La liturgia ci conduce dalla comunità degli Atti alla piccola comunità degli apostoli riunita nel cenacolo, dove il Maestro consegna ai suoi il nuovo precetto che dovrà animare la comunità: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,34). Significativo è il fatto che Gesù non dice: «Vi comando di amarvi», ma: «Vi do un comandamento nuovo». Cristo consegna un compito, dona una proposta dopo aver dato egli stesso l’esempio.
L’espressione sembra rifarsi ai precetti dell’alleanza: Dio dà sul Sinai la legge, poi dà dei precetti (Dt 6,1) per creare un popolo santo, che sia fedele all’alleanza; questi precetti sono l’espressione della personale volontà di Dio che chiede amore obbediente e docile (Dt 6,5); il Deuteronomio definirà l’accoglienza di questa volontà di Dio come «circoncisione dei cuore» (10,16): è la «legge del cuore» preannunciata da Geremia (31,31-34) come peculiare realtà di un futuro nuovo, quando la nuova alleanza si fonderà su un precetto nuovo. Inserito in questa prospettiva, il discorso di Gesù non è un invito parenetico a volersi bene, ma costituisce la tappa finale del cammino teologico del concetto di alleanza: Cristo rivela l’ultimo fondamento dell’alleanza nuova, il suo sangue («come io vi ho amato»); ad essa dà l’ultimo precetto: amarsi secondo un metro paradigmatico preciso, cioè l’amore suo per gli uomini. Siamo quindi alla rivelazione ultima dell’amore del Padre nel dono del Figlio. Ecco perché al v. 31 Gesù aveva detto: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, ed anche Dio è stato glorificato in lui»; il compimento della nuova alleanza e la rivelazione dell’ultimo precetto, il «comandamento nuovo», come dinamica di essa, non è che la manifestazione della gloria del Padre nell’opera del Figlio.
Anche Mosè (Es 33,18ss) aveva chiesto, nel momento difficile della crisi del popolo e all’interno del grande evento dell’alleanza, di vedere la gloria di Dio: Mosè voleva una prova della presenza di Jahvé nel momento in cui avvertiva tutta la gravità del suo compito e il peso della crisi che il popolo stava attraversando; voleva conoscere la consistenza specifica di questa presenza (in ebraico kabod = gloria, vuol dire anche «peso»). Ma i tempi non erano maturi per questa rivelazione; soltanto il Figlio (Gv 1,17-18) potrà rivelare la gloria di Dio, che consiste unicamente nell’amore, nella misericordia e nel perdono: Dio è amore e il «peso specifico» della sua presenza è tutto nella morte del Figlio per la salvezza dell’uomo.
Nella rivelazione di questo grande mistero vengono alla luce alcune verità fondamentali: l’ora di Gesù come passione («ed era notte»: Gv 13,30); l’ora di Gesù come ora di luce («ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato»); l’ora del Padre come manifestazione gloriosa del suo amore; il grande compito, infine, dell’amore senza risparmio come testimonianza della venuta del Regno (Gv 13,34-35). Il precetto nuovo è la chiave segreta per entrare nella dinamica di questo mistero: Dio si sperimenterà nell’amore. Notiamo inoltre che questa rivelazione gloriosa si colloca in un momento storico profondamente drammatico, subito dopo la rivelazione del traditore, quasi a spogliare la nuova realtà da ogni possibile illusione: il comandamento dell’alleanza nuova non potrà ridursi a un romantico e vago volersi bene, ma sarà un compito sofferto all’interno di uno stato di permanente crisi dell’uomo. Mosè aveva chiesto di vedere la gloria di Dio dopo il peccato dell’idolo, cioè dopo la manifestazione dell’infedeltà del popolo; Cristo proclama la rivelazione della gloria del Padre nel momento in cui si è rivelata l’infedeltà del traditore: «Preso il boccone, (Giuda) subito usci. Ed era notte» (Gv 13,30). La luce dell’infinita fedeltà dell’amore di Dio viene a risplendere nel buio della grande infedeltà dell’uomo.
Ora Gesù aggiunge che il «peso» di Dio deve diventare il «peso» dell’uomo: anche l’uomo varrà per quanto sarà capace di amare. Infatti Gesù dice: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». Un solo amore è credibile, quello di Dio, come pure niente è credibile al di fuori dell’amore. C’è allora un solo modo per essere vivi dentro il regno di Dio: amare con lo stesso amore di Dio, che ci è donato, e nel modo in cui Dio ci ha amato. Gibran aveva perfettamente capito che questo amore è una fatica dura, quando scriveva: «(L’amore) vi raccoglie in sé, covoni di grano; vi batte finché non sarete spogli; vi setaccia per liberarvi dalle reste; vi macina per farvi farina di neve; vi plasma finché non siate cedevoli alle mani; e vi consegna al suo sacro fuoco perché voi siate il pane sacro della mensa di Dio».
Rapisca, ti prego, o Signore,
l'ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia
da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell'amor tuo,
come tu ti sei degnato morire per amore dell'amor mio.
(San Francesco d'Assisi)