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Il nostro "corso di teologia"

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    Ratzigirl
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    00 15/02/2006 23:27
    Ehehehehe! [SM=g27827]: Lo so che il titolo della discussione suona un po' altisonante, però l'idea mi è venuta proprio ieri pensando all'apertura di questa nuova cartella...
    Pensavo di rendervi partecipi delle discussioni che si generano durante i miei incontri settimanali del corso di teologia che frequento.
    Mi sembra un'idea che potrebbe risultare interessante, per chi ha voglia di approfondire certe tematiche ed argomenti...che ne pensate? Vi piace questa mia iniziativa?
    Per darvi un'idea vi preparerò subito subito la prima "lezione" che mi sembra adatta per farvi capire con i fatti ciò che intendo....non dovrete aspettare molto.....mi ha talmente "preso" che ve la posto il prima possibile!!! [SM=g27822] [SM=g27822] [SM=g27822]
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    Ratzigirl
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    00 16/02/2006 00:55
    Commento al passo di Luca 15,1-32
    Potete trovare il brano di Luca QUI

    Ieri sera, dopo aver letto il brano, ecco la domanda che l'insegnante ci ha posto: Perchè ricordiamo tutti la parabola della pecorella smarrita e non quella della dramma perduta?

    Ecco la spiegazione (e dopo questa sono rimasta a bocca aperta, constatando come rispecchiasse la realtà):

    la parabola della pecorella sperduta,o del buon pastore, vede protagonista una pecora su 100, perciò il rapporto di perdita è dell'1%

    la parabola della dramma (le dramme erano 10, ne viene persa una) vede il rapporto di perdita del 10 %, quindi una perdita maggiore.

    La parabola della pecorella e quella della dramma presentano un'ulteriore antitesi: la pecorella si perde FUORIdel luogo dove si trova il Pastore, la dramma, si perde IN CASA cioè, si perde, pur avendo diciamo "la proprietaria vicino.

    Adesso, non vi viene in mente l'analogia?
    La pecora smarrita che si perde fuori è il figlio minore, che ritorna alla casa del Padre solo per la "necessità", perchè ha fame.E' pentito, certo, ma se le cose fossero andate tutte bene, sarebbe tornato?Tuttavia, si è "perso", ed è tornato alla casa del Padre.
    Il figlio maggiore, però, che non aveva da chiedere niente, perchè tutto ciò che il Padre aveva, era suo, si risente col Padre, perchè egli perdona il fratello "Peccatore".In realtà, anche il figlio maggiore si è "perso", si è allontanato, dalla casa del Padre.Ma la sua perdita è ancora più grave, se si pensa che si è perso non uscendo dalla casa del Padre, ma restandovi dentro...(ecco l'analogia con la dramma)

    Nel primo versetto viene spiegato tutto l'arcano della parabola:

    i farisei accusano Gesù di perdonare i peccatorie pranzare con loro, egli dunque rivolge loro queste parole: essi sono come i figli maggiori della parabola, che non solo non sanno riconoscere l'amore che il Padre ha verso di loro, nè tantomeno sono capaci di accettare il fatto che il Padre perdoni e ami anche i peccatori.Se i farisei sono come i fratelli maggiori, qual'è la perdita maggiore, nella considerazione del Psdre celeste? Il peccatore che cena con Gesù, e che da lui è stato perdonato, o il fariseo, che vive nella lode e che non sa accettare il perdono del padre?

    E noi, diceva appunto il nostro teologo, chi possiamo dire di essere? La pecorella smarrita che non ha mai conosciuto Cristo e che da lui è stat ritrovata (ritrovata perchè l'uomo deve tornare all'unità) o la "dramma" che è stata battezzata,comunicata e cresimata , e si è persa ugualmente, pur essendo già nella comunità della giusta strada verso Cristo?
    E soprattutto,per avere la conferma di chi siamo, davvero, siamo pronti ad accettare,all'oggi, che il Padre perdoni anche i peccatori, oltre a noi? [SM=g27818] [SM=g27818] [SM=g27818]

    [Da ieri ho meditato sul fatto che che mi sono sempre considerata una pecorella smarrita, e non sapevo di essere come il fratello maggiore....]

    [Modificato da Ratzigirl 16/02/2006 1.35]

  • Discipula
    00 16/02/2006 12:24
    Bella riflessione, grazie Ratzi, anche per l'apertura del thread [SM=g27811] ! In effetti tra noi battezzati è sempre più facile trovare i fratelli maggiori che le pecorelle smarrite ... [SM=g27821]

    Trovo che spesso assomigliamo (almeno, a me capita qualche volta, devo confessarlo [SM=g27819] [SM=g27819] ), oltre che al fratello maggiore, anche ai lavoratori della prima ora (Mt 20, 1-16) che trovano ingiusto ricevere la stessa ricompensa di chi ha iniziato a lavorare nella vigna del Signore più tardi di loro.

    La riflessione che segue è del nostro teologo preferito (non c'è bisogno di fare nomi ... [SM=g27838] [SM=g27838] [SM=g27838]) e fa parte delle meditazioni per il Tempo di Avvento che ho letto lo scorso dicembre ( J. Ratzinger "Tempo di Avvento" ed. Queriniana)

    Quando ci interroghiamo sul fondamento e sul senso della nostra esistenza cristiana guardiamo nello stesso tempo erroneamente e volentieri di sbieco alla vita presuntamente più facile e comoda degli altri che vengono anche loro in Cielo.
    Somigliamo troppo ai lavoratori della prima ora (...) quando essi constatarono che il salario di un denaro poteva essere ottenuto anche in maniera molto più semplice non capirono più perché essi avessero dovuto faticare tutto il giorno. (...)
    Quando ci interroghiamo sul perché cristiano facciamo esattamente quello che quei lavoratori fecero. Presupponiamo che la disoccupazione spirituale - una vita senza fede e senza preghiera - sia più piacevole del servizio spirituale. Ma in base a che cosa lo sappiamo? Fissiamo gli occhi sulla fatica della vita quotidiana cristiana e così facendo dimentichiamo che la fede non è soltanto un peso che ci opprime bensì è nello stesso tempo una luce che ci orienta. (...)
    Vediamo solo il nostro peso e dimentichiamo che esiste anche il peso degli altri, anche se non lo conosciamo.
    E soprattutto: che strano atteggiamento è mai quello di non trovare più remunerativo il serivizio cristiano dal momento che è possibile ottenere il denaro della salvezza anche senza di esso? A quanto pare non vogliamo essere ricompensati solo con la nostra salvezza, bensì anzitutto con la perdizione altrui, come i lavoratori della prima ora. Ciò sarà molto umano, ma la parabola del Signore vuole appunto farci prendere forte coscienza di quanto profondamente acristiano ciò nello stesso tempo sia. Chi considera la perdizione degli altri quasi come la condizione per il proprio servizio di cristiano, alla fine può solo andarsene mormorando, perché questo tipo di ricompensa contrddice la bontà di Dio".


    [SM=g27821] [SM=g27821] [SM=g27821]

    [Modificato da Discipula 16/02/2006 12.27]

    [Modificato da Discipula 16/02/2006 12.29]

    [Modificato da Discipula 16/02/2006 13.12]

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    RATZGIRL
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    Utente Veteran
    00 16/02/2006 13:43
    Complimenti carissima consorella per questa krande iniziativa. [SM=g27811]
    Grazie per condividere con noi la bellissima e interessante esperienza che stai vivendo.Sono tante le cose che dobbiamo imparare,e non potremo avere migliore maestra di te che vivi questa esperienza dall'interno.
    Grazie ancora! [SM=x40800]

    [Modificato da RATZGIRL 16/02/2006 13.43]

    RATZI FOREVER

    Suor RATZGIRL
    Ordine Benedettino delle Suore delle Sante Coccole al Romano Pontefice
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    Il Mendicante
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    Utente Junior
    00 16/02/2006 15:18
    Re: Commento al passo di Luca 15,1-32

    Scritto da: Ratzigirl 16/02/2006 0.55
    Potete trovare il brano di Luca QUI

    Ieri sera, dopo aver letto il brano, ecco la domanda che l'insegnante ci ha posto: Perchè ricordiamo tutti la parabola della pecorella smarrita e non quella della dramma perduta?

    Ecco la spiegazione (e dopo questa sono rimasta a bocca aperta, constatando come rispecchiasse la realtà):

    la parabola della pecorella sperduta,o del buon pastore, vede protagonista una pecora su 100, perciò il rapporto di perdita è dell'1%

    la parabola della dramma (le dramme erano 10, ne viene persa una) vede il rapporto di perdita del 10 %, quindi una perdita maggiore.

    La parabola della pecorella e quella della dramma presentano un'ulteriore antitesi: la pecorella si perde FUORIdel luogo dove si trova il Pastore, la dramma, si perde IN CASA cioè, si perde, pur avendo diciamo "la proprietaria vicino.

    Adesso, non vi viene in mente l'analogia?
    La pecora smarrita che si perde fuori è il figlio minore, che ritorna alla casa del Padre solo per la "necessità", perchè ha fame.E' pentito, certo, ma se le cose fossero andate tutte bene, sarebbe tornato?Tuttavia, si è "perso", ed è tornato alla casa del Padre.
    Il figlio maggiore, però, che non aveva da chiedere niente, perchè tutto ciò che il Padre aveva, era suo, si risente col Padre, perchè egli perdona il fratello "Peccatore".In realtà, anche il figlio maggiore si è "perso", si è allontanato, dalla casa del Padre.Ma la sua perdita è ancora più grave, se si pensa che si è perso non uscendo dalla casa del Padre, ma restandovi dentro...(ecco l'analogia con la dramma)

    Nel primo versetto viene spiegato tutto l'arcano della parabola:

    i farisei accusano Gesù di perdonare i peccatorie pranzare con loro, egli dunque rivolge loro queste parole: essi sono come i figli maggiori della parabola, che non solo non sanno riconoscere l'amore che il Padre ha verso di loro, nè tantomeno sono capaci di accettare il fatto che il Padre perdoni e ami anche i peccatori.Se i farisei sono come i fratelli maggiori, qual'è la perdita maggiore, nella considerazione del Psdre celeste? Il peccatore che cena con Gesù, e che da lui è stato perdonato, o il fariseo, che vive nella lode e che non sa accettare il perdono del padre?

    E noi, diceva appunto il nostro teologo, chi possiamo dire di essere? La pecorella smarrita che non ha mai conosciuto Cristo e che da lui è stat ritrovata (ritrovata perchè l'uomo deve tornare all'unità) o la "dramma" che è stata battezzata,comunicata e cresimata , e si è persa ugualmente, pur essendo già nella comunità della giusta strada verso Cristo?
    E soprattutto,per avere la conferma di chi siamo, davvero, siamo pronti ad accettare,all'oggi, che il Padre perdoni anche i peccatori, oltre a noi? [SM=g27818] [SM=g27818] [SM=g27818]

    [Da ieri ho meditato sul fatto che che mi sono sempre considerata una pecorella smarrita, e non sapevo di essere come il fratello maggiore....]

    [Modificato da Ratzigirl 16/02/2006 1.35]




    Grazie Ratzigirl. Molto, molto interessante.

    Premetto che è da tempo che mi ripropongo di leggere e intervenire sulla discussione "l'inferno è vuoto?" perchè il tema del perdono mi sta molto a cuore.

    La parabola del figliol prodigo è una delle più belle e più difficili del Vangelo. A tale proposito mi preme segnalare un libretto di catechesi di Silvano Fausti ("Il Figliol prodigo" ed. Rinnovamento nello Spirito Santo) che acquistai alcuni anni fa e la cui lettura, oltre a rivelarsi assai interessante, mi ha suscitato non pochi dubbi e perplessità.

    Non ne tratto in dettaglio per vari motivi: tempo, dovrei rileggerlo per rinfrescarmi la memoria e, soprattutto, non lo ritrovo... [SM=g27834]

    Anche lì, comunque, il figlio minore (da qui la parte che ho quotato in grassetto) è quello che torna a casa solo perché ha fame. Può essere, ma fatto sta che il figlio minore fa atto di contrizione e si pente. Torna a casa e chiede perdono.
    La parabola parla dell'infinito amore di Dio e della gioia che il Padre prova per il ritorno del figlio. Un padre, per natura, non smette di amare i propri figli, ma mi chiedo (e qui tento di riallacciarmi al discorso iniziale sull'inferno) : se il figlio minore non fosse tornato a casa? Se non avesse chiesto perdono?

    Una delle espressioni dell'amore di Dio verso di noi è, per me, il libero arbitrio, e cioè anche la possibilità, se si vuole, di rinunciare a quell'amore.
    Quindi mi domando: il perdono va chiesto oppure è un inutile tappa burocratica in vista del perdono globale finale?

    Chiedo lumi e mi scuso se ho incasinato un po' la questione, ma vado di fretta e magari poi tornerò sull'argomento (ritrovassi quel libretto....).

    Ciao

    "Wait for me now. I will be there for you. This I will vow if you still want me to. But it won't be, this I have always known. And in the dark, there's no one to pray for me now...."
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    Ratzigirl
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    00 16/02/2006 19:36
    Re: Re: Commento al passo di Luca 15,1-32 ( il perdono - risposta a Mendicante)

    Scritto da: Il Mendicante 16/02/2006 15.18


    Grazie Ratzigirl. Molto, molto interessante.

    Premetto che è da tempo che mi ripropongo di leggere e intervenire sulla discussione "l'inferno è vuoto?" perchè il tema del perdono mi sta molto a cuore.

    La parabola del figliol prodigo è una delle più belle e più difficili del Vangelo. A tale proposito mi preme segnalare un libretto di catechesi di Silvano Fausti ("Il Figliol prodigo" ed. Rinnovamento nello Spirito Santo) che acquistai alcuni anni fa e la cui lettura, oltre a rivelarsi assai interessante, mi ha suscitato non pochi dubbi e perplessità.

    Non ne tratto in dettaglio per vari motivi: tempo, dovrei rileggerlo per rinfrescarmi la memoria e, soprattutto, non lo ritrovo... [SM=g27834]

    Anche lì, comunque, il figlio minore (da qui la parte che ho quotato in grassetto) è quello che torna a casa solo perché ha fame. Può essere, ma fatto sta che il figlio minore fa atto di contrizione e si pente. Torna a casa e chiede perdono.
    La parabola parla dell'infinito amore di Dio e della gioia che il Padre prova per il ritorno del figlio. Un padre, per natura, non smette di amare i propri figli, ma mi chiedo (e qui tento di riallacciarmi al discorso iniziale sull'inferno) : se il figlio minore non fosse tornato a casa? Se non avesse chiesto perdono?

    Una delle espressioni dell'amore di Dio verso di noi è, per me, il libero arbitrio, e cioè anche la possibilità, se si vuole, di rinunciare a quell'amore.
    Quindi mi domando: il perdono va chiesto oppure è un inutile tappa burocratica in vista del perdono globale finale?

    Chiedo lumi e mi scuso se ho incasinato un po' la questione, ma vado di fretta e magari poi tornerò sull'argomento (ritrovassi quel libretto....).

    Ciao




    Dunque, ci sono vari libri, soprattutto quelli che parlano di esorcismo (vd. Padre Amorth) dove si fanno delle affermazioni che a primo acchito appaiono inverosimili, ma che acquistano significato se si pensa che è tanto vera l'infinita misericordia del Padre, quanto è vero il nostro totale libero arbitrio.Padre Amorth non si stanca nei suoi libri (vedi ad esempio "Nuovi racconti di un esorcista") di affermare che se Satana stesso, si decidesse a chiedere perdono al Padre per il suo peccato di orgoglio nei suoi confronti, Dio lo perdonerebbe.
    Il motivo per cui Satana rimane quello che è, è che NON VUOLE chiedere perdono. Anche lui, come gli uomini ha il libero arbitrio di scegliere essendo anch'egli creatura di Dio. In relazione a quanto detto nel post di origine sulle proporzioni, pensiamo a quale perdita corrisponde l'allontanamento di un angelo (che viveva a contatto di Dio, che era a Lui vicino più di tutti gli uomini..) e di quanto si rallegrerebbe il Padre del suo ritrovamento...
    Per tornare alla tua domanda, appare quindi chiaro che se il figlio minore non avesse chiesto perdono, il Padre non avrebbe potuto perdonare. In quanto la salvezza di ognuno è un processo di collaborazione tra Dio e l'Uomo. E' per questo che nel testo non si sa più nulla del figlio maggiore, la domanda rimane aperta: il figlio maggiore scegli la salvezza o la dannazione? Altrimodo detto: e voi che ascoltate, farisei (visto che la paraabola è a loro rivolta (e anche a noi) scegliete di essere salvati o di perire?
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    Regin
    Post: 162
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    Utente Junior
    00 17/02/2006 02:06
    Re:

    Scritto da: Ratzigirl 15/02/2006 23.27
    Ehehehehe! [SM=g27827]: Lo so che il titolo della discussione suona un po' altisonante, però l'idea mi è venuta proprio ieri pensando all'apertura di questa nuova cartella...
    Pensavo di rendervi partecipi delle discussioni che si generano durante i miei incontri settimanali del corso di teologia che frequento.
    Mi sembra un'idea che potrebbe risultare interessante, per chi ha voglia di approfondire certe tematiche ed argomenti...che ne pensate? Vi piace questa mia iniziativa?
    Per darvi un'idea vi preparerò subito subito la prima "lezione" che mi sembra adatta per farvi capire con i fatti ciò che intendo....non dovrete aspettare molto.....mi ha talmente "preso" che ve la posto il prima possibile!!! [SM=g27822] [SM=g27822] [SM=g27822]


    Ottimo Raztgirl, idea veramente super [SM=g27823]


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    Ratzigirl
    Post: 6.604
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Master
    00 18/02/2006 12:21
    La parabola del ricco epulone (Lc 16, 19-31)
    Un'altra parabola molto bella fatto l'altro giorno è quella di Lazzaro e del ricco epulone.Ho trovato anche su internet alcuni appunti che possono servire ad integrare quelli che già ho preso io, perciò li riunisce e passo a spiegare questa nuova parabola che trovo alquanto interessante e ricca di "sorprese" se si pensa che magari la ascoltiamo durante una funzione liturgica e non riusciamo a cogliere tutti quei piccoli particolari che al fine della comprensione possono risultare essenziali.

    Innanzitutto ecco il link alla parabola

    Ed ecco la riflessione (un po' lunghetta, ma esaustiva, credo) della stessa parabola.

    Innanzitutto partiamo con:

    La presentazione dei personaggi
    La parabola del ricco epulone si trova solo nel vangelo di Luca, per cui va compresa in se stessa non avendo riferimenti paralleli negli altri vangeli sinottici. I vv. 19-20 presentano i personaggi intorno a cui ruoterà questo breve racconto, e vengono presentati ciascuno con la sua caratteristica personale, soprattutto il secondo personaggio, a cui è dato un nome proprio, cosa inconsueta nelle parabole; è questa infatti una caratteristica unica, in quanto nelle parabole di Gesù i personaggi sono tutti senza nome, avendo un valore rappresentativo. Il personaggio che non ha un nome in tutte le altre parabole indica una categoria di persone, qui però la cosa è diversa: nel raccontare la parabola, l'evangelista Luca mette in contrasto un uomo che non ha nome con un altro che si chiama Lazzaro. Per comprendere questo contrasto bisogna entrare nella mentalità ebraica, dove il nome proprio di una persona rappresenta la realizzazione di una vocazione, di un disegno di Dio sulla persona, e quindi di una realizzazione piena dell'uomo. Così avviene, ad esempio, nel racconto dell'Annunciazione, e in particolare nel vangelo di Matteo, dove Giuseppe è il destinatario di una rivelazione in cui gli viene detto quale nome imporre al Bambino che nascerà da Maria: il nome di Gesù. In ebraico esso si traduce con "Dio salva", e indica pertanto la salvezza di Dio personificata in Gesù di Nazaret. Un personaggio che ha un nome proprio, per la Bibbia, è un uomo pienamente realizzato, un uomo che risponde in pieno ai significati che Dio ha depositato nella sua vocazione irripetibile e individuale. L'uomo ricco non ha un nome e perciò è descritto in base a quello che fa: "vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente". Il primo personaggio della parabola è presentato dunque in base a ciò che fa; il secondo personaggio, invece, è presentato in base a ciò che lui è. Vengono così posti in contrasto anche due ordini di valori: la valutazione della persona in base a ciò che è capace di fare, in quanto ne ha i mezzi, e la valutazione della persona per ciò che essa è. Il ricco qui incarna l'ideale secondo cui l'uomo vale per quello che ha; Lazzaro, invece, indica la misura del valore dell'uomo a partire dalla persona in se stessa, a prescindere da ciò che possiede. Davanti a Dio infatti conta solo la persona in quanto tale, e, indipendentemente dal suo ruolo sociale o dal suo successo umano, una persona potrebbe essere, agli occhi di Dio, pienamente in armonia con la propria vocazione; il mendicante appunto per questo ha un nome, l'unico tra i personaggi delle parabole di Gesù: nella sua personalità originale e nel suo modo di affrontare la vita, Lazzaro corrisponde alle aspettative di Dio.
    L'uomo ricco, che non ha un nome, è rappresentativo di un fallimento particolare, l'unico fallimento che noi, in quanto cristiani, possiamo temere. Si può fallire infatti in molte maniere nella vita, ma sono comunque tutti dei fallimenti parziali: uno può fallire nel proprio mestiere, un altro può fallire nell'educazione dei figli, un altro ancora come sposo o come sposa, ma in tutte queste cose la persona fallisce solo in un settore particolare della sua vita. Il fallimento che il cristiano deve temere si ha invece quando è la nostra persona stessa che fallisce nella sua vocazione alla santità: questo è certamente il fallimento più radicale, quello che manda in frantumi il dono più prezioso della grazia di Dio. Il ricco epulone, sul piano umano, potrebbe essere anche stimato in forza della sua posizione sociale, o delle sue sostanze, ma egli non ha un nome, cioè la sua vocazione alla santità è naufragata nel fallimento, e perciò la sua vita è priva di un progetto valido e duraturo. La sua morte personale segnerà infatti la fine di tutto, a differenza di Lazzaro che, morendo, ritroverà la propria vita nel seno di Abramo.

    Il vero peccato del ricco epulone
    Il testo descrive la situazione umana del povero Lazzaro, desideroso di sfamarsi con quello che cadeva dalla mensa del ricco. Qui dobbiamo chiederci quale sia stato effettivamente il peccato del ricco epulone. Il v. 21 è orientato di fatto a questa particolare precisazione: il lettore potrebbe pensare che il peccato commesso dall'uomo ricco consista nell'avere negato a Lazzaro qualche cosa, ovvero un pezzo di pane. Il significato di tale versetto ci dice invece che il peccato del ricco non è questo. Infatti, si può leggere attentamente questa parabola da cima a fondo, ma non si troverà scritto in nessun punto che Lazzaro chieda qualcosa al ricco o che il ricco neghi qualcosa a Lazzaro. Quest'ultimo non è descritto mai nell'atto di chiedere; di lui si dice semplicemente che era desideroso di sfamarsi di quanto cadeva dalla mensa del ricco, ma non si dice mai che Lazzaro abbia chiesto qualcosa e che il ricco gliela abbia negata. Dov'è allora il peccato? L'evangelista Luca vuole qui sottolineare un aspetto estremamente importante dell'amore del prossimo: l'amore non consiste tanto nella negazione di una solidarietà quando qualcuno mi chiede aiuto; l'amore cristiano non si esaurisce nel fatto che qualcuno mi espone un bisogno, perché io intervenga. Esso ha una radice ben più profonda: la carità teologale intuisce il bisogno non espresso. Il peccato dell'uomo ricco non è quello di avere negato a Lazzaro qualcosa; del resto, Lazzaro non gli ha rivolto alcuna richiesta; semplicemente, l'uomo ricco non è stato capace di leggere dentro il suo animo, né è stato capace di cogliere il desiderio inespresso di quest'uomo povero, di cibarsi cioè almeno degli avanzi della mensa del ricco. Egli, in fondo, non avrebbe dovuto togliere nulla alle proprie ricchezze, e il povero avrebbe avuto di che sopravvivere.L'amore cristiano è dunque intuitivo, è capace di prevenire i desideri, di intervenire prima ancora che il bisogno sia manifestato con le parole, giacché talvolta la manifestazione del proprio bisogno è impedita dalla vergogna; la carità teologale è come l'amore di Dio, è un amore che legge dentro, che vede quello che c'è nel segreto e che risponde anche alle necessità inespresse. E' chiaro che tra le righe si intuisce pure una seconda verità: il ricco non è capace di leggere nell'animo di Lazzaro e di intuire i suoi desideri, perché è troppo concentrato su se stesso per poter vedere i bisogni degli altri. Inoltre, è offuscato dalla sua stessa ricchezza, che egli utilizza solo al proprio servizio; l'uso errato dei suoi beni, gli annebbia la mente. Tuttavia, la mente del ricco si snebbierà, ma ciò avrà luogo dopo la sua morte; infatti, il v. 22 traccia un confine tra l'al di qua e l'aldilà: "Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo, morì anche il ricco e fu sepolto". Una frase sobria, molto breve, densa però della sua allusione ai destini degli uomini, che dopo la morte si differenziano subito e spesso radicalmente. La morte rappresenta come l'ultimo confine dato all'uomo per convertirsi ed entrare nella luce, prima che il passaggio nell'aldilà renda impossibile qualunque ulteriore evoluzione spirituale. Proprio attraversando il confine della morte, la mente del ricco si illumina ed egli rilegge la sua vita sotto una chiave di verità. Ne consegue che, dal punto di vista cristiano, il giudizio di Dio, che riceviamo dopo la morte, non è un atto somigliante alla sentenza di un tribunale, ma è una presa di coscienza sull'esito della propria vita, considerata nella luce divina che ci investe e ci illumina sulla verità di noi stessi. Nella vicenda dell'uomo ricco Cristo vuole svelare anche il vero senso del giudizio di Dio sulla vita dell'uomo. Essere giudicati da Dio significa avere tolto quel velo che annebbia la nostra mente nell'al di qua, impedendoci di vedere secondo verità le cose che abbiamo sotto gli occhi; di vederle, cioè, come le vede Dio. Ma è possibile vedere le cose come le vede Dio? La parabola risponderà più avanti di sì.
    E' possibile vedere le cose come le vede Dio, prima ancora di avere valicato il confine della morte. Il giudizio di Dio, secondo l'insegnamento di Gesù, consiste quindi in questo: la propria vita riletta nella luce di verità, con cui Dio ci investe dopo la morte. Evidentemente, l'uomo ricco, durante la sua vita, non giunge a tanto. Per questo è necessario che la morte gli strappi il velo dagli occhi. Ma ciò non corrisponde al volere di Dio. Dio vuole infatti che questo velo ci sia tolto mentre siamo ancora in vita, come accade all'Apostolo Paolo, quando gli cadono dagli occhi delle squame ed egli riacquista la vista per l'imposizione delle mani di Anania (cfr. At 9,18). E' opportuno che questo avvenga prima della propria morte; anche la Vergine Maria nel Magnificat allude a questo, quando dice che Dio rovescia i potenti dai troni. Li rovescia alla sua venuta, ma non se essi ne discendono prima. Quest'uomo ricco è uno di quei potenti che non ha saputo scendere dal suo trono in tempo, e per questo è stato buttato giù alla venuta del giudice infallibile. Soltanto dopo egli apre gli occhi, e rilegge la sua vita secondo verità. Ma è già troppo tardi.
    E così, dopo che il ricco comincia a vedere la sua vita terrena come essa è stata agli occhi di Dio, si preoccupa per i suoi cinque fratelli che vivono come lui. Questo particolare ci sembra anch'esso degno di nota: quest'uomo ha cinque fratelli che vivono come lui. Ovviamente c'è dietro una storia familiare che va nella direzione sbagliata. Ci sono a volte delle consuetudini familiari, insieme a tanti atteggiamenti ereditati dai nostri antenati, che hanno bisogno di essere corretti alla luce del vangelo. Sono atteggiamenti che tante volte ci sembrano normali, appunto perché magari li abbiamo respirati fin dalla più tenera età, ma che dinanzi alla Parola di Dio non reggono e svelano i loro aspetti segnati dal peccato. Questi atteggiamenti, che stanno alla base della vita dell'uomo ricco della parabola, sono atteggiamenti comuni alla sua famiglia, e in certo un senso rappresentano l'eredità morale della suo albero genealogico, che egli non ha sottoposto al vaglio della Parola, mentre, da buon israelita, poteva ancora farlo.

    La Parola di Dio guarisce la vista interiore
    Alla domanda se poteva essere possibile per lui aprire gli occhi, prima del giudizio di Dio, viene risposto successivamente, per bocca di Abramo. Il suo intervento, da questo punto di vista, contiene un insegnamento di grande importanza per la vita cristiana: la Parola di Dio, ascoltata e creduta, è essa stessa un giudizio anticipato sulla propria vita. Tale giudizio, a differenza di quello che la Parola ci dà dopo la morte, ammette ancora, e integralmente, tutte le possibilità di ripresa. Dopo il confine della morte personale, c'è solo la conoscenza di sé nella luce di Dio, ma non la possibilità di cambiare. In questa nuova luce di autocoscienza, il ricco epulone si rivolge ad Abramo. Tale richiesta dell'uomo ricco, che ormai è giunto al punto terminale del suo fallimento - a differenza di Lazzaro che invece ha compiuto la sua identità nel seno di Abramo - è quella di mandare qualcuno dai morti per avvisare i suoi fratelli, che vivono male. Dietro la sua richiesta c'è ovviamente la convinzione, comune a molti, secondo cui la fede possa essere rafforzata da un'esperienza soprannaturale, o da una qualche particolare rivelazione, oppure da un qualche fenomeno con cui il Signore dia un segno tangibile della sua Presenza; il NT nega che questa convinzione sia veritiera. In molti passi del NT si nega che uno possa convertirsi per avere visto un miracolo, o per avere assistito ad una particolare manifestazione di Dio. Al contrario, il Cristo del vangelo non compie alcun miracolo dove non trova la fede. Attraverso le parole di Abramo, viene qui riaffermato questo insegnamento fondamentale, secondo cui la fede non è generata dai miracoli. Ci viene in mente anche il vangelo di Matteo, e precisamente nell'episodio dell'Ascensione, dove si dice che Cristo, prima di ascendere al cielo, si è manifestato ad un gruppo di discepoli che si prostrarono davanti a Lui; nello stesso versetto, però, lo stesso evangelista sottolinea che molti dubitavano. Ci chiediamo: come si fa a dubitare avendo Cristo davanti agli occhi nella sua veste di Risorto? E' chiaro allora come la fede non dipenda dalla visione, da manifestazioni o da rivelazioni particolari, ma dipende da un'altra cosa che possiamo cogliere facilmente nelle parole di Abramo. L'idea del ricco è quella che i suoi fratelli, assistendo all'apparizione di un'anima venuta dall'aldilà, possano convertirsi; ma Abramo lo avverte di non illudersi, perché la loro conversione non dipende da questo. Al v. 29 si dice finalmente da che cosa dipende la conversione dell'uomo: "Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro". E dinanzi all'insistenza del ricco, Abramo risponde precisando ulteriormente la verità che ha appena enunciato: "Se non ascoltano Mosè e i profeti neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi". Insomma, Abramo intende dire che se uno ascolta la Parola di Dio e non ne viene toccato, certamente non si potrà pensare che possono esserci dei miracoli, o delle apparizioni, che potranno spingerlo a interrogarsi. Questa considerazione, indirettamente, getta una ulteriore luce sulla vera causa della perdizione del ricco epulone: nel chiedere un miracolo per convertire i suoi fratelli, egli al tempo stesso si autogiustifica, quasi insinuando che a lui non fu concesso alcun segno divino durante il tempo della sua vita terrena, e perciò non ebbe lo stimolo a convertirsi. Abramo però gli lascia intendere che le cose stanno diversamente: egli, al pari di tutti gli altri israeliti, durante la sua vita conobbe Mosè e la legge del Sinai, e ciò gli sarebbe bastato per vivere bene, se avesse voluto ascoltare la Parola di Dio. Chi non è capace di entrare nell'ottica della fede all'ascolto della Parola di Dio, che risuona continuamente nella Chiesa per la predicazione apostolica, difficilmente giungerà alla fede per qualche altra via. Noi non abbiamo nessun'altra possibilità di arrivare a Dio, in questa vita. Il canale ordinario della sua rivelazione è la predicazione della Chiesa. Chi va a cercare altri sentieri di ricerca spirituale, rischia di disperdersi in una serie di tentativi che possono solamente risolversi nel gusto dello straordinario ma non nell'autentica e profonda esperienza della fede della Chiesa. La Parola di Dio ci snebbia la mente prima della nostra morte; la Parola di Dio ci permette di guardare alla nostra vita con la chiave giusta, come in un giudizio anticipato, da cui però possiamo sempre essere assolti, finché siamo in vita.

    Il senso della preghiera del ricco
    Un ultimo problema riguarda il modo di interpretare l'apparente preghiera di intercessione del ricco che si trova nell'inferno. Fa certamente pensare il fatto che quest'uomo, indifferente alle necessità del prossimo durante la vita, da morto si preoccupi della sorte ultraterrena dei suoi fratelli. Ma è davvero una preoccupazione per loro? La teologia ci costringe a rispondere di no. La persona che cade nell'eterna perdizione non è più capace di sentimenti umani. Meno che mai è capace di pregare. Significativamente, egli parla con Abramo e non con Dio. Se parlasse con Dio, sarebbe una preghiera di intercessione, ma Dio non è presente nelle sue parole, neppure di riflesso: egli non chiede ad Abramo di ottenere da Dio il permesso di mandare Lazzaro sulla terra; gli dice semplicemente: "Ti prego di mandarlo a casa di mio padre", come se Abramo potesse disporre a suo piacimento gli spostamenti di Lazzaro. Non è quindi una preghiera la sua, e non è neppure la preoccupazione della sorte ultima dei suoi fratelli, ciò che lo spinge a parlare in quei termini. Ciò che lo preoccupa unicamente è l'aumento dei suoi tormenti personali, nel momento in cui i suoi fratelli fossero caduti nel medesimo abisso. Il nostro peccato personale, infatti, ci tormenta non solo in proporzione ai danni che produce, ma anche in proporzione della cattiva testimonianza con la quale abbiamo trascinato altri lontano da Dio col nostro modo di vivere, coinvolgendoli in diversi modi nelle nostre scelte sbagliate. Evidentemente, il suo modo di vivere ha coinvolto i suoi fratelli nel suo stesso stile, o comunque non li ha aiutati a migliorare se stessi. Egli sa di essere in parte responsabile del peccato attuale dei suoi fratelli e perciò teme l'aumento della sua angoscia, che potrebbe conseguire alla loro perdizione.
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    00 23/02/2006 02:09
    La parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-14)
    La parabola si può leggere CLICCANDO QUI


    La descrizione indiretta del Regno

    Questa parabola del banchetto nuziale viene ripresentata all'interno dei vangeli sinottici anche da Luca, con particolari leggermente diversi e, in un certo senso, con delle specificazioni ulteriori; per questo sarà opportuno tenere presente anche la versione di Luca, in vista di una migliore intelligenza della parabola stessa. Il primo versetto introduttivo riguarda l'insegnamento in parabole che sembra essere stata una parte molto ampia dell'insegnamento di Gesù, soprattutto in riferimento ai misteri del Regno. Cristo non ne ha mai parlato in modo diretto, e ciò ha un grande peso per la nostra vita cristiana: con le nostre parole umane, con il nostro linguaggio, non possiamo dire in maniera adeguata cosa sia il regno di Dio. Si tratta infatti di una realtà che supera così tanto la nostra esperienza, la nostra immaginazione, la nostra capacità di comprensione, che non si può esprimere se non con dei paragoni o delle similitudini, che ci aiutano ad avvicinarci alla conoscenza della sua realtà, anche se solo in modo analogico. Appunto per questo, Gesù parla del regno dei cieli esprimendosi solitamente in questi termini: "Il regno dei cieli è simile a……".

    Il Regno di Dio è simile a una Persona
    La similitudine stabilita da Gesù è sempre in relazione a una persona e mai a una cosa: Il regno dei cieli è simile a: "un re che convoca per un banchetto di nozze", "un uomo che aveva due figli", "il seminatore che esce a seminare"… Il regno di Dio, insomma, non è una circostanza, non è un insieme di cose da fare o da non fare: il regno di Dio è evidentemente una Persona: il regno di Dio coincide con la Persona stessa di Dio che ci convoca per stabilire con noi una alleanza. Nella nostra parabola, la convocazione ha l'aspetto di un banchetto di nozze.La convocazione dell'umanità intorno ad una mensa è un elemento che troviamo nei due vangeli di Matteo e di Luca, con una piccola differenza nel racconto di quest'ultimo: in Lc 14,16 Cristo dice: "Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti". Per Luca si tratta semplicemente di una grande cena, particolarmente solenne, dove ci sono molti invitati. Per Matteo, invece, questa cena ha un carattere molto determinato, perché si tratta di festeggiare il figlio del re, e perciò tale convocazione acquista un aspetto squisitamente cristologico: "Un Re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" richiama il matrimonio di Dio con l'umanità, avvenuto in Cristo. L'occasione di questa convocazione quindi per Matteo è il matrimonio del figlio del re, che riporta appunto l'eco di un particolare titolo cristologico, che è quello di "Sposo". Infatti, gli amici dello Sposo non possono digiunare mentre lo Sposo è con loro (cfr. Mt 9,15).

    La libertà umana dinanzi alla convocazione
    Il regno di Dio è un banchetto di nozze dove tutti veniamo invitati. In entrambe le parabole, quella di Matteo e quella di Luca, va notato come l'esito di questo banchetto non è determinato da Colui che invita, ma dall'atteggiamento che assumono gli invitati. In entrambi i racconti, poi, Dio è presentato con una forte volontà di incontrare l'uomo e di ammetterlo alla comunione con Sé, una volontà determinata, al punto che, quando i primi invitati rifiutano l'invito, il re non si rassegna e manda altri servi a chiamare ai crocicchi delle strade tutti quelli che incontrano. Un banchetto di nozze per Matteo, una grande cena per Luca, ma l'elemento comune a queste due immagini è il carattere dell'intimità: non si può infatti ammettere alla propria mensa se non chi vive con noi una comunione di amicizia o di parentela o di fraternità. Questa convocazione di Dio, che ci invita a partecipare al suo banchetto, alla sua mensa, indica non soltanto la volontà di farci entrare in una profonda amicizia con Lui, ma in qualche modo di sollevarci fino al suo livello. Il nostro battesimo ci colloca di fatto in una sfera divina: essere suoi figli, significa condividere la sua vita; è annullata la distanza tra la divinità e l'umanità. Cristo dirà ai suoi discepoli: "Non vi chiamo più servi… ma amici" (Gv 15,15). Entrambe le immagini, il banchetto di nozze per Matteo e la grande cena per Luca, sottolineano sia la volontà esplicita di Dio di stabilire con noi un dialogo profondo, intimo come quello di due sposi, sia quella di sollevarci verso di Sé nella comunicazione della sua stessa vita divina. Ammetterci alla sua mensa significa considerarci in qualche modo come parte integrante della sua casa, e quindi della sua sfera divina. Ma qui la parabola entra in merito a una differenziazione di destini, che entrambi i racconti attribuiscono alla posizione presa dagli invitati. Gli atteggiamenti degli invitati, e le loro motivazioni, vanno considerati con attenzione, perché contengono alcune verità che nella vita cristiana non si possono sorvolare. Al v. 3 del testo di Matteo si dice che il re mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze. Essi risposero ciascuno a suo modo. La libertà umana, dinanzi alla divina convocazione, è intatta; non c'è nessuna forma di coercizione o di costrizione da parte di Dio. Il Signore ha voluto correre con noi il rischio di un'alleanza con una creatura libera, che può voltargli le spalle quando vuole, e nel momento in cui gli volta le spalle, precipita nella morte. L'amore di Dio non si manifesta nel sostituirsi a noi, decidendo per noi; l'alleanza con l'umanità ha il carattere essenziale della libertà, così che Dio non influisce mai su tutto quello che noi potremo liberamente decidere. Il fatto che il v. 3 sottolinei l'atteggiamento degli invitati con un atto volitivo, anche se in forma negativa: "non vollero", indica che la convocazione ha un carattere di proposta e mai di imposizione. Il v. 4 sottolinea anche un altro aspetto di questo pranzo: c'è una grande abbondanza di cibi. I doni di Dio, infatti, non sono mai limitati o razionati. Il Signore non si comporta come un avaro che invita e poi offre qualcosa di scadente o solo dentro una determinata misura. La parabola parla di buoi, di animali ingrassati che sono già macellati, tutto è pronto; il lettore percepisce da questi particolari come l'abbondanza del dono di Dio non abbia limiti di generosità. Dall'altro lato, il v. 5 è un versetto di grande importanza, soprattutto se lo mettiamo a confronto con il testo parallelo di Luca. In questo versetto l'atteggiamento degli invitati si descrive così: "Costoro non se ne curarono, se ne andarono chi ai propri campi, chi ai propri affari". Il secondo termine della nostra scelta è sempre qualcosa che riguarda la nostra vita personale, e così, tra Dio e noi stessi, scegliamo talvolta noi stessi, perdendo il dono di Dio; questi sono i due termini perenni entro cui si muove la nostra risposta. In maniera molto più particolareggiata, il vangelo di Luca, ai vv. 18-19, dice "Ma tutti, all'unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego considerami giustificato. Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato. Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire". Qui Luca, più ancora di Matteo, sottolinea qual è il vero grande impedimento che si pone davanti a noi, e ci blocca nella nostra risposta al Dio che convoca. Dinanzi a questo versetto dobbiamo correggere un nostro pensiero, e una nostra convinzione abbastanza diffusa; noi pensiamo che l'unico nostro ostacolo alla risposta dinanzi alla chiamata di Dio, alla sua divina convocazione, sia il peccato inteso come trasgressione della sua Legge. Questo è vero, ma non è l'unica cosa che ci ostacola, perché eliminato il peccato come trasgressione, potrebbe rimanere - e di fatto rimane - un altro ostacolo tanto più pericoloso quanto più è camuffato. Contrariamente a quanto il buon senso possa suggerire, Satana compie la sua opera più distruttiva non attraverso il male, ma attraverso un bene falsificato, che porta fuori strada chi è privo di discernimento. E' soprattutto Luca che sottolinea questa trappola micidiale del bene falsificato, nella quale il cristiano non deve cadere. Se analizziamo le motivazioni per le quali gli invitati rifiutano di andare al banchetto, ci accorgiamo che nessuna di esse è banale e, soprattutto - particolare di grande importanza - nessuna di esse esprime la scelta esplicita del male. Rileggendo i versetti da 18 a 20 del testo di Luca, indubbiamente più accurato e più esplicito da questo punto di vista, dobbiamo fare questa considerazione: ciò che impedisce a questi invitati di partecipare, e in definitiva di rispondere positivamente all'invito del re, sono delle motivazioni serie, ragionevoli, insospettabili, che formano la trama della loro vita quotidiana. Il primo dice: "ho comprato un campo e devo andare a vederlo". E' una cosa importante da fare, nessuno ne dubita; dal punto di vista umano, nessuno si sentirebbe di biasimarlo. Anche la motivazione del secondo personaggio, quello che ha comprato cinque paia di buoi e deve andarli a provare, sembra una cosa ragionevole, e anche di una certa urgenza. Quell'altro ancora, che non aderisce alla convocazione perché ha preso moglie, cosa gli si può rimproverare? Ci sono infatti dei doveri derivanti dalla famiglia, e degli obblighi da osservare verso i propri congiunti. Nessuna persona ragionevole, di fronte a queste giustificazioni, si sentirebbe di dire qualcosa, né tanto meno di biasimare i personaggi della parabola, impediti dai loro "seri" impegni. Ciò finché si guarda la parabola dal punto di vista degli invitati. Se, invece, si guarda la medesima scena, dal punto di vista di Colui che invita, le prospettive cambiano di colpo: allora si ha l'impressione che questi personaggi, che hanno rifiutato l'invito per i loro motivi importanti, non abbiano capito il valore del tempo trascorso accanto a colui che li convoca. Nell'orizzonte della parabola, colui che invita non è un uomo qualunque: un re per Matteo, un ricco signore per Luca. Fuori dalla parabola: non si tratta di rispondere a Dio solo nei tempi in cui non si ha niente di importante da fare, perché tutti noi, all'orario della Messa, o a quello di un momento di preghiera o di catechesi, potremmo fare una lista di cose importanti che ci attendono, cose su cui nessuno potrebbe dirci niente: impegni familiari, lavorativi, amici che vengono a far visita…, ma il problema vero è un altro: "Ho capito cosa significa passare anche solo un minuto accanto al Signore che mi convoca?". Se il salmista può dire che "Un solo giorno passato negli atri del Signore vale più che mille altrove" (Sal 84,11), ciò vuol dire che, forse, l'ordine dei valori dentro di me ha bisogno di essere aggiustato alla luce del primato assoluto di Dio, anche su determinati obblighi personali. Vale a dire: quando i miei obblighi e i miei doveri mi impediscono sistematicamente il cammino di fede, c'è qualcosa che non funziona. Si tratta di recuperare insomma il retto ordine dei valori, come accade troppo tardi al ricco epulone, che apre gli occhi solo dopo essere passato nell'aldilà. Il testo del vangelo di Matteo continua presentando di nuovo il re nell'atto di rifare la convocazione: il primo significato riguarda la chiamata dei pagani dopo il rifiuto degli ebrei, ma ci sono anche altri livelli di interpretazione: Dio non si arrende nell'invitare l'uomo, e non c'è nessun modo di poterlo scoraggiare davanti a tutti i "no" che gli vengono detti. In realtà, anche quelli che vivono nello Spirito, gli somigliano in questo: non si scoraggiano mai, perché assumono gli stessi atteggiamenti di Dio. Ha fatto la prima convocazione ed è andata male, allora Dio ne fa, e ne farà, tante altre senza mai stancarsi; noi non possiamo mai scoraggiare il Signore. Anche chi vive nella santità cristiana vive così, con un irriducibile ottimismo. E in questa seconda convocazione, la sala del banchetto finalmente si riempie.

    L'ingresso del re, metafora del giudizio
    Matteo fa notare un altro particolare che non troviamo in Luca, il quale conclude la parabola con quell'immagine della convocazione ulteriore, dopo che la prima aveva avuto un esito negativo. Così si riempie la sala. Matteo, invece, presenta un successivo quadro: quello del re che entra nella sala del trattenimento dove ci sono i suoi invitati che banchettano e fanno festa a suo figlio. Lui entra e li guarda. Il suo non è uno sguardo generico, che si posa su tutti e su nessuno; egli guarda con attenzione i singoli invitati, tant'è vero che ne scorge uno che non indossa l'abito nuziale. Quest'immagine indica che, pur nel numero sterminato di uomini, Dio mantiene un rapporto personale e diretto con ognuno di noi; un rapporto personale che sfocia in una valutazione dell'esito della nostra vita. E' sotto questo aspetto che dobbiamo comprendere il senso dell'abito nuziale. Dall'altro lato, accanto al significato dell'abito nuziale, va notato pure che nessuno dei commensali se ne accorge. La parabola sottolinea che solamente lo sguardo del re è capace di distinguere realmente tra gli invitati chi ha l'abito di nozze e chi non lo ha. Non si trova in quest'ultima immagine della parabola alcuna forma di giudizio reciproco tra i commensali: i commensali non si guardano tra loro, non esprimono giudizi di sorta, sono semplicemente lì. Il giudizio è riservato infatti solo al re che entra e guarda, e solo lui distingue chi ha l'abito adeguato alla circostanza. Qui la parabola indica a un tempo due verità complementari: il giudizio riservato solo a Dio e la rinuncia al giudizio reciproco, perché nessuno è abilitato a farlo. Ci manca la capacità di leggere i cuori, e perciò nessuno di noi può accorgersi se quest'abito gli altri lo indossino oppure no. L'abito di nozze indica in definitiva ciò che uno deve mettersi di suo per presentarsi a Dio. Il v. 8 merita una certa attenzione, ancora prima di entrare nel discorso relativo all'abito nuziale: il re che si indigna dopo i primi rifiuti, dice ai suoi servi: "Il banchetto nuziale è pronto ma gli invitati non ne erano degni". Questa osservazione del re non riguarda una indegnità anteriore alla chiamata, perché se fossero stati indegni prima della chiamata, non li avrebbe neppure invitati. Sembra piuttosto che le cose stiano al contrario, e cioè che gli invitati dimostrano di essere degni dell'invito nel momento in cui rispondono di sì all'invito stesso. Dio non ci invita alla sua mensa, perché noi siamo degni di parteciparvi, ma, al contrario, è proprio in forza del suo invito che noi ne diventiamo degni. E quando al v. 8, il re che ha preparato il banchetto di nozze per suo figlio, osserva, con una innegabile amarezza, che gli invitati non ne erano degni, si riferisce evidentemente all'indegnità che è conseguente al rifiuto. Nel momento in cui il nostro rifiuto pone un ostacolo all'azione di Dio nella nostra vita, diventiamo per ciò stesso indegni di Lui, perché gli impediamo di elevarci fino a Sé; ciò significa ancora che Dio non ha bisogno dei nostri meriti personali, anzi, è Lui che ce li conferisce, nel momento in cui ci trova disponibili e aperti alla sua grazia. Il testo poi continua mettendo in evidenza il fatto che questa dignità, derivante dal nostro sì, diventa in qualche modo nostra, perché la nostra volontà di aderire a Lui è l'unica cosa veramente "nostra" che noi possiamo metterci. La nostra dignità è un suo dono. Ma nella misura in cui noi "la vogliamo", essa diventa nostra. Il fatto che tale dignità (la dignità di essere figli di Dio) si presenti come abito di nozze, significa che quel merito, quella dignità che Dio ci dona gratuitamente - e che noi chiamiamo "giustificazione mediante la fede" -, questo dono, una volta accolto da noi, diventa nostro. Ecco perché i commensali si presentano con un abito proprio, anche se in verità deriva dal re che li ha invitati. Questo abito, che indica la nostra dignità filiale recuperata in Cristo (l'abito indica infatti la dignità della persona), è segno della santità personale, che risulta dalle virtù e dai doni dello Spirito. Il fatto che il personaggio della parabola sia privo dell'abito nuziale, significa che un battezzato può anche dare una cattiva risposta alla grazia, una risposta cioè insufficiente o parziale, così che un eletto possa anche decadere dalla grazia. Egli di fatto era già entrato nella sala del banchetto, ma l'incontro col re lo costringe a uscire. Questo incontro simboleggia il cosiddetto "giudizio particolare" che si verifica per ciascuno subito dopo la morte.

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    00 04/03/2006 19:30
    La parabola del seminatore (Mt 13,3-23)
    "E disse: Ecco il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un'altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c'era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un'altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un'altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi intenda. Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: Perché parli loro in parabole? Egli rispose: Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani. Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono! Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l'uomo che ascolta la parola e subito l'accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto. Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta"


    La Parola e il seme

    La parabola del seminatore rappresenta una grande metafora dell'evangelizzazione e in modo particolare del rapporto dell'uomo con la Parola di Dio. Il primo punto che merita una certa attenzione è il paragone tra la Parola e il seme. Le similitudini evangeliche hanno una ragione e, talvolta, una profondità teologica nascosta nei misteri della natura. Il senso dell'accostamento "Parola-seme", è chiarito meglio da Marco che non da Matteo. In particolare, l'evangelista Marco riportando le parole di Cristo si esprime così: "Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché venuta la mietitura" (Mc 4,26-29).
    Questa ripresa del tema che troviamo in Marco, ma non in Matteo, ci dà un primo riferimento per la comprensione di questa metafora. La Parola somiglia al seme perché il seme ha dentro di se un'energia, una vita intrinseca che si sprigiona quando esso viene deposto nella terra fertile a prescindere da colui che l'ha deposta. Così il ministro della Parola depone la Parola nei cuori ed essa produce i frutti con la sua efficacia senza, che l'annunciatore possa più influire. E' proprio per questo che l'apostolo Paolo, trovandosi in carcere e ricordando alcuni che annunciano la Parola per motivi personali o di rivalità, si esprime in questi termini: "Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa. Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene" (Fil 1,15.18).
    Dall'altro lato però il seme ha anche un'altra caratteristica: non può svilupparsi se non trova un terreno adeguato. Se dal punto di vista di Dio la Parola è infallibile, dal punto di vista dell'uomo essa potrebbe fallire. Il motivo fondamentale per cui Cristo ha voluto paragonare la Parola al seme è legato quindi a questi due aspetti: l'aspetto dell'efficacia che la Parola possiede di suo, e l'aspetto dello sviluppo che è determinato dalle disposizioni di chi la riceve. Il fatto che la Parola sia paragonata al seme e non al frutto ci dice ancora un'altra cosa. Il Signore non sembra disposto a offrirci la sua grazia in una maniera completa. Tutti i suoi doni hanno un carattere embrionale come quello del seme. Lo sviluppo verso la pienezza dei frutti, pertanto, in qualche maniera dipende da ciò che uno ci mette di suo. Infatti, mentre Marco sottolinea in modo particolare il carattere efficace della Parola, la prospettiva di Matteo sembra focalizzare maggiormente le disposizioni di chi riceve la Parola, disposizioni che vengono rappresentate dall'immagine della terra.

    La terra e il cuore

    La prima cosa che colpisce il lettore è che vengono considerati quattro tipi di terreno di cui soltanto uno ha la capacità di mutare in frutto ciò che il seme contiene in modo embrionale. Ciò vuol dire che l'evangelizzazione non raggiunge sempre i suoi effetti e incontra un terreno ostile tre volte su quattro. Dall'altro lato, guardando la terra buona, il Maestro non dice che essa porta sempre il massimo frutto. La Parola, infatti, soltanto una volta su quattro giunge a destinazione e quando vi giunge soltanto una volta su tre produce il cento per cento. Queste proporzioni, per un certo verso impressionanti, ci dicono che la santità piena è rarissima. Il terreno che porta frutto per il sessanta e per il trenta rappresenta quella condizione di risposta parziale in cui la persona non è così cattiva da andare all'inferno ma non è neanche così santa come Dio vorrebbe che fosse.Le diverse disposizioni dell'uomo dinanzi alla Parola, vengono definite dalla parabola attraverso immagini simboliche che nel contesto biblico hanno un loro significato.Il v. 4 indica una prima condizione che soffoca la Parola: "Mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono". Il seme che cade sulla strada si deposita solo in superficie ma non penetra perché non trova spazio. Dietro questa immagine ci sembra di sentire l'eco di Giovanni 8,37: "So che siete stirpe di Adamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia Parola non trova spazio in voi". Nel suo dialogo con i Giudei, Cristo percepisce che la sua Parola non trova spazio negli ascoltatori. Si potrebbe esemplificare in molti modi la mancanza di spazio della Parola, ma si potrebbe indicare la radice ultima che consiste nella pienezza di se stessi. Al v. 19, nella traduzione dei simboli, Cristo dice che quando la Parola non trova spazio non rimane affatto ma viene rubata: "Viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore". Il Maligno viene presentato in questa parabola come una presenza minacciosa che accompagna l'evangelizzazione e intercetta il seme della Parola per rubarlo, impedendogli di depositarsi e di germogliare nel cuore degli ascoltatori. Satana, infatti, raggiungerebbe un obiettivo scarso se volesse ostacolare solo gli evangelizzatori; in realtà lui sa bene che gli giova molto di più intervenire su coloro che ascoltano, derubandoli della grazia che la Parola porta con se quando viene accolta nella fede. Di fatto, questa azione di Satana non avviene soltanto quando la Parola non trova posto nel cuore umano, ma anche quando la Parola viene accolta con gioia occorre stare bene attenti a non lasciare spazi al Maligno che sta in agguato per depredare di tutto quanto il Signore dona ai suoi figli. Se le insidie di Satana sono sempre tendenzialmente in agguato, esse si addensano soprattutto nei momenti forti di incontro col Signore, quali i momenti di preghiera, di istruzione religiosa e le giornate di ritiro.Basta infatti molto poco a turbare la mente e impedire così l'ascolto profondo: una parola udita che crea un'alterazione dell'animo, un imprevisto, un impedimento, per essere derubati di quello che la Parola può depositare dentro di noi. La Parola, allora, non solo va accolta e meditata ma va anche custodita e difesa dagli uccelli predatori (qui vi è un riferimento ad Abramo che scacciava gli uccelli che scendevano sugli animali separati, cfr. Gen 15,11). Questa difesa della Parola è parte integrante del combattimento spirituale.La parabola prevede una seconda condizione che anch'essa è abortiva: "Un'altra parte cadde in un luogo sassoso, dove non c'era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo" (v. 5). La Parola di Dio abortisce nel cuore di coloro per i quali la vita è uno sciopero continuo, dove tutto si vive in superficie, dove tutto serve per svagarsi, per ridere e per distrarsi. Nell'incontro con la Parola occorre imparare la meditazione, scendere nel profondo di sé, perché la Parola non manifesta i suoi significati in superficie. Non è un caso che nel medesimo capitolo 13, al v. 44, Matteo riporta un'altra similitudine tratta dalla natura che ha un certo implicito collegamento col v. 5 dove si fa menzione del terreno poco profondo: "Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi pieno di gioia và, vende quello che ha e compra quel campo". Questo versetto indica un rapporto con la Parola che non si ferma alla superficie, ma che piuttosto compie un lavoro di scavo così come si fa per trovare un tesoro nascosto. Come avviene per la ricerca di un tesoro, lo scavo non sempre porta ad una scoperta immediata ma bisogna perseverare anche quando non si trova niente. Talvolta dinanzi alla Parola si può avere l'impressione di scavare senza trovare nulla; in questi casi occorre pazientare e continuare a scavare. In realtà il Signore prova così la nostra tempra. Il libro dei Proverbi paragona l'atteggiamento del saggio a uno che scava: "Figlio mio, se accoglierai le mie parole e conserverai con te i miei precetti, volgendo alla sapienza il tuo orecchio, se ricercherai la sapienza come si cerca l'argento e per essa scaverai come si scava per i tesori allora…" (Prv 2,1-4). Il rapporto con la Parola non è facile ma esige forza di volontà, uno scavo costante e instancabile, perché da essa si deve trarre il nutrimento della vita. Per contrasto, visto che del terreno buono non si dice nulla, si comprende che il seme porta frutto in un cuore che sa fermarsi, che sa scendere dentro di sé e meditare. La vita cristiana non può procedere verso gli stadi superiori senza la profondità della meditazione. Al v. 21 Cristo accosta la mancanza di profondità all'incostanza: "Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l'uomo che ascolta la parola e subito l'accoglie con gioia, ma non ha radice in se ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato". Colui che non è capace di meditazione è di conseguenza incostante, volubile, oscillante tra diverse possibilità senza essere mai capace di sceglierne una e di seguirla fino in fondo. La mancanza di meditazione impedisce alla Parola di radicarsi e la Parola rimane vittima delle debolezze umane. Infine c'è un'altra condizione abortiva rappresentata dalle spine che crescono soffocano la Parola: "Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto" (v. 22). Le spine che soffocano la Parola sono costituite da fatti, circostanze, preoccupazioni non necessarie sulla propria vita, ingigantimenti vari, un insufficiente abbandono del cuore alla volontà di Dio; tutte queste cose talvolta riescono a occupare lo spirito umano come inutili detriti trasportati da un fiume. A volte il bombardamento delle cose inutili, che soffocano la Parola, può derivare dall'insufficiente libertà nei confronti degli altri, i quali, con le loro parole ci turbano. I farisei in tono forse ingannevole riconoscono a Cristo una caratteristica reale che deve essere di ogni cristiano: "Noi sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno" (Mt 22,16). La condizione contraria a quella delle spine, si definisce come la libertà interiore di chi, in forza delle proprie scelte, procede dritto dinanzi a sé e non si turba mai per le parole, per i gesti, per le decisioni di quelli che gli vivono intorno. Il cristiano vive, decide e agisce sulla base dei valori della propria coscienza che sono sufficienti a dare la serenità dinanzi alla vita. Diversamente ci saranno tante piccole sudditanze o dipendenze che occupano lo spazio della interiorità umana e lo sottraggono alla signoria della Parola. Fino a quando tutti i signorotti non vengano abbattuti, la Parola non troverà il suo spazio adeguato. La conseguenza sarà l'aborto della vita nuova e della santità. L'inganno della ricchezza, invece, rappresenta la deviazione del cuore umano verso una gerarchia di valori non esatta che mette in prima posizione le realtà materiali o gli interessi personali. Un'altra indicazione sulla realtà della Parola e della sua efficacia è contenuta nei versetti intermedi tra la parabola e la sua traduzione simbolica ovvero nei versetti da 10 a 17. Il versetto 10 si apre con una distinzione implicita tra la posizione dei discepoli e quella delle folle che ascoltano la Parola di Cristo: "Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero:Perché parli loro in parabole?". Evidentemente la domanda presuppone una distinzione e lascia intendere che ai discepoli Cristo spiegava tutto. Infatti anche nel capitolo 13 di Matteo si dice che, quando Cristo lascia la folla ed entra in casa, i discepoli gli si accostano dicendo: "Spiegaci la parabola della zizzania nel campo" (v. 36). Tale immagine molto significativa fa leva ancora una volta sulla medesima distinzione. La risposta di Cristo all'osservazione dei discepoli è questa: "Per questo io parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono,e pur udendo non odono e non comprendono" (v. 13). Questa citazione di Isaia viene accompagnata da una premessa: "A voi è dato di conoscere i misteri del Regno dei cieli, ma a loro non è dato" (v. 11). Il significato di questa risposta del Maestro va cercato proprio nell'atteggiamento diverso dei dodici rispetto alla folla. Quando nel capitolo 13 di Matteo i discepoli entrano in casa e gli chiedono la spiegazione della parabola della zizzania, della folla si dice che rimane dov'è. Il Signore, insomma, vuole darci le sue ricchezze con infinita generosità, ma non è disposto a riversarcele addosso senza una ricerca di Lui, faticosa e costante, da parte nostra. Cristo parla in parabole per questo: per stimolare una ricerca più profonda della sua verità in quelli che sono già in cammino e per mettere in movimento coloro che sono ancora fermi.
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    00 08/03/2006 19:10
    La parabola dei talenti
    La parabola dei talenti



    Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. Venuto, infine, colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglieteli dunque il talento, e datelo a chi ha dieci talenti. Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti" (Mt 25,14-30; cfr. Lc 19,12-27)

    Questa parabola si integra all'interno dei discorsi di Gesù sulle ultime cose, ossia nei cosiddetti "". La dottrina sulle ultime cose:discorsi escatologici; riguarda non soltanto la fine del mondo ma anche la fine della vita personale di ogni uomo. Infatti, finché viviamo nel corpo abbiamo tempo e possibilità di scegliere, di decidere, di evolverci, di migliorare o anche di peggiorare; con la morte, però, si chiude il tempo di pellegrinaggio e veniamo fissati in quella evoluzione personale a cui siamo giunti nel momento in cui moriamo. Il vangelo ci suggerisce di valorizzare il tempo che abbiamo a disposizione perché, una volta concluso, non è più possibile un ulteriore cambiamento.La parabola dei talenti si colloca dentro questa dottrina escatologica esposta ai capitoli 24 e 25 di Matteo che riguarda la fine del mondo e la fine dello stato di pellegrinaggio dell'uomo. Questa parabola ha un suo parallelo nel vangelo di Luca, al capitolo 19, e si colloca subito dopo l'incontro di Gesù con Zaccheo. Tra le due redazioni vi sono piccole variazioni di dettaglio, che prenderemo in considerazione come elementi integrativi nella comprensione di questa parabola. All'interno del discorso di Matteo, la parabola ha una collocazione ben precisa. Essa si trova immediatamente prima la descrizione del giudizio finale (comunemente chiamato "giudizio universale") che comincia al versetto 31 del capitolo 25. La parabola dei talenti comprende i versetti da 14 a 30. Questa collocazione sta a significare qualcosa? Matteo, attraverso questi due quadri accostati l'uno accanto all'altro con una sequenza ravvicinata, intende descrivere i due giudizi incontro ai quali noi andiamo. La dottrina della Chiesa ha voluto appunto spiegare queste due realtà con i termini di "giudizio particolare e giudizio universale". La parabola dei talenti, come si vede dall'insieme del racconto, riguarda il giudizio particolare.

    L'affidamento dei beni

    Nella parabola si narra di un personaggio che parte per un viaggio indefinitamente lungo, dopo aver affidato i suoi beni ai servi; al suo ritorno egli chiede ai suoi servi di rendere ragione del modo in cui hanno amministrato i suoi averi, esprimendo alla fine, su ciascuno di essi, un giudizio. Questa è l'immagine del giudizio particolare che si verifica immediatamente dopo la nostra morte. Il giudizio finale invece non è compiuto a livello personale ma è la conferma sul piano universale di ciò che è emerso nei singoli giudizi personali. Il primo versetto chiave è il 14: "Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni". Nella simbologia, della parabola questo uomo che parte per un viaggio, e che consegna in affidamento ai suoi servi i suoi beni, rappresenta Dio. Questo versetto intende dare un'interpretazione cristiana della vita, superando l'illusione della proprietà, che accomuna tutti coloro che vivono senza Dio. Nella visione cristiana delle cose, non c'è nessuno che possieda veramente qualcosa. Anche per noi battezzati questo concetto entra spesso con difficoltà nella nostra mentalità. Il segnale sicuro di un atteggiamento padronale nei confronti della vita è costituito dal fatto che al mattino ci alziamo e diamo per scontato che ciò che abbiamo, a partire dal respiro, ci sia dovuto; non ci meravigliamo del fatto che respiriamo, ci muoviamo, abbiamo la percezione del mondo, l'intelligenza, la vita che palpita in noi. Dio, attraverso il v. 14, vuole smascherare proprio questo inganno, dicendoci che tutto quello che abbiamo è un suo dono, e che il vero proprietario è Lui. Questo cambiamento di prospettiva ci consente di guardare alla nostra vita con occhi di meraviglia e di gioia, perché siamo oggetto di un Amore generoso, che elargisce doni senza limiti. In realtà, cancellare dalla nostra coscienza la sensazione che siamo oggetto di doni ininterrotti da parte di Dio, ci impedisce di essere felici e al tempo stesso elimina dal nostro cuore la disposizione della gratitudine. In questo versetto ci viene dato un modo particolare di interpretare la vita presente in relazione al giudizio futuro: quel giudizio pronunciato nell'aldilà, subito dopo la nostra morte, non è altro che la conseguenza di come noi ci siamo posti dinanzi ai doni di Dio nell'aldiqua. Questa presa di posizione, compiuta negli anni della vita terrena, determina l'orientamento della nostra evoluzione personale, che si arresta nel momento della morte. Per quanto ci è dato di leggere nella nostra coscienza, nel giudizio finale, non ci sarà - non ci potrà essere - alcuna sorpresa su noi stessi; per gli altri sicuramente sì, perché tante persone che noi riteniamo in difetto davanti a Dio, in base a ciò che vediamo esteriormente, magari le troveremo più in alto di noi nella gloria di Dio. Ma per noi stessi non ci potrà essere alcuna sorpresa, perché ciascuno di noi sa bene in che direzione si sta evolvendo.Nella parabola si dice che, dopo la consegna dei beni, il padrone parte. In realtà il cristiano davanti al mondo e davanti alla vita si trova così: è come se Dio gli avesse consegnato delle cose e poi fosse uscito di scena. L'impressione che abbiamo, guardando la vita senza il filtro della fede, è che Dio sia partito per un viaggio e che non sia qui con noi, oppure che sia uno spettatore distaccato del dramma che si svolge nel mondo. Il v. 14 descrive proprio questa impressione con un'immagine narrativa: "Un uomo che partendo per un viaggio". Al v. 15 si descrive la modalità della distribuzione dei beni: "A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì". Questo versetto suscita nel lettore alcune perplessità: perché Dio non dà a tutti gli stessi doni? Alcuni sono arricchiti di più e altri meno? Bisogna parteggiare allora per il servo che ha ricevuto un solo talento, visto che rispetto agli altri è stato penalizzato? Chi si sentirà di biasimarlo per avere sotterrato un dono così poco generoso?
    Si tratta però di perplessità legittimate soltanto da una lettura superficiale del racconto, come ben presto si vedrà.
    Doni diversi per un unico fine
    Dio elargisce i suoi beni, e ciascuno di noi, quando vive con la coscienza illuminata dalla fede, si sente come un servo che deve amministrare dei beni non suoi. Talvolta, quando comprendiamo che quello che abbiamo ci è stato donato, cominciamo a guardare intorno a noi, chiedendoci che cosa Dio abbia dato agli altri. Vogliamo così dedurre quanto Dio ci ami, a partire dal confronto dei doni che Egli ha elargito a noi e agli altri. In questo processo di confronto cominciamo a cadere in una serie di errori, che vengono alla luce a una lettura attenta del testo matteano. Dinanzi alla semplice lettura di questo versetto già citato, la prima reazione istintiva, osservando la diversità di criteri con cui Dio distribuisce le sue ricchezze, è quella di pensare: "Poverino, questo servo ha ricevuto un solo talento, mentre gli altri sono stati gratificati più di lui". Questa medesima osservazione, la facciamo spesso anche nella vita, confrontando e giudicando dal nostro punto di vista il modo con cui Dio distribuisce le sue ricchezze agli uomini. Prima di dire che il servo di un solo talento abbia ricevuto poco, dobbiamo chiederci quanto valga un talento e quale sia stato il suo potere di acquisto nel primo secolo. E' importante, nell'interpretare la Bibbia, sapersi calare dentro il suo mondo, altrimenti si rischia di fraintenderla. Nel primo secolo, un talento valeva seimila denari. Per comprendere la proporzione, basti pensare che un legionario romano aveva uno stipendio di trenta denari. Quanto avrebbe dovuto lavorare per guadagnare un talento? Comprendiamo allora che questa somma è piuttosto grossa, anche se è la più piccola somma menzionata nella distribuzione dei beni del padrone ai suoi servi. Un talento è una somma da investimento, un capitale adatto a chi voglia fare l'imprenditore. Fuori dalla metafora: i doni di Dio non sono mai piccoli, hanno sempre uno spessore e una profondità sproporzionata, perché sono dati in previsione di un "investimento". Il Dio di Gesù Cristo, non sembra disposto a darci dei doni "completi"; Egli ci offre piuttosto i loro "germi", attendendo che noi li facciamo sviluppare. Il problema non è allora cosa ho ricevuto, se molto o poco, bensì fino a che punto io l'ho valorizzato. A questo punto può subentrare il confronto con il testo di Luca al capitolo 19, dove questa parabola, identica in tutte le parti, è diversa solo in un punto, vale a dire, nella distribuzione dei beni da parte del padrone. Luca infatti dice che il padrone dà a tutti la stessa somma: una mina. Da ciascuno si attende poi i risultati dell'investimento. In questo modo, l'evangelista Luca vuole porre l'accento sul fatto che Dio non penalizza mai nessuno nel distribuire i suoi doni. Infatti, nella visione lucana, la stessa somma ricevuta ugualmente da tutti, viene investita e maggiorata in maniere diverse da ciascuno: c'è chi a partire da una mina ne guadagna cinque, c'è chi, investendo la medesima somma, ne guadagna dieci. In altre parole: anche nell'ipotesi che Dio desse a tutti gli stessi doni, rimarrebbe la verità di fondo che non siamo comunque uguali davanti a Dio, perché la diversità delle nostre risposte alla sua grazia, e le diverse gradazioni di generosità verso di Lui, ci differenziano inevitabilmente gli uni dagli altri lungo l'arco della nostra vita. Matteo aggiunge un particolare che però Luca non ha: questa distribuzione è diversa perché ciascun uomo ha una diversa capacità: "A ciascuno secondo la sua capacità". Questa espressione va compresa all'interno del messaggio generale del Nuovo Testamento. Infatti, con essa non si vuole dire che Dio ti dà un dono secondo la tua capacità personale, perché sappiamo bene che anche la capacità in se stessa è un dono di Dio, ossia è essa stessa un talento da sviluppare. Allora, la diversità di trattamento evidenziata da Matteo va intesa in questi termini: i doni che riceviamo da Dio sono diversi, perché è diverso il nostro modo di collocarci all'interno della Chiesa e nel disegno di salvezza. Ciascuno di noi ha un ruolo diverso e irripetibile, stabilito da Dio prima della nostra nascita, e secondo questo ruolo, noi abbiamo ricevuto dei doni corrispondenti. Sarà poi la nostra adesione che ci differenzierà davanti a Dio. Nulla di arbitrario nella distribuzione, pur diversa, dei doni di Dio: a ciascuno è dato ciò che davvero gli serve; e poiché ciascuno ha una missione diversa da realizzare in questo mondo, ne consegue che sono diversi anche i doni necessari a tale realizzazione.

    Le cause del non sviluppo
    Il testo fa poi una differenza tra coloro che sviluppano questi talenti e colui che lo sotterra. A questo proposito dobbiamo osservare alcune cose. C'è intanto una motivazione, riportata al v. 25, circa l'inattività di colui che ha ricevuto un talento. Si tratta di una frase posta sulle labbra stesse del servo fannullone, e perciò altamente attendibile, in quanto affermata direttamente dal personaggio in questione: "Per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo". Questo versetto chiave è di grande importanza nel quadro dell'insegnamento generale della parabola, perché ci indica la causa che certe volte ci potrebbe ostacolare nello sviluppo pieno di tutti i doni che Dio ci ha dato: la paura. Infatti avere ricevuto da Dio dei doni, significa essere chiamati a servire gli altri in proporzione a quello che abbiamo ricevuto. Qui, come è accaduto al servo della parabola, possono subentrare una serie di paralisi che hanno come unica radice la paura: la paura di essere giudicati, di essere fraintesi, la paura di quello che si dirà intorno a noi, la paura che il nostro servizio non sia accettato, o sia inteso come una imposizione di noi stessi, come una ricerca di gloria personale. Queste paure paralizzano e portano la persona a sotterrare i doni di Dio, che invece ci sono stati dati per l'utilità comune, e che devono essere messi a servizio della Chiesa con grande serenità, con grande distacco interiore, e con quella povertà di spirito che apre la porta delle beatitudini: "Beati i poveri in spirito" (Mt 5,3). Soltanto chi è povero di spirito riesce a mettere a servizio della Chiesa i suoi carismi senza turbarsi e senza turbare. Al v. 27 vengono menzionati altri personaggi che così compaiono sullo sfondo: i banchieri. Queste figure fanno capolino allo stesso modo, e con lo stesso significato, anche nella parabola raccontata da Luca. L'idea che essi veicolano si può intendere così: Dio non pretende necessariamente l'eroismo. Egli desidera che l'uomo gli risponda, e vorrebbe che ciascuno gli rispondesse al massimo delle proprie possibilità, per giungere alla santità più grande. Dall'altro lato, però, Dio lascia che ciascuno gli risponda secondo una generosità libera, accettando anche il minimo, qualora la persona decidesse di non dare di più. Ci viene così presentata l'esigenza di Dio che desidera il massimo da ciascuno, ma che ad ogni modo si accontenta anche della minima risposta che l'uomo gli voglia dare: "Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse". La figura dei banchieri veicola questo preciso messaggio: non si deve pensare che Dio, avendoci elargito i suoi doni, assuma poi un atteggiamento di tipo aut aut, ossia: "O sviluppi al massimo i miei doni o sei perduto!". Questa interpretazione del giudizio di Dio è evidentemente falsa, perché il v. 27 intende in modo ben diverso l'atteggiamento con cui Dio si pone dinanzi a noi, dopo averci elargito i suoi doni. Certo, il Signore vorrebbe che questi doni venissero sviluppati al massimo, ma se questo non fosse possibile per nostra pigrizia, il Signore accoglierebbe ugualmente quello che in tal caso gli daremmo, anche se si trattasse dell'investimento meno pericoloso e meno rischioso, come è quello di affidare la somma ai banchieri. Il grado di santità raggiunto dalla persona, tuttavia, in questo caso non potrà essere grande. Esiste anche una giustizia proporzionale, dove il grado di beatitudine celeste avrà pure una certa corrispondenza al grado di virtù raggiunto sulla terra. Diversamente, Dio sarebbe ingiusto. La parabola narrata da Luca, sottolinea infatti questa proporzionalità: il servo che ha guadagnato cinque mine, acquista potere su cinque città, e quello che ne ha guadagnate dieci, riceve autorità su dieci città.Nella parabola viene condannato infine quel servo che ha restituito a Dio la stessa somma che aveva ricevuto all'inizio. Il Signore si attende almeno un investimento minimo, perché l'uomo si salvi. Il versetto chiave è il 28: "Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti". I beni di Dio, anche quando vengono usati male da colui che li riceve, e in tal modo sciupati, vengono ridistribuiti nel Corpo Mistico. Questo avviene per ogni cosa, come per esempio la preghiera: può succedere infatti che si preghi per la conversione di qualcuno che magari non si converte mai, perché non lo vuole. Queste preghiere il Signore le applica a coloro che si aprono per riceverne il frutto di grazia, qualora il loro destinatario le rifiutasse. E questa logica va estesa a ogni evento di grazia che si realizza nel mondo. Nel Corpo Mistico di Cristo non si perde mai niente. Il dono di grazia rifiutato da uno rimbalza, e va a finire altrove, accolto da qualcun altro.
  • Discipula
    00 17/03/2006 10:19
    Re: Commento al passo di Luca 15,1-32

    Scritto da: Ratzigirl 16/02/2006 0.55
    Potete trovare il brano di Luca QUI




    Ancora in tema di "fratello maggiore" posto un accenno che Papa Ratzi fa a questa parabola nel libro "Il Cammino Pasquale" edito da Ancora Libri, che sto leggendo in questi giorni.

    Non dobbiamo, meditando questa parabola, dimenticare la figura del figlio maggiore. In un certo senso, non è meno importante del figlio più giovane, così che si potrebbe forse e anche meglio parlare della prabola dei due fratelli.(...) Egli (il fratello maggiore n.d.r.) rappresenta in un certo senso l'uomo devoto, quelli, cioè, che sono rimasti con il Padre e non trasgrediscono i suoi comandi. Nel momento del ritorno del peccatore si fa viva l'invidia, il veleno finora nascosto nella profondità della loro anima. E perché questa invidia? L'invidia mostra che molti "devoti" nel loro cuore nascondono anch'essi il desiderio del paese lontano e delle sue promesse. L'invidia mostra che simili persone non hanno realmente capito la bellezza della patria, la felicità del "tutto ciò che è mio è tuo", la libertà di chi è figlio e proprietario; e appare così che essi pure segretamente desiderano la felicità del paese lontano, che nei loro desideri sono partiti per questo paese e non lo sanno, non lo vogliono riconoscere. Conseguentemente la perdita della Verità è ancora più pericolosa: la necessità della conversione non si impone. E alla fine non entreranno alla festa, alla fine rimangono fuori. Così sentiamo le parole tremende: "Tu Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: nel giorno del Giudizio avrà una sorte meno dura della tua!" (Mt 11; 23 ss.)
    La figura del fratello maggiore ci costringe all'esame di coscienza; questa figura ci fa comprendere la reinterpretazione del Decalogo nel discorso della montagna. Non solo l'adulterio esterno, ma anche quello interno ci allontana da Dio; si può rimanere a casa e nello stesso tempo partire.
    Comprendiamo in tal modo anche l'"abbondanza", la struttura della giustizia cristiana, la cui prova è il "no" all'invidia, il "sì" alla misericordia divina, la partecipazione a questa misericordia nella nostra misericordia fraterna.


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    00 11/04/2006 04:20
    Belisima interpretazione, particolare e inteligente. Nel Spazo spagnolo-portug. ho aperto una cartela sull Dogma e dotrina.....dificle, ma interesante. Nel sitio oficiale del Vaticano si puó trovari una imensa varieta di documento e testi, sul questo tema.
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    Ratzigirl
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    00 28/04/2006 00:53
    La parabola dell'amico importuno

    Scusatemi innanzitutto se per lungo tempo non ho riattivato questo post...ma avevo bisogno di rimettere insieme gli appunti e i documenti...rieccomi con una nuova parabola da analizzare:

    "Poi aggiunse: "Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza". ( Lc 11,5-8 )
    "Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: "C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi". E il Signore soggiunse: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? ". ( Lc 18,1-8 )

    Il messaggio generale
    Queste due parabole, appartenenti al materiale proprio di Luca, si riferiscono a un tema particolarmente caro all'evangelista, ossia la preghiera cristiana; Luca si mostra soprattutto attento alla preghiera di Gesù, che rappresenta un modello di riferimento per i suoi discepoli. Non ci deve sfuggire il fatto che la parabola dell'amico importuno sia immediatamente collegata all'insegnamento del Padre Nostro e seguita da alcune affermazioni che sottolineano l'infallibilità della preghiera, quando essa è rivolta al Padre nello Spirito: "Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare, quando uno dei discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare… Ed egli disse loro: Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome…" (Lc 11,1-2). Così si apre il capitolo 11 di Luca e subito dopo la preghiera del Padre Nostro è collocata la parabola dell'amico importuno. La parabola del giudice iniquo, benché riportata altrove, cioè al capitolo 18, si colloca tuttavia in un contesto molto simile e svolge la medesima tematica, indicata già nella sua introduzione, che non lascia dubbi sul motivo per cui Cristo la racconta: "Raccontò loro una parabola per mostrare che dovevano pregare sempre, senza stancarsi mai" (Lc 18,1). Le due parabole rappresentano dunque un unico, grande insegnamento: la necessità di pregare sempre senza stancarsi mai e l'infallibilità della preghiera cristiana rivolta al Padre nello Spirito. Queste due parabole hanno la stessa natura di quella dell'amministratore disonesto, dove i personaggi non esprimono la realtà di Dio, o i misteri del suo regno, bensì la realtà umana intesa come un modello negativo che esprime molto chiaramente ciò che Dio non è. Significativamente, tali parabole non si aprono con la formula consueta: "Il regno dei cieli è simile a…", perché appunto non vogliono dire a cosa il regno è simile, ma al contrario, dicono una qualità che al regno non deve essere attribuita. Nei personaggi di queste parabole non va dunque cercata la figura di Dio, ma solo il comportamento umano che contraddice la verità del regno. Ma a cosa tende questa tipologia negativa? Questa contraddizione è ovviamente un modo per far maggiormente risplendere la bellezza di Dio: se sulla terra un uomo malvagio può convincersi a operare il bene solo per togliersi il fastidio di una continua insistenza, che cosa non otterrà da Dio, che opera solo il bene anche quando nessuno glielo chiede, la preghiera insistente degli eletti? Si tratta quindi di passare da una realtà esperienziale terrena a un'affermazione teologica: se nelle cose umane la gente indifferente e iniqua compie delle azioni buone solo per l'insistenza di qualcuno a maggior ragione Dio, nella sua infinita perfezione e giustizia, risponderà prontamente a coloro che lo invocano.L'insegnamento lucano sul primato della preghiera
    Occorre adesso compiere un passaggio verso l'interno del testo di Luca, per esprimere alcuni aspetti di questa preghiera descritta dalle due parabole; essa si presenta innanzitutto come una preghiera ininterrotta e senza stanchezze. Luca è particolarmente attento alla preghiera personale di Gesù, che, durante il suo ministero pubblico, non trascura mai i tempi della sua preghiera personale e, certe volte, perfino mentre la folla lo cerca per essere guarita dalle sue malattie e per ascoltare la sua Parola, Egli si ritira in solitudine. Al capitolo 5 del suo vangelo, Luca si esprime così a proposito della custodia del tempo destinato alla preghiera: "La sua fama si diffondeva sempre di più; molta gente si radunava per ascoltarlo e farsi guarire dalle malattie. Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare" (vv. 15-16). Luca si mostra impressionato dal fatto che Cristo prega non soltanto nei momenti più cruciali e difficili del suo ministero, come ad esempio prima di scegliere i Dodici o durante la sua Passione, ma la preghiera di Cristo scandisce il tempo di tutte le sue giornate. Inoltre, Egli non prega soltanto ricavandosi il tempo adeguato quando nessuno lo cerca, ma addirittura certe volte lo fa anche sottraendosi alle folle che lo stanno cercando per ascoltare la sua Parola ed essere guariti dalle loro malattie. E' ovvio che Cristo non ritiene che tale richiesta da parte della gente, pur grave e importante, sia più urgente della sua preghiera personale e del suo incontro con il Padre, da cui riceve tutte le indicazioni fondamentali del suo percorso umano: quando e a chi la Parola deve essere annunciata e quando invece deve tacere, quando deve guarire un infermo e quando deve lasciare la malattia. Nel profondo discernimento della sua preghiera, Cristo sente le spinte interiori del Padre e vi ubbidisce perfettamente. Non sono criteri derivanti dal basso che lo spingono ad agire, come non è la richiesta di guarigione ciò che lo spinge a guarire un malato, né il semplice bisogno immediato di qualcuno è molla che lo fa intervenire. Infatti, non ci spiegheremmo come mai ha guarito il lebbroso sconosciuto e ha lasciato nelle sofferenze della sua malattia l'amico Lazzaro. E' solo perché il Padre, nella sua imperscrutabile volontà, ha voluto così.Cristo non ha ritenuto, in virtù della sua natura divina, di poter fare a meno della preghiera. La sua natura umana rimaneva comunque bisognosa di questo contatto quotidiano. Il Gesù storico si presenta perciò, prima di tutto, già nel suo stile di vita come un modello di preghiera e successivamente come il Maestro che insegna a pregare.

    Una preghiera senza stanchezze
    L'inizio del capitolo 18, che introduce la parabola del giudice iniquo, si esprime così: "Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi" (Lc 18,1). Questa specificazione "senza stancarsi" potrebbe portare a pensare, ad una lettura superficiale, che la preghiera debba essere portata avanti anche quando si è stanchi. Una interpretazione di questo genere sarebbe certamente fuorviante e parziale, perché questo insegnamento sulla preghiera non si riferisce affatto alla stanchezza fisica o psicologica. Ciò possiamo dirlo con sicurezza perché in Mc 6,30-31, nel contesto dell'invio degli apostoli in missione, si legge: "Gli apostoli si radunarono presso Gesù e gli riferirono tutto ciò che avevano fatto e ciò che avevano insegnato. Egli disse loro: Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'". Cristo ha compassione della folla che lo segue e affronta diversi disagi pur di ascoltare la sua Parola, ma ha compassione anche dei suoi apostoli, che si consumano nel servizio del regno. Cristo non sottovaluta la stanchezza fisica e psicologica al punto tale da suggerire uno sforzo superiore alla proprie possibilità. Sarebbe un Maestro incauto se lo facesse, mettendo a repentaglio gli equilibri dei suoi discepoli. Piuttosto, dalle Scritture possiamo dire invece che è Satana il suggeritore che spinge l'uomo al di là delle sue forze, per causargli il crollo inevitabile dall'avere richiesto a se stessi più di quel che si poteva dare. La persona che si impegna nel bene non viene attaccata da Satana con la proposta del peccato, che subito rifiuterebbe, ma viene spinta da lui oltre le misure opportune; in questa maniera il maligno porta ugualmente alla paralisi il discepolo, avendogli prospettato un bene da compiere e non un male, ma un bene collocato fuori da ogni ragionevole equilibrio. Il discepolo che vive pienamente nella luce è invece la personificazione dell'equilibrio e dell'armonia. In ogni cosa. Infatti, ciò che esce fuori dalle misure è sempre derivante dal peccato, anche il bene fuori misura, perché la grazia di Dio è armonia, misura ed equilibrio. Allora in che senso la preghiera non deve essere soggetta alla stanchezza? L'unica stanchezza di cui Cristo parla è quella che risulta dall'affievolimento della fede. Questa è l'unica stanchezza che potrebbe minacciare la preghiera. Per quale motivo la parabola del giudice iniquo si conclude con questa domanda, posta da Gesù ai suoi ascoltatori: "Ma il figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra" (Lc 18,8)?. Perché la preghiera non soggetta alla stanchezza è quella che risulta da una fede radicata e incrollabile. L'affaticamento mentale è altra cosa e non preoccupa il Signore; Egli si preoccupa invece dell'affaticamento della fede, quando a causa dell'abitudine, della distrazione o dell'indifferenza, perde il suo slancio e la sua efficacia, risolvendosi in una sterile recitazione di formule. L'altra domanda che sorge dal secondo nucleo dell'insegnamento delle due parabole è quella relativa alla preghiera ininterrotta. Anche qui ci sono tanti fraintendimenti. Ma è possibile pregare ininterrottamente? Queste due parabole non indicano soltanto una preghiera senza stanchezze di fede, ma anche una preghiera ininterrotta, cioè continua e senza pause. Inoltre, lo stesso insegnamento viene affermato anche dall'Apostolo Paolo in 1Ts 5,17: "Pregate incessantemente". La vita cristiana giunge quindi alla sua maturità solo quando la preghiera personale è ininterrotta. Ma come si fa a pregare ininterrottamente tra le molteplici attività della vita quotidiana? Al massimo si potrebbe pregare tra una attività e un'altra. Oppure bisogna astrarsi? Per preghiera ininterrotta non si intende certamente una preghiera fatta nelle pause del lavoro quotidiano. E' piuttosto una disposizione mentale, la cui natura ha bisogno di essere chiarita. Uno dei riferimenti più espliciti sulla preghiera ininterrotta lo troviamo in Genesi 17,1 a proposito della vocazione di Abramo. Questo particolare ci sembra di grande significato, perché sottolinea l'importanza dell'insegnamento sulla preghiera continua, che ovviamente non viene richiesta solamente agli Apostoli e ai cristiani delle comunità del NT, ma perfino ai patriarchi. Il Signore si rivolge ad Abramo e gli dice così: "Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro". In queste poche parole apprendiamo una cosa essenziale sulla preghiera continua che non consiste nel parlare continuamente con Dio ma nel vivere ogni istante della vita quotidiana alla sua Presenza. Se noi al momento del vespro o della Messa, per poter pregare, dobbiamo recuperare la nostra mente persa nelle cose quotidiane, per rimetterla alla presenza di Dio e riottenere la concentrazione, vuol dire che non abbiamo pregato nel tempo intermedio delle attività. La preghiera continua non consiste nel parlare a Dio senza interruzione, ma nel non alienarsi con la propria mente, perdendosi sui sentieri della fantasticheria, dei pensieri inutili o dannosi, coltivati durante le attività quotidiane. Naturalmente, l'esercizio della presenza di Dio implica anche un pensiero che non si svolga a sistema chiuso, come in un monologo tra me e me, ma che sia confronto continuo con Dio nell'intimo del proprio cuore. Nel racconto della Passione, Gesù, nell'orto degli ulivi, dice ai suoi discepoli: "La mia anima è triste fino alla morte, restate qui e vegliate" (Mc 14,34). In questa esortazione, Gesù non chiede che i discepoli si mettano davanti a Lui a parlare. Egli dice soltanto: "Restate qui e vegliate"; è un invito che richiede solamente la loro presenza davanti a Lui, e questo è già tutto. Pregare, da questo punto di vista, significa essere mentalmente presenti a Colui che è Presente. Nell'amore umano, spesso, le parole esprimono una disposizione di dono della persona, ma talvolta può esserci la disposizione di dono anche senza le parole. Così, nella vita di coppia, non sempre i due parlano tra loro; ciò che conta è che ciascuno viva alla presenza dell'altro nella disposizione del dono. Allora anche il silenzio diventa eloquente. E come sarebbero menzognere le parole d'amore pronunciate in assenza della disposizione del dono di se stessi, così sarebbe menzognera una preghiera che non è espressione del dono della propria vita a Dio. Al contrario, la consegna della propria vita alla presenza di Dio è già preghiera anche se senza parole. Chi vive la propria giornata interamente alla presenza di Dio, senza alienarsi mai con la mente, ha attuato l'insegnamento evangelico della preghiera continua ripreso dall'Apostolo Paolo in Ef 6,18 e 1 Ts 5,17. Chi vive così ha compreso che il culto cristiano è un culto ininterrotto che sfocia nelle tappe individuali della preghiera comunitaria e della liturgia, ma prima di quelle tappe c'è il cuore posto ininterrottamente davanti a Dio, il dono di sé e la consegna della propria vita nelle sue Mani. Le parabole dedicate alla preghiera sono inserite da Luca in un particolare contesto. Così la parabola del giudice iniquo, narrata al capitolo 11, è in stretto collegamento con la preghiera del Padre Nostro. Cristo infatti non parla prima di tutto della preghiera, ma di Colui al quale la nostra preghiera è rivolta. Al discepolo che gli dice: "Insegnaci a pregare", Gesù risponde: "Quando pregate dite: Padre" (Lc 11,1-2). Il tema della paternità di Dio è fondamentale nell'insegnamento di Cristo sulla preghiera. Un padre non ha bisogno dell'insistenza dei figli per manifestare loro il suo amore, come invece ha bisogno un uomo malvagio di essere messo alle strette per compiere un'opera buona. Il Signore è già disposto a beneficare i suoi figli, perché li ama. Nei versetti che seguono la parabola dell'amico importuno, Cristo fa un'affermazione molto radicale su Dio, di nuovo in riferimento al tema della paternità, dicendo: "Quale padre tra voi, sei il figlio gli chiede un pane gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?" (Lc 11,11). Il dono che Dio in senso assoluto vuole fare, e fa infallibilmente, a tutti quelli che glielo chiedono è lo Spirito Santo come sottolinea al versetto 13 il brano di Luca. Il Padre celeste dà il necessario all'uomo ma soprattutto gli dà la cosa più importante, che deve essere chiesta prima di ogni altra e al di sopra di tutto ciò che ai nostri occhi può sembrare urgente e necessario: il dono dello Spirito Santo.
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    00 04/07/2006 00:54
    Catechesi : La possibilità di conoscere Dio
    1) Quali sono le vie di comunicazione che Dio ha scelto per farsi conoscere?

    Le stesse che l’uomo ordinariamente utilizza per conoscere. In linea di massima noi conosciamo in tre modi:

    a) L’evidenza b) La dimostrazione c) La credibilità della fonte

    Dall’insieme della rivelazione biblica risulta che Dio ha categoricamente escluso il primo dei tre modi, ma ha lasciato aperti il secondo e il terzo.

    2) E’ possibile conoscere Dio per via dimostrativa?
    Tutte le correnti della teologia cattolica e protestante rispondono di no. Ma con una sostanziale differenza: la teologia cattolica ammette la possibilità di dimostrare, per via razionale, che l’ipotesi dell’esistenza di Dio non è assurda.

    3) Il NT ci autorizza in questo senso a considerare la creazione come il primo grande libro sacro da leggere : Rm 1,20 (Theologia naturalis). Fin qui siamo al secondo modo di conoscere.

    4) La rivelazione soprannaturale.

    Si colloca nella linea del terzo modo di conoscenza: ci si trova fuori da ogni possibilità di evidenza o dimostrabilità. Il testo sacro è il primo testimone della rivelazione, ma non è “rivelazione” esso stesso. Tuttavia la Bibbia non è concepibile se tolta dalla comunità cristiana. La Bibbia, infatti, dice delle cose che soltanto l’esperienza comunitaria è in grado di verificare.In particolare, nella vita della Chiesa, il Signore non offre mai l’evidenza della sua presenza, ma solo i “segni”, che perciò vanno letti e compresi al secondo livello. Senza questo secondo livello, la Chiesa sarebbe un’istituzione come le altre; nessuna differenza col Comune, o la Regione. Il Vat II, nella Costituzione dogmatica S.C. al n. 7, ha indicato alcune cose da intendere al secondo livello: “Cristo è presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, sia nell’Eucaristia. E’ presente nella celebrazione di qualunque Sacramento. E’ presente nella sua Parola, giacché è Lui che parla, quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. E’ presente nell’assemblea che prega e che loda, giacché Lui ha promesso di essere presente dove due o tre si riuniscono nel suo Nome (cfr Mt 18,20).

    La possibilità di negare Dio: le forme dell'ateismo

    Considerazione introduttiva: l’ateismo moderno ha la caratteristica di essere generalizzato, cioè un fenomeno che coinvolge le masse, mentre nel passato era una posizione di pochi. Inoltre, l’ateismo teorizzato oggi tende a scomparire, mentre prende il suo posto l’ateismo pratico.

    Possiamo individuare due principali cause della scelta atea:

    a) La negazione di Dio, esplicita e teorizzata b) L’incapacità di percepire Dio

    La parola “ateismo” descrive dei fenomeni molto diversi tra loro. Ricordiamo i principali:

    Un primo gruppo riguarda la negazione teorizzata di Dio.

    1) Ateismo teoretico: esplicita negazione giustificata da un sistema filosofico.

    2) Agnosticismo: non possiamo dire nulla di Lui.

    3) Scientismo: la scienza spiega tutto (o col tempo lo spiegherà) e non occorre riferirsi a Dio.

    4) Relativismo: ognuno ha la sua verità, ogni epoca come ogni persona. La verità è dunque figlia del suo tempo e alla vita umana si può attribuire un senso sempre diverso come si vuole.

    5) Antropocentrismo: l’uomo è un valore assoluto, è la misura di tutte le cose.

    Un secondo gruppo non scaturisce dal pensiero, ma dalla vita

    1) Negazione di un dio non evangelico: è l’ateismo di coloro che nella comunità cristiana hanno conosciuto un volto deformato di Dio, presentato come un giudice, come un padrone o come un’autorità davanti a cui, vuoi o non vuoi, ti devi piegare.

    2) La protesta contro il male: perché il dolore e la morte? Quale dio li ha creati?

    3) L’indifferenza: un cristianesimo trascinato avanti perché si è sempre fatto così. Una posizione amorfa che umilia la natura razionale. La convenzione ha soffocato la convinzione.
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    00 04/07/2006 01:08
    La Trinità: tre persone ma non tre dei


    IL Dio di Gesu' Cristo
    Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con la loro assoluta uguaglianza in una sola e medesima sostanza, mostrano l'unità divina e perciò non sono tre dèi, ma un solo Dio. Tuttavia è il Padre che genera il Figlio, e il Figlio non è colui che è Padre; è il Figlio che è generato dal Padre, e il Padre non è colui che è Figlio; lo Spirito Santo poi non è né il Padre né il Figlio, ma unicamente lo Spirito del Padre e del Figlio, è uguale al Padre e al Figlio e appartiene con essi all'unità della Trinità. Soltanto il Figlio, però, e non la Trinità, è nato dalla Vergine Maria. Non è la Trinità che nel giorno di Pentecoste si posò su ciascuno degli Apostoli in distinte lingue di fuoco, ma solo lo Spirito Santo. Né fu la Trinità che disse dal cielo: "Tu sei mio figlio" allorché Gesù fu battezzato da Giovanni, ma solo la voce del Padre; quantunque, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come sono inseparabili nell'essere, così pure operano inseparabilmente.
    (S. Agostino, De Trinitate, 1,4)
    Preludio
    Nelle parole di Cristo, il Dio dell'AT si presenta con un volto nuovo e quasi del tutto inedito, ma anche il volto dell'uomo, proposto personalmente da Gesù, è altrettanto nuovo e quasi del tutto inedito. In Cristo, l'uomo e Dio sono diventati incredibilmente vicini, dopo secoli di lontananza. La vita umana di Gesù sembra riprodurre con fedeltà i tratti di quell'Adamo che all'origine, al di qua della soglia del peccato, si intratteneva con Dio nell'intimità dell'Eden. L'Eden stesso altro non è che il segno del favore divino in cui l'uomo vive, quando Dio lo riconcilia a Sé. Ma ancora di più, nell'insegnamento e nella vita di Gesù, Dio appare come Amore nella sua essenza più profonda, e ciò prelude alla conseguenza necessaria dell'essere Amore: Dio è una comunione di Persone nell'assoluta identità della natura divina. Il monoteismo affermato dall'AT deve quindi subire una importante precisazione: l'unità riguarda la natura divina, ma non le Persone divine. Piuttosto, le Persone divine trovano la loro perfetta unità nel reciproco ed eterno donarsi. Non andiamo oltre nella premessa ed entriamo senz'altro nell'analisi dell'insegnamento neotestamentario su Dio.

    Il rapporto tra Cristo e il Padre
    La relazione tra Cristo e il Padre può essere adeguatamente compresa solo alla luce del mistero trinitario; in Dio le Persone divine sono distinte, sebbene la natura divina è unica e indivisibile. Ne consegue che ogni azione di Dio è compiuta contemporaneamente dalle tre divine Persone. Tutte le opere di Dio, dalla creazione alla redenzione, sono opere trinitarie, perché la Trinità opera in modo simultaneo. Dall'altro lato, vi sono azioni che la Scrittura attribuisce ora all'una ora all'altra delle divine Persone. Così, l'Incarnazione è opera trinitaria, ma solo il Verbo nasce come uomo, soffre sotto Ponzio Pilato, muore, risorge e ascende al cielo. Anche la Pentecoste è opera trinitaria, ma solo lo Spirito si effonde sugli Apostoli. Dunque, Dio agisce simultaneamente come Dio Uno e Trino, senza che la divina sinergia elimini la distinzione reale delle sue singole Persone. Nella lettera ai Romani, l'Apostolo usa una formula trinitaria che si conclude significativamente al singolare: "Da Lui, per Lui e in Lui sono tutte le cose. A Lui la gloria nei secoli". Vale a dire: Da Lui (dal Padre), per Lui (per il Figlio), in Lui (nello Spirito Santo). Ma si conclude: "A Lui" gloria, e non "a loro". Tutte le cose procedono dunque dai Tre come da un unico principio.La nostra indagine su Dio deve prendere senz'altro le mosse dal prologo di Giovanni, dove emergono con chiarezza, dentro il mistero di Dio, due proprietà eterne: l'unità e la differenza.Gv 1,1-14 è l'inno alla divinità di Cristo e alla sua preesistenza. Con il termine "Verbo" si intende il Figlio, dal momento che al v. 14 l'evangelista dice che "il Verbo si è fatto carne". Questo Verbo che è nato come Uomo, prima di nascere "era presso Dio" e al tempo stesso "era Dio". Qui si coglie già l'unità e la differenza che caratterizzano il mistero di Dio. Il Verbo è Dio ma distinto da Dio. La divinità del Verbo è sottolineata dalla sua azione creativa, citata ai vv. 2-3 del prologo. Tutte le cose che esistono sono state fatte per mezzo del Verbo, e fuori di Lui non esiste niente. Se tutto esiste per mezzo di Lui, solo Lui non è creato, anche se apparso in forma umana. Se non è creato, è della stessa sostanza del Padre. L'operare del Figlio è inseparabile dall'operare del Padre, come insegna lo stesso Cristo: "Il Padre mio opera sempre e io pure opero" (Gv 5,17). Il Padre e il Figlio operano dunque insieme. Tuttavia, all'interno della natura divina, il Padre ha fatto il Figlio, ma il Figlio non ha fatto il Padre. Quando la Scrittura dice che "tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui", bisogna quindi intendere che Egli le ha fatte insieme al Padre. La divinità di Cristo è infatti identica a quella del Padre, perché l'Apostolo Paolo parla di "uguaglianza" di Cristo con Dio: infatti "non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio" (Fil 2,6). L'uguaglianza con Dio è l'identità di sostanza che fa del Padre e del Figlio un essere solo; in forza di questa identità essi operano sempre simultaneamente, perché vivono eternamente l'uno nell'altro: "Io sono nel Padre e il Padre è in Me" (Gv 14,10).Per comprendere la complessità della relazione tra il Padre e il Figlio, occorre interpretare esattamente taluni passi della Scrittura che presentano il Figlio come fosse inferiore al Padre. Possiamo ricordare, ad esempio, Gv 14,28: "Il Padre è più grande di Me"; oppure 1 Cor 15,28: "Allora il Figlio stesso si sottometterà a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa"; o ancora: "Quanto poi a quel giorno e a quell'ora, nessuno ne sa nulla, neppure gli angeli in cielo, né il Figlio, ma solo il Padre" (Mc 13,32). Questi passi, e altri ancora, sembrerebbero negare l'uguaglianza del Figlio col Padre, presupponendo che il secondo sia maggiore del primo. Come intendere questa apparente contraddizione?Cominciamo col dire che il Figlio è uguale al Padre in virtù della propria divinità. Il Figlio è però, al tempo stesso, anche vero Uomo. In questa veste creata, che è l'umanità, avendo assunto la natura di servo, Egli è certamente inferiore al Padre. Significa allora che il Padre è superiore solo alla natura che il Figlio ha ricevuto dalla Vergine. Ma se si prescinde dalla natura umana, il Figlio condivide col Padre la medesima gloria e la medesima maestà. E' peraltro inequivocabile questa identità nelle parole che Gesù pronuncia con le sue labbra umane, ma che si riferiscono alla propria divinità e non all'umanità assunta: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Gv 10,30). Il Cristo storico talvolta si esprime mettendosi dal punto di vista della sua uguaglianza col Padre e talaltra, mettendosi dal punto di vista della sua uguaglianza con noi. Nel primo caso, parla come Dio, nel secondo parla come uomo. E come uomo Egli è inferiore al Padre, mentre non lo è come Verbo intemporale. Possiamo allora capire molto meglio i suoi enunciati. Quando dice: "Io pregherò il Padre mio che vi darà un altro consolatore" (Gv 14,16), non intende dire che lo pregherà come Figlio; Cristo non può pregare il Padre in quanto Dio, ma può pregarlo solo in quanto uomo. E solo in quanto uomo, il Cristo risorto è intercessore dei suoi fratelli che sono nella prova. Ancora in quanto uomo Egli prega il Padre per ottenere alla Chiesa l'effusione dello Spirito, mentre in quanto Verbo manda lo Spirito insieme al Padre. Così va intesa anche la parola già citata di Paolo: il Figlio stesso si sottometterà; è chiaro che il Figlio si sottometterà al Padre insieme a noi come nostro capo e sommo sacerdote, ma in quanto Dio noi tutti siamo sottomessi a Lui come lo siamo al Padre. Il suo regno siamo noi, i discepoli da Lui redenti col suo sangue. In quanto uomo Egli prega il Padre insieme con noi, ma in quanto Dio ci esaudisce insieme al Padre. Allora, la regola per capire bene le parole del Cristo storico su Se Stesso e sul Padre consiste nel distinguere bene le sue due nature: nella sua natura divina Cristo è uguale al Padre, mentre nella sua natura umana è uguale a noi, e di conseguenza inferiore al Padre. Alcune cose Egli le dice come Dio, altre come uomo. Come uomo Cristo è inferiore anche allo Spirito; infatti è lo Spirito che lo unge come uomo e lo mette in grado di compiere il suo ministero messianico (cfr. p. es. Lc 4,18-19 e 11,20); inoltre, qualunque peccato contro il Figlio dell'uomo può essere perdonato, ma non può essere perdonato il peccato contro lo Spirito (cfr. Mt 12,32). Lo Spirito è dunque maggiore del Figlio fatto uomo. In quanto Dio, tutte le cose sono state fatte per Cristo (cfr. Col 1,16); in quanto uomo, Egli stesso è nato da donna, sotto la Legge (cfr. Gal 4,4). In quanto Dio ha tutto in comune col Padre: "Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie" (Gv 17,10); in quanto uomo, si è fatto "obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,8). Così quando in risposta ai figli di Zebedeo dice: "Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a Me concederlo, ma è per quelli ai quali è stato preparato dal Padre mio" (Mt 20,23), Cristo parla come uomo e non come Dio. Come Dio, infatti, quei posti di gloria celeste li prepara proprio Lui insieme al Padre. Per questo, quando parla dal punto di vista della sua divinità, Egli dice ai suoi discepoli: "Io vado a prepararvi un posto" (Gv 14,2). E' fuori discussione che il Padre lo prepara insieme a Lui. Nella stessa maniera, Cristo parla dal punto di vista della sua umanità, quando dice: "Chi crede in Me, crede non in Me ma in Colui che mi ha mandato" (Gv 12,44), mentre parla dal punto di vista della sua divinità, quando dice: "Credete in Dio e crederete anche in Me" (Gv 14,1). Come uomo, Egli riferisce a Dio tutto ciò che fa o dice, e non dirige verso Se Stesso il cuore dei suoi contemporanei, ma come Dio esige di essere oggetto della fede teologale così come lo è il Padre. Per questa ragione, a chi lo chiamava "Maestro buono", Gesù rispose: "Perché mi dici buono? Nessuno è buono se non Dio solo" (Lc 18,19). Non c'è alcun dubbio che qui il Maestro parli dal punto di vista della sua natura umana, in modo da non renderla oggetto di una lode che deve essere rivolta a Dio in quanto Dio. In sostanza, rispetto alla sua natura umana, il Cristo storico non accetta di ricevere quegli onori che gli spettano in quanto Dio, e che gli si possono giustamente tributare dopo la sua risurrezione dai morti, quando viene costituito Signore e Giudice nella potenza dello Spirito (cfr. Rm 1,4). Così anche gli enunciati sul Giudizio vanno intesi distinguendo il punto di vista del Gesù storico, che talvolta parla come uomo talaltra come Dio. Ad esempio, in Gv 8,15 Gesù dice: "Io non giudico nessuno"; ma in Gv 5,22 lo stesso Cristo dice: "Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio". Sembrerebbe una contraddizione, se Cristo fosse solo uomo; ma poiché Egli è simultaneamente Dio e uomo, in quanto uomo non giudica nessuno, piuttosto è giudicato; in quanto Dio, Egli ha l'autorità piena del giudizio, che gli deriva dal Padre. Nell'ultimo giorno, infatti, non sarà il Padre a pronunciare il Giudizio finale sull'umanità, anzi, in quel giorno il Padre non sarà visto, perché sarà visibile solo il Figlio nel suo corpo risorto. In quel momento Egli si rivelerà totalmente all'universo come Giudice dei vivi e dei morti (cfr. Mt 25,31). E ciò lo comprendiamo bene: nel Giudizio finale il Padre non potrà essere visto, perché la visione del Padre è la beatitudine riservata ai santi, mentre il Giudizio è compiuto anche sugli empi, i quali vedranno "Colui che hanno trafitto" (Zc 12,10), senza tuttavia poter vedere il Padre.

    La divinità dello Spirito Santo
    Lo Spirito Santo è perfettamente uguale al Padre e al Figlio. Nell'unità della Trinità è consostanziale e coeterno ad essi. Che lo Spirito Santo non sia una creatura si vede chiaramente da molti passi della Scrittura. L'Apostolo dice ai Corinzi: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?" (1 Cor 6,19). Ora, nessun tempio può essere edificato a una creatura. Sarebbe perciò inconcepibile e blasfemo ritenere che il corpo umano dei battezzati sia un tempio per lo Spirito, se lo Spirito fosse una creatura. Se viceversa non è una creatura, Egli è vero Dio, coeterno e consostanziale al Padre e al Figlio. Secondo la visione della teologia greco-ortodossa, lo Spirito procede dal Padre e ci viene comunicato mediante il Figlio; nella teologia latina è considerato come procedente anche dal Figlio. Così avviene nel cenacolo, la sera del primo giorno dopo il sabato: "Gesù alitò su di loro" (Gv 20,22). Inoltre, quando lo Spirito istruisce la Chiesa, prende ciò che è del Figlio: "Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l'annunzierà" (Gv 16,14). Gesù poi non dice semplicemente che il Padre manderà lo Spirito, ma precisa: "quando verrà il Consolatore, che Io vi manderò" (Gv 15,26). Tuttavia, anche il Padre lo manderà: "lo Spirito Santo che il Padre manderà" (Gv 14,26); ciò significa che il Padre e il Figlio mandano lo Spirito Santo, che quindi procede da loro due come da un unico principio. Il Padre e il Figlio insieme mandano lo Spirito. Il Figlio non potrebbe mandarlo se lo Spirito non procedesse anche da Lui come procede dal Padre.

    I detti sul Paraclito
    Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dedica diversi insegnamenti alle operazioni dello Spirito, definito anche Paraclito, cioè "consolatore". Ci soffermiamo ad analizzare i detti di Gesù circa la promessa del Paraclito.
    Nel contesto dell'ultima cena, prima degli eventi decisivi che lo avrebbero tolto dal mondo, Cristo rivolge ai suoi discepoli un lungo discorso, dopo l'uscita di Giuda dal Cenacolo. L'insegnamento di Gesù è interamente rivolto verso il futuro della Chiesa, di cui, almeno in parte, Egli vuole rendere consapevoli i Dodici. Cristo parla della sua partenza e del suo vicino ritorno, parla delle lotte e delle persecuzioni che attendono coloro che professano il suo Nome, e parla soprattutto del Dono dello Spirito, riprendendo questo tema per ben quattro volte, con l'aggiunta di nuovi particolari. Noi ci fermeremo su questi quattro brani, nel tentativo di comprendere in quali termini e con quali manifestazioni lo Spirito è donato lungo il cammino del discepolato cristiano. Isoleremo perciò i quattro brani dall'intero discorso nel modo seguente:
    14,15-17: lo Spirito, i discepoli e il mondo
    14,25-26: l'insegnamento dello Spirito
    15,18-16,4a: lo Spirito e l'odio del mondo
    16,4b-15: la venuta dello Spirito

    L'identità del Paraclito
    La parola "Paraclito" figura nel Vangelo di Giovanni per la prima volta in questo punto. E' uno dei termini giovannei per indicare lo Spirito Santo. Si tratta del primo insegnamento sullo Spirito, rivolto direttamente ai Dodici. "Paraclito" è una parola greca che non si può facilmente tradurre in italiano senza il rischio di impoverirla. La Bibbia CEI traduce questo termine con "Consolatore", che rende solo in parte il significato di paraclito; per un'altra parte, infatti, il suo significato andrebbe reso con "avvocato difensore". La parola contiene in sostanza entrambe le idee, quella di difensore dinanzi a chi accusa e quella di consolatore, che nel momento della prova si fa vicino per corroborare colui che soffre o che semplicemente è in stato di debolezza. Nella descrizione di Gesù, poi, le operazioni del Paraclito appaiono ancora più ricche di sfumature, così che è impossibile trovare una parola sola che possa abbracciare tutti i significati che Cristo gli attribuisce.

    I comandamenti di Cristo
    Colui che manda il Paraclito è il Padre, e ciò avviene dietro la richiesta esplicita di Cristo. Dal punto di vista del discepolo, invece, la possibilità di ricevere lo Spirito è connessa all'osservanza dei "comandamenti" di Cristo (v. 15). Ma a cosa si riferisce la parola "comandamenti"? Giovanni sembra porre l'accento interamente sull'aggettivo possessivo: "i miei comandamenti" (v. 15). Questo aggettivo possessivo che precede la parola "comandamenti" crea un contrasto intenzionale con i comandamenti di Mosè. Gesù non chiede ai suoi discepoli l'osservanza dei comandamenti di Mosè: sarebbe troppo poco. Dall'altro lato, nel Vangelo di Giovanni, in nessun punto Gesù enumera i "suoi" comandamenti. Non c'è, in sostanza, una lista dei comandamenti di Gesù, ad uso dei suoi discepoli. E perché non c'è? Rispondiamo in modo reciso: perché non ci può essere. I comandamenti "di Gesù" non sono un decalogo, né sono prescrizioni o precetti espliciti. E neppure si possono enumerare, perché i comandamenti di Gesù risultano non da un codice, ma dalla adesione personale del discepolo nei confronti di Cristo. Il più esplicito in questo senso è rappresentato da detto di Gesù in 13,34: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come Io vi ho amato". Anche qui Cristo parla di "comandamento" senza tradurlo in un precetto o in una prescrizione. L'espressione "come Io vi ho amato" non costituisce un precetto, ma un'indicazione che include uno stile di vita. In altre parole, Cristo non dà ai suoi discepoli un decalogo da osservare; dà invece il proprio stile di vita che deve essere rivissuto in maniera originale nella vita di ogni discepolo.

    La Presenza terrestre del Paraclito
    Al v. 16 Gesù fa una promessa: su sua richiesta il Padre invierà "un altro Paraclito", che assumerà un compito permanente nella comunità dei discepoli. Il Paraclito è il grande frutto dell'intercessione del Cristo glorificato. Definendo lo Spirito Santo con l'appellativo di "altro" Paraclito, Gesù definisce indirettamente anche Se Stesso, visto che, a questo punto, il primo Paraclito è Lui. Nella prima lettera di Giovanni, Gesù è infatti definito come Paraclito "celeste" (cfr. 1 Gv 2,1); lo Spirito Santo è infatti il Paraclito "terrestre". Gesù è un Paraclito terrestre solo finché si trova sulla Terra, ma, alla sua dipartita, si rende necessaria la presenza di un secondo Paraclito terrestre. In definitiva, la comunità dei discepoli non può rimanere senza una Presenza divina continua, che l'accompagni per tutto l'arco del suo cammino storico. Il Paraclito è definito anche "Spirito di Verità", cosa che allude alla Verità di Dio, verso la quale Egli spinge continuamente i credenti. Più avanti vedremo in che modo lo Spirito ci spinga continuamente verso la Verità: "vi ricorderà… convincerà… testimonierà…", ma per il momento non si fa menzione di questa complessa operazione dello Spirito nell'intimo delle coscienze. La cosa che invece qui viene esplicitamente affermata è che lo Spirito Santo è dato ai discepoli e non al mondo. Il mondo, inteso come umanità ripiegata nell'illusione dell'autosufficienza, è incapace di ricevere lo Spirito. Il motivo di questa incapacità è chiaro: "non lo vede e non lo conosce" (v. 17). L'illusione dell'autosufficienza porta il mondo ad assolutizzare la conoscenza sensibile e quella razionale, cosicché si accetta solo ciò che "convince" per via di evidenza logica. Lo Spirito, invece, non convince per via di evidenze razionali, ma per via di evidenze esistenziali; vale a dire: se ci si lascia attrarre nella vita dello Spirito, si raggiunge il pieno convincimento sulla Verità di Dio. Se si cerca invece solo un'evidenza di puro ragionamento, si rimane in balìa della propria testa. La Verità di Dio supera di molto i limiti della ragione umana, perciò ha bisogno che rimanga, nella mente dell'uomo, un margine di oscurità e di non conoscenza che è accolto e serenamente accettato mediante la fede fiduciale del discepolo. Il mondo, ingannato sulle possibilità della sua intelligenza, ne è incapace e dunque non può ricevere lo Spirito di Verità.
    Bisogna notare anche come Giovanni definisce la modalità della presenza dello Spirito nella comunità dei discepoli: lo Spirito è "presso" ma è anche "in" voi (cfr. v. 17). Si intravede già l'opera dello Spirito nella sua relazione essenziale con la coscienza cristiana.

    L'azione segreta del Paraclito
    Questo secondo passaggio del discorso di Gesù sullo Spirito Santo, intende specificare l'attività del Paraclito nei confronti dei discepoli, un'attività che si risolve essenzialmente nell'insegnamento e nella rivelazione. Nello stesso tempo, il Maestro sembra rispondere a una domanda inespressa dei suoi discepoli: perché è necessaria l'azione di un secondo Paraclito, forse che Gesù non ha detto già tutte le verità che il Padre gli aveva affidato? Questa risposta di Cristo a una domanda inespressa è di grande portata per un corretto cammino apostolico ed ecclesiale: sì, il Figlio ha svelato ai suoi discepoli tutte le verità che essi dovevano conoscere per vivere nella libertà ed entrare nella Vita, ma le ha dette in forma concentrata, in modo tale che la Chiesa potrà attingervi in ogni secolo nuovi insegnamenti per le sfide sempre nuove della storia. Ma non potrà farlo da sola. La Parola di Cristo possiede profondità che solo lo Spirito può rendere accessibili alla nostra debolezza. La Chiesa, come pure il discepolo, dinanzi alla Parola di Cristo non è in grado di immergersi nella Sapienza, senza un Maestro invisibile che parla "dentro". L'insegnamento interiore dello Spirito non differisce dall'insegnamento di Cristo, ma ne è un necessario completamento, perché il ministero pubblico di Gesù, e le pagine evangeliche che ce ne danno notizia, rimangono nella dimensione muta della "lettera", se non vengono vivificati dal soffio sapienziale dello Spirito. Cristo vuole che le parole da lui pronunciate alle orecchie dei discepoli, siano ripetute nel loro cuore dallo Spirito. Solo questa divina "ripetizione" le rende vive, profonde, vivificatrici, consolanti come un balsamo di guarigione. Ciò significa che il Paraclito intraprenderà un'opera di insegnamento proprio nel momento in cui il Cristo storico cesserà di essere un Maestro fisicamente raggiungibile. Da quel momento in poi, l'unico autentico accesso alla Parola di Cristo, sarà possibile nello Spirito. Accanto al verbo "insegnare", Gesù descrive l'azione del Paraclito anche con un secondo verbo: "ricordare" (cfr. v. 26). Il Maestro intende dire che l'insegnamento dello Spirito non si può separare dalla Parola consegnata alla Chiesa; ciò significa pure che il discepolo potrà fare esperienza dello Spirito tanto quanto la Parola di Dio dimora nella sua memoria. Se lo Spirito agisce ricordando al discepolo la Parola di Cristo - ed è proprio in questo processo di anamnesi che la Parola diviene viva - allora il presupposto di fondo è che il pensiero del discepolo deve essere "abitato" dalla Parola. Non si ricorda infatti ciò che non si conosce.

    Il Paraclito e l'odio del mondo
    Il termine "mondo" qui ha un significato collettivo in riferimento al sistema su cui poggia la vita sociale. Non si riferisce quindi al mondo come creazione, o come natura, ma al mondo come "umanità". Più precisamente, quando il Vangelo di Giovanni parla di "mondo" come sistema sociale allude innanzitutto a Gerusalemme e alle sue istituzioni religiose. Sono proprio esse che, nella persona dei loro rappresentanti (sommi sacerdoti, farisei…) si oppongono alla Luce che è venuta nel "mondo" e impediscono alla Parola creatrice di rivolgersi alle sue creature. Nello stesso tempo, il concetto giovanneo di "mondo" include ogni società umana fondata su un sistema autonomo e chiuso alla trascendenza. Il carattere ispirato delle Scritture ammette sempre diversi livelli di lettura, così come i discorsi di Gesù nell'ultima Cena sono materialmente rivolti al gruppo apostolico, ma valgono nella stessa maniera per tutte le generazioni successive dei cristiani. La società umana costruita a sistema chiuso per Giovanni è necessariamente fondata sull'odio e sull'ostilità verso Dio. Ne consegue che questo odio e questa ostilità colpiscono innanzitutto i discepoli. Essi sono chiamati a prolungare la presenza del Maestro nel mondo, quando ormai il Maestro non è più raggiungibile dall'astio del mondo, mentre essi lo sono ancora fino al momento della loro morte personale. Il rifiuto della Luce che è venuta nel mondo, si traduce in un rifiuto che colpisce i discepoli. La loro vita sarà perciò del tutto simile a quella del Maestro. Il fatto che Cristo abbia scelto i suoi discepoli produce necessariamente una loro separazione "dal mondo", una estraneità che è oggetto di odio, perché è una presa di distanza dalle prospettive autonome, e negatrici del soprannaturale, su cui si costruiscono spesso le istituzioni umane. Gesù sottolinea come il mondo sia capace di odio nei confronti del diverso, ma afferma pure che esso è capace anche di benevolenza verso il suo simile. E i discepoli sono troppo "diversi" per essere amati dal mondo. Questa chiusura del mondo a ciò che è divino non risulta da un processo di inerzia o da spinte cieche che agiscono nella storia, al contrario, il sistema chiuso delle istituzioni umane è il risultato di una opzione: "Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato" (v. 22). Il sistema sociale chiuso alla trascendenza risulta quindi da un insieme di singole opzioni che soffocano quella minoranza che desidererebbe impostare la sua vita sociale in termini diversi.

    Perseguitati dal mondo
    Proprio in questi termini Gesù rivela la vera natura dell'opposizione del mondo: "Non avrebbero colpa se non avessi parlato". Dietro questo sistema sociale chiuso a Dio c'è dunque una lucida e personale opzione contro la Luce. Il prologo aveva già anticipato questo mistero in 1,5, presentando il rifiuto della Luce come un fatto anteriore all'Incarnazione: "La Luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta". Il vertice di questo rifiuto è rappresentato senz'altro dalle istituzioni religiose di Gerusalemme. La lucidità di questa opzione si vede, per esempio, nella decisione di far uccidere Lazzaro dopo la sua uscita dal sepolcro. In sostanza, dinanzi alla Presenza personale di Cristo viene allo scoperto l'orientamento dei cuori e raggiunge al tempo stesso le sue ultime conseguenze. L'annuncio del Vangelo non libera dalla colpa coloro che hanno scelto di vivere contro la Luce, ma, al contrario, li conferma nel loro peccato, che raggiunge così una maggiore perfezione: "Non avrebbero colpa se non avessi parlato". Si può parlare in questo caso di peccato contro lo Spirito che, appunto, non è perdonabile (cfr. Mt 12,32). Infatti, il peccato contro lo Spirito non si può commettere in assenza della predicazione del Vangelo e in uno stato di ignoranza su Dio e su Gesù Cristo. Per questa ragione, l'opzione contro Dio raggiunge la sua massima perfezione proprio nell'incontro col Cristo risorto, che è presente nella parola della predicazione apostolica. Gesù considera la sua esperienza storica di rifiuto e di persecuzione anche alla luce della Scrittura, citando il Salmo 69: "Mi hanno odiato senza ragione" (v. 5). Tuttavia ne prende anche le distanze, definendola la "loro" Legge (v. 25). Le Scritture si compiono per opera dei suoi oppositori, mentre si verifica un paradosso: i farisei e i sommi sacerdoti si professano fedeli alla Legge, ma la compiono proprio in quei punti in cui essa parla degli empi.

    La testimonianza dello Spirito (15,26-27)
    Qui ritorna la parola "Paraclito" come definizione dello Spirito, che procede dal Padre ed è mandato dal Risorto. Si comprende anche come la funzione rivelatrice del Paraclito sia in perfetta continuità con quella del Cristo storico. L'unica differenza è che lo Spirito non può parlare direttamente al mondo come poteva fare Cristo durante il suo ministero terreno grazie alla sua umanità. Lo Spirito si dovrà servire d'ora in poi degli apostoli per parlare agli uomini. Questa è la ragione per la quale al v. 27 la testimonianza dello Spirito è associata a quella degli apostoli: "Egli mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza". Non si tratta di due testimonianze diverse: la testimonianza dei discepoli è accompagnata e sostenuta dalla testimonianza dello Spirito (cfr. Mc 16,20; Eb 2,4). Il v. 26 sfiora anche la questione della processione intratrinitaria dello Spirito dal Padre e dal Figlio, ma non ci soffermiamo adesso su questo: osserviamo soltanto che il Cristo risorto intercede presso il Padre e manda lo Spirito insieme al Padre. Lo Spirito abilita i discepoli a compiere nel mondo una testimonianza credibile e autorevole, ma c'è un secondo presupposto necessario, un presupposto, si potrebbe dire, di ordine umano: "Siete stati con Me fin dal principio". Bisogna stare però bene attenti a non fraintendere il linguaggio giovanneo: "fin dal principio" non significa "fin dall'inizio del suo ministero pubblico". All'inizio del suo ministero pubblico, Gesù aveva accanto solo pochi discepoli: Pietro, Andrea, Filippo, Natanaele. I Dodici sono arrivati in seguito. L'espressione "fin dal principio" non si può intendere allora in termini cronologici, perché in tal caso non potrebbe riguardare l'intero collegio dei Dodici. Inoltre, nel linguaggio giovanneo il "principio" richiama innanzitutto la verità del Logos. Aderire a Lui "fin dal principio" equivale ad accettare nella fede la sua preesistenza e la sua divinità. La forza dello Spirito scende quindi ad abilitare alla testimonianza solo colui che aderisce a Cristo "fin dal principio", cioè colui che ha accolto nella fede la sua divinità, la sua eterna generazione dal Padre, la sua preesistenza, la sua incarnazione, e il suo mistero pasquale.

    Lo scandalo della persecuzione (16,1-4a)
    Il verbo "scandalizzarsi" è usato da Giovanni solo due volte: la prima volta in 6,61, la seconda qui. Nel primo caso lo scandalo riguardava la durezza della Parola di Cristo: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?… Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?" (6,52.60). E si scandalizzavano di Lui. Nel futuro, però, lo scandalo riguarderà i discepoli, che saranno perseguitati proprio per la loro "scandalosa" diversità. Cristo lo preannuncia, perché la cosa non piombi loro addosso in maniera inaspettata. Quando verrà quel momento, lo Spirito verrà in loro soccorso. Alla luce degli eventi successivi, bisogna dire che, con queste parole, Cristo intendeva riferirsi a due eventi, e forse anche a tre. Il primo è la scomunica rabbinica del 90 d. C., che escluse dalla Sinagoga tutti gli ebrei che erano diventati cristiani. Il secondo è l'ondata di persecuzioni anticristiane scatenate dall'Impero Romano nei secc. II-III. Il terzo è l'ultima persecuzione che si abbatterà sulla Chiesa alla fine dei tempi, prima del ritorno di Cristo (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 675-677). Con le parole "chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio" (15,2) Cristo non intende sminuire la responsabilità morale dei persecutori, ma, al contrario, intende negare che a Dio si possa rendere culto mediante la violenza e la sopraffazione dell'uomo; e ciò risulta chiaro dalle parole che seguono: "Faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né Me" (v. 3). Si comprende che la prospettiva del futuro è fatta di combattimenti e di lotte, a cui Cristo vuole preparare i suoi discepoli. Per questo sarà necessaria la forza dello Spirito. Gesù qui fa anche menzione di un'ora che deve giungere. Più precisamente la loro ora. Ovviamente si riferisce al tempo in cui le potenze delle tenebre ricevono da Dio il permesso di attaccare i discepoli con tutta la loro furia. Questa "ora" deve arrivare anche per i discepoli, così come è arrivata per Cristo, all'inizio e alla fine del suo ministero pubblico (cfr. Lc 4,13). Nel Vangelo di Giovanni, Gesù fa riferimento molto spesso alla "ora" dello scatenamento delle forze del male, che è anche l'ora della sconfitta di Satana, perché il cristiano che sa affrontare bene le sue prove, ne esce sempre più santo e più sapiente. Ricordiamo alcuni dei passi in cui Gesù si richiama a questo momento cruciale: a Cana, dice che l'ora non è ancora venuta (2,4), ma a Gerusalemme nei giorni della festa di Pasqua, in 12,23, afferma che l'ora è venuta. Anche l'evangelista Luca si esprime con la stessa terminologia: nel momento dell'arresto Gesù commenta: "Ogni giorno ero con voi nel Tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre" (22,53).

    Il Paraclito e il mondo
    L'ultimo discorso di Gesù dedicato al Paraclito, riguarda l'opera dello Spirito nei confronti del mondo. L'opera del Paraclito è resa necessaria dallo "scandalo" che i discepoli dovevano conoscere in anticipo: finora la persecuzione e l'ostilità del mondo erano solo contro di Lui; dopo la sua dipartita, però, non cesseranno e si rivolgeranno contro i suoi discepoli. In questo nuovo conflitto si inserirà l'azione del Paraclito verso il mondo e la forza dello Spirito permetterà ai discepoli di superare la tristezza derivante dall'odio del mondo verso la loro estraneità. Il fatto che Gesù lasci i discepoli appare come un ulteriore dono, più che come una privazione. Lo stesso evento, cioè la morte di Gesù, viene interpretato in maniere totalmente diverse da Lui e dai Dodici. La straordinaria opera del Paraclito ha inizio solo quando Cristo entra nel suo riposo. Si può dire che, nella visione giovannea, Cristo, che aveva iniziato la sua opera nel punto in cui il Creatore l'aveva lasciata, compiuta la propria missione entra anche Lui nel suo settimo giorno. Solo adesso, con l'effusione dello Spirito, si può dire che la creazione dell'uomo sia giunta al suo punto terminale. Non solo: l'evento della morte di Gesù rappresenta una tappa ulteriore nella maturazione religiosa dell'uomo perché il suo morire è la più alta rivelazione dell'Amore, è l'ultima lezione del Maestro. Prima di quel momento, i discepoli non hanno ancora la vera icona dell'amore cristiano, ossia di quell'amore che dona la vita per i valori del Regno. Infatti, è a partire dalla morte di Gesù che si possono ricomprendere nella loro giusta luce la sua vita e il suo insegnamento.La triplice opera del Paraclito nei confronti del mondo è descritta ai vv. 8-11. Il contesto di questa azione dello Spirito sembra eminentemente giudiziario. Il verbo "convincere" utilizzato qui da Giovanni (in greco elegcein) è un termine tecnico del linguaggio forense che andrebbe tradotto con "dimostrare la colpevolezza". L'idea di fondo è che il Paraclito, uno volta giunto, riaprirà il processo che si era concluso con la condanna del Gesù storico e condurrà le coscienze verso una dichiarazione di innocenza. Lo Spirito dimostrerà, nell'intimo tribunale della coscienza umana, che coloro che nel processo a Gesù avevano assunto il ruolo di giudici, erano in realtà i veri imputati. Gli obiettivi dell'opera del Paraclito si specificano in tre termini: peccato, giustizia e giudizio. Rileggiamo il testo: "Egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio" (v. 9). Con il termine "peccato" al singolare, Giovanni allude precisamente al peccato del mondo, ossia il rifiuto della salvezza offerta gratuitamente dal Figlio di Dio. Il peccato del mondo, che i Vangeli sinottici definiscono "bestemmia contro lo Spirito" (cfr. Mt 12,32 e paral.), consiste nel ritenere che le risorse umane siano sufficienti a salvare se stessi, giudicando inutili e non necessarie l'Incarnazione e l'offerta della Vita eterna da parte di Dio. Chi ragiona in questi termini, getta Cristo fuori dalla propria vita, e insieme a Lui rifiuta anche il Padre: "Chi odia Me, odia anche il Padre mio" (15,23). Il secondo punto su cui lo Spirito fa luce è "la giustizia". Cosa sia esattamente questa "giustizia" può intendersi solo in base a ciò che segue: "… perché vado al Padre e non mi vedrete più" (v. 9). La "giustizia" illuminata dallo Spirito ha a che vedere con il ritorno di Cristo al Padre, ossia con la sua glorificazione. Lo Spirito dimostrerà che Cristo è "il Giusto" in quanto il Padre lo ha accolto presso di Sé dopo il rifiuto del mondo. "Giustizia" è quindi l'affermazione che Cristo è stata "giustificato" dal Padre mediante la risurrezione dai morti. Questo fatto va connesso a Gv 8,50, dove il Padre è appunto descritto nell'atto di "giustificare" Cristo dinanzi agli uomini che gli muovono accuse: "Io non cerco la mia gloria; vi è Chi la cerca e giudica".Il terzo punto riguarda il "giudizio". Il problema "su chi o che cosa" si chiarisce nella seconda parte del v. 11: "… perché il principe di questo mondo è stato giudicato". Il "giudizio" qui non riguarda quindi tanto il mondo o l'umanità ma unicamente Satana, che è il regista occulto di tutto il sistema su cui si regge il peccato del mondo. Il "giudizio" che è operato dallo Spirito consiste nello spodestamento della potenza delle tenebre. Come si vede da 12,31, lo spodestamento di Satana avviene nella elevazione di Cristo sulla croce: "Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a Me". Sul Golgota si compie così la condanna senza appello del principe di questo ordinamento terrestre.

    Il Paraclito e i discepoli
    "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete in grado di portarne il peso" (v. 12). Questa frase di Gesù, se si prende e si legge da sola, offre parecchie possibilità di fraintendimento. Sembrerebbe quasi che Gesù non abbia detto tutto nei suoi tre anni di ministero pubblico. Per di più si tratta di "molte cose" che Egli ci dovrebbe ancora dire. Tenendo conto però di altre frasi di Gesù, occorre ridimensionare alquanto questa superficiale impressione. Prima di tutto dobbiamo ricordare cosa Gesù aveva detto in 15,15: "Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi". Vale a dire: Cristo ha trasmesso ai suoi discepoli tutto ciò che doveva. Inoltre, al v. 13, Cristo non parla di una verità nuova, ma di una verità piena. Anzi, lo Spirito "prenderà del mio" (v. 14), ossia l'insegnamento che Cristo ha già dato. Potremmo riesprimere la promessa di Gesù in questi termini: il messaggio che Egli ha affidato alla memoria dei discepoli ha delle conseguenze che essi non hanno ancora tratto e neppure lo potrebbero senza l'aiuto dello Spirito Paraclito. Per ben due volte Giovanni annota che i discepoli compresero qualcosa solo dopo la morte di Cristo: a proposito del Tempio che Cristo avrebbe riedificato in tre giorni: "Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù" (2,23); e a proposito dell'umile ingresso di Gesù in Gerusalemme: "Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di Lui e questo gli avevano fatto" (12,16). E' chiaro allora che lo Spirito illumina l'intelligenza dei discepoli e li conduce alla piena comprensione di realtà che i ragionamenti umani non sono capaci di raggiungere. La vita e l'insegnamento di Gesù sono in sostanza incomprensibili alla mente umana lasciata alle sole risorse del suo acume naturale. Lo Spirito non comunica una verità diversa da quella che riguarda Cristo stesso, e in questo senso si dice che il Paraclito "prende del suo" e ce lo annunzia. Il Paraclito darà inoltre una cognizione delle cose future (cfr. v. 13). Qui si potrebbe vedere un'allusione al carisma della profezia che arricchisce la comunità cristiana e talvolta ne indica anche le piste; ricordiamo a questo proposito la comunità descritta dagli Atti col suo profeta Agabo (cfr. At 11,28) e con i suoi incontri di preghiera, durante i quali lo Spirito dona delle preziose indicazioni, come ad esempio la scelta e la missione di Barnaba e Paolo (cfr. At 13,2). Mentre Gesù sta parlando ai Dodici, durante l'ultima Cena, è ovvio che essi sono ancora ignari di tutto questo. La Chiesa si sviluppa nella storia, e nella storia ogni secolo presenta nuove sfide e nuove problematiche. Gli Apostoli non possono ancora portare il peso del futuro, ma ogni generazione porterà il suo peso, e sarà in grado di farlo nella forza dello Spirito di Dio. Così il Paraclito glorificherà il Cristo, prolungando nei secoli la sua opera di Maestro. Il Paraclito attinge a Cristo, e ciò equivale ad attingere al Padre. La Rivelazione prende l'avvio dal Padre e ciò che si rivela non è cosa diversa dal Figlio, poiché l'autorivelazione del Figlio coincide con l'esatta rivelazione del Padre. Il Padre e il Figlio hanno in comune la medesima pienezza, alla quale lo Spirito attinge per poterla comunicare alla Chiesa. Questa "pienezza" può chiamarsi anche Gloria.
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    00 27/07/2006 13:12

    I Precetti di Cristo (1)

    Il primato di Dio e il primato dell'uomo


    Nel pensiero di Cristo il primato di Dio e il primato dell’uomo non sono mai in reciproco contrasto. L’affermazione del primato di Dio non è mai contro l’uomo, perché dare a Dio il primo posto NON SIGNIFICA AFFATTO dare all’uomo l’ultimo posto, umiliandolo e calpestandolo nella sua dignità. Non è mai lecito a un cristiano compiere dei gesti contro l’uomo in nome di Dio. Cristo lo disse chiaramente ai suoi discepoli durante l’Ultima Cena: “Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né Me” (Gv 16,2-3). Chi colpisce l’uomo in nome di Dio, non conosce Dio.

    L’incontro con Dio aldilà delle diverse fedi:

    Cristo vive, nella sua esperienza personale, un grande equilibrio tra il primato di Dio e il primato dell’uomo. E lo vediamo in diversi ambiti. Il primo è quello che oggi definiremmo ambito ecumenico e interreligioso. I contemporanei di Gesù dividevano gli uomini in nome di Dio: i Giudei ritenevano di essere più vicini a Dio di quanto non lo fossero i Samaritani; Giudei e Samaritani, a loro volta, ritenevano, ciascuno per la sua parte, di essere migliori dei pagani idolatri. Cristo invece insegna che l’incontro con Dio avviene nell’intimo della coscienza attraverso l’ubbidienza della fede, e che potrebbe accadere che sia lontanissimo da Dio chi vive quotidianamente a contatto con l’altare, e sia invece molto vicino e benedetto da Dio chi è apparentemente lontano da Lui. Ci sono alcuni episodi significativi che vanno ricordati:

    Mt 8,5-13: Il servo del centurione; Gesù dice del centurione romano che gli chiede la guarigione di un suo servo: “In verità vi dico: presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” (v. 10).

    Mt 15,21-28: La guarigione della figlia della donna siro-fenicia. Anche qui Gesù conclude con un’esclamazione che nel vangelo non è mai rivolta a nessun pio israelita e a nessun perfetto fariseo: “Donna, davvero grande è la tua fede!” (v. 28).


    La superiorità dell’uomo sui precetti della religione

    Altro punto in cui Cristo si distanzia nettamente dalla mentalità dei suoi contemporanei. Gli ebrei del tempo di Gesù avevano una venerazione per la Legge e i precetti mosaici. Tale venerazione, però, si traduceva talvolta in un atto contro la dignità della persona umana; e ciò avveniva quando, in nome della Legge di Dio, si emarginavano irreversibilmente i peccatori, si omettevano i soccorsi ai bisognosi e perfino ai propri genitori anziani (cfr. Mc 7,9,13). Gesù afferma ripetutamente che la Legge di Dio è fatta perché l’uomo viva meglio, viva una vita più umana in tutti i sensi, e non perché sia schiacciato dalla Legge. Anche qui diversi episodi illustrano questa dottrina:

    Gv 8,1-11: Il perdono dell’adultera: “Nemmeno io ti condanno”. Gesù non applica la Legge di Mosé in maniera estremamente tecnica. Laddove la Legge prescriveva la lapidazione, il Maestro invita a leggere più in profondità i fenomeni sociali: l’espressione “chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra” (v. 7) non significa che nessuno è tanto puro da poter giudicare un altro. La società ha comunque bisogno dei suoi tribunali e gli Apostoli ne rispetteranno la legittimità. Questa frase è piuttosto un invito a distinguere il peccato soggettivo da peccato sociale. Cristo vuole dire che nessuno di loro può ritenersi privo di responsabilità circa il peccato di quella donna. E in questo caso la società non può essere inflessibile verso fenomeni generati da lei stessa, come lo è l’adulterio. Se la Legge di Mosè è applicata tecnicamente, senza distinguere caso da caso, allora il primato di Dio si traduce nella cancellazione della dignità della persona.

    Le guarigioni in giorno di Sabato: Mc 3,1-6; Lc 13,10-17. Un punto della Legge mosaica in cui i contemporanei di Gesù si manifestavano particolarmente sensibili era il terzo comandamento: l’osservanza del tempo sacro. Anche questo precetto era osservato dai farisei senza tener conto delle condizioni della persona umana, e spesso veniva assolutizzato al punto tale che si ometteva l’aiuto a un bisognoso col pretesto che al Sabato non si possono fare lavori di nessun genere. Cristo viene accusato di essere un trasgressore della Legge mosaica perché nelle sinagoghe, talvolta operava guarigioni e liberazioni durante il Sabato. Cristo risponde ai suoi avversari: “Il Sabato è fatto per l’uomo. Non l’uomo per il Sabato” (Mc 3,27). In altre parole: i precetti della religione non sono delle piccole divinità destinate a schiavizzare l’uomo, ma al contrario è la Legge che deve stare al servizio dell’uomo. E se l’applicazione della Legge, anche santissima, ha come risultato un atto contro il bene della persona, ciò significa che forse non deve essere applicata così. Dio infatti ha dato il Decalogo perché l’uomo viva meglio e non perché ne sia soffocato. Nessun precetto può essere quindi assolutizzato senza correre il rischio di osservare solo il primato di Dio, dimenticando che tutto ciò che Dio ha fatto, lo ha fatto per l’uomo.

    Altro caso:

    I precetti dell’elemosina, del digiuno e della preghiera non valgono, se vengono vissuti dalla persona come valori assoluti: Mt 6,1-18. Proprio su questo punto la Parola di Cristo assume dei toni particolarmente forti; l’immagine dei farisei serve a far risaltare questo insegnamento: essi hanno posto la Legge al di sopra dell’uomo col risultato paradossale di calpestare l’uomo proprio nel nome di Dio: legano pesanti fardelli sugli altri: Mt 23,4; usano la religione per abbellire la propria immagine: Mt 23,5-6; osservano tutte le esigenze della Legge, tranne le più essenziali: la giustizia, la misericordia e la fedeltà: Mt 23,23. Il risultato finale del primato attribuito a ciò che non è umano è l’odio e la persecuzione contro chi vive secondo la volontà di Dio: Mt 23,34. A questo fa eco il lamento di Cristo sulla città bisognosa di Dio, la quale, incomprensibilmente, si autocondanna rifiutando Dio.

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    00 27/07/2006 13:14
    I Precetti del Cristo (2)

    Il valore delle opere misurato a partire dal "cuore"

    Premessa: Le opere che un uomo compie sono sempre il segno visibile della sua statura morale. Ma ci sono criteri diversi per individuare l’effettivo valore delle opere. Il primo e più diffuso criterio è quello utilizzato dalla legge dello Stato. Semplificando, possiamo dire che un cittadino è meritevole o colpevole in base a ciò che esternamente ha fatto. Invece, secondo l’insegnamento di Cristo, si scopre il vero valore delle opere solo mediante un criterio interno.

    Il Signore non guarda ciò che guarda l’uomo

    E’ un enunciato generale. Samuele e Davide: 1 Sam 16,6-12. Agli occhi di Dio, il valore dell’uomo va calcolato dall’interno verso l’esterno. Ciò significa che una determinata opera, che magari in se stessa è buona, potrebbe non esserlo a motivo delle disposizioni interiori del soggetto. Ad esempio, un uomo dedito alla malavita e ai guadagni disonesti, potrebbe avere, dinanzi al bisogno di un amico, la generosità di aiutarlo; così un killer, spietato con tutti, avrebbe sentimenti di tenerezza e di bontà verso i propri figli, ai quali garantirebbe le migliori scuole. Non c’è nessun uomo totalmente corrotto, e i moti di bontà sono possibili in chiunque. Tuttavia, non è da pensarsi che l’opera buona abbia un valore agli occhi di Dio, solo perché è “buona”. L’opera ha valore agli occhi di Dio solo relativamente ai contenuti del cuore di chi la compie. Così, poniamo, l’elemosina di un uomo che non vive in grazia di Dio non ha lo stesso valore della medesima elemosina fatta da un cristiano che cammina nella santità battesimale. Chi vive in grazia di Dio compie delle opere che valgono come se le avesse compiute Cristo stesso. Molto chiaro è l’insegnamento dell’Apostolo su questo punto: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

    Il valore delle opere va cercato nella storia personale di ciascuno

    La vedova nel tempio: Lc 21,1-4. Ogni gesto preso da solo non può essere giudicato, perché esso acquista significato solo a partire dalla persona che lo compie.

    I Farisei compiono gesti di alto significato morale, come l’elemosina, la preghiera e il digiuno, ma la storia personale li riempie solo di significato umano: Mt 6,1-18.

    Anche il cane San Bernardo compie opere eroiche, salvando la vita agli sciatori, ma non può andare in Paradiso. Egli compie il bene come lo compiono spesso molti uomini: per abitudine.

    Il processo che si svolge dall’esterno all’interno non è capace di cambiare la persona

    Non è ciò che entra nell’uomo a contaminare l’uomo: Mc 7,14-23. Ma se ciò che entra nell’uomo non ha la capacità di peggiorarlo, allora non può neppure migliorarlo. Con questo insegnamento il Maestro intende correggere l’atteggiamento erroneo di chi pensa che sia sufficiente promuovere iniziative buone, attività pastorali in cui coinvolgere il maggior numero di persone, convocare il popolo per la Liturgia, per compiere atti efficaci per la vita della Chiesa. Molto spesso le nostre fatiche pastorali e le megaconvocazioni che siamo in grado di organizzare, lasciano tutto come prima. Il cristianesimo, infatti, può essere anche mimato da intere comunità; il cristianesimo può essere costruito sul piano dei comportamenti senza averne assimilato lo spirito. In questo caso è come un abito applicato da fuori, o come un cibo che entra nel ventre e poi esce verso la fogna. Il Maestro vuole dire che ciò che entra nell’uomo dall’esterno non può cambiarlo. Il cristianesimo può invece cambiare l’uomo, quando viene accolto come motivazione interiore dell’agire e non come semplice comportamento.

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    00 08/11/2006 00:55
    Ricomincia il corso!!!!

    In concomitanza con il mio riprendere le lezioni di teologia al mio corso, ci tengo, ancora una volta a condividere con voi gli argomenti che tratto durante questi incontri, aiutandomi anche con ciò che riesco a pescare in internet.
    Dunque, questo mese ho come materie Scritti Giovannei e Morale Familiare.

    In queste due settimane ho seguito solo scritti giovannei, non essendo ancora iniziato l'altro corso: ecco cosa discusso fino ad oggi:


    SCRITTI GIOVANNEI

    Origene, scrittore di Alessandria d’Egitto del III secolo, uno dei primi e migliori commentatori di S. Giovanni, ha così definito il lettore ideale di questo vangelo: “Nessuno può comprendere il senso del vangelo di Giovanni se non si è chinato sul petto di Gesù e non ha ricevuto da Gesù, Maria come madre”.

    Testo di alta qualità teologica, “il fiore dei vangeli”, questo testo ha ricevuto, a partire da Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C.), la definizione di “vangelo spirituale”, una definizione che l’ha accompagnato nei secoli.

    Questo quarto vangelo dal linguaggio misterioso e meno familiare degli altri tre, era il meno letto degli altri nella Chiesa primitiva, ma è la via migliore per andare fino in fondo alla domanda posta negli altri vangeli: qual è la vera identità di Gesù? Iniziando il suo scritto con il prologo, Giovanni risale fino al principio che svela il vero mistero dell’uomo Gesù: “In principio era il Verbo”. Il Verbo, Parola fatta carne, nell’uomo-Gesù, ha sempre avuto la sua dimora nel seno del Padre (“Il Verbo era presso Dio”), e quando l’eternità si è aperta sul tempo per far posto al divenire: (“… e il Verbo si fece carne”), il termine “Verbo” si nasconde per far posto soltanto all’uomo nella sua dimensione fragile, effimera e sofferente.

    Il quarto vangelo è costruito con arte, secondo una struttura precisa. Il filo che percorre l’intera narrazione consiste nel progressivo svelarsi di Gesù e, quindi, nel progressivo manifestarsi della fede e dell’incredulità. In ogni episodio c’è Cristo che si rivela, e di fronte alla sua manifestazione gli uomini sono costretti a compromettersi: o la fede o l’incredulità. Gli episodi sono poi disposti uno dopo l’altro in modo fa formare un crescendo: il Cristo rivela sempre più chiaramente il suo mistero, e gli uomini rivelano sempre più chiaramente la loro incredulità. La drammaticità del racconto si fa ancora più evidente se si tiene presente che per l’evangelista il decidersi ora, nella propria vita personale, a favore o contro Cristo è l’anticipo del giudizio finale.

    Bisogna scegliere, ora, tra la luce e le tenebre, tra la fede e l’incredulità, tra l’amore e l’indifferenza, tra la morte e la vita.

    L’evangelista S. Giovanni (che i pittori usano rappresentare col simbolo dell’aquila), trascinerà il lettore sempre più a fondo nella vera Vita eterna che già inizia quaggiù nella misura in cui noi amiamo i fratelli.

    Occorre un’anima contemplativa per gustare il Vangelo di S. Giovanni, appena il lettore comincerà a leggere questo Vangelo con calma e con attenzione, ne resterà soggiogato. Se lo porterà sempre con se, fino alla tomba.



    *****************


    I. L’autore

    La tradizione unanime della Chiesa antica[1] non ha mai messo in discussione l’attribuzione di questo quarto vangelo a Giovanni, figlio di Zebedeo.

    Una convalida della tradizione a favore della paternità giovannea del quarto vangelo può essere desunta dallo stesso vangelo. Il vangelo stesso infatti rivendica la dipendenza da un testimone oculare (19,35), un giudeo che conosceva perfettamente la scena palestinese. Luoghi e dati topografici non menzionati nei sinottici vengono specificati con precisione in Gv, come la piscina di Betesda (5,2) e il litostroto (19,13) a proposito dei quali sembra che le ricerche archeologiche abbiano confermato l’esattezza delle descrizioni giovannee.

    Al lettore che si accosta per la prima volta al vangelo di Giovanni, questo scritto rivela almeno due edizioni. Nei capitoli 20 e 21 si hanno, infatti, rispettivamente due conclusioni, e cioè: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo …” (Gv 20, 30-31). La seconda conclusione: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21, 25).

    Gli studiosi hanno visto, allora, all’interno del testo le tracce di una complessa vicenda “editoriale” che si è svolta in più tappe.

    La prima tappa è legata alla tradizione orale legata all’apostolo Giovanni in ambiente palestinese, subito dopo la morte di Cristo e prima del 70, (la data della distruzione di Gerusalemme), e si esprime nella lingua aramaica.

    Si ha, poi, una prima stesura del vangelo in greco, destinata a un nuovo pubblico: quello dell’Asia Minore costiera, che aveva come centro principale la città di Efeso. Alla stesura di questo scritto contribuisce un “evangelista” che raccoglie il messaggio dell’apostolo Giovanni e lo adatta al nuovo pubblico (si pensi al mirabile inno al Logos, cioè al verbo divino che è Cristo, destinato a fungere da prologo dell’intero vangelo).

    Questa prima stesura, che si concludeva al capitolo 20, si svolgeva lungo due grandi movimenti: il primo (capitoli 1-12), spesso chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette miracoli simbolici, scelti dall’evangelista per illustrare la figura di Gesù, e rivelava il Figlio di Dio davanti al mondo, generando adesione e rifiuto. Il secondo movimento testuale (capitoli 13-20), spesso intitolato “Libro dell’ora”, cioè del momento glorioso e supremo della vita di Cristo offerta sulla croce, comprendeva la rivelazione del mistero profondo di Gesù ai discepoli (si pensi ai “discorsi di addio” dell’ultima Cena, come sono chiamati i capitoli 13-17).

    Infine, come è attestato dal capitolo 21, si procedette a una seconda stesura alla fine del I secolo d.C. e forse, in un brano allusivo (“ Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi”. Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma : “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?” Gv 21, 22-23), si fece riferimento anche alla morte dell’apostolo Giovanni, mentre la Chiesa proseguiva il suo cammino attraverso l’autorità pastorale affidata a Pietro dal Signore risorto: “Simone di Giovanni mi ami tu più di costoro?…” (Gv 21, 15-19).

    Da quanto detto finora, possiamo concludere affermando che l’ordine nel quale il vangelo si presenta offre un certo numero di difficoltà: di stile[2] e logiche[3]. Può darsi che queste anomalie provengono dal modo in cui il vangelo è stato composto: sarebbe infatti il risultato di una lenta elaborazione, che comporta elementi di epoche successive, ritocchi, aggiunte, redazioni diverse di uno stesso insegnamento; poi il tutto sarebbe stato definitivamente pubblicato non da Giovanni, ma, dopo la sua morte dai suoi discepoli: (“Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera” 21,24). Così, nella trama primitiva del vangelo, essi avrebbero inserito frammenti giovannei che non volevano lasciar perdere, senza preoccuparsi troppo di dare loro un ordine logico e cronologico.

    Una cosa, però, rimane certa: il vangelo di Giovanni così com’è, porta l’impronta di uno scrittore, il cui racconto è costruito intorno alla figura di Gesù, presentata nella sua umanità e divinità con grande originalità teologica.



    II. Luogo - lingua - data di composizione

    Secondo la tradizione (Ireneo e Clemente Alessandrino), Giovanni è vissuto fino all’inizio del regno di Traiano (98-117).

    In quanto al luogo di redazione, la maggior parte degli autori ritiene che il vangelo sia stato scritto ad Efeso. In quanto alla data si propende per il 100 e il 110. Il vangelo fu scritto in greco, in una lingua non sempre elegante, ma corretta. Lo studio della lingua mostra numerose assonanze con l’aramaico, come “fare la verità” (Gv 3,1), “credere nel nome di…” (Gv 1,12; 2,23; 3,18). L’insieme rimanda a un modo di pensare e scrivere “aramaico”.

    III. Le fonti

    Il vangelo di Giovanni è talmente differente dagli altri tre vangeli che gli specialisti hanno moltiplicato le ricerche per identificare gli ambienti che hanno potuto influenzare l’autore. Il Cristo di Giovanni, infatti, si differenzia radicalmente dal Gesù dei sinottici. In Gv non troviamo alcuna parabola, nessuna istruzione morale, nessuna controversia in fatto di legge o casistica come quelle che hanno entusiasmato le folle della Galilea fino ad acclamare Gesù come profeta. Abbiamo invece allegorie, simbolismi, vocaboli difficili, e una serie di asserzioni magistrali: “Io sono il pane…la luce…la porta…il pastore…la risurrezione…la via…la vite”.

    E’ abbastanza ovvio che Giovanni presuppone la tradizione sinottica. Per lui è scontato che i suoi lettori conoscano già chi siano i dodici, e quindi tralascia di presentarli (Disse allora ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?” 6,67). Egli non fa alcuna menzione del battesimo di Gesù da parte del Battista, ma suppone che il lettore sia già a conoscenza di tale battesimo quando riporta la testimonianza del Battista (Giovanni rese testimonianza dicendo: “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo…” Gv 1, 32-34).

    In molti casi, sarebbe difficile cogliere il senso di Gv se non avessimo già una conoscenza approfondita dei sinottici.

    La maggioranza degli studiosi moderni pensa che Giovanni abbia utilizzato o letto il vangelo di Marco. A volte Gv non solo segue la disposizione di Marco ma usa anche sue espressioni peculiari. A ciò possiamo aggiungere che è cronologicamente possibile che Mc fosse già noto nel mondo cristiano a cui era destinato il vangelo di Giovanni.

    Circa l’utilizzazione del vangelo di Matteo da parte di Giovanni, alcuni autori spiegano che le affinità occasionali che si riscontrano tra Gv e Mt potrebbero essere spiegate dal fatto che Giovanni conobbe un Mt aramaico che fu utilizzato come fonte per la composizione del nostro Mt canonico.

    Molte sono invece le affinità tra Gv e Luca: ci sono innegabili somiglianze tra i due vangeli quanto al contenuto e alla teologia. Il racconto dell’adultera in Gv 7,35-8,11 benché trovato nella maggior parte dei manoscritti di Gv, è di Luca al cento per cento.

    Le divergenze, tuttavia, che esistono tra Gv e i sinottici sono ancor più numerose dei punti in comune. I numerosi miracoli riportati nei sinottici non hanno alcuna eco nei sette miracoli di Gv (due soltanto dei quali appaiono nei sinottici), e in Gv non abbiamo neppure un solo esorcismo. Dei discorsi di Gesù in Gv, neppure uno è registrato nei sinottici. Anche la cronologia del ministero pubblico di Gesù in Gv si differenzia radicalmente dai sinottici.

    Una cosa però è certa: Giovanni, nel suo vangelo, non ha voluto correggere la cronologia sinottica relativa alla vita pubblica, o fornire ulteriori informazioni statistiche assenti negli altri, o connettere il racconto sinottico alla sua propria narrazione. Al contrario, egli volle semplicemente aggiungere la sua testimonianza personale senza tener conto della selezione e della disposizione degli eventi che si riscontravano nei sinottici.

    Dopo questo doveroso confronto, ci siamo convinti dell’indipendenza di Gv dai sinottici, ma altri ambiente (almeno tre) hanno influenzato il suo vangelo.

    a. Influenze gnostiche.


    La gnosi[4], diffusa nel bacino del Mediterraneo, è un sistema basato su opzioni dualistiche (il Dio del male contro il Dio del bene), e Giovanni potrebbe avere avuto rapporti con alcune correnti gnostiche: i temi favoriti della gnosi (luce-tenebre, morte-vita) sono ben presenti nel vangelo di Giovanni. Ma a differenza della gnosi, Giovanni mette in scena un Gesù la cui umanità è ben reale: la morte a cui viene assoggettato mostra che Gesù è un uomo autentico.

    b. Influenze ellenistiche.

    Per molto tempo si sono cercati nelle filosofie greche certi temi giovannei, in particolare le trattazioni intorno al lògos. Oggi, sotto l’influsso della riscoperta del giudaismo palestinese, si è convinti che le vere radici di Giovanni debbano essere ricercate nel mondo giudaico.

    c. Il giudaismo palestinese.

    Il terreno fertile del vangelo si trova nel giudaismo palestinese del tempo di Gesù. Giovanni cita poco l’Antico Testamento: quattordici volte, tuttavia in lui si trovano le correnti più importanti dell’AT: Gesù è presentato come Servo di Jahwè, come re d’Israele e profeta, è evidente l’influenza della Genesi (Gv 1), ma soprattutto la figura di Mosè e il tema dell’esodo svolgono un ruolo determinante (Mosè: 1,17.45; la manna: 6,31; l’acqua dalla roccia: 7,38; il serpente di bronzo: 3,14; il tabernacolo: 1,14).



    IV. La teologia di Giovanni

    Ogni evangelista ha un suo punto di vista fondamentale su Gesù e la sua missione: Marco ha privilegiato la croce (il segreto messianico) per rivelare il vero volto di Gesù. Luca ha accentuato di più l’aspetto della mitezza e della misericordia del Signore Gesù (“amico dei pubblicani e dei peccatori”). Matteo ha messo in luce l’aspetto dottrinale (i 5 discorsi) di Cristo. Per Giovanni, invece, Gesù è il Verbo fatto carne, che viene a dare la vita agli uomini (1,14).

    Il mistero dell’incarnazione guida tutto il suo pensiero. Questa teologia dell’incarnazione si esprime nel linguaggio della missione e della testimonianza. Gesù è la Parola, il Verbo, mandato da Dio sulla terra e che, una volta compiuta la sua missione, deve far ritorno a Dio (1,1). Tale missione consiste nell’annunziare agli uomini i misteri divini: Gesù è il testimone di ciò che ha visto e udito presso il Padre (3,11). Per rendere credibile la sua missione, Dio gli ha dato di compiere un certo numero di opere, di “segni”, che superano le possibilità umane e provano che egli è realmente mandato da Dio il quale agisce in lui (2,11). Queste opere sono una manifestazione ancora relativa della sua gloria, nell’attesa della piena manifestazione nel giorno della risurrezione (1,14). Infatti, secondo la profezia di Isaia 52,13 il figlio dell’uomo deve essere “elevato” e, mediante la croce, ritornare al Padre (12,32) e ritrovare quella gloria, presente presso il Padre “prima che il mondo fosse” (17,5), e di cui i profeti avevano avuto rivelazione (5,39.46; 12,41; 19,37).

    Tale manifestazione oscura le precedenti, quella della creazione (1,1), quelle di cui furono gratificati Abramo (8,56), Giacobbe ( 1,51), Mosé (1,17), i profeti. La gloria del “giorno di Jahwè” (Am 5,18)[5] si compie nel “giorno” di Gesù (8,56) e in modo particolare nella sua “ora” (2,4), l’ora della sua “elevazione” e della sua “glorificazione”. Allora si rivela la grandezza trascendente dell’ “inviato” (8,24; 10,30), venuto nel mondo per dare la vita (3,35) a quelli che ricevono mediante la fede il messaggio di salvezza che egli porta (3,11). Proprio perché tutta la “missione” del Figlio è ordinata a un’opera di salvezza, essa è manifestazione suprema dell’amore del Padre per il mondo (17,6).



    V. Caratteristiche letterarie

    L’analisi fatta finora deve aver mostrato che il vangelo di Giovanni segue le sue proprie regole e che esso va letto come un’opera indipendente. Esamineremo ora brevemente solo alcune delle caratteristiche del suo genere letterario, che vanno prese in considerazione da chi si accinge a leggere il suo vangelo.

    Prima caratteristica è l’aspetto escatologico. Nei vangeli sinottici, la manifestazione della gloria del Cristo è principalmente legata al suo ritorno escatologico (Mt 16,27 ss). Anche in Giovanni si ritrovano i principali elementi dell’escatologia tradizionale: l’attesa dell’ “ultimo giorno” (6,39 ss; 11,24; 12,48), della “venuta” di Gesù (14,3; 21,22 ss), della risurrezione dei morti (5,28; 11,24) e del giudizio finale (5,29.45; 3,36). Tuttavia in Gv si nota facilmente una duplice tendenza: ad attualizzare e a interiorizzare l’escatologia. La “venuta” del figlio dell’uomo è concepita soprattutto come la venuta di Gesù in questo mondo con l’incarnazione, la sua elevazione sulla croce e il suo “ritorno” al Padre, ed è visibile nei discepoli mediante lo Spirito. Il “giudizio” si opera fin da ora nell’intimo dei cuori; la vita eterna (che corrisponde in Giovanni al “regno” dei sinottici) è posseduta già ora nella fede e il ritorno del Cristo nell’ultimo giorno sarà solo un completamento del trionfo di Dio sul male (la lotta si svolge già su questa terra tra i figli della luce e i figli delle tenebre).

    Un’altra caratteristica è l’ironia. Il narratore attribuisce talvolta agli avversari di Gesù parole o azioni ingiuriose che a prima vista sembrano rivolte a Gesù. Tuttavia, attraverso un’ironia accessibile ai lettori credenti, questi avversari dicono su Gesù una verità profonda che sfugge loro. Così, per esempio, la regalità sottolineata da Pilato, il cartello sulla croce, dicono la verità su Gesù.

    Una terza caratteristica è il doppio significato: Giovanni utilizza spesso parole o espressioni volutamente ambivalenti: Gesù parla di “rinascere” e Nicodemo capisce che bisogna ritornare nel grembo della propria madre. La distruzione del tempio evocata in Gv 2,19 è presa alla lettera dai suoi avversari, ma è spiegata dal narratore come un riferimento al corpo di lui. La parola di Gesù sul pane dal cielo è accolta come un evento puramente materiale: “Dacci sempre questo pane”, chiedono allora i giudei a Gesù (Gv 6,34). Il malinteso permette a Gesù di entrare più in profondità nella rivelazione.

    Il simbolismo giovanneo.
    In Gv si riscontra un più vasto simbolismo che negli altri vangeli. Viene richiamata una maggiore attenzione sul significato spirituale di avvenimenti apparentemente ordinari e sul senso profondo delle parole e degli episodi. Il “discepolo amato”, il cieco nato, Lazzaro, rappresentano, sotto certi aspetti, non soltanto dei personaggi storici, ma anche tutti i cristiani. Maria, la madre di Gesù, è la Chiesa stessa. Tale simbolismo si estende ad altri eventi e persone ed è necessario che leggiamo Gv con una particolare attenzione se vogliamo coglierne tutto il significato.
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    00 22/11/2006 00:52
    Scritti Giovannei (lez.2)

    PROLOGO (1, 1-18)


    Il prologo sostituisce le narrazioni dell’infanzia che si trovano in Matteo e in Luca. Per Giovanni, è questo il vero inizio della vita di Gesù. Giovanni concorda con i sinottici nel far cominciare la vita pubblica di Gesù con la predicazione di Giovanni Battista, ma non dice nulla riguardo alla predicazione di quest’ultimo. Giovanni Battista realizza quello che il prologo annunziava di lui: rende testimonianza su Gesù.

    Nel prologo, scritto in un linguaggio poetico, ricorrono i principali temi teologici che verranno poi sviluppati in tutto il vangelo di Giovanni. Vi s’incontra un vocabolario che non è presente altrove: alcune parole, come Verbo, grazia, pienezza (plèroma), sono presenti soltanto in questa introduzione.

    Fedele all’antica tradizione, Gv inizia questo Inno con una “genealogia” non umana ma divina: canta la preesistenza del Verbo, poi la sua presenza luminosa tra gli uomini, la sua venuta in mezzo al popolo d’Israele, e infine la sua incarnazione nella persona di Gesù.

    E’ probabile che quest’Inno esistesse dapprima isolatamente, forse in forma breve senza i versetti riguardanti Giovanni Battista. Nella Chiesa primitiva esistevano inni di questo genere, come per esempio Ef 5,14.

    Giovanni, alla ricerca di un’introduzione per il suo vangelo, ha adottato e adattato l’Inno per farne un’introduzione che enuncia i grandi temi del vangelo: Gesù, di cui il vangelo racconterà la storia in mezzo agli uomini è presentato qui nella sua origine e nel suo principio. Egli è il Verbo[6] (Lògos) che preesisteva in principio, la cui intimità con Dio è tale che il poeta afferma che egli “era Dio”. Il suo ruolo rispetto agli uomini oltrepassa il popolo d’Israele poiché egli è creatore, vita e luce per ogni uomo che viene nel mondo. L’Incarnazione segna l’entrata del Verbo nella storia e il suo incontro decisivo con gli uomini: con il popolo giudaico (che lo rifiuta), con la comunità cristiana (che lo accoglie)

    Quest’Inno racconta con solennità l’itinerario del Verbo a partire dalla sua dimora in Dio (vv. 1-2), la sua venuta in mezzo agli uomini (3-5), la sua scelta d’Israele (9-11), poi la sua Incarnazione (14), fino al suo ritorno “nel seno del Padre” (18).

    Ora vediamo da vicino questo testo del Prologo.

    In principio era il Verbo”: in questa prima espressione si parla dell’origine misteriosa di Gesù (vv. 1-2). Gesù è il Lògos (il Verbo) preesistente alla creazione, rivolto verso Dio, Dio egli stesso. Il Lògos non è dunque stato creato: esisteva già fuori del tempo, nell’eternità, prima ancora che le cose create cominciassero ad esistere (“In principio era[7] il Verbo”).

    Giovanni collega la venuta di Gesù con i primi capitoli della Genesi (“In principio”). L’evangelista rilegge Gesù a partire dal principio della rivelazione. Lungo tutto il vangelo, questa identità misteriosa di Gesù e il suo posto centrale nello svolgimento della rivelazione si esprimeranno attraverso la pretesa di Gesù di essere il compimento di tutta la rivelazione, il rivelatore supremo, il dono ultimo di Dio, la sola via possibile di salvezza, il volto di Dio in mezzo agli uomini (“il Padre è in me e io nel Padre” Gv 10,38).

    Il Verbo era presso Dio”: viene qui asserita una distinzione nella divinità: la Parola esisteva assieme a Dio. Qui “Dio” senza l’articolo è un predicato: la Parola (il Verbo) è divina, ma non esaurisce tutta la divinità, perché essa è già stata distinta da un’altra Persona divina (cfr. 7,28 ss; 8,42; 16,28).

    A differenza delle cose create, delle quali parlerà fra poco, non ci fu mai un tempo in cui la Parola non esistesse (“ Questi era in principio presso Dio”). Cristo, dunque, è all’origine della realtà e della vita ed è nella pienezza della divinità.

    Tutto è stato fatto per mezzo di lui”: precedendo la creazione Egli ne è il capo costruttore. Il Verbo è qui presentato come il mediatore grazie al quale la creazione e gli esseri creati vengono all’esistenza.

    Gv non chiama Cristo il Creatore, un titolo che nel NT è riservato al Padre (cfr. Col 1,15 ss.) ma mediatore della creazione (“per mezzo di lui”). Questa mediazione della Parola nella creazione, però, non implica una subordinazione ma soltanto un ordine logico.

    La Parola creatrice di Dio, una concezione eminentemente biblica (Gen 1,3; Is 48,13; Sir 42,15) è identificata dai rabbini con la Torà (Legge).

    Senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”: questa espressione esprime la stessa verità in forma negativa; viene sottolineato che la creazione, in quanto distinta dalla Parola, incominciò ad esistere, e che la Parola è la causa di questa sua esistenza.

    In lui era la vita”: ogni esistenza creata (animata o inanimata) ha sempre avuto la sua origine nella vita della Parola, e la vita che gli uomini ricevono dalla Parola è un dono di Dio per mezzo di Cristo, una specie di partecipazione all’essere di Dio. Questa affermazione fa da introduzione ai vv. 14 ss, nei quali si asserisce chiaramente che la vita soprannaturale dell’uomo è una partecipazione alla vita divina della Santissima Trinità.

    La vita era la luce degli uomini”: vicino a Dio, Dio egli stesso, il Verbo vive fin dalle origini una relazione unica con gli uomini: tutto ciò che vive, riceve l’essere da lui. Egli è la luce che illumina ogni uomo, vale a dire il principio che permette a ogni uomo di comprendere se stesso.

    La luce splende nelle tenebre”: qui per la prima volta si fa notare che esiste una resistenza, un’opposizione alla luce. Le tenebre indicano un mondo dominato dal male che si oppone alla rivelazione della luce. La seconda parte del versetto (“le tenebre non l’hanno accolta”) potrebbe essere tradotta così: “Le tenebre non l’hanno sconfitta”. L’ingresso di Cristo-luce nella storia crea tensione e rifiuto, ma anche accettazione nella fede.

    Ci fu un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni”: questa nota sul Battista ci fa scendere dal mondo soprannaturale e divino all’universo umano (“ci fu un uomo”). La differenza di tonalità colpisce il lettore ed è possibile che questo passo su Giovanni (come pure il versetto 15) sia stato introdotto più tardi per dissuadere i discepoli di Giovanni dal mettere questo grande profeta sullo stesso piano di Gesù. Tra i due c’è una differenza radicale che separa “colui che era fin dal principio, rivolto verso Dio” da quest’uomo, che è venuto da parte di Dio per essere testimone. Il Battista è un testimone della luce, ma non la luce stessa. Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle autorità giudaiche (1, 19-34), davanti al popolo d’Israele (1, 31-34) e davanti ai propri discepoli (1, 35-37). L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel vangelo, è quando viene elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto ciò che egli disse di Gesù era vero” (Gv 10,41).

    Veniva nel mondo la luce vera”: appare qui un aggettivo (“vero”) che tornerà spesso nel vangelo: vero pane (6,32), vera bevanda (6,55), vera vita (15,1). Nell’uso ebraico, “vero” caratterizza in primo luogo l’ordine divino (cfr. 7,28; 17,3), che viene contraddistinto dall’illusione e dalla fallacia dell’ordine dell’uomo peccatore (cfr. Rm 3,4).

    E il Verbo si fece carne”[8]: senza cessare di essere Verbo, il Verbo entra nel tempo. Colui che esisteva da tutta l’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana. Questo è il tremendo mistero dell’Incarnazione per cui la Parola eterna assunse la nostra identica natura umana, divenendo in tutto simile a noi, fatta eccezione per il peccato (Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che era incomprensibile con la divinità. Questa è una delle affermazioni più incisive di tutto il vangelo. Per esprimere questo mistero, Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine biblica della tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”. Il vocabolo evoca la tenda (skenè) del deserto (Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a loro”. Il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in Gv 2, 18-22) è ora sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con noi.

    A partire dal versetto 14 la parola “Verbo” sparisce dal Vangelo. Ora che Giovanni ha definitivamente raggiunto il punto culminante della sua introduzione parlando della Parola divenuta carne, non la chiama più la Parola ma Gesù: il Vangelo è una testimonianza non alla Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Ormai si lascia vedere soltanto l’uomo-Gesù e, lungo tutto il suo vangelo, Giovanni si compiace di sottolineare l’umanità di Gesù: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto” (4,29); “Nessun uomo ha mai parlato così” (7,46); “Tu che sei uomo, ti fai Dio” (10,33); “Quale accusa portate contro quest’uomo?” (18,29; “Ecco l’uomo!” (19,5).

    Giovanni gli rende testimonianza”: l’Inno si conclude con un’ulteriore testimonianza del Battista, che ribadisce il primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” di lui nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto “la grazia e la verità". La missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina.

    Concludendo queste riflessioni sul Prologo, possiamo dire che: il Logos, che all’inizio del prologo appare in tutto il suo splendore e potenza, si immerge paradossalmente nell’abisso della nostra miseria e fa della quotidianità e della ferialità dell’uomo lo spazio dove piantare la sua tenda. Non possiamo che contemplare provando una gioia inesprimibile nell’apprendere la notizia inaudita che questo Verbo è disceso fino a noi per dichiararci l’Amore di Dio. Gioia nel contemplare che Lui è il nostro “principio”, che noi eravamo amati prima ancora di essere creati e che saremo amati per sempre. La nostra esistenza è immersa nel mistero dell’amore di Dio per l’uomo.

    Con l’Incarnazione del Figlio di Dio l’eterno entra nel tempo[9] e il tempo viene assunto dall’Eterno, perché in Gesù Cristo il tempo raggiunge la sua pienezza: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5). La dimensione ordinaria e cronologica dell’esistenza (krònos) diventa kairòs, luogo dell’incontro con l’amore gratuito di Dio e, attraverso di esso, della piena realizzazione dell’uomo. C’è una ricchezza nella propria giornata, quando il tempo è vissuto come “kairòs”. Non è necessario evadere dalla quotidianità per sentirsi vivi. Parlare di quotidianità significa parlare di esperienza, di lavoro, di studio, di tempo libero, di relazioni, di uso di beni, in una parola di tutto quel complesso che chiamiamo “realtà temporali” o “beni penultimi”. E’ in questa quotidianità che Dio si rivela.

    La storia eterna della Parola è storia di donazione, creazione e salvezza non solo per i credenti ma per tutti gli uomini poiché “tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” (Is 52,10).
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