La Trinità: tre persone ma non tre dei
IL Dio di Gesu' Cristo
Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con la loro assoluta uguaglianza in una sola e medesima sostanza, mostrano l'unità divina e perciò non sono tre dèi, ma un solo Dio. Tuttavia è il Padre che genera il Figlio, e il Figlio non è colui che è Padre; è il Figlio che è generato dal Padre, e il Padre non è colui che è Figlio; lo Spirito Santo poi non è né il Padre né il Figlio, ma unicamente lo Spirito del Padre e del Figlio, è uguale al Padre e al Figlio e appartiene con essi all'unità della Trinità. Soltanto il Figlio, però, e non la Trinità, è nato dalla Vergine Maria. Non è la Trinità che nel giorno di Pentecoste si posò su ciascuno degli Apostoli in distinte lingue di fuoco, ma solo lo Spirito Santo. Né fu la Trinità che disse dal cielo: "Tu sei mio figlio" allorché Gesù fu battezzato da Giovanni, ma solo la voce del Padre; quantunque, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come sono inseparabili nell'essere, così pure operano inseparabilmente.
(S. Agostino, De Trinitate, 1,4)
Preludio
Nelle parole di Cristo, il Dio dell'AT si presenta con un volto nuovo e quasi del tutto inedito, ma anche il volto dell'uomo, proposto personalmente da Gesù, è altrettanto nuovo e quasi del tutto inedito. In Cristo, l'uomo e Dio sono diventati incredibilmente vicini, dopo secoli di lontananza. La vita umana di Gesù sembra riprodurre con fedeltà i tratti di quell'Adamo che all'origine, al di qua della soglia del peccato, si intratteneva con Dio nell'intimità dell'Eden. L'Eden stesso altro non è che il segno del favore divino in cui l'uomo vive, quando Dio lo riconcilia a Sé. Ma ancora di più, nell'insegnamento e nella vita di Gesù, Dio appare come Amore nella sua essenza più profonda, e ciò prelude alla conseguenza necessaria dell'essere Amore: Dio è una comunione di Persone nell'assoluta identità della natura divina. Il monoteismo affermato dall'AT deve quindi subire una importante precisazione: l'unità riguarda la natura divina, ma non le Persone divine. Piuttosto, le Persone divine trovano la loro perfetta unità nel reciproco ed eterno donarsi. Non andiamo oltre nella premessa ed entriamo senz'altro nell'analisi dell'insegnamento neotestamentario su Dio.
Il rapporto tra Cristo e il Padre
La relazione tra Cristo e il Padre può essere adeguatamente compresa solo alla luce del mistero trinitario; in Dio le Persone divine sono distinte, sebbene la natura divina è unica e indivisibile. Ne consegue che ogni azione di Dio è compiuta contemporaneamente dalle tre divine Persone. Tutte le opere di Dio, dalla creazione alla redenzione, sono opere trinitarie, perché la Trinità opera in modo simultaneo. Dall'altro lato, vi sono azioni che la Scrittura attribuisce ora all'una ora all'altra delle divine Persone. Così, l'Incarnazione è opera trinitaria, ma solo il Verbo nasce come uomo, soffre sotto Ponzio Pilato, muore, risorge e ascende al cielo. Anche la Pentecoste è opera trinitaria, ma solo lo Spirito si effonde sugli Apostoli. Dunque, Dio agisce simultaneamente come Dio Uno e Trino, senza che la divina sinergia elimini la distinzione reale delle sue singole Persone. Nella lettera ai Romani, l'Apostolo usa una formula trinitaria che si conclude significativamente al singolare: "Da Lui, per Lui e in Lui sono tutte le cose. A Lui la gloria nei secoli". Vale a dire: Da Lui (dal Padre), per Lui (per il Figlio), in Lui (nello Spirito Santo). Ma si conclude: "A Lui" gloria, e non "a loro". Tutte le cose procedono dunque dai Tre come da un unico principio.La nostra indagine su Dio deve prendere senz'altro le mosse dal prologo di Giovanni, dove emergono con chiarezza, dentro il mistero di Dio, due proprietà eterne: l'unità e la differenza.Gv 1,1-14 è l'inno alla divinità di Cristo e alla sua preesistenza. Con il termine "Verbo" si intende il Figlio, dal momento che al v. 14 l'evangelista dice che "il Verbo si è fatto carne". Questo Verbo che è nato come Uomo, prima di nascere "era presso Dio" e al tempo stesso "era Dio". Qui si coglie già l'unità e la differenza che caratterizzano il mistero di Dio. Il Verbo è Dio ma distinto da Dio. La divinità del Verbo è sottolineata dalla sua azione creativa, citata ai vv. 2-3 del prologo. Tutte le cose che esistono sono state fatte per mezzo del Verbo, e fuori di Lui non esiste niente. Se tutto esiste per mezzo di Lui, solo Lui non è creato, anche se apparso in forma umana. Se non è creato, è della stessa sostanza del Padre. L'operare del Figlio è inseparabile dall'operare del Padre, come insegna lo stesso Cristo: "Il Padre mio opera sempre e io pure opero" (Gv 5,17). Il Padre e il Figlio operano dunque insieme. Tuttavia, all'interno della natura divina, il Padre ha fatto il Figlio, ma il Figlio non ha fatto il Padre. Quando la Scrittura dice che "tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui", bisogna quindi intendere che Egli le ha fatte insieme al Padre. La divinità di Cristo è infatti identica a quella del Padre, perché l'Apostolo Paolo parla di "uguaglianza" di Cristo con Dio: infatti "non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio" (Fil 2,6). L'uguaglianza con Dio è l'identità di sostanza che fa del Padre e del Figlio un essere solo; in forza di questa identità essi operano sempre simultaneamente, perché vivono eternamente l'uno nell'altro: "Io sono nel Padre e il Padre è in Me" (Gv 14,10).Per comprendere la complessità della relazione tra il Padre e il Figlio, occorre interpretare esattamente taluni passi della Scrittura che presentano il Figlio come fosse inferiore al Padre. Possiamo ricordare, ad esempio, Gv 14,28: "Il Padre è più grande di Me"; oppure 1 Cor 15,28: "Allora il Figlio stesso si sottometterà a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa"; o ancora: "Quanto poi a quel giorno e a quell'ora, nessuno ne sa nulla, neppure gli angeli in cielo, né il Figlio, ma solo il Padre" (Mc 13,32). Questi passi, e altri ancora, sembrerebbero negare l'uguaglianza del Figlio col Padre, presupponendo che il secondo sia maggiore del primo. Come intendere questa apparente contraddizione?Cominciamo col dire che il Figlio è uguale al Padre in virtù della propria divinità. Il Figlio è però, al tempo stesso, anche vero Uomo. In questa veste creata, che è l'umanità, avendo assunto la natura di servo, Egli è certamente inferiore al Padre. Significa allora che il Padre è superiore solo alla natura che il Figlio ha ricevuto dalla Vergine. Ma se si prescinde dalla natura umana, il Figlio condivide col Padre la medesima gloria e la medesima maestà. E' peraltro inequivocabile questa identità nelle parole che Gesù pronuncia con le sue labbra umane, ma che si riferiscono alla propria divinità e non all'umanità assunta: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Gv 10,30). Il Cristo storico talvolta si esprime mettendosi dal punto di vista della sua uguaglianza col Padre e talaltra, mettendosi dal punto di vista della sua uguaglianza con noi. Nel primo caso, parla come Dio, nel secondo parla come uomo. E come uomo Egli è inferiore al Padre, mentre non lo è come Verbo intemporale. Possiamo allora capire molto meglio i suoi enunciati. Quando dice: "Io pregherò il Padre mio che vi darà un altro consolatore" (Gv 14,16), non intende dire che lo pregherà come Figlio; Cristo non può pregare il Padre in quanto Dio, ma può pregarlo solo in quanto uomo. E solo in quanto uomo, il Cristo risorto è intercessore dei suoi fratelli che sono nella prova. Ancora in quanto uomo Egli prega il Padre per ottenere alla Chiesa l'effusione dello Spirito, mentre in quanto Verbo manda lo Spirito insieme al Padre. Così va intesa anche la parola già citata di Paolo: il Figlio stesso si sottometterà; è chiaro che il Figlio si sottometterà al Padre insieme a noi come nostro capo e sommo sacerdote, ma in quanto Dio noi tutti siamo sottomessi a Lui come lo siamo al Padre. Il suo regno siamo noi, i discepoli da Lui redenti col suo sangue. In quanto uomo Egli prega il Padre insieme con noi, ma in quanto Dio ci esaudisce insieme al Padre. Allora, la regola per capire bene le parole del Cristo storico su Se Stesso e sul Padre consiste nel distinguere bene le sue due nature: nella sua natura divina Cristo è uguale al Padre, mentre nella sua natura umana è uguale a noi, e di conseguenza inferiore al Padre. Alcune cose Egli le dice come Dio, altre come uomo. Come uomo Cristo è inferiore anche allo Spirito; infatti è lo Spirito che lo unge come uomo e lo mette in grado di compiere il suo ministero messianico (cfr. p. es. Lc 4,18-19 e 11,20); inoltre, qualunque peccato contro il Figlio dell'uomo può essere perdonato, ma non può essere perdonato il peccato contro lo Spirito (cfr. Mt 12,32). Lo Spirito è dunque maggiore del Figlio fatto uomo. In quanto Dio, tutte le cose sono state fatte per Cristo (cfr. Col 1,16); in quanto uomo, Egli stesso è nato da donna, sotto la Legge (cfr. Gal 4,4). In quanto Dio ha tutto in comune col Padre: "Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie" (Gv 17,10); in quanto uomo, si è fatto "obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,8). Così quando in risposta ai figli di Zebedeo dice: "Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a Me concederlo, ma è per quelli ai quali è stato preparato dal Padre mio" (Mt 20,23), Cristo parla come uomo e non come Dio. Come Dio, infatti, quei posti di gloria celeste li prepara proprio Lui insieme al Padre. Per questo, quando parla dal punto di vista della sua divinità, Egli dice ai suoi discepoli: "Io vado a prepararvi un posto" (Gv 14,2). E' fuori discussione che il Padre lo prepara insieme a Lui. Nella stessa maniera, Cristo parla dal punto di vista della sua umanità, quando dice: "Chi crede in Me, crede non in Me ma in Colui che mi ha mandato" (Gv 12,44), mentre parla dal punto di vista della sua divinità, quando dice: "Credete in Dio e crederete anche in Me" (Gv 14,1). Come uomo, Egli riferisce a Dio tutto ciò che fa o dice, e non dirige verso Se Stesso il cuore dei suoi contemporanei, ma come Dio esige di essere oggetto della fede teologale così come lo è il Padre. Per questa ragione, a chi lo chiamava "Maestro buono", Gesù rispose: "Perché mi dici buono? Nessuno è buono se non Dio solo" (Lc 18,19). Non c'è alcun dubbio che qui il Maestro parli dal punto di vista della sua natura umana, in modo da non renderla oggetto di una lode che deve essere rivolta a Dio in quanto Dio. In sostanza, rispetto alla sua natura umana, il Cristo storico non accetta di ricevere quegli onori che gli spettano in quanto Dio, e che gli si possono giustamente tributare dopo la sua risurrezione dai morti, quando viene costituito Signore e Giudice nella potenza dello Spirito (cfr. Rm 1,4). Così anche gli enunciati sul Giudizio vanno intesi distinguendo il punto di vista del Gesù storico, che talvolta parla come uomo talaltra come Dio. Ad esempio, in Gv 8,15 Gesù dice: "Io non giudico nessuno"; ma in Gv 5,22 lo stesso Cristo dice: "Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio". Sembrerebbe una contraddizione, se Cristo fosse solo uomo; ma poiché Egli è simultaneamente Dio e uomo, in quanto uomo non giudica nessuno, piuttosto è giudicato; in quanto Dio, Egli ha l'autorità piena del giudizio, che gli deriva dal Padre. Nell'ultimo giorno, infatti, non sarà il Padre a pronunciare il Giudizio finale sull'umanità, anzi, in quel giorno il Padre non sarà visto, perché sarà visibile solo il Figlio nel suo corpo risorto. In quel momento Egli si rivelerà totalmente all'universo come Giudice dei vivi e dei morti (cfr. Mt 25,31). E ciò lo comprendiamo bene: nel Giudizio finale il Padre non potrà essere visto, perché la visione del Padre è la beatitudine riservata ai santi, mentre il Giudizio è compiuto anche sugli empi, i quali vedranno "Colui che hanno trafitto" (Zc 12,10), senza tuttavia poter vedere il Padre.
La divinità dello Spirito Santo
Lo Spirito Santo è perfettamente uguale al Padre e al Figlio. Nell'unità della Trinità è consostanziale e coeterno ad essi. Che lo Spirito Santo non sia una creatura si vede chiaramente da molti passi della Scrittura. L'Apostolo dice ai Corinzi: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?" (1 Cor 6,19). Ora, nessun tempio può essere edificato a una creatura. Sarebbe perciò inconcepibile e blasfemo ritenere che il corpo umano dei battezzati sia un tempio per lo Spirito, se lo Spirito fosse una creatura. Se viceversa non è una creatura, Egli è vero Dio, coeterno e consostanziale al Padre e al Figlio. Secondo la visione della teologia greco-ortodossa, lo Spirito procede dal Padre e ci viene comunicato mediante il Figlio; nella teologia latina è considerato come procedente anche dal Figlio. Così avviene nel cenacolo, la sera del primo giorno dopo il sabato: "Gesù alitò su di loro" (Gv 20,22). Inoltre, quando lo Spirito istruisce la Chiesa, prende ciò che è del Figlio: "Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l'annunzierà" (Gv 16,14). Gesù poi non dice semplicemente che il Padre manderà lo Spirito, ma precisa: "quando verrà il Consolatore, che Io vi manderò" (Gv 15,26). Tuttavia, anche il Padre lo manderà: "lo Spirito Santo che il Padre manderà" (Gv 14,26); ciò significa che il Padre e il Figlio mandano lo Spirito Santo, che quindi procede da loro due come da un unico principio. Il Padre e il Figlio insieme mandano lo Spirito. Il Figlio non potrebbe mandarlo se lo Spirito non procedesse anche da Lui come procede dal Padre.
I detti sul Paraclito
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dedica diversi insegnamenti alle operazioni dello Spirito, definito anche Paraclito, cioè "consolatore". Ci soffermiamo ad analizzare i detti di Gesù circa la promessa del Paraclito.
Nel contesto dell'ultima cena, prima degli eventi decisivi che lo avrebbero tolto dal mondo, Cristo rivolge ai suoi discepoli un lungo discorso, dopo l'uscita di Giuda dal Cenacolo. L'insegnamento di Gesù è interamente rivolto verso il futuro della Chiesa, di cui, almeno in parte, Egli vuole rendere consapevoli i Dodici. Cristo parla della sua partenza e del suo vicino ritorno, parla delle lotte e delle persecuzioni che attendono coloro che professano il suo Nome, e parla soprattutto del Dono dello Spirito, riprendendo questo tema per ben quattro volte, con l'aggiunta di nuovi particolari. Noi ci fermeremo su questi quattro brani, nel tentativo di comprendere in quali termini e con quali manifestazioni lo Spirito è donato lungo il cammino del discepolato cristiano. Isoleremo perciò i quattro brani dall'intero discorso nel modo seguente:
14,15-17: lo Spirito, i discepoli e il mondo
14,25-26: l'insegnamento dello Spirito
15,18-16,4a: lo Spirito e l'odio del mondo
16,4b-15: la venuta dello Spirito
L'identità del Paraclito
La parola "Paraclito" figura nel Vangelo di Giovanni per la prima volta in questo punto. E' uno dei termini giovannei per indicare lo Spirito Santo. Si tratta del primo insegnamento sullo Spirito, rivolto direttamente ai Dodici. "Paraclito" è una parola greca che non si può facilmente tradurre in italiano senza il rischio di impoverirla. La Bibbia CEI traduce questo termine con "Consolatore", che rende solo in parte il significato di paraclito; per un'altra parte, infatti, il suo significato andrebbe reso con "avvocato difensore". La parola contiene in sostanza entrambe le idee, quella di difensore dinanzi a chi accusa e quella di consolatore, che nel momento della prova si fa vicino per corroborare colui che soffre o che semplicemente è in stato di debolezza. Nella descrizione di Gesù, poi, le operazioni del Paraclito appaiono ancora più ricche di sfumature, così che è impossibile trovare una parola sola che possa abbracciare tutti i significati che Cristo gli attribuisce.
I comandamenti di Cristo
Colui che manda il Paraclito è il Padre, e ciò avviene dietro la richiesta esplicita di Cristo. Dal punto di vista del discepolo, invece, la possibilità di ricevere lo Spirito è connessa all'osservanza dei "comandamenti" di Cristo (v. 15). Ma a cosa si riferisce la parola "comandamenti"? Giovanni sembra porre l'accento interamente sull'aggettivo possessivo: "i miei comandamenti" (v. 15). Questo aggettivo possessivo che precede la parola "comandamenti" crea un contrasto intenzionale con i comandamenti di Mosè. Gesù non chiede ai suoi discepoli l'osservanza dei comandamenti di Mosè: sarebbe troppo poco. Dall'altro lato, nel Vangelo di Giovanni, in nessun punto Gesù enumera i "suoi" comandamenti. Non c'è, in sostanza, una lista dei comandamenti di Gesù, ad uso dei suoi discepoli. E perché non c'è? Rispondiamo in modo reciso: perché non ci può essere. I comandamenti "di Gesù" non sono un decalogo, né sono prescrizioni o precetti espliciti. E neppure si possono enumerare, perché i comandamenti di Gesù risultano non da un codice, ma dalla adesione personale del discepolo nei confronti di Cristo. Il più esplicito in questo senso è rappresentato da detto di Gesù in 13,34: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come Io vi ho amato". Anche qui Cristo parla di "comandamento" senza tradurlo in un precetto o in una prescrizione. L'espressione "come Io vi ho amato" non costituisce un precetto, ma un'indicazione che include uno stile di vita. In altre parole, Cristo non dà ai suoi discepoli un decalogo da osservare; dà invece il proprio stile di vita che deve essere rivissuto in maniera originale nella vita di ogni discepolo.
La Presenza terrestre del Paraclito
Al v. 16 Gesù fa una promessa: su sua richiesta il Padre invierà "un altro Paraclito", che assumerà un compito permanente nella comunità dei discepoli. Il Paraclito è il grande frutto dell'intercessione del Cristo glorificato. Definendo lo Spirito Santo con l'appellativo di "altro" Paraclito, Gesù definisce indirettamente anche Se Stesso, visto che, a questo punto, il primo Paraclito è Lui. Nella prima lettera di Giovanni, Gesù è infatti definito come Paraclito "celeste" (cfr. 1 Gv 2,1); lo Spirito Santo è infatti il Paraclito "terrestre". Gesù è un Paraclito terrestre solo finché si trova sulla Terra, ma, alla sua dipartita, si rende necessaria la presenza di un secondo Paraclito terrestre. In definitiva, la comunità dei discepoli non può rimanere senza una Presenza divina continua, che l'accompagni per tutto l'arco del suo cammino storico. Il Paraclito è definito anche "Spirito di Verità", cosa che allude alla Verità di Dio, verso la quale Egli spinge continuamente i credenti. Più avanti vedremo in che modo lo Spirito ci spinga continuamente verso la Verità: "vi ricorderà… convincerà… testimonierà…", ma per il momento non si fa menzione di questa complessa operazione dello Spirito nell'intimo delle coscienze. La cosa che invece qui viene esplicitamente affermata è che lo Spirito Santo è dato ai discepoli e non al mondo. Il mondo, inteso come umanità ripiegata nell'illusione dell'autosufficienza, è incapace di ricevere lo Spirito. Il motivo di questa incapacità è chiaro: "non lo vede e non lo conosce" (v. 17). L'illusione dell'autosufficienza porta il mondo ad assolutizzare la conoscenza sensibile e quella razionale, cosicché si accetta solo ciò che "convince" per via di evidenza logica. Lo Spirito, invece, non convince per via di evidenze razionali, ma per via di evidenze esistenziali; vale a dire: se ci si lascia attrarre nella vita dello Spirito, si raggiunge il pieno convincimento sulla Verità di Dio. Se si cerca invece solo un'evidenza di puro ragionamento, si rimane in balìa della propria testa. La Verità di Dio supera di molto i limiti della ragione umana, perciò ha bisogno che rimanga, nella mente dell'uomo, un margine di oscurità e di non conoscenza che è accolto e serenamente accettato mediante la fede fiduciale del discepolo. Il mondo, ingannato sulle possibilità della sua intelligenza, ne è incapace e dunque non può ricevere lo Spirito di Verità.
Bisogna notare anche come Giovanni definisce la modalità della presenza dello Spirito nella comunità dei discepoli: lo Spirito è "presso" ma è anche "in" voi (cfr. v. 17). Si intravede già l'opera dello Spirito nella sua relazione essenziale con la coscienza cristiana.
L'azione segreta del Paraclito
Questo secondo passaggio del discorso di Gesù sullo Spirito Santo, intende specificare l'attività del Paraclito nei confronti dei discepoli, un'attività che si risolve essenzialmente nell'insegnamento e nella rivelazione. Nello stesso tempo, il Maestro sembra rispondere a una domanda inespressa dei suoi discepoli: perché è necessaria l'azione di un secondo Paraclito, forse che Gesù non ha detto già tutte le verità che il Padre gli aveva affidato? Questa risposta di Cristo a una domanda inespressa è di grande portata per un corretto cammino apostolico ed ecclesiale: sì, il Figlio ha svelato ai suoi discepoli tutte le verità che essi dovevano conoscere per vivere nella libertà ed entrare nella Vita, ma le ha dette in forma concentrata, in modo tale che la Chiesa potrà attingervi in ogni secolo nuovi insegnamenti per le sfide sempre nuove della storia. Ma non potrà farlo da sola. La Parola di Cristo possiede profondità che solo lo Spirito può rendere accessibili alla nostra debolezza. La Chiesa, come pure il discepolo, dinanzi alla Parola di Cristo non è in grado di immergersi nella Sapienza, senza un Maestro invisibile che parla "dentro". L'insegnamento interiore dello Spirito non differisce dall'insegnamento di Cristo, ma ne è un necessario completamento, perché il ministero pubblico di Gesù, e le pagine evangeliche che ce ne danno notizia, rimangono nella dimensione muta della "lettera", se non vengono vivificati dal soffio sapienziale dello Spirito. Cristo vuole che le parole da lui pronunciate alle orecchie dei discepoli, siano ripetute nel loro cuore dallo Spirito. Solo questa divina "ripetizione" le rende vive, profonde, vivificatrici, consolanti come un balsamo di guarigione. Ciò significa che il Paraclito intraprenderà un'opera di insegnamento proprio nel momento in cui il Cristo storico cesserà di essere un Maestro fisicamente raggiungibile. Da quel momento in poi, l'unico autentico accesso alla Parola di Cristo, sarà possibile nello Spirito. Accanto al verbo "insegnare", Gesù descrive l'azione del Paraclito anche con un secondo verbo: "ricordare" (cfr. v. 26). Il Maestro intende dire che l'insegnamento dello Spirito non si può separare dalla Parola consegnata alla Chiesa; ciò significa pure che il discepolo potrà fare esperienza dello Spirito tanto quanto la Parola di Dio dimora nella sua memoria. Se lo Spirito agisce ricordando al discepolo la Parola di Cristo - ed è proprio in questo processo di anamnesi che la Parola diviene viva - allora il presupposto di fondo è che il pensiero del discepolo deve essere "abitato" dalla Parola. Non si ricorda infatti ciò che non si conosce.
Il Paraclito e l'odio del mondo
Il termine "mondo" qui ha un significato collettivo in riferimento al sistema su cui poggia la vita sociale. Non si riferisce quindi al mondo come creazione, o come natura, ma al mondo come "umanità". Più precisamente, quando il Vangelo di Giovanni parla di "mondo" come sistema sociale allude innanzitutto a Gerusalemme e alle sue istituzioni religiose. Sono proprio esse che, nella persona dei loro rappresentanti (sommi sacerdoti, farisei…) si oppongono alla Luce che è venuta nel "mondo" e impediscono alla Parola creatrice di rivolgersi alle sue creature. Nello stesso tempo, il concetto giovanneo di "mondo" include ogni società umana fondata su un sistema autonomo e chiuso alla trascendenza. Il carattere ispirato delle Scritture ammette sempre diversi livelli di lettura, così come i discorsi di Gesù nell'ultima Cena sono materialmente rivolti al gruppo apostolico, ma valgono nella stessa maniera per tutte le generazioni successive dei cristiani. La società umana costruita a sistema chiuso per Giovanni è necessariamente fondata sull'odio e sull'ostilità verso Dio. Ne consegue che questo odio e questa ostilità colpiscono innanzitutto i discepoli. Essi sono chiamati a prolungare la presenza del Maestro nel mondo, quando ormai il Maestro non è più raggiungibile dall'astio del mondo, mentre essi lo sono ancora fino al momento della loro morte personale. Il rifiuto della Luce che è venuta nel mondo, si traduce in un rifiuto che colpisce i discepoli. La loro vita sarà perciò del tutto simile a quella del Maestro. Il fatto che Cristo abbia scelto i suoi discepoli produce necessariamente una loro separazione "dal mondo", una estraneità che è oggetto di odio, perché è una presa di distanza dalle prospettive autonome, e negatrici del soprannaturale, su cui si costruiscono spesso le istituzioni umane. Gesù sottolinea come il mondo sia capace di odio nei confronti del diverso, ma afferma pure che esso è capace anche di benevolenza verso il suo simile. E i discepoli sono troppo "diversi" per essere amati dal mondo. Questa chiusura del mondo a ciò che è divino non risulta da un processo di inerzia o da spinte cieche che agiscono nella storia, al contrario, il sistema chiuso delle istituzioni umane è il risultato di una opzione: "Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato" (v. 22). Il sistema sociale chiuso alla trascendenza risulta quindi da un insieme di singole opzioni che soffocano quella minoranza che desidererebbe impostare la sua vita sociale in termini diversi.
Perseguitati dal mondo
Proprio in questi termini Gesù rivela la vera natura dell'opposizione del mondo: "Non avrebbero colpa se non avessi parlato". Dietro questo sistema sociale chiuso a Dio c'è dunque una lucida e personale opzione contro la Luce. Il prologo aveva già anticipato questo mistero in 1,5, presentando il rifiuto della Luce come un fatto anteriore all'Incarnazione: "La Luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta". Il vertice di questo rifiuto è rappresentato senz'altro dalle istituzioni religiose di Gerusalemme. La lucidità di questa opzione si vede, per esempio, nella decisione di far uccidere Lazzaro dopo la sua uscita dal sepolcro. In sostanza, dinanzi alla Presenza personale di Cristo viene allo scoperto l'orientamento dei cuori e raggiunge al tempo stesso le sue ultime conseguenze. L'annuncio del Vangelo non libera dalla colpa coloro che hanno scelto di vivere contro la Luce, ma, al contrario, li conferma nel loro peccato, che raggiunge così una maggiore perfezione: "Non avrebbero colpa se non avessi parlato". Si può parlare in questo caso di peccato contro lo Spirito che, appunto, non è perdonabile (cfr. Mt 12,32). Infatti, il peccato contro lo Spirito non si può commettere in assenza della predicazione del Vangelo e in uno stato di ignoranza su Dio e su Gesù Cristo. Per questa ragione, l'opzione contro Dio raggiunge la sua massima perfezione proprio nell'incontro col Cristo risorto, che è presente nella parola della predicazione apostolica. Gesù considera la sua esperienza storica di rifiuto e di persecuzione anche alla luce della Scrittura, citando il Salmo 69: "Mi hanno odiato senza ragione" (v. 5). Tuttavia ne prende anche le distanze, definendola la "loro" Legge (v. 25). Le Scritture si compiono per opera dei suoi oppositori, mentre si verifica un paradosso: i farisei e i sommi sacerdoti si professano fedeli alla Legge, ma la compiono proprio in quei punti in cui essa parla degli empi.
La testimonianza dello Spirito (15,26-27)
Qui ritorna la parola "Paraclito" come definizione dello Spirito, che procede dal Padre ed è mandato dal Risorto. Si comprende anche come la funzione rivelatrice del Paraclito sia in perfetta continuità con quella del Cristo storico. L'unica differenza è che lo Spirito non può parlare direttamente al mondo come poteva fare Cristo durante il suo ministero terreno grazie alla sua umanità. Lo Spirito si dovrà servire d'ora in poi degli apostoli per parlare agli uomini. Questa è la ragione per la quale al v. 27 la testimonianza dello Spirito è associata a quella degli apostoli: "Egli mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza". Non si tratta di due testimonianze diverse: la testimonianza dei discepoli è accompagnata e sostenuta dalla testimonianza dello Spirito (cfr. Mc 16,20; Eb 2,4). Il v. 26 sfiora anche la questione della processione intratrinitaria dello Spirito dal Padre e dal Figlio, ma non ci soffermiamo adesso su questo: osserviamo soltanto che il Cristo risorto intercede presso il Padre e manda lo Spirito insieme al Padre. Lo Spirito abilita i discepoli a compiere nel mondo una testimonianza credibile e autorevole, ma c'è un secondo presupposto necessario, un presupposto, si potrebbe dire, di ordine umano: "Siete stati con Me fin dal principio". Bisogna stare però bene attenti a non fraintendere il linguaggio giovanneo: "fin dal principio" non significa "fin dall'inizio del suo ministero pubblico". All'inizio del suo ministero pubblico, Gesù aveva accanto solo pochi discepoli: Pietro, Andrea, Filippo, Natanaele. I Dodici sono arrivati in seguito. L'espressione "fin dal principio" non si può intendere allora in termini cronologici, perché in tal caso non potrebbe riguardare l'intero collegio dei Dodici. Inoltre, nel linguaggio giovanneo il "principio" richiama innanzitutto la verità del Logos. Aderire a Lui "fin dal principio" equivale ad accettare nella fede la sua preesistenza e la sua divinità. La forza dello Spirito scende quindi ad abilitare alla testimonianza solo colui che aderisce a Cristo "fin dal principio", cioè colui che ha accolto nella fede la sua divinità, la sua eterna generazione dal Padre, la sua preesistenza, la sua incarnazione, e il suo mistero pasquale.
Lo scandalo della persecuzione (16,1-4a)
Il verbo "scandalizzarsi" è usato da Giovanni solo due volte: la prima volta in 6,61, la seconda qui. Nel primo caso lo scandalo riguardava la durezza della Parola di Cristo: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?… Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?" (6,52.60). E si scandalizzavano di Lui. Nel futuro, però, lo scandalo riguarderà i discepoli, che saranno perseguitati proprio per la loro "scandalosa" diversità. Cristo lo preannuncia, perché la cosa non piombi loro addosso in maniera inaspettata. Quando verrà quel momento, lo Spirito verrà in loro soccorso. Alla luce degli eventi successivi, bisogna dire che, con queste parole, Cristo intendeva riferirsi a due eventi, e forse anche a tre. Il primo è la scomunica rabbinica del 90 d. C., che escluse dalla Sinagoga tutti gli ebrei che erano diventati cristiani. Il secondo è l'ondata di persecuzioni anticristiane scatenate dall'Impero Romano nei secc. II-III. Il terzo è l'ultima persecuzione che si abbatterà sulla Chiesa alla fine dei tempi, prima del ritorno di Cristo (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 675-677). Con le parole "chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio" (15,2) Cristo non intende sminuire la responsabilità morale dei persecutori, ma, al contrario, intende negare che a Dio si possa rendere culto mediante la violenza e la sopraffazione dell'uomo; e ciò risulta chiaro dalle parole che seguono: "Faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né Me" (v. 3). Si comprende che la prospettiva del futuro è fatta di combattimenti e di lotte, a cui Cristo vuole preparare i suoi discepoli. Per questo sarà necessaria la forza dello Spirito. Gesù qui fa anche menzione di un'ora che deve giungere. Più precisamente la loro ora. Ovviamente si riferisce al tempo in cui le potenze delle tenebre ricevono da Dio il permesso di attaccare i discepoli con tutta la loro furia. Questa "ora" deve arrivare anche per i discepoli, così come è arrivata per Cristo, all'inizio e alla fine del suo ministero pubblico (cfr. Lc 4,13). Nel Vangelo di Giovanni, Gesù fa riferimento molto spesso alla "ora" dello scatenamento delle forze del male, che è anche l'ora della sconfitta di Satana, perché il cristiano che sa affrontare bene le sue prove, ne esce sempre più santo e più sapiente. Ricordiamo alcuni dei passi in cui Gesù si richiama a questo momento cruciale: a Cana, dice che l'ora non è ancora venuta (2,4), ma a Gerusalemme nei giorni della festa di Pasqua, in 12,23, afferma che l'ora è venuta. Anche l'evangelista Luca si esprime con la stessa terminologia: nel momento dell'arresto Gesù commenta: "Ogni giorno ero con voi nel Tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre" (22,53).
Il Paraclito e il mondo
L'ultimo discorso di Gesù dedicato al Paraclito, riguarda l'opera dello Spirito nei confronti del mondo. L'opera del Paraclito è resa necessaria dallo "scandalo" che i discepoli dovevano conoscere in anticipo: finora la persecuzione e l'ostilità del mondo erano solo contro di Lui; dopo la sua dipartita, però, non cesseranno e si rivolgeranno contro i suoi discepoli. In questo nuovo conflitto si inserirà l'azione del Paraclito verso il mondo e la forza dello Spirito permetterà ai discepoli di superare la tristezza derivante dall'odio del mondo verso la loro estraneità. Il fatto che Gesù lasci i discepoli appare come un ulteriore dono, più che come una privazione. Lo stesso evento, cioè la morte di Gesù, viene interpretato in maniere totalmente diverse da Lui e dai Dodici. La straordinaria opera del Paraclito ha inizio solo quando Cristo entra nel suo riposo. Si può dire che, nella visione giovannea, Cristo, che aveva iniziato la sua opera nel punto in cui il Creatore l'aveva lasciata, compiuta la propria missione entra anche Lui nel suo settimo giorno. Solo adesso, con l'effusione dello Spirito, si può dire che la creazione dell'uomo sia giunta al suo punto terminale. Non solo: l'evento della morte di Gesù rappresenta una tappa ulteriore nella maturazione religiosa dell'uomo perché il suo morire è la più alta rivelazione dell'Amore, è l'ultima lezione del Maestro. Prima di quel momento, i discepoli non hanno ancora la vera icona dell'amore cristiano, ossia di quell'amore che dona la vita per i valori del Regno. Infatti, è a partire dalla morte di Gesù che si possono ricomprendere nella loro giusta luce la sua vita e il suo insegnamento.La triplice opera del Paraclito nei confronti del mondo è descritta ai vv. 8-11. Il contesto di questa azione dello Spirito sembra eminentemente giudiziario. Il verbo "convincere" utilizzato qui da Giovanni (in greco elegcein) è un termine tecnico del linguaggio forense che andrebbe tradotto con "dimostrare la colpevolezza". L'idea di fondo è che il Paraclito, uno volta giunto, riaprirà il processo che si era concluso con la condanna del Gesù storico e condurrà le coscienze verso una dichiarazione di innocenza. Lo Spirito dimostrerà, nell'intimo tribunale della coscienza umana, che coloro che nel processo a Gesù avevano assunto il ruolo di giudici, erano in realtà i veri imputati. Gli obiettivi dell'opera del Paraclito si specificano in tre termini: peccato, giustizia e giudizio. Rileggiamo il testo: "Egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio" (v. 9). Con il termine "peccato" al singolare, Giovanni allude precisamente al peccato del mondo, ossia il rifiuto della salvezza offerta gratuitamente dal Figlio di Dio. Il peccato del mondo, che i Vangeli sinottici definiscono "bestemmia contro lo Spirito" (cfr. Mt 12,32 e paral.), consiste nel ritenere che le risorse umane siano sufficienti a salvare se stessi, giudicando inutili e non necessarie l'Incarnazione e l'offerta della Vita eterna da parte di Dio. Chi ragiona in questi termini, getta Cristo fuori dalla propria vita, e insieme a Lui rifiuta anche il Padre: "Chi odia Me, odia anche il Padre mio" (15,23). Il secondo punto su cui lo Spirito fa luce è "la giustizia". Cosa sia esattamente questa "giustizia" può intendersi solo in base a ciò che segue: "… perché vado al Padre e non mi vedrete più" (v. 9). La "giustizia" illuminata dallo Spirito ha a che vedere con il ritorno di Cristo al Padre, ossia con la sua glorificazione. Lo Spirito dimostrerà che Cristo è "il Giusto" in quanto il Padre lo ha accolto presso di Sé dopo il rifiuto del mondo. "Giustizia" è quindi l'affermazione che Cristo è stata "giustificato" dal Padre mediante la risurrezione dai morti. Questo fatto va connesso a Gv 8,50, dove il Padre è appunto descritto nell'atto di "giustificare" Cristo dinanzi agli uomini che gli muovono accuse: "Io non cerco la mia gloria; vi è Chi la cerca e giudica".Il terzo punto riguarda il "giudizio". Il problema "su chi o che cosa" si chiarisce nella seconda parte del v. 11: "… perché il principe di questo mondo è stato giudicato". Il "giudizio" qui non riguarda quindi tanto il mondo o l'umanità ma unicamente Satana, che è il regista occulto di tutto il sistema su cui si regge il peccato del mondo. Il "giudizio" che è operato dallo Spirito consiste nello spodestamento della potenza delle tenebre. Come si vede da 12,31, lo spodestamento di Satana avviene nella elevazione di Cristo sulla croce: "Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a Me". Sul Golgota si compie così la condanna senza appello del principe di questo ordinamento terrestre.
Il Paraclito e i discepoli
"Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete in grado di portarne il peso" (v. 12). Questa frase di Gesù, se si prende e si legge da sola, offre parecchie possibilità di fraintendimento. Sembrerebbe quasi che Gesù non abbia detto tutto nei suoi tre anni di ministero pubblico. Per di più si tratta di "molte cose" che Egli ci dovrebbe ancora dire. Tenendo conto però di altre frasi di Gesù, occorre ridimensionare alquanto questa superficiale impressione. Prima di tutto dobbiamo ricordare cosa Gesù aveva detto in 15,15: "Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi". Vale a dire: Cristo ha trasmesso ai suoi discepoli tutto ciò che doveva. Inoltre, al v. 13, Cristo non parla di una verità nuova, ma di una verità piena. Anzi, lo Spirito "prenderà del mio" (v. 14), ossia l'insegnamento che Cristo ha già dato. Potremmo riesprimere la promessa di Gesù in questi termini: il messaggio che Egli ha affidato alla memoria dei discepoli ha delle conseguenze che essi non hanno ancora tratto e neppure lo potrebbero senza l'aiuto dello Spirito Paraclito. Per ben due volte Giovanni annota che i discepoli compresero qualcosa solo dopo la morte di Cristo: a proposito del Tempio che Cristo avrebbe riedificato in tre giorni: "Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù" (2,23); e a proposito dell'umile ingresso di Gesù in Gerusalemme: "Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di Lui e questo gli avevano fatto" (12,16). E' chiaro allora che lo Spirito illumina l'intelligenza dei discepoli e li conduce alla piena comprensione di realtà che i ragionamenti umani non sono capaci di raggiungere. La vita e l'insegnamento di Gesù sono in sostanza incomprensibili alla mente umana lasciata alle sole risorse del suo acume naturale. Lo Spirito non comunica una verità diversa da quella che riguarda Cristo stesso, e in questo senso si dice che il Paraclito "prende del suo" e ce lo annunzia. Il Paraclito darà inoltre una cognizione delle cose future (cfr. v. 13). Qui si potrebbe vedere un'allusione al carisma della profezia che arricchisce la comunità cristiana e talvolta ne indica anche le piste; ricordiamo a questo proposito la comunità descritta dagli Atti col suo profeta Agabo (cfr. At 11,28) e con i suoi incontri di preghiera, durante i quali lo Spirito dona delle preziose indicazioni, come ad esempio la scelta e la missione di Barnaba e Paolo (cfr. At 13,2). Mentre Gesù sta parlando ai Dodici, durante l'ultima Cena, è ovvio che essi sono ancora ignari di tutto questo. La Chiesa si sviluppa nella storia, e nella storia ogni secolo presenta nuove sfide e nuove problematiche. Gli Apostoli non possono ancora portare il peso del futuro, ma ogni generazione porterà il suo peso, e sarà in grado di farlo nella forza dello Spirito di Dio. Così il Paraclito glorificherà il Cristo, prolungando nei secoli la sua opera di Maestro. Il Paraclito attinge a Cristo, e ciò equivale ad attingere al Padre. La Rivelazione prende l'avvio dal Padre e ciò che si rivela non è cosa diversa dal Figlio, poiché l'autorivelazione del Figlio coincide con l'esatta rivelazione del Padre. Il Padre e il Figlio hanno in comune la medesima pienezza, alla quale lo Spirito attinge per poterla comunicare alla Chiesa. Questa "pienezza" può chiamarsi anche Gloria.