Il problema dei 3 corpi: Attraverso continenti e decadi, cinque amici geniali fanno scoperte sconvolgenti mentre le leggi della scienza si sgretolano ed emerge una minaccia esistenziale. Vieni a parlarne su TopManga.

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Tempo pasquale: 6a domenica

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    00 16/05/2004 19:58
    Tempo pasquale: 6a domenica
    Sotto il segno dello Spirito
    At 15,1-2.22-29
    Una comunità che matura attraverso il dialogo

    Ap 21,10-14.22-23
    La comunità nel progetto escatologico del Padre

    Gv 14,23-29
    Gesù promette il dono dello Spirito







    Rapisca, ti prego, o Signore,
    l'ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia
    da tutte le cose che sono sotto il cielo,
    perché io muoia per amore dell'amor tuo,
    come tu ti sei degnato morire per amore dell'amor mio.
    (San Francesco d'Assisi)



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    00 16/05/2004 19:58
    La liturgia di oggi vuole presentarci l’immagine della chiesa post-pasquale, una chiesa peregrinante che tuttavia reca già in sé il germe della futura gloria. Il dono dello Spirito, operante nella comunità, rende molto vicina la realtà ultima.

    Il concilio di Gerusalemme - narrato dal brano degli Atti - ci presenta la chiesa nel suo primo avvio. Non è una chiesa senza problemi, proprio perché vuol farsi carico delle nuove sollecitazioni provenienti dall’uomo che chiede la fede, ma è una chiesa che ha, per dono di Gesù, imboccato la strada giusta: quella della comunione animata dallo Spirito. Lo Spirito santo si manifesta nella comunione dei fratelli («Abbiamo deciso, lo Spirito santo e noi ... ») contro una legge ritualista che divide, quella della circoncisione («Se non vi fate circoncidere non potrete essere salvi»).

    Di qui passiamo all’Apocalisse, che descrive il termine, la meta verso cui quella comunità cammina. Tra la realtà degli Atti e la visione dell’Apocalisse, come si colloca il brano evangelico di Giovanni? Gesù nel suo discorso svela la dinamica profonda di questa comunità, cioè dice su cosa deve fondarsi e come deve articolarsi il suo cammino perché si possa giungere alla Gerusalemme celeste: l’amore rende gli uomini tempio di Dio (v. 23); l’osservanza è la pratica concreta dell’amore (v. 24); lo Spirito è l’animatore della verità (v. 26); la pace è il dono messianico che si qualifica come pace diversa da quella del mondo (vv. 26-27): sono questi gli elementi vitali della comunità secondo il brano evangelico di oggi.







    Rapisca, ti prego, o Signore,
    l'ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia
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    00 16/05/2004 19:58
    1. LA COMUNITA’ DEGLI ATTI

    La prima comunità cristiana ci viene presentata in uno dei momenti più delicati dei suoi inizi: il concilio di Gerusalemme del 48 d.C. La peculiarità di questo concilio consiste nella presa di posizione sulla circoncisione. La chiesa sente di vivere un momento importante e decisivo; essa viene interpellata su un problema specifico, ma avverte che la posta in palio è più grande. Si tratta di prendere ufficialmente posizione di fronte alla legge: per essere cristiani occorre passare attraverso il giudaismo? Questa è la domanda di fondo. Giudaismo voleva dire «legge» nel senso più ampio della parola. Solo un decennio più tardi Paolo formulerà in termini chiari una teologia secondo cui la salvezza non è dalla legge, ma da Cristo. Ma già fin d’ora si intravedono le prime prese di posizione. La chiesa intuisce che la salvezza portata da Cristo è una salvezza radicale, assoluta. Il Cristo pasquale è la grande vittoria dello Spirito su ogni tipo di vincolo, compreso quello della legge (Gal 5,1-6).

    Anche la parte più rispettosa della tradizione sente e confessa apertamente per bocca di Giacomo che la storia, con Cristo, ha girato pagina. L’argomentazione dell’apostolo parte da un dato di fatto: «Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome» (At 15,14). Il fatto stesso che il Vangelo si apra alle genti, senza alcuna limitazione, è segno che il giudaismo è superato; la prima chiesa ne prende atto, e questo è un segno di come la comunità sia attenta a leggere i segni dello Spirito che guida il suo cammino. Sia pure nella varietà delle posizioni, di fronte alla comunità ognuno interviene mostrandosi più attento all’altro che al proprio pensiero: Pietro verbalizza l’esperienza di Paolo e Barnaba, dandone un’interpretazione teologica; Giacomo interviene sulle parole di Pietro e in esse fa notare la voce dello Spirito. La conclusione è data da una lettera, in cui viene espresso ciò che «abbiamo deciso, lo Spirito santo e noi» (v. 28). Lo Spirito che si manifesta nella comunione dei fratelli non è uno spirito dialettico, ma uno spirito di comunione. La dialettica è finalizzata alla spartizione di un potere: essa chiarisce le competenze nella contrapposizione delle diversità; la comunione invece non spartisce niente, ma condivide tutto; lo Spirito di comunione sollecita una condivisione in cui le diversità non si contrappongono ma si uniscono come ricchezze offerte per far crescere l’unica ricchezza: l’unità nell’amore.

    Alla prima grossa difficoltà, Paolo e Barnaba stabiliscono di andare a Gerusalemme: c’è in questa decisione la ricerca di un confronto e di una verifica con coloro che lo stesso Paolo chiama «le colonne» della chiesa (Gal 2,9); d’altra parte, a Gerusalemme è proprio Pietro che riconosce pubblicamente il carisma di Paolo quale apostolo tra i pagani. La comunità di fede persegue e vive una vita interiore tutta incentrata sulla presenza dinamica dello Spirito, ma non si tratta di un intimismo irreale; essa è disponibile al confronto e si arricchisce della presenza di ciascuno, in modo tale che alla fine la voce di Pietro diventa punto di riferimento conclusivo sia per Paolo, che porta l’istanza nuova dei gentili, sia per Giacomo, che si fa portavoce di una tradizione da purificare. Questa comunità non dà affatto adito agli arroccamenti di ciascuno sulle rispettive posizioni.







    Rapisca, ti prego, o Signore,
    l'ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia
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    00 16/05/2004 19:59
    2. LA CITTA’ SANTA

    Dal cammino d’inizio siamo trasportati dalla Parola alla visione ultima, a ciò che sarà il compimento di questo cammino. Il capitolo 21 dell’Apocalisse, ricchissimo di immagini, in parte è già stato letto la domenica scorsa. Il testo di oggi presenta le immagini delle mura, delle fondamenta, del tempio e della luce della Gerusalemme gloriosa che «scende da Dio». Ci saremmo aspettati il contrario: una chiesa che ha compiuto il suo cammino, secondo noi, dovrebbe salire verso l’alto; ma la chiesa scende sempre da Dio, perché essa procede dal dono dello Spirito che lo Sposo non smette mai di inviare: la comunità si rivela chiesa nel suo scendere da Dio; essa può dire di camminare verso la casa del Padre se di là è venuta.

    La città è cinta da «un grande e alto muro con dodici porte»: tre porte per ognuno dei quattro punti cardinali; ogni porta reca scritto il nome di una delle tribù di Israele. Le mura poggiano su dodici basamenti, su cui sono scritti i nomi dei dodici apostoli. Il passaggio dal vecchio al nuovo Israele non è un passaggio di rottura e di rifiuto. Le mura sono le stesse, ma le fondamenta sono cambiate. La città si fonda non più sulla legge, ma sul Vangelo di Cristo, che apre le porte dell’antico Israele a tutti i popoli: le porte sono quelle antiche ma il fondamento è nuovo, il progetto è sempre il medesimo ma il fondamento è Cristo. Il Vangelo chiama tutti gli uomini, dai quattro lati della terra, perché vengano a formare l’unico popolo di Dio. In ogni direzione ci sono tre porte, a significare un’accoglienza perfetta, uguale per tutti e aperta a tutti.

    Nella città non vi è più tempio, «perché il Signore Dio e l’Agnello sono il suo tempio» (v. 22). Il tempio era il luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, ma Gesù aveva già preannunciato che «i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità» (Gv 4,23). Inoltre, in una disputa con i giudei, aveva detto di essere lui il nuovo tempio (Gv 2,19-21). Il testo dell’Apocalisse lascia chiaramente intuire che il Cristo, che prima si presentava come il nuovo tempio («egli parlava del tempio del suo corpo»: Gv 2,21), dopo il compimento del mistero pasquale assume una veste nuova, quella dell’agnello immolato. Con questa figura si esprime la perfezione del culto, perché in essa è presente la vittima, il sacerdote, l’altare e il tempio.

    La nuova Gerusalemme infine non ha più bisogno della luce del sole né di quella della luna, perché «la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (v. 23). Lo splendore stesso di Dio è la luce di Gerusalemme, e l’agnello-lampada è la luce che veglia sulla città ed è segno della presenza divina. Nell’antico tempio la lampada era formata da sette braccia che terminavano a forma di fiore di mandorlo (Es 25,33), su cui poggiavano le lucerne: il mandorlo era il segno della vigilanza del popolo davanti a Jahvé (per un’assonanza tra scaqed e scaqad). Dopo l’esilio, la visione profetica di Zaccaria aveva preannunciato un futuro in cui la lampada sarebbe stata alimentata da due ulivi che «assistono il dominatore di tutta la terra» (Zc 4): la regalità e il sacerdozio si uniscono e divengono unico olio dell’unica lampada. Giovanni nell’Apocalisse ci svela l’ultimo compimento dell’immagine della lampada: Cristo-agnello, re e sacerdote, è la lampada che nella città futura esprime la veglia amorosa dinanzi al «dominatore di tutta la terra» ed è la «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).







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    00 16/05/2004 20:03
    3. CRISTO NELLA COMUNITA’

    Il testo dell’Apocalisse ha espresso chiaramente con l’immagine del tempio e della lampada la centralità del Cristo nella comunità gloriosa. Egli è la luce che brilla per la comunità di fede (Gv 1,5); è la lampada che veglia per i fratelli alla presenza del Padre (Eb 7,25); è il tempio, cioè il segno della presenza del Padre tra i figli. Il breve testo del Vangelo di Giovanni ci dice come questa presenza sia viva fin da ora con la sua parola consolatoria, con il suo Spirito e con la sua pace.

    Giovanni tocca dei punti che sono essenziali per il cammino del cristiano: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola ... e noi prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). L’amore ci costituisce tempio della Trinità. Siamo sulla stessa linea del testo dell’Apocalisse (Cristo-tempio fa di noi tempio) e soprattutto sulla linea del discorso di Gesù con la samaritana. L’amore come tempio, se l’osservanza si pone come amore: ecco tre parole chiave poste in successione tra due spazi significativi. La parola, l’amore e il tempio: tra la parola e l’amore c’è l’osservanza; tra l’amore e il tempio c’è la lode da un lato e l’inabitazione dall’altro.

    Nella parola «osservanza» c’è tutta la dinamica dell’impegno inteso non in dimensione legalistica, ma vitale: il cristiano realizza la Parola e questa diviene evento nella sua vita. L’amore concreto alla Parola si trasforma subito in amore a Cristo secondo i disegni del Padre: «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (v. 24). La Parola è rivelazione pratica del volere del Padre, e osservare la Parola significa accogliere questa volontà. L’osservanza della Parola è sul fronte concreto dell’impegno di vita: Gesù in Luca aveva parlato di «fare la parola» (cf. Lc 8,21), dove la traduzione latina esprime meglio il testo greco: «faciunt». Non si tratta quindi della pura esecuzione di un ordine esterno, ma della realizzazione di un piano; «fare la parola» non è una questione di obbedienza, ma di realizzazione; chi ascolta costruisce.

    La presenza del «Consolatore» in questa dinamica della Parola da «fare» è fondamentale: «Egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26). Lo Spirito, animatore della verità, rimarrà al centro dell’ascolto e a fondamento dell’osservanza: un ascolto senza lo Spirito è una lettura fuori del mistero della Parola, soggetta quindi ad ogni tentazione di personalismo; un’osservanza senza lo Spirito è moralismo vuoto. L’osservanza non persegue una «perfezione» astratta, ma esige una risposta di amore: si tratta di seguire una persona molto concreta, Gesù di Nazaret.

    Alla fine del brano c’è l’ultimo dono di Gesù: la pace messianica. Non è l’amore al quieto vivere, ma tutt’altra cosa: Cristo la dice diversa dalle apparenze solite (v. 27b) e la colloca in un contesto di partenza (v. 28), di timore (v. 27c) e di previsione di una realtà che ci contesterà (v. 29). Cos’è allora la pace di Cristo? E’ la coscienza di essere in Cristo nonostante ogni apparente circostanza storica contraria: la pace è costruita dalla luce dello Spirito e non dalla calma emotiva; per questo esistono nel mondo dei «pacifici» senza pace esterna e degli «afflitti» posseduti dalla pace di Cristo.

    La pace è quella luce dello Spirito che ci rende capaci di chiamare pace una realtà che si presenta con un volto tutt’altro che pacifico. E significativa a questo proposito nel libro dei Giudici la storia della vocazione di Gedeone (c. 6): il luogo dove si era rivelato il Signore e dove Gedeone aveva maturato la sua vocazione (il travaglio della ricerca è espresso con un dialogo drammatico tra l’uomo e l’angelo) fu chiamato «il Signore-pace»; con la fede di poi Gedeone chiama «pace» il dramma di prima.

    Pace significa trovare in Dio il senso della vita per quanto drammatici siano gli avvenimenti di cui essa è intessuta.







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    00 16/05/2004 20:04
    O Dio, che hai promesso di stabilire la tua dimora in quanti ascoltano la tua parola e la mettono in pratica, manda il tuo Spirito, perché richiami al nostro cuore tutto quello che il Cristo ha fatto e insegnato e ci renda capaci di testimoniarlo con le parole e con le opere.







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