La famiglia di Gesù
Sul nucleo familiare in seno al quale sarebbe nato Gesù, i Vangeli riportano poche notizie, che daranno però molto filo da torcere agli esegèti: c'è un padre, c'è una madre, ci sono quattro fratelli e almeno due sorelle. La figura del padre, Giuseppe, è piuttosto sfumata. Che fosse un artigiano, lo si è voluto dedurre da un passo di Matteo (13, 55) che chiama Gesù "figlio del falegname"; ma si dimentica che questa espressione, in dialetto aramaico, significa semplicemente "falegname", così come "figlio dell'uomo" indica soltanto "l'uomo". In un testo più antico, infatti, si legge: "Non è costui il falegname, figlio di Maria?" (Marco, 6, 3). La derivazione di Giuseppe da una famiglia di stirpe davidica deve essersi delineata quando non era ancora giunta a maturazione l'idea della figliolanza divina del Messia. Se Gesù non è nato da Giuseppe, ma dallo "spirito" di Dio, non ha più senso quella genealogia, lunga e contorta, che lega il padre alla dinastia di Davide, secondo i due vangeli di Matteo (1, 1-17) e di Luca (3, 23-28). La contraddizione non è più stata avvertita, quando la tradizione puramente giudaica, sull'origine umana del Messia, si è fusa con quella greco-misterica dell'emigrazione, fondata sul sovrannaturale. Per Matteo, Giuseppe è figlio di un Giacobbe; per Luca, di Eli. Alla scopo di far coincidere la sua genealogia con alcune formule magiche (tre volte quattordici) vengono saltati interi gruppi di antenati. Solo i Vangeli apocrifi svilupperanno alcuni aspetti della sua biografia. Il culto di san Giuseppe si elaborerà su basi puramente mistiche, in epoca tardiva: e questo processo non è ancora finito, se è vero che prima del Concilio Vaticano II si era parlato tra i teologi dell'eventualità di estendere a Giuseppe il dogma della verginità e dell'assunzione in cielo. Ma che per gli autori dei Vangeli egli fosse un padre vero e proprio, lo dimostra, tra l'altro, la menzione dei fratelli e delle sorelle di Gesù. Matteo e Marco ci danno i nomi dei fratelli: Giacomo, Giuseppe (o Giuseto, forma aramaica), Giuda e Simone. Delle sorelle, si sa soltanto che erano due e che vivevano in Galilea; secondo il Protovangelo di Giacomo si sarebbero chiamate Melche ed Escha. Le prime generazioni cristiane non avevano dubbi in proposito. Gesù era il figlio primogenito, nato in maniera miracolosa; prima della sua nascita, Giuseppe e Maria non avevano avuto rapporti coniugali, poi erano venuti altri figli (Matteo, 1, 25; tale è la lezione dei manoscritti più antichi e autorevoli). Questa normale vita familiare non destava alcuna preoccupazione, non sollevava nessuno scandalo. Uno dei "fratelli del Signore" è ricordato anzi, in alcune fonti, come il successore di Gesù nella direzione del piccolo gruppo di discepoli, a Gerusalemme, dopo la sua salita al cielo; e si credeva che fosse stato giustiziato da Erode Agrippa, quando il tetrarca della Galilea aveva ricevuto dai romani il regno di Giudea. Ma l'esistenza di fratelli carnali di Gesù incominciò a presentare qualche difficoltà quando, sulla base di considerazioni ascetiche connesse con la graduale divinizzazione della figura del "salvatore", si affermò l'idea che la madre di Dio avrebbe dovuto essere rimasta sempre vergine, prima e dopo il suo parto prodigioso. Allora ha inizio un discorso nuovo, di cui c'è traccia in un Vangelo apocrifo: i fratelli di Gesù sono in realtà dei fratellastri, nati da un precedente matrimonio di Giuseppe, sul quale nessuno aveva mai detto nulla. Questa è l'opinione di alcuni padri della chiesa, come Origene nel III ed Epifanio nel IV secolo; Eusebio di Cesarea, invece, in piena età costantiana, riscopre l'esistenza di una seconda Maria, sorella della Vergine, sposata a un certo Cleofa, o Clopa, fratello di Giuseppe. Ed ecco i fratelli di Gesù diventati cugini. Sull'ondata di un'accesa campagna di rigorismo sessuale, che fa coincidere la perfezione religiosa con lo stato verginale, tale tesi finirà col prevalere, non senza contrasti. Per convincere quei vescovi che non accettavano la nuova interpretazione, san Girolamo, alla fine del IV secolo, fece ricorso a un abile espediente filologico; egli sostenne che in aramaico il termine "fratello" è usato anche per "cugino", come del resto avviene tuttora specialmente negli ambienti rurali. Questo ripiego ha avuto fortuna ed è accolto ancor oggi dalla maggior parte dei teologi e degli stessi storici cattolici; ma esso è privo di qualsiasi valore. E' vero che in ebraico, e in aramaico, manca un termine specifico per indicare "cugino" e si usa talvolta la voce ach o aha, "fratello"; ma i nostri Vangeli sono stati scritti in greco, non in una lingua semitica. E nel greco classico, come in quello popolare della koinè, il vocabolo "adelphòs", fratello, non può avere altro significato che "nato dallo stesso grembo"; non esiste prova che sia mai stato usato nel senso più largo di "cugino". E' stata l'evoluzione dell'ideologia mariana che ha determinato questa nuova interpretazione di Girolamo, e non la sua vantata perizia di filologo biblico. Maria, la madre (Mariam, Miriam, abbastanza diffuso nell'onomastica palestinese), viene ricordata di rado nei Vangeli; e non sempre con quella deferenza che ci si sarebbe potuto attendere, dato l'imponente sviluppo del suo culto nella storia ecclesiastica. Casi di concezione extra-umana, assai frequenti nella mitologia classica, non erano di per sé nuovi nemmeno nella tradizione giudaica. Sulla vecchia leggenda degli angeli che si erano uniti con le "figlie degli uomini", secondo la Bibbia, si era molto favoleggiato proprio negli ultimi secoli prima della nostra èra. In uno degli scritti rinvenuti nella I grotta del Qumràn, che contiene un commento in aramaico ai primi capitoli della Genesi, chiamato originariamente Apocalissi di Lamech, viene rievocata una piccola tragedia familiare, che può essere riaccostata, sotto certi aspetti, a quella di Giuseppe. Il patriarca Lamech, avendo sentito parlare di angeli che seducono le donne, e vedendo che i suo neonato ha delle caratteristiche fisiche eccezionali - da quelle unioni, secondo la Bibbia, sarebbero nati i giganti - dubita dell'integrità della consorte e chiede informazioni ai parenti; ma viene subito rassicurato dalla moglie stessa, che gli rammenta il "piacere" che gli ha procurato nell'amplesso coniugale (Apocrifo della Genesi, 2, 1-18). Nel mito della concezione verginale di Maria, si sovrappongono però elementi che nessun ebreo palestinese avrebbe potuto accettare: per esempio, l'intervento dello "spirito" di Dio come autore della fecondazione. Tra l'altro, in ebraico, il termine che indica "spirito" è femminile, ruach, e in nessun modo la fantasia religiosa di un semita avrebbe potuto superare questo ostacolo linguistico. La cosa è tanto vera, che in alcuni testi apocrifi cristiani, di matrice giudaica, la prima raffigurazione della trinità divina, che è propria di quasi tutte le religioni - è normale che il tipo più elementare di famiglia umana venga proiettato nel cielo, dove tutto si ripete a simiglianza dei rapporti terreni - ci appare come "Padre, Figlio e Madre"; lo "spirito" era dunque un'entità femminile. Nel Vangelo degli ebrei, citato da Origene, si vede Gesù rapito in cielo da questa stessa triade. Maometto, che aveva conosciuto il cristianesimo da gruppi dissidenti sparsi ai margini dell'Arabia, non la pensava diversamente sulla concezione cristiana della trinità. Della generazione sovrannaturale gi Gesù, i Vangeli dànno anche un'altra versione, difficilmente compatibile con la prima: egli sarebbe diventato "figlio di Dio" solo al momento del battesimo nel Giordano. Mentre lo "spirito" scende su di lui come una colomba, una voce dall'alto proclama: "Tu sei il mio figlio diletto, in te mi sono compiaciuto, quest'oggi io ti ho generato" (Luca, 3, 22). Queste ultime parole sono state poi cancellate dal testo ufficiale del Vangelo. Ma esse si sono conservate in uno dei più importanti manoscritti del V secolo, il codice D, che trascrive la cosiddetta versione occidentale, e in alcuni codici minori, oltre che nelle citazioni di molti padri della chiesa. Secondo Epifanio, che è del IV secolo, esse si potevano ancora leggere nel Vangelo degli ebioniti; e in forma leggermente diversa in quello dei nazorei, secondo due passi riportati da Girolamo. Gli ebioniti (i "poveri") pensavano anche che al battesimo Gesù fosse stato spinto proprio dalla madre e dai fratelli. Maria è praticamente assente dai Vangeli, dopo il racconto della nascita. Essa ricompare al momento della morte del figlio, insieme a Maria Maddalena, che il Vangelo di Filippo, recentemente scoperto, chiama "moglie di Gesù". In diverse occasioni, Gesù sembra addirittura rinnegare la sua famiglia: "Ecco mia madre e i miei fratelli", dichiara indicando i discepoli (Marco, 3, 34). In un altro passo, ancora più sconcertante, "i suoi" cercano di riportarlo a casa di forza, sostenendo che "era fuori di sé" (Marco, 3, 21). Questo atteggiamento abbastanza sprezzante dei Vangeli, nei confronti dei parenti del Messia, trova un precedente nella letteratura ebraica del Mar Morto. Nell'Inno P., il "Maestro giusto" lamenta: "Mio padre non mi ha conosciuto e mia madre mi ha abbandonato". Sono dettagli non privo di valore. Nell'Apocalissi di Giovanni, identificato proprio con il discepolo prediletto, al quale Gesù avrebbe affidato la madre ai piedi della croce, la nascita prodigiosa del Messia viene presentata sotto la veste di un mito astrale: la partoriente, "una donna avvolta dal sole, con la luna sotto i piedi e una corona di stelle sul capo" (12, 1), non ha più proporzioni umane. Nel culto, i particolari della vita della Madonna si sono poi moltiplicati; ma con un certo ritardo. Una leggenda la farà risiedere e salire al cielo in Efeso, città nota sin dall'antichità per il prestigio che vi godeva una grande divinità femminile, Artemide; anche le litanie della Vergine son derivate quasi alla lettera da quelle della dea Iside, parzialmente conservate su papiro ("stella del mare", "patrona dei naviganti", "astro del mattino", "regina della terra", "guida degli eserciti"). Le discussioni del V secolo sulla validità o meno dell'attribuzione a Maria del titolo di "madre di Dio" si risolveranno con la vittoria, lungamente contrastata, della formula devozionale più rigida. Secondo questa dottrina, la madre di Dio non può essere nata con il peccato originale, che pesa su tutti i mortali, da Adamo in poi. E' bene ricordare, perché la cosa è tutt'altro che chiara anche ai credenti, che il dogma dell'Immacolata Concezione non ha nulla a che vedere con la nascita verginale di Gesù; ma si riferisce soltanto alla nascita "senza macchia" di Maria. E poiché il peccato di Adamo ha reso gli uomini soggetti alla morte, Maria non poteva più morire e il suo corpo doveva essere assunto in cielo. E' tipico del processo di alienazione, che opera all'interno di ogni processo religioso, il fatto che tutta questa materia di fede si sia fissata nel culto e nel rito, prima ancora che nell'elaborazione dottrinale. La chiesa cattolica ha riconosciuto come dogma l'Immacolata Concezione solo nel 1854, sotto Pio IX, che se ne servì anche come una specie di sfida irrazionale nei confronti del liberalismo laico del secolo XIX; e l'Assunta quasi un secolo più tardi, nel 1950, per iniziativa di un altro pontefice, che sapeva maneggiare l'arma del soprannaturale a scopi politici e sociali, poco più di un anno dopo la scomunica antimarxista del 1949. Per Pio XII, i comunisti e i socialisti avevano ormai preso il posto dei liberali dell'Ottocento. In questo stesso quadro, che ha una sua "logica", fuori della ragione, certo, ma non meno capace di orientare le aspirazioni dei fedeli, rientra anche la ricostruzione della vita di Gesù, che si svolge sul filo di continue contraddizioni e con grande difficoltà è stata fatta confluire in un unico filone narrativo.
Le morali del Vangelo
Anche sul terreno propriamente etico-sociale coesistono nei Vangeli molte posizioni. Si parla sempre di morale evangelica: di fatto, non di una morale si tratta, ma di morali diverse e contrastanti, che riflettono differenze di ambiente, di origine etnica, di orientamento culturale e psicologico. Ci troviamo di fronte a una evidente pluralità di concezioni religiose e rituali. In molte occasioni, Gesù respinge la legge ebraica. Il rigido riposo festivo dei giudei, per esempio, viene biasimato, perché "il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato" (Marco, 2, 27); si lascia capire che ormai la legge è superata, si minimizza la validità dei riti e si insiste su alcune regole di condotta morale come unico principio della legge ("ama il prossimo tuo come te stesso"). Altrove, Gesù dichiara che "fino a che il cielo e la terra non passeranno, neanche un trattino della legge dovrà essere modificato" (Matteo, 5, 18). I farisei sono denunciati per il loro rispetto formale della legge mosaica; ma le fonti rabbiniche che si riferiscono all'età degli Asmonei e di Erode, ci dicono che invece i loro insegnamenti e le loro pratiche non erano molto lontane da quelle di Gesù. Si vede che nell'emigrazione tutto ciò era stato dimenticato. La fede nel padre comune, unita al rispetto della tradizione ebraica, gli sembra talora sufficiente per la salvezza: "Hanno Mosè e i profeti, che li ascoltino" (Luca, 16, 29). Ma nel quarto Vangelo afferma invece che gli ebrei non hanno mai conosciuto Dio come padre e rinnega praticamente Mosè e i profeti: "Tutti quelli che sono venuti prima di me sono ladri e briganti" (Giovanni, 10, 8). La fede, senza l'esercizio delle opere buone, non garantisce la salvezza: è dai suoi frutti "che si giudica la bontà di un albero" (Matteo, 7, 17). Altrove è la fede che decide di tutto. Senza la fede, non si entra nel regno: "Chi crede in me, anche se morirà, vivrà" (Giovanni, 11, 25). La ricchezza è malvagia in sé; solo i poveri entreranno nel regno di Dio (Luca, 6, 20). Il denaro porta alla dannazione, perché "là dove è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore" (Matteo, 6, 21). A Gerusalemme, c'era una porta bassa e stretta, ci passava a mala pena un uomo e la chiamavano "cruna d'ago"; Gesù dichiara che "è più facile a un cammello passare per la cruna dell'ago, che a un ricco entrare nel regno di Dio" (Marco, 10, 25). E il senso non cambia se, lontano dalla Palestina, al posto di cammello, "kàmelos" in greco, si poteva anche leggere "kamilos", grossa fune, gomena. Bisogna disfarsi "di tutto quello che si possiede" e darlo ai poveri (Marco, 10, 21). Ma quando Zaccheo, grosso esattore d'imposte, offre di dare ai poveri solo la metà dei suoi beni, Gesù lo proclama salvo lo stesso e lo addita a esempio (Luca, 19, 8-10). C'è poi il famoso discorso della montagna, che in un'altra versione si svolge invece in pianura. Qui, dal "beati i poveri" di Luca (6, 20-23) si passa al "beati i poveri in ispirito" di Matteo (5, 1-12), che implica già una notevole concessione. Avere fame di pane, è una cosa; avere "fame di giustizia" è ben altra, e offre scarsa consolazione a chi non ha da mangiare. Là dove veniva redatto il Vangelo di Matteo, la composizione sociale delle comunità stava cambiando e non si potevano più chiudere le porte in faccia ai ricchi, a condizione che dessero prova di una certa inclinazione "spirituale" alla povertà. La dottrina sociale della chiesa non si è ancora liberata, sino ad oggi, da questa contraddizione. Alle volte il lavoro retribuito è disprezzato: non preoccupatevi delle cose materiali, né di come vivrete, imitate gli uccelli del cielo e i gigli del campo (Matteo, 6, 26-28). Per lo stesso evangelista, altrove, il lavoro è legittimo: "L'operaio ha diritto al suo salario" (10, 9). Nelle parabole, che sono lo specchio della vita dei tempi, i rapporti tra padrone e servo, tra sovrano e suddito, tra proprietario terriero e braccianti, non sono nemmeno posti in discussione; anche le operazioni commerciali appaiono perfettamente lecite. Chi segue il Messia, abbandonando casa e campi, riceverà il quadruplo in questo mondo e nel secolo futuro la vita eterna. Analoghi contrasti per quel che riguarda i rapporti familiari. Il matrimonio è voluto da Dio; altrove invece si esalta lo stato celibe e addirittura si loda "chi si fa eunuco in vista del regno dei cieli" (Matteo, 19, 12). Secondo la parabola del convito, chi ha preso moglie sarà escluso dal regno (Luca, 14, 20). L'unione tra l'uomo e la donna è indissolubile: "Quel che Dio ha unito, l'uomo non lo separi". Questa celebre massima di Marco (10, 9) è ripresa anche da Matteo (19, 6), che poi dichiara invece, e per ben due volte, perfettamente lecito il divorzio, in caso di adulterio della moglie (5, 32; 19, 9). Questo principio è stato accolto anche nel codice giustinianeo. Ne risulta, a ogni modo, lo stato d'inferiorità giuridica e morale in cui è stata tenuta la donna nel cristianesimo primitivo, perché la stessa eccezione non è prevista per l'adulterio dell'uomo. In ogni caso, l'ingresso nel regno e la resurrezione dissolvono lo stato coniugale (Luca, 20, 35); di più, chi si avvicina a Gesù e non "odia" padre e madre, moglie e figlio, fratelli e sorelle, non potrà essere suo discepolo (14, 26). Verrà il giorno in cui si dirà: "Beate le sterili" (23, 29). Una morale stabilisce la famiglia, l'altra la distrugge. Alle nozze di Cana, Maria vorrebbe che il figlio compisse il miracolo, perché era venuto a mancare il vino. La risposta non potrebbe essere più dura: "Che c'è tra me e te, donna?" (Giovanni, 2, 4). Al momento della morte, tuttavia, Gesù dà prova di tenerezza filiale e affida la madre a Giovanni, il discepolo "ch'egli amava" (19, 26). Nell'insieme, madre, fratelli e sorelle sono per lui solo quelli che lo seguono. Non meno profonde appaiono le antinomie, se si passa dalla vita privata a quella pubblica. Da una parte, si vogliono cittadini sottomessi a Cesare, al quale si deve ridare tutto quello che è di sua proprietà legittima; questa è la tesi dei Vangeli sinottici (Matteo, 22, 15-22 ecc.). Dall'altra, Giovanni precisa che il potere politico è diabolico: Satana è il vero "principe di questo mondo" e dovrà essere "cacciato fuori" con tutti i suoi luogotenenti terreni (12, 31). Si proibisce all'uomo di giudicare; ma si consacra allo stesso tempo l'esistenza dei tribunali tradizionali. Chiunque "va in collera col suo fratello sarà condannato in giudizio, da parte del Sinedrio" (Matteo, 5, 22). Per giudicare il prossimo non si deve avere né pagliuzza né trave nell'occhio (Matteo, 12, 2-3); ma è meglio non condannare nessuno, così non si sarà nemmeno condannati (Luca, 6, 37). A Gesù, come a tutti i fondatori di religioni, vengono attribuiti molti miracoli, che rispondono quasi sempre alle aspirazioni insoddisfatte dei poveri: moltiplicazione dei pani, pesca eccezionale, trasformazione dell'acqua in vino, guarigioni prodigiose. Ma dopo averli operati, a dimostrazione delle sue prerogative messianiche, egli raccomanda, "con energiche minacce", di non farlo sapere a nessuno (Marco, 3, 12). E' perfettamente inutile, in conclusione, cercare di risalire all'essenza del messaggio cristiano. Quello che si ricava dai Vangeli, e in misura non meno rilevante dagli altri scritti del Nuovo Testamento, è l'esistenza di una serie di gruppi religiosi, che vivono in ambienti socialmente e culturalmente differenziati. Non si può cercare una logica, là dove prevalgono risposte diverse a problemi che s'impongono in maniera diversa a ricchi e poveri, a ebrei e non ebrei, nell'attesa di un grande rivolgimento finale.
Storia del cristianesimo, Ambrogio Donini, 1977.