamento è già regolata, nel senso, appunto, che essa è vietata e punita severamente. Dall’esistenza del divieto, la discussione sulla liceità morale dell’eutanasia e del diritto a morire viene affrontata secondo un atteggiamento di pregiudizio, quasi che spetti ai sostenitori della liceità dell’eutanasia di dimostrare tale liceità e tale diritto. Un pregiudizio, poiché in linea di principio spetta piuttosto a coloro che negano la liceità di un comportamento e ne fanno scaturire un divieto, di giustificare la loro posizione e, dunque, spetta a coloro che contrastano l’eutanasia di motivare la liceità morale dell’imposizione del dovere di vivere anche in situazioni estreme di insostenibili sofferenze e di totale mancanza di dignità e di qualità della vita e spetta sempre a loro di dimostrare il danno che la legalizzazione dell’eutanasia comporterebbe e quali vantaggi ha sinora comportato il suo divieto. Ci sembra arduo individuare l’interesse particolare o collettivo che sarebbe posto a rischio dall’anticipazione della morte su richiesta di un malato terminale o inguaribile e l’interesse che sarebbe prevalente su quello dell’individuo a una morte che lo liberi da insostenibili sofferenze o da una vita, priva di senso e di dignità, stimata immeritevole di essere continuata. Il divieto appare, anche sotto questo profilo, di dubbia costituzionalità per violazione del principio di libertà, giacché l’autonomia dell’individuo per ciò che concerne la propria salute e il proprio corpo è sancita come diritto dalla nostra Costituzione all’art. 32 comma secondo e davvero non si comprende perché mai tale diritto, riconosciuto a tutti, dovrebbe essere sospeso proprio nel momento più decisivo e delicato, vale a dire nelle fasi finali della malattia e quindi della vita, anche se l’esercizio del diritto all’autodeterminazione comporti l’anticipazione della morte. La richiesta eutanasica, a ben guardare, non è altro che l’estensione e il compimento del diritto, ormai da tutti riconosciuto, di autodeterminazione del malato.

    Legalizzare l’eutanasia può recare vantaggi? Occorre fare due premesse. Da un lato, l’eutanasia non può rappresentare l’unica soluzione del problema dei malati terminali e inguaribili, ma deve costituire piuttosto una scelta in un quadro di umanizzazione della medicina e di sviluppo della medicina palliativa come offerta sanitaria che non sia appannaggio di uno sparuto nucleo di medici ben intenzionati, com’è ancora la situazione del nostro paese, ma alla quale partecipi il sistema sanitario nel suo complesso e i medici di famiglia in primo luogo. Dall’altro lato, tuttavia, anche le cure palliative non possono essere imposte (per non cadere nel paradosso di un «accanimento palliativo»), sicché al malato terminale o inguaribile deve essere lasciata la possibilità di scegliere ed eventualmente di preferire, ai trattamenti palliativi, la soluzione anticipata di una condizione di vita segnata da un eccesso di sofferenza o comunque tale da non essere valutata come dignitosa. Fatte queste premesse, sembra più opportuno, seguendo l’impostazione sopra esposta, soffermarsi a porre in luce, tra le molte, alcune positive conseguenze della legalizzazione dell’eutanasia, lasciando ai contrari di chiarire le eventuali conseguenze negative.

    Anzitutto, come in parte ho già detto, se si ritiene che la tolleranza sia un valore e che l’autonomia degli individui sia per sé un bene, se ci si pone cioè in un’ottica autenticamente liberale e quindi laica e pluralistica, ogni riconoscimento della libera volontà degli individui, beninteso quando esso non torni di danno per altri, rappresenta un passo del progresso civile. Consentire la scelta eutanasica rappresenterebbe un’affermazione della libertà e dell’etica della tolleranza, importante sotto il profilo sia etico sia pedagogico.

    Si renderebbe, inoltre, possibile un più accurato controllo sociale. Si sa che l’eutanasia, negata dal punto di vista giuridico e di principio quasi dappertutto, è dappertutto di fatto praticata, anche se la gravità delle pene fa sì che tali pratiche siano tenute rigorosamente segrete, senza alcuna possibilità di controllo. Rendere lecita l’eutanasia comporterebbe una precisa assunzione di responsabilità tanto del medico quanto del paziente stesso e la possibilità del controllo tanto da parte della sfera pubblica quanto da parte dei cittadini.

    Ancora, rendere lecita l’eutanasia porterebbe a un rafforzamento del rapporto di fiducia tra il paziente e il medico, nel quale il malato terminale o inguaribile potrebbe vedere il soggetto in grado di recargli aiuto anche nell’emergenza di una scelta estrema. Non è privo di significato che nei Paesi Bassi - il paese, com’è noto, nel quale l’eutanasia, ora anche formalmente consentita, è da tempo depenalizzata, sicché si è reso possibile uno studio non astratto delle conseguenze della depenalizzazione - il 40% dei decessi sia avvenuto al di fuori delle istituzioni, con il paziente affidato al medico di famiglia, e che il 70% dei casi di eutanasia attiva (il 97% dei casi di suicidio assistito) cada sotto la responsabilità di questi medici (rapporto van der Maas 1996).

    Riconoscere la liceità dell’eutanasia comporterebbe, poi, la fine di una discriminazione particolarmente odiosa. La facoltà di porre fine alla vita, che già non è negata al malato terminale in grado di compiere materialmente il gesto, sarebbe estesa al malato che, per via delle sue condizioni fisiche o a cagione della sua particolare malattia, non fosse in grado di recare ad effetto la medesima scelta.

    Contro queste ragioni, che non sono le sole, non vale evocare, come insistentemente fanno gli oppositori, il rischio del cosiddetto slippery slope, che cioè la legalizzazione dell’eutanasia volontaria, giustificata dall’autonomia degli individui, aprirebbe le porte all’eliminazione involontaria di soggetti deboli, privi di protezione, la cui assistenza sia di peso alla famiglia o alla società, disincentivando l’impegno per il sostegno della vita. Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei confronti del malato terminale o inguaribile si potrebbe determinare, a pena di esclusione sociale, l’aspettativa di una scelta di tipo eutanasico, ritenuta socialmente o peggio economicamente preferibile, il richiamo allo slippery slope suscita tuttavia molta perplessità. Questo rischio, infatti, viene puntualmente richiamato, e sempre con un significato d’intolleranza, ogni qual volta si tratti d’introdurre innovazioni concernenti questioni moralmente controverse che coinvolgono situazioni di difficoltà delle persone. Così è avvenuto, non senza toni drammatici, per il divorzio o la depenalizzazione dell’aborto, ma in entrambi i casi i fatti sono stati la miglior smentita degli allarmi. Per quanto poi attiene all’eutanasia, bisogna dire, ancora riferendoci all’esperienza olandese, che le richieste di pratiche eutanasiche sono sì aumentate tra il 1990 e il 1995 rispetto al precedente quinquennio di osservazione, ma hanno trovato accoglimento in misura alquanto minore, in meno di un terzo dei casi. Ancora, rispetto al precedente periodo di osservazione, risulta che l’anticipazione della morte mediante tali pratiche si è ridotta ed è risultata di modestissima misura, nel 33% dei casi inferiore alle ventiquattro ore e nel 58% inferiore alla settimana. È dunque ben chiaro che a tali pratiche si è fatto ricorso solamente nella estrema fase terminale della malattia, senza trascurare che il mezzo impiegato per interrompere la vita sia stato di regola la morfina ad alte dosi, pratica che accosta l’eutanasia al controllo del dolore, sicché sembra possibile concludere che, almeno nel caso olandese, vale a dire nell’unico caso studiato, il timore di slittamento verso pratiche scorrette e irrispettose della vita dei malati, come conseguenza della depenalizzazione dell’eutanasia, non trovi conforto nell’esperienza. Dobbiamo naturalmente chiederci se, al di là delle diverse possibili valutazioni etiche, l’esperienza olandese sia trasferibile in altri contesti sociali, diversi per cultura, per struttura assistenziale e forse anche per la sensibilità etica degli operatori medici e sanitari.

    La legalizzazione dell’eutanasia è una prospettiva credibile? Proprio sulla base di queste considerazioni, che riconoscono l’autodeterminazione degli individui e le necessità dell’ordine sociale, l’idea della legalizzazione dell’eutanasia volontaria e del suicidio assistito va prendendo piede. Alla legge olandese ha fatto recentemente seguito la legge belga, in tutto simile. Il suicidio assistito, ammesso dalle corti degli Stati di Washington e di New York, è stato respinto da decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti che non lo ha tuttavia ritenuto contrastante con i principi costituzionali, tant’è che nello Stato dell’Oregon esso è ammesso all’esito di un referendum popolare. Prima di essere abrogata dal parlamento federale, una legge del North Territory dell’Australia aveva legalizzato il suicidio assistito. L’esperienza svizzera, recentissima, ha ancora carattere sperimentale. La Corte Costituzionale della Colombia, ritenuta legittima la tenuità delle pene per il reato di omicidio pietoso, si è pronunciata per la legittimità costituzionale del suicidio assistito. Il dibattito, dunque, è ormai molto aperto e la situazione del nostro paese appare, per ragioni che non ho bisogno di rendere esplicite, di retroguardia. Ma anche nel nostro paese qualcosa si muove e mi piace ricordare qui che la Consulta di Bioetica, un’associazione che si è data il compito di promuovere il dibattito laico sui problemi bioetici, ha formulato una proposta di legge per rendere legale, sotto condizioni molto rigorose, l’assistenza al suicidio e ha presentato tale proposta in un pubblico convegno tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano nel dicembre 2000.

    www.uaar.it/uaar/ateo/archivio/2003_2_art2.html

  • L.A.V. Staff
    00 26/03/2006 17:05
    Il punto di vista del Vaticano


    Considerazioni etiche sull'eutanasia

    1. A partire dagli anni '70, con inizio nei Paesi più sviluppati nel mondo, è venuta diffondendosi una insistente campagna a favore dell'eutanasia intesa come azione o omissione che di natura sua e nelle intenzioni provoca l'interruzione della vita del malato grave o anche del neonato malformato. Il motivo che abitualmente si adduce è quello di voler così risparmiare al paziente stesso sofferenze definite inutili.

    Si sono sviluppate campagne e strategie in questo senso, portate avanti con il supporto di associazioni pro-eutanasia a livello internazionale, con pubblici manifesti firmati da intellettuali e uomini di scienza, con pubblicazioni favorevoli a tali proposte - alcune, corredate perfino di istruzioni volte ad insegnare a malati e non i vari modi di porre fine alla vita, quando questa fosse ritenuta insopportabile - , con inchieste che raccolgono opinioni di medici o di personaggi noti all'opinione pubblica, favorevoli alla pratica dell'eutanasia e, infine, con proposte di leggi portate di fronte ai Parlamenti, oltre ai tentativi di provocare sentenze delle Corti che potrebbero dare corso ad una pratica di fatto dell'eutanasia o, almeno, alla sua non punibilità.

    2. Il recente caso dell'Olanda, dove già esisteva da qualche anno una sorta di regolamentazione che rendeva non punibile il medico che praticasse l'eutanasia su richiesta del paziente, pone un caso di vera e propria legalizzazione dell'eutanasia su richiesta, sia pure circoscritta a casi di malattia grave ed irreversibile, accompagnata da sofferenze e a condizione che tale situazione sia portata davanti ad una verifica medica che si propone come rigorosa.

    Il perno della giustificazione che si vuol accampare e far valere di fronte all'opinione pubblica è sostanzialmente costituito da due idee fondamentali: a) dal principio di autonomia del soggetto, il quale avrebbe diritto di disporre in maniera assoluta della propria vita; b) dalla persuasione più o meno esplicitata della insopportabilità e inutilità del dolore che può talora accompagnare la morte.

    3. La Chiesa ha seguito con apprensione tale sviluppo di pensiero, riconoscendovi una delle manifestazioni dell'indebolimento spirituale e morale riguardo alla dignità della persona morente e una via "utilitarista" di disimpegno di fronte alle vere necessità del paziente.

    Nelle sue riflessioni, essa ha mantenuto costante contatto con gli operatori e specialisti della medicina, ricercando la fedeltà ai principi e ai valori dell'umanità condivisi dalla massima parte degli uomini, alla luce della ragione illuminata dalla fede, e producendo documenti che hanno ricevuto l'apprezzamento di professionisti e di larga parte dell'opinione pubblica. Vogliamo ricordare la Dichiarazione sull'Eutanasia (1980), pubblicata 20 anni or sono dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, il documento del Pontificio Consiglio "Cor Unum" Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti (1981), l'Enciclica Evangelium Vitae (1995) di Giovanni Paolo II (in particolare ai nn. 64-67), la Carta degli Operatori sanitari, redatta dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della salute (1995).

    In questi documenti del Magistero non ci si è limitati a definire l'eutanasia come moralmente inaccettabile, "in quanto uccisione deliberata di una persona umana" innocente (cfr EV 65. Il pensiero dell'Enciclica è precisato al n. 57, consentendo così la giusta interpretazione del passo del n. 65 appena citato), o come azione "vergognosa" (cfr Conc. Vat. II, GS 27) , ma è stato anche offerto un itinerario di assistenza al malato grave e al morente che fosse, sia sotto il profilo dell'etica medica, sia sotto il profilo spirituale e pastorale, ispirato alla dignità della persona, al rispetto della vita e dei valori della fraternità e della solidarietà, sollecitando persone ed istituzioni a rispondere con testimonianze concrete alle sfide attuali di una dilagante cultura di morte.

    Recentemente, questa Pontificia Accademia per la Vita ha dedicato una delle sue Assemblee generali (dopo un lavoro preparatorio durato diversi mesi), allo stesso tema, pubblicandone poi gli Atti conclusivi nel volume intitolato "The Dignity of the Dying Person" (2000).

    4. Vale la pena ricordare qui, pur rinviando ai documenti appena citati, che il dolore dei pazienti, di cui si parla e su cui si vuol fondare una specie di giustificazione o quasi obbligatorietà dell'eutanasia e/o del suicidio assistito, è oggi più che mai un dolore "curabile" con i mezzi adeguati dell'analgesia e delle cure palliative proporzionate al dolore stesso; questo, se accompagnato dall'adeguata assistenza umana e spirituale, può essere lenito e confortato in un clima di sostegno psicologico e affettivo.

    Eventuali richieste di morte da parte di persone gravemente sofferenti - come dimostrano le inchieste fatte fra i pazienti e le testimonianze di clinici vicini alle situazioni dei morenti - quasi sempre costituiscono la traduzione estrema di un'accorata richiesta del paziente per ricevere più attenzione e vicinanza umana, oltre alle cure appropriate, entrambi elementi che talvolta vengono a mancare negli ospedali di oggi. Risulta quanto mai vera la considerazione già proposta dalla Carta degli Operatori sanitari: "l'ammalato che si sente circondato da presenza amorevole umana e cristiana, non cade nella depressione e nell'angoscia di chi invece si sente abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte e chiede di farla finita con la vita. È per questo che l'eutanasia è una sconfitta di chi la teorizza, la decide e la pratica" (n. 149).

    A tal proposito, vien fatto di domandarsi se per caso, sotto la giustificazione della insopportabilità del dolore del paziente, non si nasconda invece l'incapacità dei "sani" di accompagnare il morente nel suo difficile travaglio di sofferenza, di dare senso al dolore umano - che comunque non è mai del tutto eliminabile dall'esperienza della vita umana quaggiù - e una sorta di rifiuto dell'idea stessa della sofferenza, sempre più diffuso nella nostra società del benessere e dell'edonismo.

    Non è poi da escludere che, dietro alcune campagne "pro-eutanasia", si nascondano questioni di spesa pubblica, ritenuta insostenibile ed inutile di fronte al prolungarsi di certe malattie.

    5. È dichiarando curabile (nel senso medico) il dolore e proponendo, come impegno di solidarietà, l'assistenza verso colui che soffre che si giunge ad affermare il vero umanesimo: il dolore umano chiede amore e condivisione solidale, non la sbrigativa violenza della morte anticipata.

    Per altro, il c.d. principio di autonomia, con cui si vuole talvolta esasperare il concetto di libertà individuale, spingendolo al di là dei suoi confini razionali, non può certo giustificare la soppressione della vita propria o altrui: l'autonomia personale, infatti, ha come presupposto primo l'essere vivi e reclama la responsabilità dell'individuo, che è libero per fare il bene secondo verità; egli giungerà ad affermare se stesso, senza contraddizioni, soltanto riconoscendo (anche in una prospettiva puramente razionale) di aver ricevuto in dono la sua vita, di cui perciò non può essere "padrone assoluto"; sopprimere la vita, in definitiva, vuol dire distruggere le radici stesse della libertà e dell'autonomia della persona.

    Quando poi la società arriva a legittimare la soppressione dell'individuo - non importa in quale stadio di vita si trovi, o quale sia il grado di compromissione della sua salute - essa rinnega la sua finalità e il fondamento stesso del suo esistere, aprendo la strada a sempre più gravi iniquità.

    Nella legittimazione dell'eutanasia, infine, si induce una complicità perversa del medico che, per la sua identità professionale ed in forza delle inderogabili esigenze deontologiche ad essa legate, è chiamato sempre a sostenere la vita e a curare il dolore, giammai a dare la morte "neppure mosso dalle premurose insistenze di chicchessia" (Giuramento di Ippocrate); tale convinzione etica e deontologica ha varcato i secoli intatta nella sua sostanza, come conferma, ad esempio, la Dichiarazione sull'Eutanasia dell'Associazione Medica Mondiale (39 Assemblea - Madrid 1987)
    "L'Eutanasia, vale a dire l'atto di porre fine deliberatamente alla vita di un paziente, sia in seguito alla richiesta del paziente stesso oppure alla richiesta dei suoi congiunti, è immorale.

    Questo non impedisce al medico di rispettare il desiderio di un paziente di permettere al naturale processo di morte di seguire il suo corso nella fase finale di malattia".

    La condanna dell'eutanasia espressa dall'Enciclica Evangelium Vitae perché "grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana" (n. 65), racchiude il peso della ragione etica universale (è fondata sulla legge naturale) e la istanza elementare della fede in Dio Creatore e custode di ogni persona umana.

    6. La linea di comportamento verso il malato grave e il morente dovrà dunque ispirarsi al rispetto della vita e della dignità della persona; dovrà perseguire lo scopo di rendere disponibili le terapie proporzionate, pur senza indulgere in alcuna forma di "accanimento terapeutico"; dovrà raccogliere la volontà del paziente quando si tratta di terapie straordinarie o rischiose - cui non si è moralmente obbligati ad accedere -; dovrà assicurare sempre le cure ordinarie (comprese nutrizione ed idratazione, anche se artificiali) ed impegnarsi nelle cure palliative, soprattutto nell'adeguata terapia del dolore, favorendo sempre il dialogo e l'informazione del paziente stesso.

    Nell'immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile ed imminente "è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita" (cfr Dich. su Eutanasia, parte IV), poiché vi è grande differenza etica tra "procurare la morte" e "permettere la morte": il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa.

    7. Le forme di assistenza domiciliare - oggi sempre più sviluppate, soprattutto per il paziente malato di tumore -, il sostegno psicologico e spirituale dei familiari, dei professionisti e dei volontari, possono e devono trasmettere la persuasione che ogni momento di vita ed ogni sofferenza sono abitabili dall'amore e sono preziosi davanti agli uomini e davanti a Dio. L'atmosfera della solidarietà fraterna dissipa e vince l'atmosfera della solitudine e la tentazione della disperazione.

    L'assistenza religiosa in particolare - che è un diritto ed un aiuto prezioso per ogni paziente e non soltanto nella fase finale della vita - se accolta, trasfigura il dolore stesso in atto di amore redentivo e la morte in apertura verso la vita in Dio.

    Le brevi considerazioni qui offerte si pongono accanto al costante insegnamento della Chiesa, la quale, sforzandosi di essere fedele al suo mandato di "attualizzare" nella storia lo sguardo d'amore di Dio per l'uomo, soprattutto quando è debole e sofferente, continua ad annunciare con forza il Vangelo della vita, certa com'è che, nel cuore di ogni persona di buona volontà, esso possa risuonare ed essere accolto: tutti, infatti, siamo invitati a far parte del "popolo della e per la vita"! (cfr Evangelium Vitae 101).

    Il Presidente
    JUAN DE DIOS VIAL CORREA

    Il Vice-Presidente
    Mons. ELIO SGRECCIA

    Città del Vaticano, 9 Dicembre 2000

    www.vatican.va/roman_curia/pontifical_academies/acdlife/documents/rc_pa_acdlife_doc_20001209_eutanasia...

  • =pinkpanther=
    00 27/03/2006 11:15
    suicidio assistito
    io sono favorevole in parte : suicidio assistito in quei casi in cui è la persona stessa che ne fa richiesta.
    L'eutanasia di stato potrebbe condurre al commercio di organi come succede con i condannati a morte cinesi.
    E chissà se veramente il candidato morituro vuole essere terminato.
    A volte si cambia idea all'ultimo minuto.
  • )Mefisto(
    00 25/04/2006 09:42
    Non ho capito se il sondaggio si applica anche a chi non è malato terminale, perchè in questo caso sono favorevole ad un suicidio in massa del genere umano, almeno la Grande Madre Terra ed i Suoi figli prediletti, i quali non sono gli uomini, potrà finalmente rimettersi in salute!


    )Mefisto( è il Nome il Diavolo è il Cognome [SM=g27828]
  • OFFLINE
    RikkuFFX
    Post: 207
    Post: 98
    Città: BERGAMO
    Età: 36
    Sesso: Femminile
    Utente Junior
    00 01/05/2006 17:06
    Hmmm...direi che non ho un' opinione particolarmente solida e convinta su questo argomento...

    Penso che però la vita sia solo ed esclusivamente proprietà della singola persona, di conseguenza:
    -escluderei qualsiasi forma di uccisione voluta solo dai parenti o da altri esterni
    -chiunque, se perfettamente lucido e cosciente, ha diritto di togliersi la vita. Come dire "nessuno sceglie di nascere, quindi la vita non è un dovere, allora è suo diritto togliersela nel momento in cui lo desidera"

    Il problema è quando quella persona in quel momento non è cosciente e lucida. In questo caso, ammesso che si sappia che essa stia provando terribili sofferenze, si può solo PRESUMERE che essa voglia togliersi la vita, non esserne certi.
    Una soluzione potrebbe essere quella di far firmare a tutti un documento IN ANTICIPO, su cosa poter fare nel caso succedesse loro un incidente ecc ecc, con possibilità di modificarlo in caso di cambiamento di idea (sempre quando si è lucidi).
    Questa potrebbe essere solo un' ipotesi, ma non nego che sia imperfetta. Per esempio è c'è la questione dell' eutanasia sui bambini. Si puo far firmare un documento del genere ad una persona che non ha ancora raggiunto una certa maturità? E' giusto che il genitore, persona comunque esterna, decida per la vita o la morte di un altro individuo (anche se figlio)?
    ---@*Rikku*@---
  • OFFLINE
    pizia.
    Post: 7.073
    Post: 9
    Sesso: Femminile
    Utente Master
    00 27/08/2006 17:36
    Re:

    Scritto da: )Mefisto( 25/04/2006 9.42
    Non ho capito se il sondaggio si applica anche a chi non è malato terminale, perchè in questo caso sono favorevole ad un suicidio in massa del genere umano, almeno la Grande Madre Terra ed i Suoi figli prediletti, i quali non sono gli uomini, potrà finalmente rimettersi in salute!


    )Mefisto( è il Nome il Diavolo è il Cognome [SM=g27828]



    Quoto!