Dal cammino d’inizio siamo trasportati dalla Parola alla visione ultima, a ciò che sarà il compimento di questo cammino. Il capitolo 21 dell’Apocalisse, ricchissimo di immagini, in parte è già stato letto la domenica scorsa. Il testo di oggi presenta le immagini delle mura, delle fondamenta, del tempio e della luce della Gerusalemme gloriosa che «scende da Dio». Ci saremmo aspettati il contrario: una chiesa che ha compiuto il suo cammino, secondo noi, dovrebbe salire verso l’alto; ma la chiesa scende sempre da Dio, perché essa procede dal dono dello Spirito che lo Sposo non smette mai di inviare: la comunità si rivela chiesa nel suo scendere da Dio; essa può dire di camminare verso la casa del Padre se di là è venuta.
La città è cinta da «un grande e alto muro con dodici porte»: tre porte per ognuno dei quattro punti cardinali; ogni porta reca scritto il nome di una delle tribù di Israele. Le mura poggiano su dodici basamenti, su cui sono scritti i nomi dei dodici apostoli. Il passaggio dal vecchio al nuovo Israele non è un passaggio di rottura e di rifiuto. Le mura sono le stesse, ma le fondamenta sono cambiate. La città si fonda non più sulla legge, ma sul Vangelo di Cristo, che apre le porte dell’antico Israele a tutti i popoli: le porte sono quelle antiche ma il fondamento è nuovo, il progetto è sempre il medesimo ma il fondamento è Cristo. Il Vangelo chiama tutti gli uomini, dai quattro lati della terra, perché vengano a formare l’unico popolo di Dio. In ogni direzione ci sono tre porte, a significare un’accoglienza perfetta, uguale per tutti e aperta a tutti.
Nella città non vi è più tempio, «perché il Signore Dio e l’Agnello sono il suo tempio» (v. 22). Il tempio era il luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, ma Gesù aveva già preannunciato che «i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità» (Gv 4,23). Inoltre, in una disputa con i giudei, aveva detto di essere lui il nuovo tempio (Gv 2,19-21). Il testo dell’Apocalisse lascia chiaramente intuire che il Cristo, che prima si presentava come il nuovo tempio («egli parlava del tempio del suo corpo»: Gv 2,21), dopo il compimento del mistero pasquale assume una veste nuova, quella dell’agnello immolato. Con questa figura si esprime la perfezione del culto, perché in essa è presente la vittima, il sacerdote, l’altare e il tempio.
La nuova Gerusalemme infine non ha più bisogno della luce del sole né di quella della luna, perché «la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (v. 23). Lo splendore stesso di Dio è la luce di Gerusalemme, e l’agnello-lampada è la luce che veglia sulla città ed è segno della presenza divina. Nell’antico tempio la lampada era formata da sette braccia che terminavano a forma di fiore di mandorlo (Es 25,33), su cui poggiavano le lucerne: il mandorlo era il segno della vigilanza del popolo davanti a Jahvé (per un’assonanza tra scaqed e scaqad). Dopo l’esilio, la visione profetica di Zaccaria aveva preannunciato un futuro in cui la lampada sarebbe stata alimentata da due ulivi che «assistono il dominatore di tutta la terra» (Zc 4): la regalità e il sacerdozio si uniscono e divengono unico olio dell’unica lampada. Giovanni nell’Apocalisse ci svela l’ultimo compimento dell’immagine della lampada: Cristo-agnello, re e sacerdote, è la lampada che nella città futura esprime la veglia amorosa dinanzi al «dominatore di tutta la terra» ed è la «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).
Rapisca, ti prego, o Signore,
l'ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia
da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell'amor tuo,
come tu ti sei degnato morire per amore dell'amor mio.
(San Francesco d'Assisi)