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Il nostro "corso di teologia"

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    00 17/01/2007 03:04
    Prima Lezione


    Lettere Paoline




    Le lettere paoline nascono e si sviluppano in genere per il bisogno di completare la predicazione orale che Paolo aveva tenuto nelle varie comunità cristiane e come mezzo per risolvere interrogativi e illuminare situazioni nuove determinatesi in esse. Lo stile è immediato. Nella nostra Bibbia si presentano con quest'ordine: Romani; 1 e 2 Corinzi; Galati; Efesini; Filippesi; Colossesi; 1 e 2 Tessalonicesi; 1 e 2 Timoteo; Tito; Filemone. Dal punto di vista storico l'ordine è diverso.
    Nel corso del secondo viaggio missionario, intorno al 50 d.C., Paolo fonda la Chiesa di Tessalonica. La sua permanenza nella città è brevissima, a causa dell'ostilità dei giudei, così che la formazione dei cristiani rimane incompleta. La 1 Tessalonicesi, scritta da Corinto qualche tempo dopo, richiama l'esperienza della evangelizzazione e vuole chiarire alcuni punti dottrinali - in particolare quelli connessi alla condizione dei morti al momento della "parusìa", cioè dell'avvento del Cristo glorioso - o di comportamento.
    La 2 Tessalonicesi è più difficile a datarsi e c'è chi giunge a dubitare che possa essere attribuita a Paolo. La lettera si propone di tranquillizzare i cristiani sulla venuta gloriosa del Signore, considerata da loro come imminente (cf. 2 Ts 2), e a spingerli a vivere nell'operosità. Contro la pigrizia di alcuni, Paolo arriva a dire: "Chi non vuol lavorare neppure mangi" (2 Ts 3,10).
    Le due lettere ai Corinzi sono scritte da Efeso negli anni 55-56 d.C. A Corinto Paolo è stato un anno e mezzo e vi ha fondato una comunità numerosa e vivace, composta in prevalenza di ex-pagani. Informato dei problemi che agitano la comunità, Paolo risponde con una prima lettera condannando le fazioni sorte tra i cristiani, legate ai vari predicatori (cf. 1 Cor 1,10-4,21); corregge vizi, tra cui un caso di incesto (cf. 1 Cor 5), e disordini, in specie nei comportamenti assembleari (cf. 1 Cor 7-14); chiarisce dubbi circa la risurrezione dei corpi (cf. 1 Cor 15).
    Dopo l'invio della prima lettera, scoppia a Corinto una crisi riguardo alla stessa autorità di Paolo. Nella seconda lettera a noi pervenuta, che sembra risultare dalla fusione di più testi inviati in tempi diversi, troviamo perciò una difesa della sua missione di apostolo attaccato da propagandisti giudeo-cristiani (cf. 2 Cor 10-13), la preparazione della sua prossima visita (cf. 2 Cor 1-7), indicazioni circa l'organizzazione di una colletta a favore delle comunità cristiane povere della Palestina come segno della comunione tra Chiese sorelle (cf. 2 Cor 8-9).
    La lettera ai Filippesi è inviata con molta probabilità da Efeso, sempre negli anni 55-56 d.C., in occasione di una prigionia di Paolo in quella città. I cristiani di Filippi avevano inviato all'apostolo aiuti materiali e questi li ringrazia e approfitta per informarli della sua situazione e del suo stato d'animo: "Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno" (Fil 1,21). Li esorta pure all'unità nell'umiltà, con l'inno all'umiliazione-glorificazione di Cristo (cf. Fil 2,5-11), e li mette in guardia contro agitatori giudeo-cristiani (cf. Fil 3,1-4,2).
    In questo stesso periodo Paolo scrive la lettera ai Galati, che si può collocare intorno al 57 d.C., inviata da Efeso o dalla Macedonia. L'attacco dei giudeo-cristiani ha sconvolto le comunità di Galazia e Paolo interviene alla sua maniera, con passione e veemenza. Con passione difende la sua autorità di apostolo raccontando la sua vocazione e missione (cf. Gal 1-2); con veemenza dimostra la sua tesi di fondo, che è anche il "suo" vangelo: si è salvi solo in forza dell'adesione incondizionata, cioè della fede in Cristo, e non per la pratica delle opere della legge giudaica (cf. Gal 3-4). Il cristiano è chiamato alla vera libertà, con la quale la fede è resa attiva e operante nella carità (cf. Gal 5-6).
    La più estesa tra le lettere paoline è quella ai Romani, che è anche la più importante per comprendere il pensiero di Paolo sulla giustificazione del peccatore ad opera di Dio, mediante la redenzione di Cristo e il dono dello Spirito. È questo anche lo scritto che approfondisce rapporti e differenze tra ebraismo e cristianesimo; nello stesso tempo chiarisce come ogni differenza religiosa, razziale, sessuale, ecc. sia superata nella fede in Cristo. La comunità di Roma non è stata fondata da Paolo, tuttavia egli pensa di recarvisi per completare la sua missione di apostolo dei pagani. Per questo si fa precedere da questa esposizione sistematica della sua dottrina sulla giustificazione e sulla vita in Cristo e nello Spirito, che ha già avuto occasione di esporre in modo più sintetico e polemico nella lettera ai Galati. La lettera ai Romani sembra inviata da Corinto, dove Paolo è per la colletta, verso il 58 d.C. Di lì si porterà a Gerusalemme, per poi passare appun to a Roma.
    Dalla prigionia romana (61-63 d.C.) Paolo invia un biglietto a Filemone, ricco proprietario che si è fatto cristiano, al quale rimanda un suo antico schiavo, Onèsimo, che egli ha convertito in prigionia. L'apostolo invita il padrone a trattarlo "come un fratello carissimo" e "come se stesso" (Fm 16-17). Seppure senza condannare direttamente l'istituto della schiavitù, Paolo ne cambia l'anima: lo schiavo non è più una cosa, è un fratello.
    Le lettere che seguono, più che opera di Paolo, negli studi più recenti vengono considerate testimonianza della fecondità della tradizione paolina: ispirate alla dottrina e alla prassi ecclesiale dell'apostolo, ne prolungano l'insegnamento nelle situazioni nuove, legate all'evolversi della istituzione ecclesiale, al sorgere di deviazioni dottrinali e pratiche, alle esigenze di consolidare il patrimonio di fede ricevuto.
    A Colossi la comunità è scossa da una dottrina d'origine ebraica e pagana. Contro teorie che esaltano il ruolo di misteriose potenze celesti, la lettera ai Colossesi propone una riflessione approfondita sulla persona e sul ruolo di Cristo, "capo" della Chiesa e dell'intero creato.
    La lettera agli Efesini riprende e amplifica il contenuto della lettera ai Colossesi, utilizzando temi presenti nelle lettere di cui siamo certi che sono state scritte da Paolo. Ne vien fuori una nuova sintesi del pensiero paolino, centrata su Cristo e sulla Chiesa e interessata a mostrare l'impegno dei cristiani all'interno della comunità ecclesiale, della famiglia e della società.
    1 e 2 Timoteo e Tito vengono chiamate "lettere pastorali", in quanto hanno di mira il governo della comunità ecclesiale. Queste lettere riflettono una situazione ecclesiale più sviluppata, che le caratterizza pertanto con ancor più evidenza come opera della tradizione paolina. Esse si preoccupano di dare direttive sulla organizzazione delle comunità locali e sulla lotta contro i falsi maestri che sconvolgono la loro fede. Da ciò l'impegno a "custodire" il deposito della fede, la sana dottrina, e a formare degni ministri. L'invio di queste lettere a Tito e a Timoteo, discepoli diretti e preziosi di Paolo, intende dare prestigio all'insegnamento che propongono. In 2 Tm 4,6-8 è tracciato, in modo personalizzato e commovente, il "testamento spirituale" dell'apostolo.

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    00 15/02/2007 23:45

    STORIA DELLA SALVEZZA : MEDITAZIONI



    PREMESSA


    Per sapere che cosa significa essere salvati immaginiamo di essere su una barca in balia delle onde. La tempesta sta per sommergerci, vediamo la morte in faccia e ci prende la disperazione.

    Improvvisamente, come in un sogno, appare un rimorchiatore della Guardia Costiera. Dopo un po’, avvolti in una coperta calda con una tazza di tè bollente in mano, pian piano ci rilassiamo e cominciamo a godere un momento di benessere: siamo salvi.

    La nostra vita quotidiana, non è così diversa da un viaggio in mare. Trascorriamo ogni giorno navigando a vista, cercando di evitare scogli, secche, contenti se splende il sole, un po’ meno quando piove. Ma anche la nostra vita può essere scossa da una tempesta, da un evento che rischia di annientarci.
    È in quei momenti che si rivela la nostra fragilità, il nostro limite: una malattia, un dispiacere sentimentale, un rovescio finanziario, uno sgarbo subito … Ognuno di noi, nella propria esistenza, ha incontrato almeno uno di questi scogli. Ma è proprio in queste situazioni che possiamo sperimentare la presenza provvidente di Dio che ci viene incontro per toglierci da questa situazione drammatica: per salvarci, per farci sentire la Sua presenza e portare il nostro intimo ad una situazione di benessere spirituale che ci permetterà di superare i marosi della vita.

    C’è però un problema di fondo. Dio ci viene incontro, mi viene incontro nella misura in cui io lo conosco. Se non lo conosco o lo conosco solo superficialmente, come posso pensare di relazionarmi in modo significativo con Lui? Dio viene spesso vissuto come una entità lontana e assente, spesso muta nei fatti umani.

    Ma è vero che Dio è muto? C’è mai stato qualcuno con cui ha parlato a tu per tu?

    La risposta è “sì”. Dio ci parla e ha iniziato a farlo un giorno ben preciso nella storia dell’umanità iniziando da un uomo che, accogliendo quella parola, ha dato il via a una processo inarrestabile che avrebbe cambiato il corso dell’umanità: l’uomo si chiamava Abramo: con lui inizia la storia della salvezza.

    Queste meditazioni sono la sintesi di un ciclo di incontri tenuti presso il Centro di Spiritualità San Domenico di Taggia e fanno parte di un cammino di crescita nell’esperienza cristiana.

    Iniziare una lettura-riflessione sulla storia della salvezza richiede un atteggiamento particolare: avere già in partenza la fiducia che Dio ha parlato e può continuare a parlare ad ogni persona che cerca con sincerità e ha un desiderio puro di comprendere, capire. Il nostro filo rosso, il conduttore di questo cammino, è la Bibbia. Perché è attraverso la Bibbia che si può conoscere ciò che Dio rivela all’uomo. Certo non è una partenza sempre facile per chi è istintivamente abituato a vedere tutto in chiave critica. Possiamo immaginare la prima classica obiezione:

    “Come possiamo essere sicuri che la Bibbia contiene veramente la Parola di Dio?”

    Queste meditazioni non possono e non vogliono affrontare questo e altri problemi simili. Pensatori straordinari, non solo uomini di chiesa, hanno da secoli affrontato, dibattuto e risolto tutte le questioni che la “ragione” incontra nel momento in cui affronta criticamente il tema della Rivelazione e della sua trasmissione.

    Rimandiamo il lettore interessato a questi studi specifici.
    Noi al contrario ci poniamo sul versante della fede o comunque dell’assenza di pregiudizi.
    Il cammino di conoscenza che proponiamo pertanto richiede solo due condizioni: la disponibilità all’ascolto e l’umiltà di valutare attentamente e serenamente quanto esposto.
    Non possiamo tuttavia esimerci dal chiarire alcuni concetti basilari.


    SPECIFICITÀ E UNICITÀ
    DELLA BIBBIA



    Per prima cosa è opportuno sgomberare il campo da fraintendimenti e luoghi comuni. La Bibbia non è un trattato di teologia né un libro scolastico; non è neppure un catechismo o un romanzo epico o un romanzo religioso. Non è un trattato dell’uomo su Dio. Non è una raccolta di pensieri e sentimenti su Dio. A dire il vero non è neppure un libro.

    Che cos’è allora la Bibbia? La risposta è semplice e complessa al tempo stesso. È semplice se la viviamo con fede. Complessa se la affrontiamo con atteggiamento critico e prevenuto. Perché la Bibbia contiene una serie di esperienze di fede vissute e tramandate nei secoli per far conoscere ciò che Dio rivela di sé all’uomo. Ribadiamo: la Bibbia trasmette delle esperienze che qualcuno ha vissuto nella carne. Una esperienza-conoscenza di Dio che si dà nella storia in modo progressivo, che cresce nella vicenda storica del singolo e delle generazioni successive e che si è sviluppata nell’arco di circa millecinquecento anni. Essendo un’esperienza, la narrazione biblica ha conservato anche i caratteri culturali dell’epoca in cui è avvenuto il fatto e la mentalità dei protagonisti, cose che, ovviamente, con il passare dei secoli sono profondamente cambiate.

    La Parola di Dio non è quindi pura e semplice cronaca di un evento ma il racconto di un’esperienza qualificata che diventa paradigma di riferimento per gli ascoltatori, o meglio, per chi la accoglie, appunto, come Rivelazione.

    Risulta chiaro allora il motivo per cui nella Bibbia ci siano racconti apparentemente contradditori e in conflitto con il modo di pensare di noi contemporanei: questa è in realtà una garanzia per noi, perché i narratori non si sono mai preoccupati di dare allo scritto uno stile unitario, estetico, bensì hanno voluto registrare il passaggio della storia in tutti i suoi aspetti, come dicevamo, anche i più contradditori, alla luce della presenza di Dio.


    LA STORIA DELLA SALVEZZA

    Dal nostro punto di vista la salvezza è l’esperienza salvifica che l’uomo ha vissuto attraverso l’incontro con Gesù Cristo. La narrazione evangelica presenta numerosi racconti in cui qualcuno, nella sofferenza, come il cieco nato o la vedova di Nain che ha visto resuscitare il figlio, ha sperimentato attraverso l’incontro con Gesù l’esperienza straordinaria della guarigione miracolosa.

    Tutta la Bibbia è densa di episodi in cui vediamo l’irrompere di Dio nella vita degli uomini per condurli alla piena realizzazione di sé. E questo è il punto nodale: Dio interviene nella storia del singolo e della collettività per portare il singolo e quindi la collettività alla piena realizzazione di sé. Per questo nella Bibbia non ci sono documenti, ma esperienze umane, concrete, fisiche.

    Da quando Dio ha parlato ad Abramo è iniziata una progressione continua della Sua rivelazione nei nostri confronti. Cercheremo di conoscere le varie tappe di questo processo perché è fondamentale capire come e perché Lui abbia agito così.

    C’è una storia che dobbiamo conoscere, e questa storia contiene il fatto, la comprensione del fatto e la sua trasmissione. In questo senso la Bibbia diventa normativa perché contiene in sé anche la corretta valutazione di un fatto, ci dice come questo debba essere interpretato e che cosa può significare per noi. La Scrittura ci dice, per esempio, che Abramo ha incontrato Dio, e ci racconta come questo è successo. Parla di un’esperienza certa, una verità vissuta, che travalica il tempo, lo spazio, la storia. È, quindi, un’esperienza vissuta che diventa per noi normativa, canonica. Attraverso l’esperienza di Abramo noi vediamo come Dio può interagire con noi, possiamo avere indicazioni preziose per la nostra vita spirituale e fisica.

    STORIA E METASTORIA
    IL TEMPO DELL’UOMO
    E IL TEMPO DI DIO


    Un altro concetto importante che dobbiamo prendere in esame è il rapporto tra storia e metastoria.

    Nella storia della salvezza si incontrano due persone: Dio e l’uomo.

    Dal punto di vista dell’uomo la storia è ciò che egli sperimenta in questo mondo durante la sua vita terrena, scandita da quello che i greci chiamavano il kronos, il tempo, cioè l’alternanza dei cicli cosmici. Ma se guardiamo il tempo dal punto di vista di Dio passiamo ad un altro piano perché Dio è l’Eterno, colui che è al di là del tempo e dello spazio e guida la storia da un punto che è oltre la storia. Dio, che vive nell’eterno, scandisce questa storia temporale attraverso il kairos, il tempo di Dio a noi inaccessibile.

    Ne abbiamo un richiamo nel Vangelo secondo Giovanni quando Gesù dice: “Abramo vide il mio giorno e se ne rallegrò”. E ancora in Isaia che vide la Passione di Gesù.

    Il kairos è il piano provvidenziale che Dio ha progettato dall’eternità, è l’eternità che diventa storia. È un tempo che abbraccia tutta la creazione, dall’uomo all’escathon, la fine della storia.

    Il tempo di Dio si interseca con la nostra storia perché, a differenza di noi, Egli sa quando è il momento di intervenire e si inserisce nel nostro flusso vitale.

    RAPPORTO TRA STORIA SACRA E STORIA PROFANA


    La Scrittura ci dice che c’è un solo Dio che è Signore di tutta la storia e che vuole salvare tutti gli uomini. C’è una sola storia in Dio, ed è la Storia della Salvezza.

    Quando Dio parla ad Abramo, non si rivolge solo al patriarca ma a tutta l’umanità.

    La Storia della salvezza può essere capita bene solo se è messa in relazione con la storia profana.

    Ma è importante, a questo punto, capire cos’è la salvezza.

    La salvezza, che deriva dal latino salus, sinteticamente potrebbe essere definita salute dell’anima. Quando non siamo amici di Dio, non siamo in buona salute, siamo malati. Ebbene, Dio vuole darci la salute dell’anima, il benessere spirituale. È il Suo dono per ognuno di noi. E la salute dell’anima è la piena realizzazione di sé.

    Quando diciamo che Dio vuole salvarci, significa che Dio vuole darci la piena realizzazione di noi stessi. Questa realizzazione è possibile perché Dio ci vuole portare gradualmente al pieno incontro con Lui. La salvezza è quindi la piena realizzazione di sé, che si può attuare nella nostra vita solo in proporzione alla nostra comunione con Dio. Per realizzare questo stato Dio ci dona lo spunto iniziale di un cammino a tappe che si può sviluppare solo attraverso la nostra collaborazione nell’insieme delle vicende storiche che noi viviamo nel nostro quotidiano.

    La Bibbia è il nostro “manuale” di riferimento e la storia raccontata nella Scrittura ci deve servire a capire che cosa dobbiamo fare per realizzare la nostra storia.

    Perché ognuno di noi, ogni cristiano, è chiamato personalmente a scrivere la propria storia della salvezza. È una storia scritta con Dio Padre in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo. Per iniziare questa storia Dio è venuto tra noi, si è incarnato, ci ha fatto il dono della Sua vita, ha cancellato i nostri debiti e ci invita a incamminarci dietro a lui.

    Per questo Dio attende una nostra risposta, attende che concretamente ognuno di noi decida di camminare con Lui. È un cammino a tappe che comporta anche delle prove da superare, sono le difficoltà di ogni vita. Difficoltà che possono essere vissute individualmente, Dio non si impone. Ma se vissute con lui attraverso una vita teologale fatta di Fede, Speranza e Carità, queste prove non solo saranno superate ma diventeranno occasione di salvezza, anzi, di benessere.

    Nota molto opportunamente il biblista Ravasi che la Bibbia, in realtà, non finisce con l’ultimo versetto dell’Apocalisse: sarà terminata solo quando ognuno di noi aggiungerà la sua storia. La Bibbia ci aiuta a scrivere la nostra storia.
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    00 19/02/2007 00:30
    ATTI DEGLI APOSTOLI - ANALISI DEL TESTO
    Capitolo 1 - Introduzione al libro



    Il primo capitolo può essere definito come una introduzione a tutto il libro degli Atti perché serve a raccordare l’evento della Resurrezione e Ascensione al Cielo di Gesù, e la vita della Chiesa che da quel momento non godrà più della presenza fisica del Risorto direttamente, ma mediata dallo Spirito santo.




    Struttura


    Come sempre gli esegeti adottano criteri diversi per suddividere il testo. Proponiamo quello che ci sembra più convincente e utile alla comprensione dell’insegnamento spirituale che l’autore vuole trasmettere.

    Possiamo individuare due parti ben definite:

    1,1-14 È il resoconto sintetico, e quindi teologico, dell’esperienza degli apostoli con Gesù Risorto

    1,15-26 Descrive ciò che gli apostoli fecero nel breve periodo che intercorse tra l’ascensione e la discesa dello Spirito Santo




    Commento ai vv 1,1-14


    I primi due versetti e il terzo sono il proemio del libro. L’autore, che la tradizione identifica in San Luca, afferma chiaramente di aver scritto un primo libro che narra i fatti e gli insegnamenti di Gesù fino al giorno in cui e stato assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli.

    Il libro, così come già il Vangelo, non è indirizzato a tutta la Chiesa ma ad una persona precisa: un certo Teofilo. Che cosa vuole dirci Luca con questo espediente letterario?

    Può darsi che Teofilo sia anche un personaggio concreto, un discepolo di San Luca. Ma anche se così fosse egli viene ad assumere il significato simbolico dell’interlocutore ideale.

    Il Vangelo e gli Atti non sono rivolti a tutti in modo indifferenziato ma agli amici di Dio.

    Per accogliere il vangelo bisogna essere innamorati di Dio. In caso contrario questo resta un libro chiuso e non adatto a chi ricerca speculazioni intellettuali. Addirittura nel vangelo si afferma che il Libro è un supporto, un aiuto a una fede che già esiste e che è stata ricevuta oralmente.

    Forse San luca vuole ricordare alla Chiesa e agli uomini che la fede è una trasmissione esistenziale

    La chiesa è un popolo in cammino che trasmette un’esperienza religiosa, un incontro con la salvezza che si è resa disponibile e concreta nella storia. Il libro è uno strumento di questa comunicazione che suppone un rapporto personale e storico con coloro che hanno ricevuto la salvezza da Gesù.

    … ciò che Gesù ha operato e insegnato…

    Questa affermazione mette in luce il fatto che Gesù non ha lasciato scritti ma ha operato e insegnato; e c’è qualcuno, la comunità dei credenti, la Chiesa, che è depositaria di tutto ciò.

    … dato disposizioni agli apostoli

    Oltre agli insegnamenti pubblici e universali, Gesù ha lasciato alcune disposizioni (istruzioni, incarico) ad alcuni uomini particolari: gli apostoli.

    Essi infatti erano stati scelti dal Maestro tra i suoi discepoli, per mezzo dello Spirito Santo, per assolvere un compito ben preciso.



    fu assunto…(in cielo).



    La storia di Gesù non è finita tragicamente con la sua morte fisica. Gesù non è morto: è stato assunto in Cielo, è passato da questo mondo, da questa dimensione materiale ad un’altra dimensione spirituale: è passato da un regno ad un altro.

    Capiamo così che la risurrezione non è il semplice ritorno in vita ma è la condizione per entrare nell’altro regno. È una nuova nascita, la vera nascita.



    Ma qualcuno dirà: «Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?». Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. Non ogni carne è la medesima carne; altra è la carne di uomini e altra quella di animali; altra quella di uccelli e altra quella di pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: ogni stella infatti differisce da un'altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale.

    Se c'è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l'uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste. Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità.

    Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità.

    Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura:

    La morte è stata ingoiata per la vittoria.

    Dov'è, o morte, la tua vittoria?

    Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?

    Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dá la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!



    (1 Cor 15, 35-57)


    Anche questo versetto è di grande importanza per farci capire il ruolo degli apostoli e della Chiesa. È un versetto che serve a raccordare quanto affermato nel vangelo e quanto si aggiungerà al mistero della morte-risurrezione di Gesù. Si ribadisce che Gesù si è mostrato vivo dopo la sua passione, cioè è risorto, ha subito un esito diverso da quello degli altri uomini che muoiono. Di questo gli apostoli sono certi perché hanno avuto numerose prove in tal senso. Si esplicita anche che Gesù è apparso loro per quaranta giorni e si evidenzia, infine, che Gesù ha dato ai discepoli un insegnamento sulle cose che riguardano il regno di Dio.

    Perché questo insegnamento dopo la risurrezione? In che modo deve essere interpretato questo fatto? Quale il contenuto?



    Intanto dobbiamo evidenziare che c’è stato un insegnamento pubblico proclamato sulle piazze e uno privato donato agli apostoli. Uno prima della morte e uno dopo la morte.

    Questo è un fatto.

    Non possiamo sapere con certezza che tutto sia stato scritto nei vangeli e negli atti, trattandosi appunto di insegnamento riservato. Anzi negli Atti si dice che non tutto è stato riportato.

    La stessa cosa dice San Giovanni a conclusione del suo vangelo. Ecco allora che la Chiesa è depositaria di una esperienza e di un insegnamento che non sono riducibili al solo rapporto con la Sacra Scrittura ma che sicuramente sono depositati nella sua stessa vita. La Chiesa conosce qualcosa del Regno di Dio che il mondo non conosce: la conoscenza di tutto quello che Gesù ha detto e fatto è possibile solo per la sua mediazione.

    La Chiesa non nasce dalla lettura della Bibbia ma dall’incontro condivisione di vita con Gesù, ed è la Chiesa che ha prodotto il Nuovo Testamento e non viceversa.



    Il periodo di 40 giorni delle apparizioni solleva un problema perché nel vangelo sembra di poter leggere che l’ascensione sia avvenuta, molto prima.

    Gli esegeti hanno tentato di spiegare in vario modo questa divergenza. Sembra però che non si possa dare una risposta assoluta.

    Si può leggere in chiave simbolica che “40” è il numero che riguarda il tempo della formazione.

    Oppure, più semplicemente e realisticamente, si deve affermare che il vangelo non fornisce il tempo esatto ma solo una indicazione generica. Luca è l’autore e risulta difficile pensare che possa contraddirsi. Se consideriamo la morte Anania e Saffira, al cap. 5, ci rendiamo conto di questa apparente contraddizione.


    Vv 4-5

    I versetti successivi ci informano su una di queste disposizioni-istruzioni: il dono dello Spirito Santo. I discepoli sono invitati a non intraprendere nessuna iniziativa apostolica prima di aver ricevuto in dono lo Spirito Santo. Questo dono viene dal Padre ed è donato da Gesù, conferito attraverso il Suo battesimo. E si chiama battesimo perché purifica e rigenera lo spirito dell’uomo; lo fa rinascere per mezzo della infusione dello Spirito Santo, dell’acqua spirituale e del fuoco invisibile. Il battesimo di Giovanni era un segno simbolico di purificazione, era invocazione di perdono e impegno personale a rivedere il proprio agire; il battesimo dello Spirito è immersione nello Spirito, la rinascita spirituale operata da Gesù che inaugura il Regno di Dio e il tempo della Chiesa. Senza lo Spirito santo sono impensabili vita cristiana e realtà ecclesiale. La Chiesa sarebbe solo una semplice associazione umana non è un corpo spirituale come in realtà è.


    Vv 6-8

    Una seconda cosa che ci viene detta, in rapporto a queste istruzioni, è che esse non sono lo svelamento di tutti i misteri di Dio. Infatti, ai discepoli che lo interrogano riguardo alla fine dei tempi, Gesù risponde che la Chiesa sa e ha tutto quello che le è necessario per vivere in questo mondo nella ricerca e nella realizzazione del Regno. I discepoli sono invitati a non perdere tempo nel cercare ciò che non sarà rivelato, ma ad agire per diffondere il Vangelo in tutto il mondo: (Gerusalemme, Giudea, Samaria, tutto il mondo).L’unica cosa necessaria da sapere è che essi avranno la forza di Dio, la forza dello Spirito con cui potranno assolvere il mandato affidato loro.


    Vv 9-11

    Come fa notare il Martini, questi versetti parlano dell’ascensione di Gesù ma considerata dalla prospettiva psicologico storica dei discepoli. Essi sono testimoni diretti, hanno visto con i propri occhi Gesù che entrava nel Cielo. Poiché il Cielo di cui si parla non è l’atmosfera né il firmamento, dobbiamo dedurre che i Discepoli hanno visto Gesù entrare e scomparire in questa dimensione in stato di coscienza, di veglia. Non si é trattato di una esperienza estatica, nel senso della perdita del contatto con la realtà: (essi) stavano con lo sguardo fisso…. Non c’è discontinuità tra l’esperienza fisica e quella spirituale: l’una e l’altra si vedono contemporaneamente. È come se gli occhi umani acquisissero la capacità di vedere ai raggi X lo scheletro sotto la pelle.

    Mentre ancora guardano, contemplano questa realtà celeste, due uomini in bianche vesti invitano i discepoli a lasciare Gesù e questa esperienza senza rimpianti, delusioni o tristezze. Gesù è andato ma ritornerà. I discepoli ora dovranno vivere la loro vita terrena fino in fondo, facendo a meno della presenza fisica si Gesù. Ma avranno la forza dello Spirito santo. Dovranno fare bene attenzione a non vivere in funzione della sola dimensione celeste senza nostalgie.

    Il tempo storico è il tempo dell’impegno fattivo e concreto. Il tempo storico è il tutto prezioso che ci è donato per portare la vita. Ma è un tempo intermedio in cui la storia dovrà essere vissuta nella prospettiva del ritorno di Gesù il quale ha lasciato loro un incarico: quello della evangelizzazione (Cfr. Parabola del Re che parte).

    La separazione tra Gesù e la Chiesa si giustifica solamente a partire da questo compito storico che la Chiesa deve assolvere. Il tempo della comunione assoluta e totale si realizzerà alla fine della storia con il ritorno di Cristo.


    Vv 12-13

    I discepoli accolgono l’invito e ritornano a Gerusalemme e san Luca ci informa che abitavano assieme in attesa del compiersi della promessa. Il piano superiore è probabilmente la casa a cui si fa riferimento anche nel vangelo come il luogo in cui Gesù consumò l’ultima cena con i suoi.

    Ancora una volta viene fornito l’elenco dei discepoli che hanno ricevuto da Gesù il mandato di predicare in suo nome e per suo conto: questa è la Chiesa cattolica.


    Vs 14

    Il versetto 14 è molto importante perché ci ricorda che questi apostoli non si auto-interpretavano come un gruppo elitario staccato e avulso dagli altri. Anzi, erano un cuor solo con tutti gli altri discepoli, e in modo particolare si fa riferimento alle donne e a Maria.

    Ora poiché e impensabile che queste persone vivessero tutte in una stanza, si deve logicamente pensare che la stanza era il luogo di riunione dei discepoli. La prima comunità si riuniva in questo locale che quindi assume il ruolo di prima chiesa. Essi si riunivano per pregare insieme e per condividere nella speranza i momenti dell’attesa. Tra questi discepoli regnava un’atmosfera di amore e di condivisione: (vivevano) con un cuor solo, erano una cosa sola.

    Fede, speranza, carità e preghiera caratterizzavano dunque la vita e l’attesa della prima comunità ancora timida e impaurita.

    In questa fase i discepoli non hanno preso nessuna iniziativa pastorale ma si sono dedicati con impegno alla vita di amore fraterno e di preghiera.




    Conclusioni




    San Luca ricorda che Gesù ha detto e fatto, non ha scritto. Detti e fatti sono intrinsecamente legati.



    Gesù ha dichiarato che è necessario essere battezzati nello Spirito: senza battesimo non si è suoi discepoli in modo pieno e perfetto, non ci si può limitare a condividere i suoi insegnamenti.

    Il senso degli apostoli in questo mondo è legato alla missione: bisogna essere suoi testimoni.



    La Chiesa dunque nasce non per iniziativa privata di alcuni discepoli, ma per mandato esplicito di Gesù (pensiamo a tutte le pseudo Chiese che nascono per iniziativa di qualche singolo esaltato). Così come si deve credere che Gesù è il Figlio di Dio perché lo ha detto Lui, così si deve credere che la Chiesa è stata fondata da Lui perché lo dicono gli apostoli.

    La fede, in ultima analisi, trova il suo fondamento solo nella fiducia che si accorda alla tradizione vivente. Ecco perché è impossibile dire Cristo si, la Chiesa no.

    La Chiesa non rappresenta una rottura rispetto all’insegnamento di Gesù ma ne è la depositaria.

    Tra il tempo della Chiesa e il tempo di Gesù non c’è discontinuità perché Gesù è stato sempre presente con gli apostoli anche dopo la morte.

    È la Chiesa che ha prodotto il Nuovo Testamento. Ciò significa che si diventa Chiesa non limitandosi ad un rapporto concettuale con la Scrittura, ma incontrando nella propria vita Gesù di Nazareth. Gesù ha lasciato la Chiesa e si rende presente mediante il dono del suo Spirito; si tratta di una separazione temporanea perché alla fine dei tempi ci sarà un nuovo incontro.



    DOMANDE PER LA RIFLESSIONE PERSONALE




    1) Che rapporto vivo con la Chiesa? La percepisco come mia madre e famiglia spirituale?

    2) Sono cosciente che è necessario conoscere ciò che Gesù ha detto e fatto e che è necessario ricevere il suo Spirito?

    3) Vivo la mia vita in attesa dell’incontro con il Risorto?




    Commento ai versetti 1,15-26



    Il secondo episodio del primo capitolo è letterariamente ben delimitato. Riporta la prima iniziativa di Pietro e della comunità dopo l’ascensione di Gesù.

    In un certo senso potrebbe essere considerato come l’inizio della storia della Chiesa narrata dagli Atti. Ma alcuni esegeti preferiscono considerarlo ancora introduttivo rispetto all’evento della Pentecoste considerata come la nascita vera e propria.


    Vv 15-22

    Il versetto 15 ci informa sulla composizione della comunità di Gerusalemme.

    C’era un gruppo particolare: gli undici apostoli che avevano ricevuto le istruzioni da Gesù dopo la risurrezione; c’erano con loro alcune donne che assieme a Maria vivevano e collaboravano in modo particolare con gli apostoli; poi c’era il resto della comunità, i fratelli.

    L’insieme comprendeva 120 discepoli. E’ importante ricordare che la Bibbia non indica mai numeri precisi se non c’è una particolare necessità.

    Pietro prende la parola e propone di integrare il collegio degli apostoli con un altro discepolo, facendo però precedere questo momento da una interpretazione della morte di Giuda.

    Tutto questo è molto importante per la nostra comprensione del mistero della Chiesa, perché:

    1. Pietro qui è presentato come il capo riconosciuto da tutta la comunità.

    2. Interpreta in modo autorevole, alla luce della Scrittura il destino di Giuda che è stato, a sua insaputa, uno strumento involontario del piano di Dio. In lui si sono adempiute le profezie trasmesse al popolo per mezzo dello Spirito Santo. La descrizione della morte (vs 16-20) è un genere letterario mutuato dall’Antico Testamento per indicare la fine dell’empio.

    3. Pietro non viene contestato né nasce alcun dibattito

    4. Pietro propone la sostituzione di Giuda affermando la necessità della ricomposizione del numero dodici.



    C’è un legame particolare tra la missione-guida della Chiesa e il numero 12 che noi abbiamo perso. Gli esoteristi e gli gnostici hanno delle loro interpretazioni che a volte sono anche molto suggestive. Noi non possiamo accoglierle e dobbiamo limitarci a prendere atto del dato: la necessità della reintegrazione del numero 12 e la funzione di questo gruppo: essere un testimone diretto della vita di Gesù, della sua esperienza storica.

    Comprendiamo così in modo netto che la Chiesa non propone nulla di proprio come a volte si sente dire e si è detto soprattutto in ambito protestante. L’insegnamento della Chiesa, nella sua essenza, non è una ideologia religiosa, non è un pensiero costruito da alcuni uomini illuminati. La chiesa è la portatrice, la cinghia di trasmissione, della verità storica di Gesù.

    TESTIMONIARE significa certificare la verità su Gesù perché si è stati testimoni diretti.

    Il candidato deve aver visto tutto quello che Gesù ha fatto e ha detto durante tutto l’arco della sua vicenda terrena. Si chiarisce che la vicenda terrena di Gesù inizia con il battesimo di Giovanni e termina con la risurrezione. È la cornice del vangelo che poi sarà scritta e trasmessa in quattro forme diverse.


    Vv 23-24

    Vengono proposti due candidati. E ancora una volta, indirettamente, viene ribadito il concetto del mandato speciale dei dodici. Molti sono stati testimoni diretti della missione di Gesù: solo dodici hanno l’incarico di essere i responsabili della trasmissione. Poiché la scelta è opera di Dio, nessuno se ne può arrogare il diritto; anche se da un punto di vista umano si è in possesso di tutte le condizioni necessarie alla scelta, la decisione deve essere demandata a Lui solo.

    (Questo rito è conservato immutato anche per le ordinazioni sacerdotali. Il responsabile della formazione presenta il candidato e il vescovo lo elegge).

    In questo momento per noi è importante riflettere sulla procedura adottata dalla comunità:

    * prima di tutto la preghiera, una preghiera fiduciosa e consapevole del fatto che Dio sa tutto e interviene nella storia: questa è la fede.
    * gettarono le sorti : non si affidarono ad alcun criterio umano.



    Viene spontaneo chiedersi:



    Quanto di questa fede/certezza è rimasta nella nostra fede ecclesiale?

    Questa procedura è stata mai applicata dopo quella volta?

    Quale istruzione deve lasciare a noi questo fatto?




    Un problema è chiaro: come può Dio guidare la sua Chiesa per i sentieri che noi non conosciamo se non si supera il controllo della ragione? L’essere morale, l’integrità morale, la santità e la conoscenza intellettuale non sono sufficienti e in questo è affermato chiaramente.

    La comunità conosce questi due uomini che umanamente hanno tutte le caratteristiche necessarie, Tuttavia, la competenza dei candidati, rimane da sola insufficiente per assolvere il mandato apostolico. Per condurre il piano di Dio ci vuole qualcosa di eccedente rispetto la perfezione umana.


    Conclusioni



    I discepoli del Signore vivono l’attesa della realizzazione delle sue promesse in un clima di vita fraterna e di preghiera fiduciosa.

    Fanno quello che umanamente è necessario fare, ma a affidano a Dio la conduzione della comunità per quanto riguarda il realizzarsi del Suo piano.



    DOMANDE PER LA RIFLESSIONE PERSONALE



    In che modo cerco di conoscere la volontà di Dio e affidarmi a Lui?

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    00 21/02/2007 00:22
    ATTI DEGLI APOSTOLI - ANALISI DEL TESTO (2)
    Commento al capitolo 2

    La prima parte del secondo capitolo racconta il fatto più importante della storia della Chiesa: la sua nascita.

    Noi lo chiamiamo “Pentecoste” ma sarebbe più corretto ricordare questo evento come la discesa dello Spirito Santo.

    La narrazione dell’episodio è articolata in due momenti:

    1-13 La discesa dello Spirito Santo

    14-41 Il discorso di Pietro

    Commento ai versetti 1-13: la discesa dello Spirito

    Vs 1: il giorno della Pentecoste

    La Pentecoste è prima di tutto una festa ebraica. È la seconda festa annuale celebrata dopo la Pasqua detta anche festa delle primizie o della mietitura, o anche delle settimane.

    Pentecoste è un termine greco che significa cinquantesimo giorno. Dovrebbe coincidere con la fine della mietitura del grano; tempo di raccolta iniziato con la mietitura dell’orzo il giorno dopo Pasqua.

    Al tempo di Gesù la data di pentecoste veniva conteggiata seguendo tre diverse tradizioni:

    per i sadducei: 50 giorni a partire da Pasqua

    per i farisei: 50 giorni a partire dal sabato dopo la Pasqua

    per gli esseni: 50 giorni a partire dal sabato dopo l’ottava di Pasqua. In questo modo si raggiungeva il terzo mese dall’uscita dall’Egitto, il tempo in cui Dio promulgò la legge al Sinai (Es. 19,1).

    In rapporto con la storia della salvezza, la festa di Pentecoste è interpretata come festa dell’alleanza, del Sinai in particolare, ma più in generale di tutte le alleanze (Cf. Noè, Abramo..).

    Per gli Esseni, che si definivano il popolo della nuova alleanza, era la festa più importante e ricordava appunto il rinnovamento della nuova alleanza.

    Nel giudaismo ortodosso, la festa non ebbe mai grande importanza. “Solo dopo il II secolo i Rabbini accettarono che la festa ricordasse la promulgazione della legge al Sinai” (de Vaux, le istituzioni dell’antico testamento, p.475).

    Per alcuni esegeti, in particolare, riportiamo il pensiero di padre de Vaux:

    “La festa cristiana della Pentecoste ebbe, dal suo inizio, un altro significato: secondo Atti 2, essa fu segnata dall’effusione dello Spirito e dalla vocazione della nuova Chiesa all’universalismo; la sua coincidenza di data con una festa giudaica manifesta che l’antico sistema cultuale è scaduto e che le promesse, di cui esso era figura, sono realizzate. Ma non vi è relazione fra Pentecoste cristiana e feste delle Settimane, quale fu intesa dalla comunità di Qumran o più tardi dal giudaismo ortodosso: non vi è infatti nel racconto degli Atti, alcun accenno all’Alleanza del Sinai né alla nuova Alleanza di cui Cristo è il mediatore”. ( cf. idem)

    Dal punto di vista spirituale l’interpretazione della comunità di Qumran è quella che più si avvicina alla realtà dei fatti.

    … essi stavano riuniti nello stesso luogo…

    Anche se è difficile affermare con assoluta certezza se si tratta solo dei 12 apostoli o dei 120 discepoli, da molti indizi si può ritenere che S. Luca con essi intenda proprio gli apostoli. Lo capiamo soprattutto se pensiamo che il soggetto non è cambiato e che il luogo indica il posto dove i dodici si riunivano insieme a Maria.

    La tradizione iconografica comunque ha rappresentato la Pentecoste in questo modo.
    Vv 2-4: riferiscono l’accadere dell’evento descrivendone gli effetti sensibili e percepibili da tutti.

    Vs 2

    …un rumore di vento impetuoso avvolge la casa: vento è un termine che indica lo Spirito, ma richiama anche le teofanie del Sinai.

    Vs 3

    lingue di fuoco … il fuoco è il battesimo promesso da Giovanni …

    Le lingue rappresentano la capacità donata dallo Spirito di testimoniare, come aveva predetto Gesù (At.1,8).

    Vs 4

    il fuoco, le lingue e il vento sono i segni sensibili dello Spirito Santo che si posa sugli apostoli e dona loro una capacità operativa prima non posseduta.

    Le lingue si dividono, si staccano dal centro e si posano sui singoli: l’unico Spirito si posa in maniera personale e individuale su tutti.

    Al di là del dettaglio dei singoli elementi descrittivi è importante considerare l’insieme:

    lo Spirito Santo, discendendo, produce un effetto sensibile, percepibile, verificabile, sia esteriormente (tutti registrano questo irrompere) che interiormente (conferisce una capacità nuova, discontinua, non riconducibile alle proprie possibilità naturali).
    Vs 5-12: nei versetti successivi si descrive la reazione del popolo a questo fatto

    A Gerusalemme, attraverso i giudei devoti, è rappresentato tutto il mondo. Questi devoti, o pii israeliti, non solo sentono il frastuono del vento, ma odono anche parlare nel proprio idioma.

    Sono spettatori e testimoni oculari di questo evento straordinario ma non sono in grado capirne il significato. In un certo qual senso sono come degli estranei.

    Alcuni si limitano a non capire, a rimanere perplessi, in attesa di comprensione e di chiarimenti.

    Altri al contrario ne danno una spiegazione materialistica: sono ubriachi.

    Un grande insegnamento ci viene trasmesso: non basta essere contemporanei e protagonisti di un fatto. L’esperienza sensibile non è mai auto-esplicativa ma rimanda continuamente al mondo intelligibile. Senza la luce dell’intelletto o della rivelazione il mondo e la storia sono muti.
    Versetti 14-41: il discorso di Pietro

    Alla domanda del popolo sul significato dell’evento segue la spiegazione di Pietro.

    È un discorso molto importante perché è il primo annuncio ufficiale della Chiesa nascente.

    Fino a quel momento in rapporto alla nuova alleanza aveva parlato solo Gesù, preceduto da Giovanni Battista. Ora è la Chiesa che parla e proclama la verità su Gesù e su Dio.

    Non è solamente una semplice predica ma è il nucleo portante della evangelizzazione.

    Il canovaccio di ogni autentico programma pastorale: in termini tecnici si chiama Kerigma.

    Il discorso di Pietro è articolato in 3 momenti:
    Vs 14-21

    La corretta interpretazione di ciò che sta accadendo: si stanno compiendo le profezie annunziate da Gioele.
    Vs 22-36

    Le attese messianiche si realizzano attraverso la persona di Gesù.

    San Paolo dirà che tutte le promesse di Dio si sono realizzate in Cristo.

    1) Gesù è stato accreditato da Dio per mezzo dei prodigi che faceva.

    2) Gesù è stato rifiutato ed stato ucciso sulla croce.

    3) Gesù è stato risuscitato da morte: si avvera così una profezia di Davide riferita nel Salmo 16,8-11. Davide infatti non parlava di se stesso ma di Gesù.

    4) Le scritture hanno un significato spirituale e profetico che trascende quello puramente letterale.

    5) Gli apostoli sono i testimoni diretti del fatto straordinario: Gesù è risuscitato ed è asceso alla destra del Padre.

    6) Ha effuso il suo Spirito che ora essi vedono e ascoltano.

    7) Gesù è dunque il Messia atteso, il Signore intronizzato alla destra del Padre

    Quello che si è verificato è dunque l’azione e il conseguente effetto dello Spirito di Gesù che opera nella storia. Innanzitutto suscitando la Chiesa come luogo dello Spirito e attraverso di essa la comunità dei figli di Dio.
    Vs 37-40

    L’ultima parte del discorso di Pietro è ordinata a suscitare il pentimento e la conversione. È quindi una esortazione alla salvezza.

    Infatti gli uditori si sentono trafiggere il cuore e interrogano gli apostoli sul da farsi.

    Pentimento e battesimo nel nome di Gesù sono le condizioni per poter partecipare all’evento escatologico del dono dello Spirito. La promessa del dono dello Spirito infatti è per tutti gli uomini che lo vogliono accogliere. Tremila persone accolgono l’esortazione di Pietro e si aggiungono ai credenti.
    SINTESI

    I segni della discesa dello Spirito Santo mettono in evidenza l’irruzione di Dio nel mondo fisico e nella storia dell’uomo.

    La venuta dello Spirito non produce solo un’esperienza intimistico-estatica ad esclusivo beneficio di alcuni privilegiati. Al contrario, il suo effetto produce qualcosa di sensibile, di percepibile con una chiara connotazione pubblica e storica.

    Il mondo di Dio entra nel mondo umano e fa sentire la sua presenza. E il mondo religioso giudaico non sarà più quello di prima.

    Tuttavia l’evento storico, dal punto di vista materiale, è percepibile da tutti ma non per tutti è auto-esplicativo; esso richiede la possibilità e la capacità di essere correttamente compreso.

    Per poterlo spiegare occorrono scienza ed esperienza, possibilità data dallo stesso Spirito con la capacità data a coloro che tale Spirito hanno ricevuto.

    La corretta interpretazione di questo fatto dunque è il compito proprio e specifico di Pietro, che qui rappresenta la Chiesa. Essi possiedono infatti sia la scienza che l’esperienza: quella cioè di aver udito e ricevuto la promessa fatta da Gesù Cristo.

    L’accoglienza della spiegazione è l’oggetto proprio dell’assenso di fede a cui gli spettatori sono rimandati, fino al momento in cui essi stessi ne potranno fare esperienza diretta.

    Quelli che ragionano troppo e si interrogano su ciò che lo Spirito produce nell’uomo riescono a dimostrare solo una cosa: di non averne esperienza.

    Tuttavia bisogna sottolineare che l’esperienza della pentecoste non è un evento riservato ad una piccola elite religiosa: al contrario essa è ciò a cui tutti gli uomini sono chiamati: per voi è la promessa. È il realizzarsi nel tempo del messianismo universalistico preannunciato dai profeti. Ad essa si accede con la conversione del cuore e l’adesione a Gesù riconosciuto come il Signore il quale, per mezzo del battesimo impartito dalla Chiesa, comunica i suoi doni a quanti si sottomettono a lui.

    DOMANDE

    1) Che esperienza ho fatto dello Spirito?

    2) Come posso leggere nella mia vita la sua presenza?

    3) Quali criteri oggettivi mi garantiscono di aver accolto lo Spirito Santo?
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    00 25/04/2007 01:17
    ATTI DEGLI APOSTOLI - ANALISI DEL TESTO (3)

    La vita della prima comunità: vv 2,42- 47




    La conclusione del primo grande discorso di Pietro ha come esito l’aggregazione di 3000 persone.

    San Luca però non si limita a riferire questo dato ma attraverso un corposo e complesso sommario ci informa sul significato pratico che questa adesione ha prodotto. Ossia, descrive qual è stato il riflesso, l’esito concreto nella vita quotidiana dei primi discepoli di Gesù.

    È il primo dei tre grandi sommari che descrivono la prima comunità di Gerusalemme. Gli altri due sono 4,32-35 e 5,12-16



    Il brano è molto denso ed è opportuno considerarlo a fondo:


    Vs 42-43

    Il verso 42 riporta la descrizione della vita dei primi aderenti al messaggio degli apostoli.

    Infatti, i neofiti, dopo aver ricevuto il battesimo, assumono un preciso comportamento che li caratterizza e li distingue dagli altri giudei.



    Vediamo in dettaglio in cosa si differenziano




    1. … partecipano assiduamente alle istruzioni degli apostoli …



    L’accoglienza del kerigma è il punto di partenza. Il suo contenuto è fondamentale ma è necessaria anche una istruzione continua, una didachè impartita dagli apostoli, i portatori del messaggio di Gesù.

    Questi insegnamenti sono catechesi ordinate a far conoscere tutto quello che Gesù ha detto e fatto. I vangeli sono nati proprio per rispondere a queste esigenze.

    Le catechesi devono istruire il battezzato a pensare e agire secondo la mentalità evangelica.

    Infatti il cristiano deve vivere nel mondo in una particolare prospettiva: secondo il modello di Gesù. Il cristiano deve rivestirne la mentalità. Cristo è l’uomo nuovo e chi vuole seguirlo deve imitarlo: “imparate da me che sono” … “ chi segue me non cammina …”

    Sono solo gli apostoli che hanno questo mandato perché sono stati istruiti da Gesù stesso e sono stati costituiti proprio per assolvere questo compito.



    2. …. alla vita comune … koinonia (vivevano insieme fraternamente)



    Vita comune, comunione, unione, espressioni diverse usate dai traduttori per dirci una sola cosa: le relazioni dei battezzati cambiano. I nuovi fratelli in Cristo non si percepiscono più come nuclei o individui separati gli uni dagli altri ma come facenti parte di una realtà che accomuna tutti. Come la famiglia naturale di un individuo ne rappresenta il suo ambito stretto, così è la famiglia dei credenti in Cristo. Il battesimo ci configura a Cristo e ci inserisce nella sua famiglia.

    Il battesimo, così come la nascita, non è un atto isolato che interessa solo il protagonista ma è un atto comunitario che genera un nuovo Figlio della Luce, che è Cristo, e aumenta la famiglia di Dio.

    La vita comune, fraterna, pertanto dovrebbe essere percepita come qualcosa di naturale e pacifico, così come descritto negli Atti, e non qualcosa di utopistico ed eccezionale.

    Ogni cristiano è parte della famiglia di Dio e dovrebbe sentirsi e percepirsi fratello e figlio di un unico Padre.

    San Paolo dice qualcosa di più forte: il battezzato non solo è fratello ma è un’unica cosa con Cristo, è una cellula necessaria e indispensabile del suo stesso corpo glorioso, il corpo mistico.



    3. … nella frazione del pane …:




    Questa formula indica l’eucaristia, il memoriale istituito da Gesù. Questo piccolo nucleo di Gerosolimitani che, non dimentichiamolo, si percepiscono e sono ancora giudei osservanti (cfr 2,5), inizia a praticare la nuova preghiera che ha lasciato Gesù e che consente loro di vivere in comunione psico-fisica con lui.



    4. … nelle preghiere …:




    Si tratta delle preghiere caratteristiche della religione dei padri che si facevano al tempio e che qui vengono accuratamente distinte da quella propria istituita da Gesù. A conferma che i primi cristiani erano pii ebrei che hanno accolto Gesù come colui che è venuto a compiere le promesse dei profeti e ora mettono in pratica il suo insegnamento.



    5. … un senso di religioso timore…:



    Il timore biblico non è il senso di paura che assale una persona di fronte all’incertezza e alla incombenza del male. È un sentimento religioso, descrive il vero modo di stare davanti a Dio quando si ha la consapevolezza della sua trascendenza e della sua presenza. E’ quando Dio non è più una nozione, o qualcosa di lontano, di assente, di possibile, ma è avvertito come vicino in tutta la sua trascendenza. Trascendenza che automaticamente mette a nudo tutta l’inconsistenza dell’umana fragilità.

    Gli apostoli compiono segni e prodigi in nome di Gesù, lo rendono presente, e quindi in qualche modo percepibile. E tutto ciò riveste la vita dei discepoli di sacro timore.






    Vv 44-45

    Due ulteriori versetti vengono dedicati ad ampliare il concetto sinteticamente espresso con il termine koinonia.

    È un versetto forte che dovrebbe mettere in crisi qualsiasi sacerdote o credente, ma che evidentemente si legge come un puro fatto di cronaca remota, ormai sepolta e abbandonata:

    “Tutti i credenti vivevano insieme e avevano tutto in comune…”

    Dobbiamo leggerlo in modo letterale o dobbiamo interpretarlo?

    In un modo o in un altro questo è il senso profondo dell’aver accolto la salvezza ed essere stati battezzati. Vivere insieme, appartenere ad un’unica realtà sociale in cui il senso di proprietà inteso in modo esclusivistico salta.

    I beni dei singoli ora sono a disposizione di tutti, secondo le necessità concrete.

    Vorrei sottolineare questa espressione.

    Il problema non è ideologico: il senso profondo è la carità, la preoccupazione dell’altro, la condivisione di ciò che si ha per sovvenire chi è nell’indigenza.

    Non si tratta di puro e semplice egualitarismo, ma di sentirsi portatori di un dovere e di un diritto: quello della fraternità, della comunione in Cristo.



    … ogni giorno…: la vita di pietà era molto intensa e consisteva nella frequentazione del Tempio e nella vita agapica ed eucaristica. Il tutto vissuto in una dimensione interiore di gioia, gratitudine, semplicità e amore fraterno.



    L’incontro con la salvezza non si risolve solo nel cambiare le pratiche religiose o nell’ampliare il contenuto delle verità da credere ma nel rivestire una modalità nuova di relazionarsi alle cose e agli altri.

    Il segno evidente di questo cambiamento è che il resto del popolo ammira e stima la nuova comunità ed essa diventa così, semplicemente in quanto esistente, generatrice di nuovi discepoli.

    Dio può aggiungere a questa realtà vivente coloro che rispondono al suo invito.


    SINTESI



    Gli effetti della Pentecoste non sono solo segni straordinari dal punto di vista fenomenico e naturalistico: fuoco, vento, xenolalia o glossolalia.

    Nella parte finale di questo secondo capitolo Luca presenta un altro effetto che scaturisce dall’azione dello Spirito: la vita comune come elemento fondamentale, caratteristico e strutturante la comunità primitiva.

    Se ne ha già un abbozzo nella vita degli apostoli mentre Gesù era in vita (cf Lc. 8,1-3), e poi è stata ripresentata in forma germinale quando si descrive l’attesa del dono dello Spirito (cf. 1,14).

    Realtà diffusa? Piccolo nucleo ed esperienza straordinaria? Ideale proposto?

    L’insegnamento non cambia. Sia che si descriva la realtà esistente, sia che si indichi un traguardo, in entrambi i casi viene presentata quella che dovrebbe essere la vita dei credenti in Cristo. O meglio, il criterio per verificare la salvezza avvenuta e l’entrata nel mondo dei figli di Dio.

    Finché si percepiscono le cose o come oggetto di possesso esclusivo, o come progetto di dominio; finché la propria esistenza è percepita in modo assoluto e privatistico, così che il mondo degli altri è distante ed estraneo, il credente non può affermare di avere conosciuto con certezza la salvezza. O, perlomeno, la possiede solo a uno stato potenziale.

    Ai nostri giorni tutto questo sembra irrealizzabile perché lo si è delegato alle comunità religiose.

    Forse è giusto che sia così, forse non lo è. Rimane il fatto che la dimensione comunitaria dei credenti in Cristo è un elemento essenziale, qualificante e dimostrativo del proprio cammino spirituale. In questo sarebbe opportuno che ognuno verificasse se stesso.

    Facciamo un esempio concreto della nostra realtà comunitaria di religiosi.

    C’è chi si chiede come stiamo, di cosa viviamo, se abbiamo soldi a sufficienza, se abbiamo bisogno di aiuto? Alcuni, pochi, si pongono il problema della partecipazione alla vita ecclesiale di cui noi siamo espressione. Altri pensano che non abbiamo bisogni, che siamo ricchi, che nel giardino c’è l’albero del benessere. Certamente l’otto per mille crea un alibi o un problema perché si rischia di perdere di vista il senso della responsabilità immediata.



    DOMANDE



    1) Come vivo la dimensione comunitaria della fede nel concreto?



    2) Ritengo che ne posso fare a meno o che sia importante?
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    00 27/04/2007 00:40
    ATTI DEGLI APOSTOLI - ANALISI DEL TESTO (4)

    Capitoli 3,1-4,31 – Le prime difficoltà della comunità cristiana




    Con il capitolo terzo inizia una nuova sezione narrativa che introduce il problema del conflitto tra la nuova comunità che si è costituita a Pentecoste e le autorità giudaiche. Sappiamo che questo porterà alla separazione netta tra la Chiesa nascente e il mondo giudaico.

    Il brano mette in luce come l’origine delle ostilità sia da imputare esclusivamente al rifiuto delle autorità giudaiche che rinnova quello attuato nei confronti di Gesù.


    Commento ai versetti 3,1-10: La guarigione dello storpio presso il tempio



    La guarigione dello storpio con la sua generica indicazione di tempo indica che l’evento Pentecoste è alle spalle, un dato acquisito.


    Vs 1

    La Chiesa rappresentata da Pietro e Giovanni continua vivere secondo la tradizione cultuale dei Padri: frequenta il Tempio


    Vv 2-3


    Mentre Pietro e Giovanni entrano nel Tempio incrociano uno zoppo dalla nascita.

    Anche lui andava al tempio. Vi veniva però portato per chiedere l’elemosina. Una scena abituale anche ai nostri tempi: quanti mendicanti vediamo ancora oggi alle porte delle nostre chiese.

    Vedendo questi due uomini rivolge loro la sua monotona, abitale supplica, così come avrà fatto con tutti quelli che incontrava.


    Vv 4-7

    Pietro accoglie la domanda del mendicante ma invece di donare danaro gli dona qualcosa di molto più prezioso: la guarigione dalla sua infermità.

    Oltre al fatto del miracolo in sé, è importante soffermarsi a considerare la modalità del miracolo: San Luca sottolinea che Pietro e Giovanni guardano attentamente colui che li ha interpellati… lo fissano negli occhi…; poi chiedono di essere guardati. Il vs 3 si dice che lo zoppo li aveva già visti e guardati: è proprio per questo che stava chiedendo loro l’elemosina.

    Cosa vuol dirci Luca?


    Probabilmente Pietro e Giovanni sono mossi dallo Spirito e vedono che in quell’uomo si deve realizzare qualcosa di soprannaturale.

    Noi sappiamo che gli occhi sono le finestre dell’anima; quindi possiamo affermare che gli apostoli, pieni di Spirito Santo, hanno avuto la possibilità di leggere nel profondo del cuore di quell’uomo: sono entrati in contatto con il suo mistero.

    Chiedono di essere guardati.


    Poiché lo zoppo non stava chiedendo il miracolo, è pensabile che l’invito sia stato ordinato a creare il contatto senza il quale non poteva realizzarsi la guarigione. Forse è un modo per chiedere la partecipazione all’evento che sta per compiersi. Forse è il modo per dirci che senza partecipazione il miracolo non avrebbe potuto realizzarsi. L’uomo acconsente, ma senza capire.


    Vs 6

    A questo punto Pietro fa un’affermazione di importantissima: argento e oro non ho… quello che possiedo te lo do.

    Pietro afferma di possedere la forza di Gesù, il suo potere taumaturgico. Pietro è pienamente consapevole di avere a disposizione la forza di Gesù: non prega per ottenere il miracolo, non ritiene di poterlo operare in proprio. Pietro sa di poter agire in forza di un potere che appartiene a Gesù ma di cui lui può disporre liberamente. Quindi: impone al malato di camminare.


    Vs 7: stesa la mano, lo solleva da terra

    Attraverso questo gesto Pietro invita il mendicante a fidarsi delle sue parole o più semplicemente a concludere il miracolo. È infatti il contatto con la sua mano che dona allo zoppo il vigore alle caviglie e la possibilità di stare in piedi da solo.


    Vv 8-10a

    L’uomo, al contatto di Pietro, sente arrivare nelle sue membra una nuova forza che lo fa addirittura saltare. La guarigione è avvenuta e tutto il popolo esulata di gioia assieme al miracolato.

    il popolo certifica la guarigione, è il testimone oculare della potente azione compiuta dagli apostoli.


    Vs 10b

    Il brano si conclude con una espressione cara a Luca: lo stupore per il divino incontrato.





    SINTESI


    La guarigione dello zoppo alla porta del tempio è forse un racconto unico nel suo genere: un uomo viene guarito ed è oggetto di un MIRACOLO NON CHIESTO. Il protagonista non lo chiede ma non lo chiedono neppure gli apostoli.

    Pur mettendo in luce il fatto che il miracolo non è compiuto per un potere proprio, Luca ci dice che i discepoli non pregano per ottenerlo. Sono perfettamente sicuri di ciò che succederà perché Gesù nell’ultima cena aveva detto loro “qualunque cosa chiederete nel mio nome la farò”. Pietro mostra di possedere questa fede verso il potere di Gesù che continua a essere presente.

    Lo zoppo che cammina ricorda il realizzarsi inoltre il realizzarsi dei tempi messianici, delle profezie riproposte qui dal Vangelo. Gesù è morto ma è vivo.

    Così il popolo, attraverso il miracolo, può lodare la presenza di Dio che continua a camminare nella storia con loro.

    Nel Vangelo di Luca Gesù inizia il suo ministero salvifico ricolmo di Spirito Santo: 4, 18

    Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. (Lc 4,18-19)



    Allo stesso modo la Chiesa, ripiena dello Spirito, inizia la propria storia di intervento a favore dell’umanità e in continuità con Gesù, rendendolo presente attraverso la propria fede.





    DOMANDE

    1) La preghiera di lode è presente nella mia vita?

    2) Se non c’è, è perché non ho incontrato motivi di salvezza o perché penso che tutto mi sia dovuto?

    3) Non riesco ancora a vedere il suo agire nella mia vita?



    Commento ai versetti 3,11-26: il discorso di Pietro




    Al miracolo fa seguito un secondo discorso di Pietro che serve sia a interpretare correttamente l’episodio, sia ad intenderlo come occasione di salvezza.


    Struttura del discorso


    11-12: il popolo sbalordito si raccoglie attorno al paralitico e ai due apostoli;

    12b-16: Pietro spiega come è avvenuto il miracolo:


    Vs 12b

    § non è per un potere personale di Pietro e Giovanni che l’uomo è stato guarito

    § non è nemmeno per la “bontà” o “pietà” (preghiera) ossia per un potere di intercessione

    § è la fede riposta nel nome di Gesù che operato il miracolo

    § più esattamente è Gesù (il nome equivale alla persona) che ha guarito lo storpio attraverso la fede. Se sia stata la fede di Pietro o del Paralitico gli esegeti non lo riescono ad affermare con certezza

    § forse Luca vuole semplicemente dirci che occorre la fede

    § forse il paralitico aveva creduto in Gesù quando era vivo

    § forse è la fede di Pietro unita alla sua visione spirituale che gli consentiva di vedere la disponibilità dello storpio ad accogliere Gesù. E solo la luce dello Spirito Santo può fare chiarezza

    § una cosa è certa attraverso la fede Gesù continua ad operare miracoli



    Personalmente riteniamo che l’episodio sottolinei la fede di Pietro: implicita nell’affermazione: “quello che ho te lo dono” (si armonizza con gli insegnamenti di Gesù nel Vangelo: se chiederete qualcosa nel mio nome lo farò)


    Vv 13-15

    I versetti presentano di nuovo il kerigma di Gesù: “proprio quel Gesù che voi avete ucciso rinnegandolo e preferendolo a Barabba ma che il Dio dei Padri ha risuscitato e glorificato….”

    Gesù, nell’annuncio di Pietro, è presentato come autore della vita o colui che conduce alla vita o anche Gesù che da la vita a tutti.



    Vv 17-21

    Come già nel primo discorso, Pietro fa un forte appello alla conversione:

    § il rifiuto di Gesù è da imputare all’ignoranza del popolo

    § Gesù ha realizzato il mistero della risurrezione-glorificazione.

    Ci chiediamo:

    § il pentimento e l’accoglienza di Gesù determineranno il Suo ritorno e la signoria del Messia sulla storia?

    § il pentimento e la conversione sono determinanti per il ritorno di Gesù che ora è in Cielo?

    Anche questi versetti presentano difficoltà interpretative.

    E’ certo che:

    § agli Israeliti è offerta una nuova opportunità

    § Gesù per il momento deve stare in cielo

    § Gesù ritornerà e restaurerà tutte le cose



    Vv 22-26

    Luca fornisce la prova scritturale che Gesù è il Messia promesso e rivolge implicitamente un nuovo appello: “Dio ha mandato di nuovo Gesù a voi perché voi siete i figli dei profeti, i beneficiari dell’alleanza”.

    Attraverso le manifestazioni straordinarie e la predicazione di Pietro, Dio vuole cancellare il peccato di ignoranza e donare ancora la salvezza.





    SINTESI



    Anche il secondo, straordinario, fatto pubblico ci insegna che gli eventi devono essere interpretati in modo corretto, perché esiste il rischio che possano essere letti in maniera distorta.

    La corretta comprensione non è posseduta da tutti gli spettatori ma dai protagonisti, cioè da coloro che sono i diretti artefici del miracolo, in questo caso dalla Chiesa.

    La Chiesa non possiede un potere magico, non possiede in proprio la capacità di operare miracoli, ma possiede la fede che consente di ottenere i miracoli.

    Nemmeno l’invocazione del nome di Gesù, da sola, può operare prodigi se non è accompagnata dalla fede.

    Chi opera meraviglie nella storia è la fede nel nome di Gesù, ossia la fede che Gesù può operare nella storia per mezzo di uomini che credono in lui, cioè la Chiesa.

    Gesù opera perché è vivo. È vivo perché è il Messia e dal cielo opera perché vuole donare la salvezza, soprattutto ai giudei.

    Dio ha perdonato il peccato di ignoranza del popolo e vuole donare la salvezza promessa ai Padri: “nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra”.

    Il miracolo è presentato così sia come la manifestazione della prova che Gesù è il Messia risorto, vivo alla destra del Padre, sia come segno della benevolenza di Dio verso il popolo eletto, sia come un’ulteriore occasione per accogliere la salvezza.





    DOMANDE

    1) Qual è la qualità della mia fede?

    2) Vivo il mio tempo come occasione di conversione?







    Commento ai versetti 4,1-22: l’arresto di Pietro e Giovanni



    Al miracolo e al discorso di Pietro fanno seguito l’arresto dei due apostoli e la difesa del nome di Gesù.



    Vv 1-4

    La guarigione dello storpio ha suscitato clamore, entusiasmo e assembramento di popolo. La folla, evidentemente entusiasta, accorre al tempio e richiama l’attenzione delle guardie. Pietro e Giovanni sono arrestati e condotti davanti al Sinedrio.



    Vs 2

    Il versetto sottolinea la vera motivazione dell’arresto: non possono tollerare l’insegnamento sulla resurrezione dai morti. Evidentemente la classe dirigenziale, così come aveva già fatto con Gesù, apre ora le ostilità. Lo scontro tra il Sinedrio e Gesù continua nelle persone dei suoi seguaci, con la sua comunità. Il versetto mette in luce anche uno dei fondamenti della fede cristiana: la risurrezione della carne iniziata con Gesù.



    Vs 4

    Il versetto evidenzia come il popolo sia ben disposto alla predicazione. Tanto che altre duemila persone si aggiungono alla comunità.



    Vv 5-7

    Il Sinedrio riunito, interroga Pietro e Giovanni.

    La domanda è importante perché mette in luce una preoccupazione precisa: capire se dietro il potere taumaturgico degli apostoli ci sia la presenza di Gesù. Evidentemente era giunta alle orecchie del Sinedrio l’eco di questa verità che cerca una conferma. I vs 13 e 18 sono espliciti a questo riguardo. E’ interessante sottolineare l’abbinamento forza/nome.



    Vv 8-12

    La risposta di Pietro è chiara e precisa. È in forza del nome di Gesù, ossia in forza della sua persona che il miracolo è stato compiuto. In altre parole è Gesù che ha guarito lo storpio, quel Gesù che è stato rifiutato e ucciso e che Dio ha risuscitato. Pietro, quel Pietro che fuori dal Sinedrio aveva rinnegato per tre volte Gesù, ora lo proclama solennemente come il Messia, il solo che può salvare gli uomini: il kerigma è chiaro: Gesù è la salvezza di tutti gli uomini.



    Vv 13-17

    La reazione dei capi alla dichiarazione di Pietro di per sé sembra ridicola: li minacceremo perché non parlino più a nessun uomo in quel nome. Sanno di essere di fronte a uomini semplici, non mistificatori, e sanno che sono stati discepoli di Gesù. I capi riconoscono che l’uomo è guarito, ma, nonostante questo, cercano ancora di contrastare la conoscenza della verità.

    PERCHÉ? Come mai uomini colti, religiosi, umanamente affermati e quindi anche dotati di intelligenza pratica si ostinano a non voler accettare quello che sembra chiaro anche a loro?

    Forse non vogliono riconoscere il loro errore su Gesù.

    Forse non vogliono mettere in discussione se stessi

    Forse non vogliono rinunziare ai loro privilegi.

    Il testo lascia a noi il compito di trovare una risposta soddisfacente.

    Forse questo passo ci mette semplicemente davanti al mistero della stupidità e della chiusura umana a qualsiasi segno; oppure alla strenua difesa del proprio punto di vista.

    Quanti esempi quotidiani abbiamo in persone che vedono e non vogliono vedere, quanti esempi nella vita di ognuno di noi: tanti segni eppure si resta sempre avvinghiati ai propri ragionamenti e scelte.



    Vv 18-21

    I discepoli, ora ripieni di Spirito Santo, sono in grado di affrontare anche la condanna e la morte.

    È bellissima la risposta di Pietro: bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. La forza dello Spirito è pienamente manifestata in questa loro sicurezza e determinazione. L’unica cosa, ci dicono gli apostoli, che bisogna fare, è seguire la verità di Dio. Ad ogni costo.

    SINTESI


    Il sinedrio ha tentato di zittire e distruggere l’opera di Gesù inchiodandolo alla croce. Improvvisamente si ritrova fare i conti con Lui. La Chiesa, nella persona degli apostoli, si proclama come colei che continua a rendere vivo Gesù. È come se fosse avvenuta una nuova incarnazione.

    Gesù è vivo e opera. Essendo la Chiesa Gesù, non può che subire lo stesso trattamento a lui riservato. Anche nella persecuzione dobbiamo vedere un modo in cui si realizza la continuità con Gesù: se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi.

    Come i capi e il Sinedrio avevano rifiutato la predicazione di Gesù, nonostante quello che aveva insegnato e fatto, così ora gli stesi uomini rifiutano questa prova certa, sebbene indiretta, della verità. Il brano mette in luce il mistero della chiusura dell’uomo alla verità: i segni sono di aiuto se l’uomo è ben disposto ad accoglierli.

    Ma il brano mostra anche la forza trasformante dello Spirito che è capace di rendere testimoni audaci, franchi e sicuri. Dio deve essere seguito a qualunque costo: lo Spirito santo ce ne dà la capacità e la forza.



    DOMANDE



    1) Sono disposto a obbedire a Dio piuttosto che agli uomini?

    2) Chiedo allo Spirito santo la forza per testimoniarlo?







    Commento ai versetti 4,23-31: la preghiera per il coraggio della testimonianza



    Vs 23

    Giovanni e Pietro vengono rilasciati, raggiungono la comunità e raccontano l’accaduto.



    Vv 24-30

    Tutta la comunità si rivolge a Dio con la preghiera per ottenere aiuto. È importante allora comprendere come gli apostoli pregano. Vediamo alcuni elementi importanti che possono guidare anche la nostra preghiera.

    Unanimemente..

    La preghiera è espressione di una comune intenzione: tutti insieme chiedono a Dio la stessa cosa.

    Signore, tu che …

    Si afferma la fede in Dio quale creatore e Signore di tutte le cose. Il Signore è il sovrano assoluto del creato.

    …tu per bocca del nostro padre Davide…

    Dio è riconosciuto anche quale sovrano della storia che conosce in anticipo quello che dovrà avvenire. Gli eventi dolorosi non sono quindi effetto di un abbandono o silenzio di Dio, ma di un suo piano provvidenziale.

    …davvero in questa città… si riconosce quindi la presenza di Dio negli eventi anche tragici. Si riconosce nella storia di cui si è contemporanei l’avverarsi del disegno misterioso e salvifico del suo piano.



    Vs 28

    per la Sacra Scrittura non c’è distinzione netta tra volontà positiva e permissiva.



    Vs 29

    Dopo aver manifestato la propria fede, i discepoli chiedono a Dio il dono della fortezza per poter proclamare la verità e i carismi dei miracoli per poter mostrare che Dio è con loro e che si sta attuando il suo piano.

    E’ molto importante sottolineare il fatto che i discepoli non chiedono di essere liberati dalle difficoltà, ma di avere la capacità di affrontarle nella verità



    Vs 30

    nel nome del tuo santo servo Gesù.

    Gli apostoli si rivolgono nella preghiera al Signore, il Dio dei Padri e chiedono di poter agire in unione e con la forza di Gesù. Ricordiamo i discorsi di addio in Giovanni:… chiedete nel mio nome…



    Vs 31

    Stanno ancora pregando, quando la risposta di Dio arriva inequivocabile: lo Spirito Santo scende ancora una volta sugli apostoli per donare loro la fortezza. Lo Spirito scende e si fa sentire in modo sensibile, esterno: un terremoto come durante la Pentecoste, e un moto invisibile, interiore. Lo Spirito conferisce una precisa qualità, ovvero la fortezza della testimonianza.





    SINTESI



    I discepoli sanno discernere negli eventi anche tragici la presenza di Dio. Non è Lui ad abbandonarli ma sono le forze avverse che si scatenano contro di loro.

    Dio non le distrugge per il momento perché attraverso di esse porta avanti il suo misterioso piano salvifico.

    I discepoli sanno e credono in tutto questo, perciò chiedono a Dio non di essere salvaguardati dalla persecuzione ma di avere il coraggio di diventare interpreti e collaboratori del suo piano. Così facendo diventano i protagonisti del piano della salvezza.

    Attraverso la preghiera manifestano e rinnovano non solo la loro piena fiducia in Colui che è il Signore di tutto l’universo, ma anche la loro radicale insufficienza: solo lo Spirito del Signore può fare di loro dei testimoni. Anche in questo brano lo Spirito santo è visto come assolutamente necessario per consentire l’evangelizzazione: al dono delle lingue deve integrarsi il dono della fortezza. Il dono dello Spirito non è dato una volta per tutte ma è necessario che rinnovi continuamente la vita dei discepoli.
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