Quando a Livorno si scoprirono sculture false di Modigliani, che erano state prese per autentiche,si sviluppò una vivace polemica sull'arte antica e moderna e quale fosse più facile da falsificare.Alcuni sostennerò che una più facile falsificazione indicasse un'arte meno valida.
All'epoca pubblicai un articolo in proposito. Eccolo
CAPITOLO ZERO: I FALSI DI LIVORNO E L’INTERESSE DEL POTERE
Quando il mio libro era già terminato e la seconda stesura pronta e il testo alla fotocomposizione, è scoppiato il clamoroso caso che sarà ricordato come la beffa o i falsi di Livorno.
Non posso, nè voglio esimermi dal trattarlo, seppure nel mio saggio mi ero astenuto dall’occuparmi, tranne che di sfuggita, dei due modi più conosciuti, naturali e quindi banali di far soldi con l’arte, ossia del lavorare intensamente, sviluppare le proprie capacità specifiche, se vi sono (la cosiddetta “vocazione”), per raggiungere il successo e quindi monetizzarlo, oppure, come polo opposto, la falsificazione delle opere.
Purtroppo quanto è accaduto a Livorno, il fragore sollevato, la vera e propria caccia alle streghe scatenatasi da parte della stampa specializzata e non e i commenti più disparati e spesso senza senso che sento fare, la rivelazione di faide fra i critici, studiosi e detentori del potere nell’arte, ne scoprono sospettati massicci interessi che fanno rientrare tutto il caso nella tematica del mio libro, finora affollato perlopiù di operatori silenziosi, attenti ad evitare luci troppo violente, formi-chine maliziose dedite a trasportare sassi, non voluminose pietre. Il palcoscenico desiderato si limita agli stretti spazi di una Galleria privata, di un salotto, di uno studio, di un catalogo sia pure importante come il Bolaffi, di uno schermo televisivo che si affacci tutt’al più su una regione, di un giornale di tiratura e diffusione limitate.
Nel caso di Livorno tutto cambia, la ribalta si dilata smisuratamente, i personaggi sono abituati o vogliono il fragore, le luci intense, i grandi periodici, la televisione nazionale, se non di più.
Ebbene, incominciamo subito a chiarire che il falso nell’arte, gli errori di attribuzione ci sono sempre stati. Onestà e disonestà si sono sempre scontrate, a volte intersecandosi e attorcigliandosi in viluppi incomprensibili. Non per questo, come sento fare oggi, ci si scaglia sull’arte e sui suoi inarrestabili progressi, sul suo divenire, sulla sua ansia di ricerca. La parte meno evoluta della nostra società, la più tetragona al progresso, alle innovazioni, proprio quella che permette l’esistenza delle gallerie “tutto affitto”, del prosperare rigoglioso di organizzazioni atte a forgiare i tanti, troppi “riconoscimenti”, le centinaia di “accademie”, le aste televisive, le presentazioni senza senso, avanza l’ipotesi che « “i falsi di Livorno” non si sarebbero potuti attuare se Modigliani non fasse stato un artista d’avanguardia e quindi, in quanto tale, fornito di una tecnica troppo facile». Suvvia, attenzione, cerchiamo di ragionare, di non perdere il lume dell’intelletto e quel po’ di conoscenza artistica faticosamente inculcata nella mentalità provinciale del nostro Paese! Ritenere oggi, quasi alla fine del secolo XX, Modigliani di avanguardia mi sembra davvero enorme se solo si spulci, cercando di comprenderlo, un qualsiasi testo di arte moderna; se solo si faccia mente locale che in arte non è difficile copiare, ma creare. I « copisti” sono sempre esistiti e non pochi; falsi di Raffaello, Caravaggio, Fattori, Gigante non mancano. Certo, ci vuole un minimo di conoscenze pittoriche o per meglio dire delle tecniche pittoriche. Sì, è vero, forse gli studenti livornesi non avrebbero potuto in così poco tempo eseguire la testa di Modigliani, ma già il Froglia (l’altro falsificatore), ex studente delle Belle Arti, avrebbe potuto provarci e riuscirci anche con pittori più tradizionali. Non confondiamo quindi, e cerchiamo di enucleare ciò che veramente può venirci come insegnamento da tutto il trambusto di questi giorni.
Di cosa si tratta in realtà, nei suoi contorni precisi? Lo riassumo in breve.
Amedeo Modigliani nacque a Livorno nel 1884 da padre italiano e madre francese e, dopo il liceo, frequentò scuole di belle arti a Firenze (1902) e a Venezia (1903) e dal 1905 incominciò a trascorrere lunghi periodi a Parigi dove sembrò prediligere l’arte di pittori tormentati come Van Gogh, Gauguin e Toulouse-Lautrec, benché le opere realizzate nella sua prima fase parigina possano testimoniare quanto non gli sia stata indifferente la lezione di Cézanne. Nel 1909 si stabilì definitivamente a Parigi nel quartiere di Montparnasse e l’amicizia con Brancusi, l’insoddisfazione, l’innata irrequietezza, l’uso sempre più frequente di alcol e droga, la scoperta dell’arte negra, lo portarono a dedicarsi intensamente alla scultura. Nel 1912 espose sette sculture al Salon d’Automne, mentre i rari dipinti erano perlopiù dedicati a ritratti di persone a lui vicine (lo scultore Brancusi, il dottor Alexandre, suo primo estimatore, e gli scrittori Cocteau e Hellens, e Pablo Picasso). Nel 1914, incoraggiato dalla poetessa Beatrice Hastings e dal suo futuro mercante Zborowski, ritornò alla pittura e il suo stile (i corpi allungati scaturiti da una linea di contorno sinuosa, ma non decorativa perché rispondente ad un’esigenza ritmica e a una purezza formale dei volumi) divenne inconfondibile e fino alla sua morte precoce (1920, ad appena 36 anni) eseguì più di trecento dipinti (fra i quali la serie dedicata alla sua donna, Jeanne Heburterne suicidatasi subito dopo la sua morte) dei quali molti sono presso importanti collezioni e musei di tutto il mondo.
Grande artista Modigliani, uno dei maggiori del secolo, e anche molto richiesto e quotato se si pensa che alle pagine 340 e 341 il Bolaffi numero 19 comunica come prezzo di aggiudicazione all’asta (Sotheby’s di Londra, 1982) di un suo olio su tela cm. 73 x 54 oltre 850 milioni e un suo disegno, matita su carta di cm. 41x27, 21 milioni!
Siamo al 1984. E’ il centenario della nascita di un figliolo tanto famoso e incompreso al punto da dover o voler lasciare la Toscana per emigrare, come abbiamo visto, a Parigi. L’ambiente intellettual-politico della città labronica si mobilita e si prendono due iniziative: una mostra curata da Vera Durbé, conservatrice del Museo d’Arte Moderna di Livorno e dal fratello Dario, soprintendente alla Galleria d’Arte Moderna di Roma; e il dragaggio del Fosso Reale (un canale di Livorno) dove, secondo alcuni, Modigliani deluso nel 1909 avrebbe scaraventato alcune sculture.
All’inizio dell’estate la mostra si inaugura regolarmente. Cosa rappresentano i 350 milioni del costo, rispetto al rilancio culturale della città? Nulla! e i 40 del dragaggio? una miseria se le sculture, presumibilmente tre teste incomplete, saranno ritrovate. La Durbé ci crede ed è sicura di prestigiosi (ora è il caso di dirlo) ritrovamenti, nè sembra seriamente turbarsi per le polemiche subito sorte a causa del dubbio avanzato dal critico Maurizio Calvesi sull’autenticità di un ritratto esposto; tantomeno per l’assenza all’inaugurazione della figlia del pittore che, a quanto pare, sarebbe stata esclusa dalla scelta delle opere. Jeanne Modigliani dirige con Christian Parisot la fondazione «Archivi Legali Modigliani” di Parigi che, dicono, convalidi con eccessiva celerità opere non sicuramente attribuibili all’artista italiano.
Il 24 luglio si trova la prima testa, poi altre due. La Durbé piange di gioia e afferma: «Sono sicurissima che sono le teste di Modi (diminutivo di Modigliani. Nota di B.C.), sono talmente belle... » I critici e storici dell’arte, Argan, Brandi, Carli e Ragghianti non hanno perplessità e manifestano la loro opinione con diverso entusiasmo, confortati da giudizi altrettanto positivi di tecnici come Pagliani, restauratore capo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Franzini, docente di mineralogia all’università di Pisa. Anche Jean Lemarie, direttore di Villa Medici, e lo scultore Pietro Cascella, fra i tanti, sono commossi. Voci contrarie e non ascoltate quelle di Spagnol, di Zeri e da Parigi della figlia di Modigliani che, il giorno successivo alle dichiarazioni rese alla stampa, cade per le scale e muore.
A Livorno, in Toscana e forse in Italia tutta grande è il fervore nell’ambiente artistico per le teste: gli scettici di una volta sono tutti per i Durbé, la soprintendenza di Pisa e il comune di Livorno litigano sulla proprietà. Il 2 settembre Ragghianti presenta il volume illustrato « Due teste ritrovate » approntato e stampato a tempo di record, e il quotidiano livornese riceve una telefonata sconcertante. Dice di recarsi a frugare in un cestino: si trovano negativi di un’immagine riproducente una testa di Modi, simile a quelle ritrovate e un cartello con la scntta “Testa ripescata nel 1954”, mentre il settimanale Panorama anticipa un suo articolo. Sembra che tre studenti abbiano scolpito e lanciato nel Fosso la Modi 2 eseguita in soli due giorni con scalpelli, martelli e trapano elettrico. I professoroni non fanno una piega, mantengono le posizioni e avanzano l’ipotesi, anzi la sicurezza, di un fotomontaggio. Saltano fuori altri ragazzi, uno partecipante direttamente e due come semplici testimoni. Il padre di uno di loro, avvocato penalista, chiede ed ottiene che la Testa sia posta sotto sigilli e fornisce ulteriori prove fotografiche; la televisione infine organizza un grande spettacolo nel quale i ragazzi, in diretta, scolpiscono una quarta testa. I dubbi sulla veridicità di prove e dichiarazioni, i sospetti di complotti oscuri (degli archivi Modigliani per rivalsa e interessi? dei Durbé per avvalorare l’ipotesi dei ritrovamenti? della moglie di Calvesi — critico ostile ai Durbé — che è vice, ma in polemica con il suo capo Dario Durbé, alla Galleria d’Arte Moderna di Roma?) crollano quando si fa vivo l’esecutore dichiarato delle due altre teste ritrovate, fornendo ampie documentazioni filmate.
E’ un portuale, ex terrorista, ex studente alle belle arti: la sua non è stata una «beffa”, ma ha motivazioni “ideologiche”.
La stampa, già in fermento prima, si dilunga in cronache dettagliate che occupano intere pagine di giornali e molte di settimanali, pubblica fotografie delle teste, degli studenti, dei genitori, del portuale, e commenti violenti, screditanti investono quei critici, quegli esperti che hanno accreditato, avallato con eccessiva fretta i falsi di Livorno. Scoprono, come se fosse una novità, l’arroganza del potere, la protervia di affermazioni immodeste ed imprudenti che si materializzano particolarmente nella Durbé che fino all’ultimo con un sorriso di sufficienza nega la capacità ai quattro ragazzi di aver potuto eseguire in così poco tempo una testa simile a quelle ritrovate. Si esaltano famosi falsari quasi santificandoli come esecutori di « beffe” e si citano Van Meegeren, Elmyr de Hory e Alceo Dossena (forse l’unico caso quasi attinente) quali « vendicatori contro il mondo dell’arte” che non li avrebbe riconosciuti come bravi, veri artisti, dimenticando ancora una volta che l’arte, quella vera, è creazione e non copia, e obliando i guadagni da loro realizzati sull’abbrivio o con la scusa delle “beffe” o delle vendette. Ora, è opportuno precisare, gli studénti e l’ex portuale di Livorno non sono ancora, e forse non saranno mai, un Van Meegeren, un de Hory e nemmeno un Dossena e il mio augurio è che si guardino bene (se pure possano riuscirci) dàl proseguire. E sicuramente il mondo dell’arte deve loro un ringraziamento per aver permesso di smascherare insipienza e protervla, ma, ai fini del mio libro, non posso fare a meno di sottolineare come abbiano trovato un altro modo per far soldi con l’arte. Perché non mi si venga a dire che proprio nulla di moneta-bile ricaveranno dalla loro azione. Per quanto poi riguarda i giornalisti di professione, nulla da dire, anzi un plauso per aver evidenziato fatti tanto clamorosi; ma articoli di pubblicisti come quello riportante il brano “... (persone) segnate dal complesso dell’impotenza, unicamente dedite ad insegnare come si dovrebbe fare ciò che essi non sanno fare. Sputando sentenze e puntando il dito, i ‘critici’ sono riusciti ad accreditare i loro gusti personali come se fossero regole obiettive; sono riusciti a conquistare un potere smisurato sul pubblico da loro manipolato e sugli autori da loro terrorizzati; sono riusciti a contrabbandare opere mediocri per capolavori o a ridurre capolavori al rango di opere mediocri”, mi andrebbero anche bene se fossero meno generalizzati e se non mi tormentasse il sospetto che siano solo manifestazione, a loro volta, di lotta di potere; ossia tentativi di affossare quelli attualmente in disgrazia per prenderne il posto e proseguire a non curarsi di coloro che, per libera scelta, fastidio di chiedere piaceri, di aderire a combine o per incapacità, potere non ne hanno. Perché il potere quasi sempre è arroganza e noncuranza della gente comune, e su di esso e i suoi mille risvolti mi propongo di tornare in un altro libro.
Ora fra i tanti articoli il più funzionale per il mio saggio e la sua tematica mi sembra quello di Barbara Palombelli e Ludovica Ripa di Meana pubblicato alle pagine 22, 23 e 24 dell’Europeo numero 38 che contrasta violentemente, ma comprensibilmente con l’immagine da me data dei critici nel capitolo intitolato «Le presentazioni”, perché ovviamente mi riferivo a personaggi non tanto famosi e traboccanti di potere come i protagonisti diretti ed indiretti del caso livornese non da oggi sul grande proscenio nazionale ed internazionale, anche se il pubblico se ne accorge solo in queste clamarose occasioni. Quanto ne viene fuori è sintomatico, inquietante e rivelatore.
Infatti, secondo le articoliste, la beffa di Livorno ha riacceso una miccia sopita, ha riaperto “l’eterna faida che avvelena da quasi un secolo le grandi famiglie della critica d’arte”. Tutto risalirebbe a quando Adolfo Venturi, direttore dell’autorevole rivista “L’Arte “, scelse come capo redattore Roberto Longhi trascurando proprio suo figlio, Lionello Venturi. Passa del tempo e Longhi diviene consigliere del più munifico collezionista e antiquario di allora, il conte Alessandro Contini Bonacossi che ha come cliente una specie di nababbo, il finanziere Riccardo Gualino del quale diventa consulente proprio Lionello Venturi: “un giro di denari enorme ~. Venturi, antifascista, espatria e Longhi è consigliere del ministro fascista Bottai. Il Dopoguerra vede i due avversari (Longhi e Venturi) in Italia ed un terzo protagonista, Carlo Ludovico Ragghianti (sì, l’autore del saggio « Due pietre ritrovate ») che si schiera con Venturi e accusa e, a quanto pare, minaccia il Longhi. I motivi poco nobili sarebbero non tanto la vecchia lotta ma “i soldi del Contini Bonacossi, nel frattempo diventato consulente del più grande collezionista di tutti i tempi, Samuel Kress”. Qui compaiono due giovani, Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan, stranamente allievi del Venturi perché, a quanto riporta l’articolo, sembra che giovanissimi si fossero posti sotto la protezione del quadrumviro fascista De Vecchi. Come se non bastasse il gruppo Venturi si arricchisce di Maurizio Calvesi. Mentre Longhi ha fra i suoi allievi Federico Zeri, Giuliano Briganti, Giovanni Testori e Ferdinando Bologna.
Ricapitoliamo quindi nomi e incarichi (presenti e passati) degli esponenti dei due gruppi (sempre secondo quanto scrivono la Palombelli e la Ripa di Meana).
1) GRUPPO VENTURI: Ragghianti (sottosegretario alla Pubblica Istruzione), Brandi, Argan (docente universitario, presidente della Il Sezione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, Sindaco di Roma, autore di diffusissimi volumi sull’arte moderna in uso nei Licei), Calvesi (direttore della Sezione Arti Visive della Biennale).
2) GRUPPO LONGHI: Zeri, Briganti (critico di “La Repubblica “, titolare di cattedra all’università di Siena), Testori (critico di «Il Corriere della Sera”), Bologna (professore universitario).
A quanto pare l’odio, al di là di diverse ideologie pittoriche, è sempre vivo: nel gruppo Longhi (dicono le artico-liste) sembrano si conino filastrocche infamanti contro Brandi-Argan rispolveranti i trascorsi (dei due) nel Ventennio; dal gruppo Venturi si insinua il sospetto che i longhiani siano soprattutto attenti al mercato delle expertise, cioè le stime che potrebbero addirittura trasformare una crosta in un capolavoro.
Due longhiani (Zeri e Previtali) sono chiamati da Einaudi a dirigere l’Enciclopedia della Storia dell’Arte italiana ed il primo volume contiene un saggio di Bologna nel quale sembra che egli sferri un attacco violento ad Argan «insinuando tra le righe l’accusa di totale incompetenza”. La vendetta sembra che non si faccia attendere. A Roma, in Palazzo Venezia, si inaugura una mostra importante. Fra i pezzi più attesi ci sono due nature morte che Zeri ha attribuito al Caravaggio, e Calvesi (allora definito come il più fedele di Argan) su «L’Espresso” scrive che “l’attribuzione di Zeri è stata frettolosa e comunque guidata da interessi commerciali”. Le opere vengono ritirate. Allora è Zeri che deve ricambiare e su “La Stampa” rispolvera una vecchia storia su Brandi-Argan accusati di “aver rifilato allo Stato italiano un bidone. Nientemeno che un falso Raffaello”. A quanto pare non basta ancora e una grande esposizione a Perugia con autori scelti da Calvesi è stata rimandata già due volte. Sembra che una velenosa polemica divampi e che il curatore (Calvesi) si sia impaurito o pentito (forse il suo atteggiamento verso le teste di Livorno è un indizio di cambiamento di gruppo?) Sinceramente non so se quanto hanno scritto le collaboratrici dell’Europeo sia totalmente vero o frutto di colorite supposizioni, ma se riguardiamo gli schieramenti dei critici nel caso di Livorno e leggiamo alcune dichiarazioni di Zeri (“Il mondo dell’arte è pieno di falsari e di dubbie autentificazioni. C’è un famosissimo pezzo del V secolo avanti Cristo che è una grossa bufala, nonostante tutte le perizie e le expertises firmate da noti critici... “) - rafforzàte, come se non bastasse, da un accenno alle “oscure faide intestine che tormentano la vita culturale italiana “, sono portato con dispiacere a crederci, è già ero a conoscenza di beghe scoppiate, sia pure a livello più limitato e meno rumoroso. Ed ecco allora un altro modo di far soldi (e non solo in termini di denaro) con l’arte. Modo miserabile e degno di figurare nel capitolo zero del mio lavoro, perché praticabile da individui che l’arte vera la respirano tutti i giorni ai massimi o giù di lì livelli e dovrebbero inebriarsene, purificarsi da scorie velenose per ammirarla ed esaltarla.
Vorrei però ricordare a me stesso e a chi ha letto questo libro che ventimila anni di pittura, e quindi di arte, ci sono alle spalle, e non saranno qualche migliaio di untorelli o qualche centinaio di « da potere dipendenti a sminuirne l’infinita bellezza e lo stupendo fascino.
NB. I PREZZI SI RIFERISCONO AL 1984.