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    00 16/07/2006 17:20
    1994: Sulla comunione eucaristica dei divorziati risposati
    LETTERA AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA CIRCA LA RECEZIONE DELLA COMUNIONE EUCARISTICA DA PARTE DI FEDELI DIVORZIATI RISPOSATI

    Consapevoli però che l'autentica comprensione e la genuina misericordia non sono mai disgiunti dalla verità, i pastori hanno il dovere di richiamare a questi fedeli la dottrina della Chiesa riguardante la celebrazione dei sacramenti e in particolare la recezione dell'Eucaristia.




    Eccellenza Reverendissima,

    1. L'Anno Internazionale della Famiglia è un'occasione particolarmente importante per riscoprire le testimonianze dell'amore e della sollecitudine della Chiesa per la famiglia(1) e, nel contempo, per riproporre le inestimabili ricchezze del matrimonio cristiano che della famiglia costituisce il fondamento.

    2. In questo contesto una speciale attenzione meritano le difficoltà e le sofferenze di quei fedeli che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari(2). I pastori sono chiamati a far sentire la carità di Cristo e la materna vicinanza della Chiesa; li accolgano con amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio, e suggerendo loro con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione e di partecipazione alla vita della comunità eccesiale(3).

    3. Consapevoli però che l'autentica comprensione e la genuina misericordia non sono mai disgiunti dalla verità(4), i pastori hanno il dovere di richiamare a questi fedeli la dottrina della Chiesa riguardante la celebrazione dei sacramenti e in particolare la recezione dell'Eucaristia. Su questo punto negli ultimi anni in varie regioni sono state proposte diverse soluzioni pastorali secondo cui certamente non sarebbe possibile un'ammissione generale dei divorziati risposati alla Comunione eucaristica, ma essi potrebbero accedervi in determinati casi, quando secondo il giudizio della loro coscienza si ritenessero a ciò autorizzati. Così, ad esempio, quando fossero stati abbandonati del tutto ingiustamente, sebbene si fossero sinceramente sforzati di salvare il precedente matrimonio, ovvero quando fossero convinti della nullità del precedente matrimonio, pur non potendola dimostrare nel foro esterno, oppure quando avessero già trascorso un lungo cammino di riflessione e di penitenza, o anche quando per motivi moralmente validi non potessero soddisfare l'obbligo della separazione.

    Da alcune parti è stato anche proposto che, per esaminare oggettivamente la loro situazione effettiva, i divorziati risposati dovrebbero intessere un colloquio con un sacerdote prudente ed esperto. Questo sacerdote però sarebbe tenuto a rispettare la loro eventuale decisione di coscienza ad accedere all'Eucaristia, senza che ciò irnplichi una autorizzazione ufficiale.

    In questi e simili casi si tratterebbe di una soluzione pastorale tollerante e benevola per poter rendere giustizia alle diverse situazioni dei divorziati risposati.

    4. Anche se è noto che soluzioni pastorali analoghe furono proposte da alcuni Padri della Chiesa ed entrarono in qualche misura anche nella prassi, tuttavia esse non ottennero mai il consenso dei Padri e in nessun modo vennero a costituire la dottrina comune della Chiesa né a determinarne la disciplina. Spetta al Magistero universale della Chiesa, in fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione, insegnare ed interpretare autenticamente il "depositum fidei".

    Di fronte alle nuove proposte pastorali sopra menzionate questa Congregazione ritiene pertanto doveroso richiamare la dottrina e la disciplina della Chiesa in materia. Fedele alla parola di Gesù Cristo(5), la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione(6).

    Questa norma non ha affatto un carattere punitivo o comunque discriminatorio verso i divorziati risposati, ma esprime piuttosto una situazione oggettiva che rende di per sé impossibile l'accesso alla Comunione eucaristica: "Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dalI'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale; se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio"(7).

    Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, I'accesso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall'assoluzione sacramentale, che può essere data "solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò importa, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, I'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, "assumano l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi""(8). In tal caso essi possono accedere alla comunione eucaristica, fermo restando tuttavia l'obbligo di evitare lo scandalo.

    5. La dottrina e la disciplina della Chiesa su questa materia sono state ampiamente esposte nel periodo postconciliare dall'Esortazione Apostolica "Familiaris consortio". L'Esortazione, tra l'altro, ricorda ai pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le diverse situazioni e li esorta a incoraggiare la partecipazione dei divorziati risposati a diversi momenti della vita della Chiesa. Nello stesso tempo ribadisce la prassi costante e universale, "fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla Comunione eucaristica i divorziati risposati"(9), indicandone i motivi. La struttura dell'Esortazione e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni.

    6. Il fedele che convive abitualmente "more uxorio" con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, non può accedere alla Comunione eucaristica. Qualora egli lo giudicasse possibile, i pastori e i confessori, date la gravità della materia e le esigenze del bene spirituale della persona(10) e del bene comune della Chiesa, hanno il grave dovere di ammmonirlo che tale giudizio di coscienza è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa(11). Devono anche ricordare questa dottrina nell'insegnamento a tutti i fedeli loro affidati.

    Ciò non significa che la Chiesa non abbia a cuore la situazione di questi fedeli, che, del resto, non sono affatto esclusi dalla comunione ecclesiale. Essa si preoccupa di accompagnarli pastoralmente e di invitarli a partecipare alla vita ecclesiale nella misura in cui ciò è compatibile con le disposizioni del diritto divino, sulle quali la Chiesa non possiede alcun potere di dispensa(12). D'altra parte, è necessario illuminare i fedeli interessati affinché non ritengano che la loro partecipazione alla vita della Chiesa sia esclusivamente ridotta alla questione della recezione dell'Eucaristia. I fedeli devono essere aiutati ad approfondire la loro comprensione del valore della partecipazione al sacrificio di Cristo nella Messa, della comunione spirituale(13), della preghiera, della meditazione della Parola di Dio, delle opere di carità e di giustizia(14).

    7. L'errata convinzione di poter accedere alla Comunione eucaristica da parte di un divorziato risposato, presuppone normalmente che alla coscienza personale si attribuisca il potere di decidere in ultima analisi, sulla base della propria convinzione(15), dell'esistenza o meno del precedente matrimonio e del valore della nuova unione. Ma una tale attribuzione è inammissibile(16). Il matrimonio infatti, in quanto immagine dell'unione sponsale tra Cristo e la sua Chiesa, e nucleo di base e fattore importante nella vita della società civile, è essenzialmente una realtà pubblica.

    8. É certamente vero che il giudizio sulle proprie disposizioni per l'accesso all'Eucaristia deve essere formulato dalla coscienza morale adeguatamente formata. Ma è altrettanto vero che il consenso, col quale è costituito il matrimonio, non è una semplice decisione privata, poiché crea per ciascuno dei coniugi e per la coppia una situazione specificamente ecclesiale e sociale. Pertanto il giudizio della coscienza sulla propria situazione matrimoniale non riguarda solo un rapporto immediato tra l'uomo e Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi canoniche obbliganti in coscienza. Non riconoscere questo essenziale aspetto significherebbe negare di fatto che il matrimonio esiste come realtà della Chiesa, vale a dire, come sacramento.

    9. D'altronde l'Esortazione "Familiaris consortio", quando invita i pastori a ben distinguere le varie situazioni dei divorziati risposati, ricorda anche il caso di coloro che sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido(17). Si deve certamente discernere se attraverso la via di foro estemo stabilita dalla Chiesa vi sia oggettivamente una tale nullità di matrimonio. La disciplina della Chiesa, mentre conferma la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici nell'esame della validità del matrimonio dei cattolici, offre anche nuove vie per dimostrare la nullità della precedente unione, allo scopo di escludere per quanto possibile ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva conosciuta dalla retta coscienza(18).

    Attenersi al giudizio della Chiesa e osservare la vigente disciplina circa I obbligatorietà della forma canonica in quanto necessaria per la validità dei matrimoni dei cattolici, è ciò che veramente giova al bene spirituale dei fedeli interessati. Infatti, la Chiesa è il Corpo di Cristo e vivere nella comunione ecclesiale è vivere nel Corpo di Cristo e nutrirsi del Corpo di Cristo. Ricevendo il sacramento dell'Eucaristia, la comunione con Cristo Capo non può mai essere separata dalla comunione con i suoi membri, cioè con la sua Chiesa. Per questo il sacramento della nostra unione con Cristo è anche il sacramento dell'unità della Chiesa. Ricevere la Comunione eucaristlca in contrasto con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa in sé contraddittoria. La comunione sacramentale con Cristo include e presuppone l'osservanza, anche se talvolta difficile, dell'ordinamento della comunione ecclesiale, e non può essere retta e fruttifera se il fedele, volendo accostarsi direttamente a Cristo, non rispetta questo ordinamento.

    10. In armonia con quanto sinora detto, è da realizzare pienamente il desiderio espresso dal Sinodo dei Vescovi, fatto proprio dal Santo Padre Giovanni Paolo II e attuato con impegno e con lodevoli iniziative da parte di Vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli laici: con sollecita carità fare tutto quanto può fortificare nell'amore di Cristo e della Chiesa i fedeli che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. Solo così sarà possibile per loro accogliere pienamente il messaggio del matrimonio cristiano e sopportare nella fede la sofferenza della loro situazione. Nell'azione pastorale si dovrà compiere ogni sforzo perché venga compreso bene che non si tratta di nessuna discriminazione, ma soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo che ci ha ridato e nuovamente affidato l'indissolubilità del matrimonio come dono del Creatore. Sarà necessario che i pastori e la comunità dei fedeli soffrano e amino insieme con le persone interessate, perché possano riconoscere anche nel loro carico il giogo dolce e il carico leggero di Gesù(19). Il loro carico non è dolce e leggero in quanto piccolo o insignificante, ma diventa leggero perché il Signore - e insieme con lui tutta la Chiesa - lo condivide. É compito dell'azione pastorale che deve essere svolta con totale dedizione, offrire questo aiuto fondato nella verità e insieme nell'amore.

    Uniti nell'impegno collegiale di far risplendere la verità di Gesù Cristo nella vita e nella prassi della Chiesa, mi è grato professarmi dell'Eccellenza Vostra Reverendissima dev.mo in Cristo.


    Joseph Card. Ratzinger
    Prefetto


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    bruno87salerno
    Post: 14
    Registrato il: 24/08/2006
    Utente Junior
    00 11/09/2006 15:49
    Manca qualcosa.....
    Perchè non riportate la "DE GRAVIORIBUS DELICTI" firmata e composta dallo stesso Joseph Ratzinger???
    Ve la devo procurare? [SM=x40796]
  • Discipula
    00 11/09/2006 23:05
    Re: Manca qualcosa.....

    Scritto da: bruno87salerno 11/09/2006 15.49
    Perchè non riportate la "DE GRAVIORIBUS DELICTI" firmata e composta dallo stesso Joseph Ratzinger???
    Ve la devo procurare? [SM=x40796]



    Non la riportiamo perché l’atto è rubricato come Motu Proprio di Giovanni Paolo II, emanato in data 30 aprile 2001,
    e lo puoi consultare qui sul sito della Santa Sede;

    della CDF è invece la "Lettera ai Vescovi e altri Ordinari e Gerarchi della Chiesa Cattolica interessati circa i delitti più gravi riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede" (Epistula ad totius Catholicae Ecclesiae Episcopos aliosque Ordinarios et Hierarchas interesse habentes de delictis gravioribus eidem Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis), del 18 maggio 2001 indirizzata a tutti i vescovi in attuazione del suddetto Motu Proprio; anche la lettera è consultabile qui all’indirizzo del sito della Santa Sede.

    Ti anticipo però una cosa: qualora tu fossi intenzionato a rispolverare l’argomento trito (ma che dico trito? Ormai è pappa [SM=g27828] ) dell’asserito "insabbiamento" dei procedimenti a carico dei preti pedofili ti faccio presente che esistono in questo forum già due discussioni (qui e qui) e che questa cartella è stata pensata essenzialmente per la consultazione e il link ai testi, e non è un cestino-spazzatura (anche per quella c’è l’apposito topic qui). Scegli un po' tu... [SM=g27829]

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    bruno87salerno
    Post: 15
    Registrato il: 24/08/2006
    Utente Junior
    00 12/09/2006 10:42
    Messaggio
    Ciao,grazie per i chiarimenti. Non ho nessuna intenzione di rispolverare questi argomenti anche perchè forse ne so un pò più di te a riguardo.Grazie mille
  • Discipula
    00 12/09/2006 12:08
    Re: Messaggio

    Scritto da: bruno87salerno 12/09/2006 10.42
    Ciao,grazie per i chiarimenti. Non ho nessuna intenzione di rispolverare questi argomenti anche perchè forse ne so un pò più di te a riguardo.Grazie mille



    Prego, figurati, fa piacere vedere che c'è sempre qualcuno che "ne sa di più" (e forse un po' meno in modestia e umiltà... [SM=g27818] )

    [Modificato da Discipula 12/09/2006 12.09]

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    Regin
    Post: 356
    Registrato il: 06/11/2005
    Utente Senior
    00 12/09/2006 20:51
    Re: Manca qualcosa.....

    Scritto da: bruno87salerno 11/09/2006 15.49
    Perchè non riportate la "DE GRAVIORIBUS DELICTI" firmata e composta dallo stesso Joseph Ratzinger???
    Ve la devo procurare? [SM=x40796]




    Potevi farlo, cosa te lo impediva? o suggerilo in modo gentile senza cartellino rosso.

    [SM=g27826] [SM=g27816]


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    bruno87salerno
    Post: 19
    Registrato il: 24/08/2006
    Utente Junior
    00 30/09/2006 16:21
    ----------
    [SM=g27813] [SM=g27813] ehi era un semplice cartellino!?Dove è il perdono che andate (andiamo)tanto predicando?
    ERRARE E' UMANO,PERDONARE E' DIVINO [SM=g27828]
  • Discipula
    00 16/10/2006 10:21

    CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

    NOTA
    SULL'ESPRESSIONE
    «CHIESE SORELLE»







    A. LETTERA AI PRESIDENTI DELLE CONFERENZE EPISCOPALI
    Roma, 30 giugno 2000

    Eminenza (Eccellenza),

    da più parti è stata attirata l’attenzione di questa Congregazione circa i problemi implicati nell’uso dell’espressione Chiese sorelle, presente in importanti Documenti del Magistero, ma adoperata anche in altri testi e interventi occasionati da iniziative per la promozione del dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, e diventata parte del vocabolario comune per esprimere il legame oggettivo tra la Chiesa di Roma e le Chiese ortodosse.

    Purtroppo recentemente l’uso di tale espressione è stato esteso in certe pubblicazioni e da alcuni teologi, impegnati nel dialogo ecumenico, per indicare la Chiesa cattolica da un lato e la Chiesa ortodossa dall’altro, inducendo a pensare che nella realtà non esisterebbe l’unica Chiesa di Cristo, ma essa potrà essere di nuovo ristabilita a seguito della riconciliazione tra le due Chiese sorelle. Inoltre la medesima espressione viene da taluni indebitamente applicata al rapporto tra la Chiesa cattolica d’una parte e la Comunione anglicana e le Comunità ecclesiali non cattoliche dall’altra. Così si parla di una «teologia delle Chiese sorelle» o di una «ecclesiologia delle Chiese sorelle», caratterizzate da un’ambiguità e da una discontinuità nell’uso e nel significato di questa parola rispetto alla sua accezione corretta originaria, propria dei Documenti magisteriali.

    Al fine di superare tali equivoci e ambiguità nell’uso e nell’applicazione dell’espressione Chiese sorelle, questa Congregazione ha ritenuto necessario redigere l’acclusa Nota sull’espressione «Chiese sorelle», che è stata approvata dal Santo Padre Giovanni Paolo II nell’Udienza del 9 giugno 2000, e le cui indicazioni sono pertanto da ritenersi autorevoli e vincolanti, pur non essendo tale Nota pubblicata in forma ufficiale su Acta Apostolicae Sedis, in considerazione della sua finalità circoscritta alla precisazione di una terminologia teologicamente corretta in proposito.

    Nel trasmetterLe copia del Documento, questo Dicastero La prega di volersi rendere interprete delle preoccupazioni e indicazioni ivi espresse presso codesta Conferenza Episcopale e specialmente presso la Commissione o Organismo preposto alla promozione del dialogo ecumenico, affinché nelle pubblicazioni e negli scritti, attinenti alla suddetta tematica, emanati da codesta Conferenza o dalle Commissioni della stessa, ci si attenga con cura a quanto prescritto nella summenzionata Nota.

    Nel ringraziarLa per la Sua collaborazione, profitto della circostanza per confermarmi con sentimenti di profonda stima,

    dev.mo

    + Joseph Card. Ratzinger
    Prefetto


    B. TESTO DELLA NOTA

    1. L’espressione Chiese sorelle ricorre spesso nel dialogo ecumenico, soprattutto tra cattolici e ortodossi, ed è oggetto di approfondimento da entrambe le parti del dialogo. Pur esistendo un uso indubbiamente legittimo dell’espressione, nella odierna letteratura ecumenica si è diffuso un modo ambiguo di utilizzarla. In conformità con l’insegnamen­to del Concilio Vaticano II e il successivo Magistero pontificio, è perciò opportuno ricordare quale sia l’uso proprio e adeguato di tale espressione. Prima sembra utile accennare brevemente alla sua storia.

    I. Origine e sviluppo dell’espressione

    2. Nel Nuovo Testamento, l’espressione Chiese sorelle come tale non si trova; tuttavia, si trovano numerose indicazioni che manifestano le relazioni di fraternità esistenti tra le Chiese locali dell’antichità cristiana. Il passo neotestamentario che in modo più esplicito riflette tale consapevolez­za è la frase finale di 2 Gv 13: «Ti salutano i figli della eletta tua sorella». Si tratta di saluti inviati da una comunità ecclesiale ad un’altra; la comunità che invia i saluti chiama se stessa «sorella» dell’altra.

    3. Nella letteratura ecclesiastica, l’espressione inizia a utilizzarsi in Oriente quando, a partire dal V secolo, si diffonde l’idea della Pentarchia, secondo la quale a capo della Chiesa si troverebbero i cinque Patriarchi e la Chiesa di Roma avrebbe il primo posto tra le Chiese sorelle patriarcali. Al riguardo, va però rilevato che nessun Romano Pontefice riconobbe questa equiparazione delle sedi né accettò che alla sede romana venisse riconosciuto soltanto un primato di onore. Inoltre, va notato che in Occidente non si sviluppò quella struttura patriarcale che è tipica dell’Oriente.

    Com’è noto, nei secoli successivi le divergenze tra Roma e Costantinopoli portarono a mutue scomuniche che ebbero «conseguenze, le quali, per quanto ne possiamo giudicare, sono andate oltre le intenzioni e le previsioni dei loro autori, le cui censure riguardavano le persone colpite e non le Chiese, e non intendevano rompere la comunione ecclesiastica tra le sedi di Roma e di Costantinopoli».[1]

    4. L’espressione appare di nuovo in due lettere del Metropolita Niceta di Nicodemia (anno 1136) e del Patriarca Giovanni X Camateros (in carica dal 1198 al 1206), nelle quali essi protestavano contro Roma che, presentandosi come madre e maestra, avrebbe annullato la loro autorità. Secondo loro, Roma è solo la prima tra sorelle di uguale dignità.

    5. Nell’epoca recente, il primo a riutilizzare l’espressione Chiese sorelle fu il Patriarca ortodosso di Costantinopoli Atenagora I. Accogliendo i gesti fraterni e l’appello all’unità rivoltigli da Giovanni XXIII, egli esprime spesso nelle sue lettere l’auspicio di vedere presto ristabilita l’unità tra le Chiese sorelle.

    6. Il Concilio Vaticano II adopera l’espressione Chiese sorelle per qualificare i rapporti fraterni tra le Chiese particolari: «In Oriente prosperano molte Chiese particolari o locali, tra le quali tengono il primo posto le Chiese patriarcali, e non poche di queste si gloriano d’essere state fondate dagli stessi apostoli. Perciò presso gli orientali prevalse e prevale ancora la sollecitudine e la cura di conservare, nella comunione della fede e della carità, quelle fraterne relazioni che, come tra sorelle, ci devono essere tra le Chiese locali».[2]

    7. Il primo documento pontificio in cui si trova l’appellativo di sorelle applicato alle Chiese è il Breve Anno ineunte, di Paolo VI al Patriarca Atenagora I. Dopo aver manifestato la sua volontà di fare il possibile per «ristabilire la piena comunione tra la Chiesa d’Occidente e la Chiesa d’Oriente», il Papa si domanda: «Poiché in ogni Chiesa locale si opera questo mistero dell’amore divino, non è forse qui l’origine di quell’espressio­ne tradizionale, per cui le Chiese dei vari luoghi cominciarono a chiamarsi tra di loro come sorelle? Le nostre Chiese hanno vissuto per secoli come sorelle, celebrando insieme i concili ecumenici che hanno difeso il deposito della fede contro ogni alterazione. Ora, dopo un lungo periodo di divisione e di incomprensione reciproca, il Signore, malgrado le difficoltà che nel tempo passato sono sorte tra di noi, ci dà la possibilità di riscoprirci come Chiese sorelle».[3]

    8. L’espressione è poi stata spesso utilizzata da Giovanni Paolo II in numerosi discorsi e documenti, tra i quali verranno qui ricordati soltanto i principali seguendo l’ordine cronologi­co.

    Nell’Enciclica Slavorum apostoli: «Essi [Cirillo e Metodio] sono per noi i campioni ed insieme i patroni nello sforzo ecumenico delle Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente, per ritrovare mediante il dialogo e la preghiera l’unità visibile nella comunione perfetta e totale».[4]

    In una Lettera del 1991 ai Vescovi europei: «Con quelle Chiese [le Chiese ortodosse], pertanto, vanno coltivate relazioni come fra Chiese sorelle, secondo l’espressione di Papa Paolo VI nel Breve al Patriarca di Costantinopoli Atenagora I».[5]

    Nell’Enciclica Ut unum sint, il tema è sviluppato soprattutto nel n. 56 che inizia così: «Dopo il Concilio Vaticano II e ricollegandosi a quella tradizione, si è ristabilito l’uso di attribuire l’appellativo di Chiese sorelle alle Chiese particolari o locali radunate attorno al loro Vescovo. La soppressione poi delle reciproche scomuniche, rimuovendo un doloroso ostacolo di ordine canonico e psicologico, è stato un passo molto significativo nel cammino verso la piena comunione». Il numero termina auspicando: «L’appellativo tradizionale di Chiese sorelle dovrebbe incessantemente accompagnarci in questo cammino». Il tema è ripreso nel n. 60 nel quale si osserva: «Più recentemente, la commissione mista internazionale ha compiuto un significativo passo nella questione tanto delicata del metodo da seguire nella ricerca della piena comunione tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, questione che ha spesso inasprito le relazioni fra cattolici ed ortodossi. Essa ha posto le basi dottrinali per una positiva soluzione del problema, che si fonda sulla dottrina delle Chiese sorelle».[6]

    II. Indicazioni sull’uso dell’espressione

    9. Gli accenni storici esposti nei paragrafi precedenti mostrano la rilevanza che ha assunto l’espressione Chiese sorelle nel dialogo ecumenico. Ciò rende ancora più importante farne un uso teologicamente corretto.

    10. Infatti, in senso proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le Chiese particolari (o i raggruppamenti di Chiese particolari: ad esempio, i Patriarcati e le Metropolie) tra di loro.[7] Deve rimanere sempre chiaro, anche quando l’espressione Chiese sorelle viene usata in questo senso proprio, che la Chiesa universale, una, santa, cattolica ed apostolica, non è sorella ma madre di tutte le Chiese particolari.[8]

    11. Si può parlare di Chiese sorelle, in senso proprio, anche in riferimento a Chiese particolari cattoliche e non cattoliche; e pertanto anche la Chiesa particolare di Roma può essere detta sorella di tutte le Chiese particolari. Ma, come è stato già richiamato, non si può dire propriamente che la Chiesa Cattolica sia sorella di una Chiesa particolare o gruppo di Chiese. Non si tratta soltanto di una questione terminologica, ma soprattutto di rispettare una fondamentale verità della fede cattolica: quella cioè dell’unicità della Chiesa di Gesù Cristo. Esiste infatti un’unica Chiesa,[9] e perciò il plurale Chiese si può riferire soltanto alle Chiese particolari.

    Di conseguenza è da evitare come fonte di malintesi e di confusione teologica l’uso di formule come «le nostre due Chiese», che insinuano –se applicate alla Chiesa cattolica e all’insieme delle Chiese ortodosse (o di una Chiesa ortodossa)– un plurale non soltanto a livello di Chiese particolari, ma anche a livello della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, confessata nel Credo, la cui esistenza reale appare così offuscata.

    12. Infine si deve anche tenere presente che l’espressione Chiese sorelle in senso proprio, come è testimoniato dalla Tradizione comune di Occidente e Oriente, può essere adoperata esclusivamente per quelle comunità ecclesiali che hanno conservato il valido Episcopato e la valida Eucaristia.


    Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 30 giugno 2000, Solennità del Sacro Cuore di Gesù.



    + Joseph Card. Ratzinger
    Prefetto

    + Tarcisio Bertone, S.D.B.
    Arcivescovo emerito di Vercelli
    Segretario




    --------------------------------------------------------------------------------

    Note

    [1] Paolo VI e Atenagora I, Dichiarazione comune Pénétrés de reconnaissance (7-XII-1965), n. 3: AAS 58 (1966) 20. Le scomuniche sono state reciprocamente soppresse nel 1965: «il Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora I nel suo sinodo (...) dichiarano di comune accordo (...) di deplorare anche, e di cancellare dalla memoria e dal seno della Chiesa, le sentenze di scomunica» (ibid., n. 4); cf. anche Paolo VI, Lett. Apost. Ambulate in dilectione (7-XII-1965): AAS 58 (1966) 40-41; Atenagora I, Tomos Agapis (7-XII-1965), Vatican-Phanar 1958-1970 (Romae et Istanbul 1970) 388-390.

    [2] Conc. Vaticano II, Decr. Unitatis redintegratio, n. 14.

    [3] Paolo VI, Breve Anno ineunte (25-VII-1967): AAS 59 (1967) 852-854.

    [4] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Slavorum apostoli (2-VI-1985), n. 27: AAS 77 (1985) 807-808.

    [5] Giovanni Paolo II, Lettera ai Vescovi europei su I rapporti tra cattolici e ortodossi nella nuova sistemazione dell’Europa centrale e orientale (31-V-1991), n. 4: AAS 84 (1992) 167.

    [6] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Ut unum sint (25-V-1995), nn. 56 e 60: AAS 87 (1995) 921-982.

    [7] Cfr. i testi del Decr. Unitatis redintegratio, n. 14, e del Breve Anno ineunte di Paolo VI ad Atenagora I, citati sopra nelle note 2 e 3.

    [8] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett. Communionis notio (28-V-1992), n. 9: AAS 85 (1993) 838-850.

    [9] Cf. Conc. Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 8; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Mysterium Ecclesiae (24-VI-1973), n. 1: AAS, 65 (1973) 396-408.
  • Discipula
    00 20/12/2006 08:44
    Sulla massoneria
    SACRA CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI

    È stato chiesto se sia mutato il giudizio del Chiesa nei confronti della massoneria per il fatto che nel nuovo Codice di Diritto Canonico essa non viene espressamente menzionata come nel Codice anteriore.

    Questa Congregazione è in grado di rispondere che tale circostanza è dovuta a un criterio redazionale seguito anche per altre associazioni ugualmente non menzionate in quanto comprese in categorie più ampie.

    Rimane pertanto immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione.

    Non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito, e ciò in linea con la Dichiarazione di questa S. Congregazione del 17 febbraio 1981 (Cf. AAS 73, 1981, p. 240-241).



    Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Dichiarazione, decisa nella riunione ordinaria di questa S. Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

    Roma, dalla Sede della S. Congregazione per la Dottrina della Fede, il 26 novembre 1983.

    Joseph Card. RATZINGER
    Prefetto

    + Fr. Jérôme Hamer, O.P.
    Arcivescovo tit. di Lorium
    Segretario


    [Modificato da Discipula 20/12/2006 8.45]

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    00 24/03/2007 19:52
    DONUM VITAE 1
    CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

    IL RISPETTO DELLA VITA UMANA NASCENTE E LA DIGNITÀ DELLA PROCREAZIONE
    www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19870222_respect-for%20human-life...

    PREMESSA

    La Congregazione per la Dottrina della Fede è stata interpellata da diverse Conferenze Episcopali o da singoli vescovi da teologi medici e uomini di scienza, in merito alla conformità con i principi della morale cattolica delle tecniche biomediche che consentono di intervenire nella fase iniziale della vita dell'essere umano e nei processi stessi della procreazione. La presente Istruzione, che è frutto di vasta consultazione e in particolare di una attenta valutazione delle dichiarazioni di episcopati non intende riproporre tutto l'insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana nascente e della procreazione, ma offrire, alla luce della precedente dottrina del Magistero, delle risposte specifiche ai principali interrogativi sollevati in proposito. L'esposizione viene ordinata nella maniera seguente: un'introduzione richiamerà i principi fondamentali di carattere antropologico e morale, necessari per un'adeguata valutazione dei problemi e per l'elaborazione delle risposte a tali interrogativi; la prima parte avrà per argomento il rispetto dell'essere umano a partire dal primo momento della sua esistenza; la seconda parte affronterà gli interrogativi morali posti dagli interventi della tecnica sulla procreazione umana; nella terza parte verranno offerti alcuni orientamenti sui rapporti che intercorrono tra legge morale e legge civile a proposito del rispetto dovuto agli embrioni e feti umani* in relazione alla legittimità delle tecniche di procreazione artificiale.

    * I termini di "zigote", "pre-embrione", "embrione" e "feto" possono indicare nel vocabolario della biologia stadi successivi dello sviluppo di un essere umano. La presente Istruzione usa liberamente di questi termini, attribuendo ad essi un'identica rilevanza etica, per designare il frutto, visibile o non, della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza fino alla nascita. La ragione di questo uso viene chiarita dal testo (cf. 1, 1).



    INTRODUZIONE

    1. La ricerca biomedica e l'insegnamento della Chiesa

    Il dono della vita, che Dio Creatore e Padre ha affidato all'uomo, impone a questi di prendere coscienza del suo inestimabile valore e di assumerne la responsabilità: questo principio fondamentale dev'essere posto al centro della riflessione, per chiarire e risolvere i problemi morali sollevati dagli interventi artificiali sulla vita nascente e sui processi della procreazione. Grazie al progresso delle scienze biologiche e mediche, l'uomo può disporre di sempre più efficaci risorse terapeutiche, ma può anche acquisire poteri nuovi dalle conseguenze imprevedibili sulla vita umana nello stesso suo inizio e nei suoi primi stadi. Diversi procedimenti consentono oggi d'intervenire non soltanto per assistere ma anche per dominare i processi della procreazione. Tali tecniche possono consentire all'uomo di "prendere in mano il proprio destino", ma lo espongono anche "alla tentazione di andare oltre i limiti di un ragionevole dominio sulla natura"(1). Per quanto possano costituire un progresso a servizio dell'uomo, esse comportano anche dei rischi gravi. Da parte di molti, viene espresso così un urgente appello, affinché siano salvaguardati, negli interventi sulla procreazione, i valori e i diritti della persona umana. Le richieste di chiarificazione e orientamento non provengono soltanto dai fedeli, ma anche da parte di quanti riconoscono comunque alla Chiesa, "esperta in umanità"(2), una missione al servizio della "civiltà dell'amore"(3) e della vita. Il Magistero della Chiesa non interviene in nome di una competenza particolare nell'ambito delle scienze sperimentali; ma, dopo aver preso conoscenza dei dati della ricerca e della tecnica, intende proporre in virtù della propria missione evangelica e del suo dovere apostolico, la dottrina morale rispondente alla dignità della persona e alla sua vocazione integrale, esponendo i criteri di giudizio morale sulle applicazioni della ricerca scientifica e della tecnica, in particolare per ciò che riguarda la vita umana e i suoi inizi. Tali criteri sono il rispetto, la difesa e la promozione dell'uomo, il suo "diritto primario e fondamentale" alla vita(4), la sua dignità di persona, dotata di un'anima spirituale, di responsabilità morale(5) è chiamata alla comunione beatifica con Dio. L'intervento della Chiesa anche in quest'ambito è ispirato all'amore che essa deve all'uomo aiutandolo a riconoscere e rispettare i suoi diritti e i suoi doveri. Tale amore si alimenta alle sorgenti della carità di Cristo: contemplando il mistero del Verbo Incarnato, la Chiesa conosce anche il "mistero dell'uomo"(6), annunciando il Vangelo della salvezza, rivela all'uomo la sua dignità e lo invita a scoprire pienamente la sua verità. La Chiesa ripropone così la legge divina per fare opera di verità e di liberazione. È infatti per bontà—per indicare il cammino della vita—che Dio da agli uomini i suoi comandamenti e la grazia per osservali; ed è pure per bontà—per aiutarli a perseverare nello stesso cammino—che Dio offre sempre a tutti il suo perdono. Cristo ha compassione delle nostre fragilità: Egli è nostro Creatore e nostro Redentore. Che il suo Spirito apra gli animi al dono della pace di Dio e all'intelligenza dei suoi precetti.

    2. La scienza e la tecnica al servizio della persona umana

    Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza: "maschio e femmina li creò" (Gen. 1, 27), affidando loro il compito di "dominare la terra" (Gen. 1, 28). La ricerca scientifica di base e quella applicata costituiscono un'espressione significativa di questa signoria dell'uomo sul creato. La scienza e la tecnica, preziose risorse dell'uomo quando si pongono al suo servizio e ne promuovono lo sviluppo integrale a beneficio di tutti, non possono da sole indicare il senso dell'esistenza e del progresso umano. Essendo ordinate all'uomo da cui traggono origine e incremento, attingono dalla persona e dai suoi valori morali l'indicazione della loro finalità e la consapevolezza dei loro limiti. Sarebbe, perciò, illusorio rivendicare la neutralità morale della ricerca scientifica e delle sue applicazioni; d'altro canto non si possono desumere i criteri di orientamento dalla semplice efficienza tecnica, dall’utilità che possono arrecare ad alcuni a danno di altri o, peggio ancora, dalle ideologie dominanti. Pertanto la scienza e la tecnica richiedono, per il loro stesso intrinseco significato, il rispetto incondizionato dei criteri fondamentali della moralità: debbono essere cioè, al servizio della persona umana, dei suoi diritti inalienabili e del suo bene vero e integrale secondo il progetto e la volontà di Dio(7). Il rapido sviluppo delle scoperte tecnologiche rende più urgente questa esigenza di rispetto dei criteri ricordati: la scienza senza la coscienza ad altro non può portare che alla rovina dell'uomo. "L'epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza, perché diventino più umane tutte le sue nuove scoperte. È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi"(8).

    3. Antropologia e interventi in campo biomedico

    Quali criteri morali si devono applicare per chiarire i problemi posti oggi nell'ambito della biomedicina? La risposta a questo interrogativo suppone un'adeguata concezione della natura della persona umana nella sua dimensione corporea. Infatti, è soltanto nella linea della sua vera natura che la persona umana può realizzarsi come "totalità unificata"(9): ora questa natura e nello stesso tempo corporale e spirituale. In forza della sua unione sostanziale con un'anima spirituale, il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni, ne può essere valutato alla stessa stregua del corpo degli animali, ma è parte costitutiva della persona che attraverso di esso si manifesta e si esprime. La legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della persona umana. Pertanto essa non può essere concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita come l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo(10). Una prima conseguenza può essere dedotta da tali principi: un intervento sul corpo umano non raggiunge soltanto i tessuti, gli organi e le loro funzioni, ma coinvolge anche a livelli diversi la stessa persona; comporta quindi un significato e una responsabilità morali, in modo implicito forse, ma reale. Giovanni Paolo II ribadiva con forza all'Associazione medica mondiale: "Ogni persona umana, nella sua singolarità irrepetibile, non è costituita soltanto dallo spirito ma anche dal corpo, così nel corpo e attraverso il corpo viene raggiunta la persona stessa nella sua realtà concreta. Rispettare la dignità dell'uomo comporta di conseguenza salvaguardare questa identità dell'uomo corpore et anima unus, come affermava il Concilio Vaticano II (Cost. Gaudium et Spes, n. 14, 1). È sulla base di questa visione antropologica che si devono trovare i criteri fondamentali per le decisioni da prendere, quando si tratta d'interventi non strettamente terapeutici, per esempio gli interventi miranti al miglioramento della condizione biologica umana"(11). La biologia e la medicina nelle loro applicazioni concorrono al bene integrale della vita umana quando vengono in aiuto della persona colpita da malattia e infermità nel rispetto della sua dignità di creatura di Dio. Nessun biologo o medico può ragionevolmente pretendere, in forza della sua competenza scientifica, di decidere dell'origine e del destino degli uomini. Questa non ma si deve applicare in maniera particolare nell'ambito della sessualità e della procreazione, dove l'uomo e la donna pongono in atto i valori fondamentali dell'amore e della vita. Dio, che è amore e vita, ha inscritto nell'uomo e nella donna la vocazione a una partecipazione speciale al suo mistero di comunione personale e alla sua opera di Creatore e di Padre(12). Per questo il matrimonio possiede specifici beni e valori di unione e di procreazione senza possibilità di confronto con quelli che esistono nelle forme inferiori della vita. Tali valori e significati di ordine personale determinano dal punto di vista morale il senso e i limiti degli interventi artificiali sulla procreazione e sull'origine della vita umana . Questi interventi non sono da rifiutare in quanto artificiali. Come tali essi testimoniano le possibilità dell'arte medica, ma si devono valutare sotto il profilo morale in riferimento alla dignità della persona umana, chiamata a realizzare la vocazione divina al dono dell'amore e al dono della vita.

    4. Criteri fondamentali per un giudizio morale

    I valori fondamentali connessi con le tecniche di procreazione artificiale umana sono due: la vita dell'essere umano chiamato all'esistenza e l’originalità della sua trasmissione nel matrimonio. Il giudizio morale su tali metodiche di procreazione artificiale dovrà quindi essere formulato in riferimento a questi valori. La vita fisica, per cui ha inizio la vicenda umana nel mondo, non esaurisce certamente in se tutto il valore della persona ne rappresenta il bene supremo dell'uomo che è chiamato all’eternità. Tuttavia ne costituisce in un certo qual modo il valore "fondamentale", proprio perché sulla vita fisica si fondano e si sviluppano tutti gli altri valori della persona(13). L’inviolabilità del diritto alla vita dell'essere umano innocente "dal momento del concepimento alla morte"(14) è un segno e un'esigenza dell'inviolabilità stessa della persona, alla quale il Creatore ha fatto il dono della vita. Rispetto alla trasmissione delle altre forme di vita nell'universo, la trasmissione della vita umana ha una sua originalità, che deriva dalla originalità stessa della persona umana. "La trasmissione della vita umana è affidata dalla natura a un atto personale e cosciente e, come tale, soggetto alle santissime leggi di Dio: leggi immutabili e inviolabili che vanno riconosciute e osservate. È per questo che non si possono usare mezzi e seguire metodi che possono essere leciti nella trasmissione della vita delle piante e degli animali"(15). I progressi della tecnica hanno oggi reso possibile una procreazione senza rapporto sessuale mediante l'incontro in vitro delle cellule germinali antecedentemente prelevate dall'uomo e dalla donna. Ma ciò che è tecnicamente possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile. La riflessione razionale sui valori fondamentali della vita e della procreazione umana è perciò indispensabile per formulare la valutazione morale a riguardo di tali interventi della tecnica sull'essere umano fin dai primi stadi del suo sviluppo.

    5. Insegnamenti del magistero

    Da parte sua il Magistero della Chiesa, anche in questo ambito, offre alla ragione umana la luce della Rivelazione: la dottrina sull'uomo insegnata dal Magistero contiene molti elementi che illuminano i problemi che qui vengono affrontati. Dal momento del concepimento, la vita di ogni essere umano va rispettata in modo assoluto, perché l'uomo è sulla terra l'unica creatura che Dio ha "voluto per se stesso"(16), e l'anima spirituale di ciascun uomo è "immediatamente creata" da Dio(17); tutto il suo essere porta l'immagine del Creatore. La vita umana è sacra perché fin dal suo inizio comporta "l'azione creatrice di Dio"(18) e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine(19). Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a se il diritto il distruggere direttamente un essere umano innocente(20). La procreazione umana richiede una collaborazione responsabile degli sposi con l'amore fecondo di Dio(21); il dono della vita umana deve realizzarsi nel matrimonio mediante gli atti specifici ed esclusivi degli sposi, secondo le leggi inscritte nelle loro persone e nella loro unione(22).

    PARTE I

    IL RISPETTO DEGLI EMBRIONI UMANI

    Un'attenta riflessione su questo insegnamento del Magistero e sui dati di ragione sopra richiamati permette di rispondere ai molteplici problemi morali posti dagli interventi tecnici sull'essere umano nelle fasi iniziali della sua vita e sui processi del suo concepimento.

    1. Quale rispetto è dovuto all'embrione umano, tenuto conto della sua natura e della sua identità?

    L'essere umano è da rispettare - come una persona - fin dal primo istante della sua esistenza. La messa in atto dei procedimenti di fecondazione artificiale ha reso possibili diversi interventi sugli embrioni e sui feti umani. Gli scopi perseguiti sono di diverso genere: diagnostici e terapeutici, scientifici e commerciali. Da tutto ciò scaturiscono gravi problemi. Si può parlare di un diritto alla sperimentazione sugli embrioni umani in vista della ricerca scientifica? Quali normative o quale legislazione elaborare in questa materia? La risposta a tali problemi suppone una riflessione approfondita sulla natura e sull’identità propria - si parla di "statuto" - dell'embrione umano. Da parte sua la Chiesa nel Concilio Vaticano II ha proposto nuovamente all'uomo contemporaneo la sua dottrina costante e certa secondo cui: "la vita, una volta concepita, dev'essere protetta con la massima cura, e l'aborto come l'infanticidio, sono abominevoli delitti"(23). Più recentemente la Carta dei diritti della famiglia, pubblicata dalla Santa Sede, ribadiva: "La vita umana dev'essere rispettata e protetta in modo assoluto dal momento del concepimento"(24). Questa Congregazione conosce le discussioni attuali sull'inizio della vita umana, sull’individualità dell'essere umano e sull’identità della persona umana. Essa richiama gli insegnamenti contenuti nella Dichiarazione sull'aborto procurato: "Dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una nuova vita che non e quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest'uomo-individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacita richiede tempo per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire"(25). Questa dottrina rimane valida e viene peraltro confermata, se ve ne fosse bisogno, dalle recenti acquisizioni della biologia umana la quale riconosce che nello zigote* derivante dalla fecondazione si è già costituita l’identità biologica di un nuovo individuo umano. Certamente nessun dato sperimentale può essere per sé sufficiente a far riconoscere un'anima spirituale; tuttavia le conclusioni della scienza sull'embrione umano forniscono un’indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana? Il Magistero non si è espressamente impegnato su un'affermazione d'indole filosofica, ma ribadisce in maniera costante la condanna morale di qualsiasi aborto procurato. Questo insegnamento non è mutato ed è immutabile(26). Pertanto il frutto della generazione umana dal primo momento della sua esistenza, e cioè a partire dal costituirsi dello zigote, esige il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità corporale e spirituale. L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita. Questo richiamo dottrinale offre il criterio fondamentale per la soluzione dei diversi problemi posti dallo sviluppo delle scienze biomediche in questo campo: poiché deve essere trattato come persona, l'embrione dovrà anche essere difeso nella sua integrità, curato e guarito nella misura del possibile, come ogni altro essere umano nell'ambito dell'assistenza medica.

    *Lo zigote è la cellula derivante dalla fusione dei nuclei dei due gameti

    2. La diagnosi prenatale è moralmente lecita?

    Se la diagnosi prenatale rispetta la vita e l’integrità dell'embrione e del feto umano ed è orientata alla sua salvaguardia o alla sua guarigione individuale, la risposta è affermativa. La diagnosi prenatale può infatti far conoscere le condizioni dell'embrione e del feto quando è ancora nel seno della madre; permette, o consente di prevedere, alcuni interventi terapeutici, medici o chirurgici, più precocemente e più efficacemente. Tale diagnosi è lecita se i metodi impiegati, con il consenso dei genitori adeguatamente informati, salvaguardano la vita e l'integrità dell'embrione e di sua madre, non facendo loro correre rischi sproporzionati(27); Ma essa è gravemente in contrasto con la legge morale quando contempla l’eventualità, in dipendenza dai risultati, di provocare un aborto: una diagnosi attestante l'esistenza di una malformazione o di una malattia ereditaria non deve equivalere a una sentenza di morte. Pertanto la donna che richiedesse la diagnosi con l'intenzione determinata di procedere all'aborto nel caso che l'esito confermi l'esistenza di una malformazione o anomalia, commetterebbe un'azione gravemente illecita. Parimenti agirebbero in modo contrario alla morale il coniuge o i parenti o chiunque altro, qualora consigliassero o imponessero la diagnosi alla gestante con lo stesso intendimento di arrivare eventualmente all'aborto. Così pure sarebbe responsabile di illecita collaborazione lo specialista che nel condurre la diagnosi e nel comunicarne l'esito contribuisse volutamente a stabilire o favorire il collegamento tra diagnosi prenatale e aborto. Si deve infine condannare, come violazione del diritto alla vita nei confronti del nascituro e come prevaricazione sui diritti e doveri prioritari dei coniugi, una direttiva o un programma delle autorità civili e sanitarie o di organizzazioni scientifiche che, in qualsiasi modo, favorisse la connessione tra diagnosi prenatale e aborto oppure addirittura inducesse le donne gestanti a sottoporsi alla diagnosi prenatale pianificata allo scopo di eliminare i feti affetti o portatori di malformazioni o malattie ereditarie.

    3. Gli interventi terapeutici sull'embrione umano sono leciti?

    Come per ogni intervento medico sui pazienti, si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l’integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale. Qualunque sia il genere di terapia medica, chirurgica o di altro tipo, è richiesto il consenso libero e informato dei genitori, secondo le regole deontologiche previste nel caso di bambini. L'applicazione di questo principio morale può richiedere delicate e particolari cautele trattandosi di vita embrionale o di feti. La legittimità e i criteri di tali interventi sono stati chiaramente espressi da Giovanni Paolo II: "Un intervento strettamente terapeutico che si prefigga come obiettivo la guarigione di diverse malattie, come quelle dovute a difetti cromosomici, sarà, in linea di principio, considerato come auspicabile, supposto che tenda a realizzare la vera promozione del benessere personale dell'individuo, senza arrecare danno alla sua integrità o deteriorarne le condizioni di vita. Un tale intervento si colloca di fatto nella logica della tradizione morale cristiana"(28).

    4. Come valutare moralmente la ricerca e la sperimentazione* sugli embrioni e sui feti umani?

    La ricerca medica deve astenersi da interventi sugli embrioni vivi, a meno che non ci sia la certezza morale di non arrecare danno né alla vita né all’integrità del nascituro e della madre, e a condizione che i genitori abbiano accordato il loro consenso, libero e informato, per l'intervento sull'embrione. Ne consegue che ogni ricerca, anche se limitata alla semplice osservazione dell'embrione, diventerebbe illecita qualora, per i metodi impiegati o per gli effetti indotti, implicasse un rischio per l’integrità fisica o la vita dell'embrione. Per quanto riguarda la sperimentazione presupposta la distinzione generale tra quella con finalità non direttamente terapeutica e quella chiaramente terapeutica per il soggetto stesso, nella fattispecie occorre distinguere anche tra la sperimentazione attuata sugli embrioni ancora vivi e la sperimentazione attuata su embrioni morti. Se essi sono vivi, viabili o non, devono essere rispettati come tutte le persone umane; la sperimentazione non direttamente terapeutica sugli embrioni è illecita(29). Nessuna finalità, anche in se stessa nobile, come la previsione di una utilità per la scienza, per altri esseri umani o per la società, può in alcun modo giustificare la sperimentazione sugli embrioni o feti umani vivi, viabili e non, nel seno materno o fuori di esso. Il consenso informato, normalmente richiesto per la sperimentazione clinica sull'adulto, non può essere concesso dai genitori i quali non possono disporre né dell’integrità fisica né della vita del nascituro. D'altra parte la sperimentazione sugli embrioni o feti comporta sempre il rischio, anzi, il più delle volte la previsione certa di un danno per la loro integrità fisica o addirittura della loro morte. Usare l'embrione umano, o il feto, come oggetto o strumento di sperimentazione rappresenta un delitto nei confronti della loro dignità di esseri umani che hanno diritto allo stesso rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona umana. La Carta dei diritti della famiglia, pubblicata dalla Santa Sede, afferma: "Il rispetto per la dignità dell'essere umano esclude ogni sorta di manipolazione sperimentale o sfruttamento dell'embrione umano"(30). La prassi di mantenere in vita degli embrioni umani, in vivo o in vitro, per scopi sperimentali o commerciali, è del tutto contraria alla dignità umana. Nel caso della sperimentazione chiaramente terapeutica, qualora si trattasse cioè di terapie sperimentali impiegate a beneficio dell'embrione stesso allo scopo di salvare in un tentativo estremo la sua vita, e in mancanza di altre terapie valide, può essere lecito il ricorso a farmaci o a procedure non ancora del tutto convalidate(31). I cadaveri di embrioni o feti umani, volontariamente abortiti o non, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani. In particolare non possono essere oggetto di mutilazioni o autopsie se la loro morte non è stata accertata e senza il consenso dei genitori o della madre. Inoltre va sempre fatta salva l'esigenza morale che non vi sia stata complicità alcuna con l'aborto volontario e che sia evitato il pericolo di scandalo. Anche nel caso di feti morti, come per i cadaveri di persone adulte, ogni pratica commerciale deve essere ritenuta illecita e deve essere proibita.

    *Poiché i termini "ricerca" e "sperimentazione" sono frequentemente usati in modo equivalente e ambiguo, si ritiene di dover precisare il significato loro attribuito nel presente documento. I) Per ricerca s'intende qualsiasi procedimento induttivo-deduttivo, inteso a promuovere l'osservazione sistematica di un dato fenomeno in campo umano o a verificare un'ipotesi emersa da precedenti osservazioni. 2) Per sperimentazione s'intende qualsiasi ricerca, in cui l'essere umano (nei diversi stadi della sua esistenza: embrione, feto, bambino o adulto) rappresenta l'oggetto mediante il quale o sul quale s'intende verificare l'effetto, al momento sconosciuto o ancora non ben conosciuto, di un dato trattamento (ad es. farmacologico, teratogeno, chirurgico ecc.).

    5. Come valutare moralmente l'uso a scopo di ricerca degli embrioni ottenuti mediante la fecondazione in vitro?

    Gli embrioni umani ottenuti in vitro sono esseri umani e soggetti di diritto: la loro dignità e il loro diritto alla vita devono essere rispettati fin dal primo momento della loro esistenza. È immorale produrre embrioni umani destinati a essere sfruttati come "materiale biologico" disponibile. Nella pratica abituale della fecondazione in vitro non tutti gli embrioni vengono trasferiti nel corpo della donna; alcuni vengono distrutti. Così come condanna l'aborto procurato, la Chiesa proibisce anche di attentare alla vita di questi esseri umani. È doveroso denunciare la particolare gravita della distruzione volontaria degli embrioni umani ottenuti in vitro al solo scopo di ricerca sia mediante fecondazione artificiale sia mediante "fissione gemellare". Agendo in tal modo il ricercatore si sostituisce a Dio e, anche se non ne ha la coscienza, si fa padrone del destino altrui, in quanto sceglie arbitrariamente chi far vivere e chi mandare a morte e sopprime esseri umani senza difesa. Le metodiche di osservazione o di sperimentazione, che causano danno o impongono dei rischi gravi e sproporzionati agli embrioni ottenuti in vitro, sono moralmente illecite per le stesse ragioni. Ogni essere umano va rispettato per se stesso, e non può essere ridotto a puro e semplice valore strumentale a vantaggio altrui. Non è perciò conforme alla morale esporre deliberatamente alla morte embrioni umani ottenuti in vitro. In conseguenza del fatto che sono stati prodotti in vitro, questi embrioni non trasferiti nel corpo della madre e denominati "soprannumerari", rimangono esposti a una sorte assurda, senza possibilità di offrire loro sicure vie di sopravvivenza lecitamente perseguibili.

    6. Quale giudizio dare sugli altri procedimenti di manipolazione degli embrioni connessi con le "tecniche di riproduzione umana"?

    Le tecniche di fecondazione in vitro possono aprire la possibilità ad altre forme di manipolazione biologica o genetica degli embrioni umani, quali: i tentativi o progetti di fecondazione tra gameti umani e animali e di gestazione di embrioni umani in uteri di animali, l'ipotesi o il progetto di costruzione di uteri artificiali per l'embrione umano. Questi procedimenti sono contrari alla dignità di essere umano propria dell'embrione e, nello stesso tempo, ledono il diritto di ogni persona di essere concepita e di nascere nel matrimonio e dal matrimonio(32). Anche i tentativi o le ipotesi volte a ottenere un essere umano senza alcuna connessione con la sessualità mediante "fissione gemellare", clonazione, partenogenesi, sono da considerare contrarie alla morale, in quanto contrastano con la dignità sia della procreazione umana sia dell'unione coniugale. Lo stesso congelamento degli embrioni, anche se attuano per garantire una conservazione in vita dell'embrione — crioconservazione— costituisce un'offesa al rispetto dovuto agli esseri umani, in quanto li espone a gravi rischi di morte o di danno per la loro integrità fisica, li priva almeno temporaneamente dell'accoglienza e della gestazione materna e li pone in una situazione suscettibile di ulteriori offese e manipolazioni. Alcuni tentativi d'intervento sul patrimonio cromosomico o genetico non sono terapeutici, ma mirano alla produzione di esseri umani selezionati secondo il sesso o altre qualità prestabilite. Queste manipolazioni sono contrarie alla dignità personale dell'essere umano, alla sua integrità e alla sua identità. Non possono quindi in alcun modo essere giustificate in vista di eventuali conseguenze benefiche per l’umanità futura(33). Ogni persona deve essere rispettata per se stessa: in ciò consiste la dignità e il diritto di ogni essere umano fin dal suo inizio.
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    00 24/03/2007 19:54
    DONUM VITAE 2

    PARTE II

    INTERVENTI SULLA PROCREAZIONE UMANA

    Per "procreazione artificiale" o "fecondazione artificiale" si intendono qui le diverse procedure tecniche volte a ottenere un concepimento umano in maniera diversa dall'unione sessuale dell'uomo e della donna. L'Istruzione tratta della fecondazione di un ovulo in provetta (fecondazione in vitro) e dell'inseminazione artificiale mediante trasferimento, nelle vie genitali della donna, dello sperma precedentemente raccolto. Un punto preliminare per la valutazione morale di tali tecniche è costituito dalla considerazione delle circostanze e delle conseguenze che esse comportano in ordine al rispetto dovuto all'embrione umano. L'affermarsi della pratica della fecondazione in vitro ha richiesto innumerevoli fecondazioni e distruzioni di embrioni umani. Ancora oggi, presuppone abitualmente una iperovulazione della donna: più ovuli sono prelevati, fecondati e poi coltivati in vitro per alcuni giorni. Abitualmente non sono trasferiti tutti nelle vie genitali della donna; alcuni embrioni, chiamati solitamente "soprannumerari", vengono distrutti o congelati. Fra gli embrioni impiantati talora alcuni sono sacrificati per diverse ragioni eugenetiche, economiche o psicologiche. Tale distruzione volontaria di esseri umani o la loro utilizzazione a scopi diversi, a detrimento della loro integrità e della loro vita, è contraria alla dottrina già ricordata a proposito dell'aborto procurato. Il rapporto tra fecondazione in vitro e eliminazione volontaria di embrioni umani si verifica troppo frequentemente. Ciò è significativo: con questi procedimenti, dalle finalità apparentemente opposte, la vita e la morte vengono sottomesse alle decisioni dell'uomo, che viene così a costituirsi donatore di vita e di morte su comando. Questa dinamica di violenza e di dominio può rimanere non avvertita da parte di quegli stessi che, volendola utilizzare, vi si assoggettano. I dati di fatto ricordati e la fredda logica che li collega, devono essere considerati per un giudizio morale sulla FIVET (fecondazione in vitro e trasferimento dell'embrione): la mentalità abortiva che l'ha resa possibile, conduce così, lo si voglia o no, al dominio dell'uomo sulla vita e sulla morte dei suoi simili, che può portare ad un eugenismo radicale. Tuttavia abusi del genere non esimono da una approfondita e ulteriore riflessione etica sulle tecniche di procreazione artificiale considerate in se stesse, astraendo, per quanto è possibile, dalla distruzione degli embrioni prodotti in vitro. La presente Istruzione prenderà in considerazione pertanto in primo luogo i problemi posti dalla fecondazione artificiale eterologa (II, 1-3)*, e successivamente quelli che sono collegati con la fecondazione artificiale omologa (II, 4-6)**. Prima di formulare il giudizio etico su ciascuna di esse, saranno considerati i principi e i valori che determinano la valutazione morale di ciascuna di queste procedure.

    * L'Istruzione intende con la denominazione di Fecondazione o procreazione artificiale eterologa le tecniche volte a ottenere artificialmente un concepimento umano a partire da gameti provenienti almeno da un donatore diverso dagli sposi, che sono uniti in matrimonio. Tali tecniche possono essere di due tipi: a) FIVET eterologa: la tecnica volta a ottenere un concepimento umano attraverso l'incontro in vitro di gameti prelevati almeno da un donatore diverso dai due sposi uniti da matrimonio. b) Inseminazione artificiale eterologa: la tecnica volta a ottenere un concepimento umano attraverso il trasferimento nelle vie genitali della donna dello sperma precedentemente raccolto da un donatore diverso dal marito.

    ** L'Istruzione intende per Fecondazione o procreazione artificiale omologa la tecnica volta a ottenere un concepimento umano a partire dai gameti di due sposi uniti in matrimonio. La fecondazione artificiale omologa può essere attuata con due diverse metodiche: a) FIVET omologa: la tecnica diretta a ottenere un concepimento umano mediante l'incontro in vitro dei gameti degli sposi uniti in matrimonio b) Inseminazione artificiale omologa: la tecnica diretta a ottenere un concepimento umano mediante il trasferimento, nelle vie genitali di una donna sposata, dello sperma precedentemente raccolto del marito.



    A.
    FECONDAZIONE ARTIFICIALE ETEROLOGA

    1. Perché la procreazione umana deve aver luogo nel matrimonio?

    Ogni essere umano va accolto sempre come un dono e una benedizione di Dio. Tuttavia dal punto di vista morale una procreazione veramente responsabile nei confronti del nascituro deve essere il frutto del matrimonio. La procreazione umana possiede infatti delle caratteristiche specifiche in virtù della dignità dei genitori e dei figli: la procreazione di una nuova persona, mediante la quale l'uomo e la donna collaborano con la potenza del Creatore, dovrà essere il frutto e il segno della mutua donazione personale degli sposi, del loro amore e della loro fedeltà(34). La fedeltà degli sposi, nell'unità del matrimonio, comporta il reciproco rispetto del loro diritto a diventare padre e madre soltanto l'uno attraverso l'altro. Il figlio ha diritto ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato nel matrimonio: è attraverso il riferimento sicuro e riconosciuto ai propri genitori che egli può scoprire la propria identità e maturare la propria formazione umana. I genitori trovano nel figlio una conferma e un completamente della loro donazione reciproca: egli è l'immagine vivente del loro amore, il segno permanente della loro unione coniugale, la sintesi viva e indissolubile della loro dimensione paterna e materna(35). In forza della vocazione e delle responsabilità sociali della persona, il bene dei figli e dei genitori contribuisce al bene della società civile; la vitalità e l'equilibrio della società richiedono che i figli vengano al mondo in seno a una famiglia e che questa sia stabilmente fondata sul matrimonio. La tradizione della Chiesa e la riflessione antropologica riconoscono nel matrimonio e nella sua unità indissolubile il solo luogo degno di una procreazione veramente responsabile.

    2. La fecondazione artificiale eterologa è conforme alla dignità degli sposi e alla verità del matrimonio?

    Nella FIVET e nell'inseminazione artificiale eterologa il concepimento umano viene ottenuto mediante l'incontro di gameti di almeno un donatore diverso dagli sposi che sono uniti in matrimonio. La fecondazione artificiale eterologa è contraria all'unità del matrimonio, alla dignità degli sposi, alla vocazione propria dei genitori e al diritto del figlio ad essere concepito e messo al mondo nel matrimonio e dal matrimonio.(36) Il rispetto dell'unità del matrimonio e della fedeltà coniugale esige che il figlio sia concepito nel matrimonio; il legame esistente tra i coniugi attribuisce agli sposi, in maniera oggettiva e inalienabile, il diritto esclusivo a diventare padre e madre soltanto l'uno attraverso l'altro(37). Il ricorso ai gameti di una terza persona, per avere a disposizione lo sperma o l'ovulo, costituisce una violazione dell'impegno reciproco degli sposi e una mancanza grave nei confronti di quella proprietà essenziale del matrimonio, che è la sua unità. La fecondazione artificiale eterologa lede i diritti del figlio, lo priva della relazione filiale con le sue origini parentali e può ostacolare la maturazione della sua identità personale. Essa costituisce inoltre una offesa alla vocazione comune degli sposi che sono chiamati alla paternità e maternità: priva oggettivamente la fecondità coniugale della sua unità e della sua integrità; opera e manifesta una rottura fra parentalità genetica, parentalità gestazionale e responsabilità educativa. Tale alterazione delle relazioni personali all'interno della famiglia si ripercuote nella società civile. Queste ragioni portano a un giudizio morale negativo sulla fecondazione artificiale eterologa: pertanto è moralmente illecita la fecondazione di una donna con lo sperma di un donatore diverso da suo marito e la fecondazione con lo sperma del marito di un ovulo che non proviene dalla sua sposa. Inoltre la fecondazione artificiale di una donna non sposata, nubile o vedova, chiunque sia il donatore, non può essere moralmente giustificata. Il desiderio di avere un figlio, l'amore tra gli sposi che aspirano a ovviare a una sterilità non altrimenti superabile, costituiscono motivazioni comprensibili; ma le intenzioni soggettivamente buone non rendono la fecondazione artificiale eterologa né conforme alle proprietà oggettive e inalienabili del matrimonio né rispettosa dei diritti del figlio e degli sposi.

    3. La maternità "sostitutiva" * è moralmente lecita?

    * Sotto la denominazione di "madre sostitutiva" l'istruzione intende comprendere: a) la donna che porta in gestazione un embrione impiantato nel suo utero e che le è geneticamente estraneo, perché ottenuto mediante l'unione di gameti di "donatori", con l'impegno di consegnare il bambino una volta nato a chi ha commissionato o pattuito tale gestazione; b) la donna che porta in gestazione un embrione alla cui procreazione ha concorso con il dono del proprio ovulo, fecondato mediante inseminazione con lo sperma di un uomo diverso da suo marito, con l'impegno di consegnare il figlio, una volta nato. a chi ha commissionato o pattuito la gestazione.

    No, per le medesime ragioni che portano a rifiutare la fecondazione artificiale eterologa: è contraria, infatti, all'unità del matrimonio e alla dignità della procreazione della persona umana. La maternità sostitutiva rappresenta una mancanza oggettiva di fronte agli obblighi dell'amore materno, della fedeltà coniugale e della maternità responsabile; offende la dignità e il diritto del figlio ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato dai propri genitori; essa instaura, a detrimento delle famiglie, una divisione fra gli elementi fisici, psichici e morali che le costituiscono.



    B.
    FECONDAZIONE ARTIFICIALE OMOLOGA

    Dichiarata inaccettabile la fecondazione artificiale eterologa, ci si chiede come valutare moralmente i procedimenti di fecondazione artificiale omologa: FIVET e inseminazione artificiale fra gli sposi. Occorre chiarire preliminarmente una questione di principio.

    4. Quale legame è richiesto dal punto di vista morale tra procreazione e atto coniugale?

    a) L'insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla procreazione umana afferma la "connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti per la sua intima struttura, l'atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell'essere stesso dell'uomo e della donna"(38). Questo principio, fondato sulla natura del matrimonio e sull'intima connessione dei suoi beni, comporta delle conseguenze ben note sul piano della paternità e maternità responsabili. "Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso del mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all'altissima vocazione dell'uomo alla paternità"(39). La medesima dottrina relativa al legame esistente fra i significati dell'atto coniugale e fra i beni del matrimonio chiarisce il problema morale della fecondazione artificiale omologa, poiché "non è mai permesso separare questi diversi aspetti al punto da escludere positivamente o l'intenzione procreativa o il rapporto coniugale"(40). La contraccezione priva intenzionalmente l'atto coniugale della sua apertura alla procreazione e opera in tal modo una dissociazione volontaria delle finalità del matrimonio. La fecondazione artificiale omologa, perseguendo una procreazione che non è frutto dì un atto specifico di unione coniugale, opera obiettivamente una separazione analoga tra i beni e i significati del matrimonio. Pertanto la fecondazione è voluta lecitamente quando è il termine di un "atto coniugale per sé idoneo alla generazione della prole, al quale il matrimonio è ordinato per sua natura e per la quale i coniugi divengono una sola carne"(41). Ma la procreazione è privata dal punto di vista morale della sua perfezione propria quando non è voluta come il frutto dell'atto coniugale, e cioè del gesto specifico dell'unione degli sposi. b) Il valore morale dell'intimo legame esistente fra i beni del matrimonio e fra i significati dell'atto coniugale si fonda sull'unità dell'essere umano, unità risultante di corpo e anima spirituale(42). Gli sposi si esprimono reciprocamente il loro amore personale nel "linguaggio del corpo", che comporta chiaramente "significati sponsali" e parentali insieme(43). L'atto coniugale, con il quale gli sposi si manifestano reciprocamente il dono di sé, esprime simultaneamente l'apertura al dono della vita: è un atto inscindibilmente corporale e spirituale. È nel loro corpo e per mezzo del loro corpo che gli sposi consumano il matrimonio e possono diventare padre e madre. Per rispettare il linguaggio dei corpi e la loro naturale generosità, l'unione coniugale deve avvenire nel rispetto dell'apertura alla procreazione, e la procreazione di una persona deve essere il frutto e il termine dell'amore sponsale. L'origine dell'essere umano risulta così da una procreazione "legata all'unione non solamente biologica ma anche spirituale dei genitori uniti dal vincolo del matrimonio"(44). Una fecondazione ottenuta fuori del corpo degli sposi rimane per ciò stesso privata dei significati e dei valori che si esprimono nel linguaggio del corpo e nell'unione delle persone umane. c) Soltanto il rispetto del legame, che esiste fra i significati dell'atto coniugale, e il rispetto dell'unità dell'essere umano consente una procreazione conforme alla dignità della persona. Nella sua origine unica e irripetibile il figlio dovrà essere rispettato e riconosciuto come uguale in dignità personale a coloro che gli donano la vita. La persona umana dev'essere accolta nel gesto di unione e di amore dei suoi genitori; la generazione di un figlio dovrà perciò essere il frutto della donazione reciproca(45) che si realizza nell'atto coniugale in cui gli sposi cooperano come servitori e non come padroni, all'opera dell'Amore Creatore(46). L'origine di una persona umana è in realtà il risultato di una donazione. Il concepito dovrà essere il frutto dell'amore dei suoi genitori. Non può essere voluto né concepito come il prodotto di un intervento di tecniche mediche e biologiche: ciò equivarrebbe a ridurlo a diventare l'oggetto di una tecnologia scientifica. Nessuno può sottoporre la venuta al mondo di un bambino a delle condizioni di efficienza tecnica valutabili secondo parametri di controllo e di dominio. La rilevanza morale del legame esistente tra i significati dell'atto coniugale e tra i beni del matrimonio, l'unità dell'essere umano e la dignità della sua origine esigono che la procreazione di una persona umana debba essere perseguita come il frutto dell'atto coniugale specifico dell'amore fra gli sposi. Il legame esistente fra procreazione e atto coniugale si rivela, perciò, di grande importanza sul piano antropologico e morale e chiarisce le posizioni del Magistero a proposito della fecondazione omologa.

    5. La fecondazione omologa in vitro è moralmente lecita?

    La risposta a questa domanda è strettamente dipendente dai principi ora ricordati. Non si possono certamente ignorare le legittime aspirazioni degli sposi sterili; per alcuni il ricorso alla FIVET omologa appare come l'unico mezzo per ottenere un figlio sinceramente desiderato: ci si domanda se in queste soluzioni la globalità della vita coniugale non basti ad assicurare la dignità confacente alla procreazione umana. Si riconosce che la FIVET certamente non può supplire all'assenza dei rapporti coniugali(47) e non può essere preferita, considerati i rischi che si possono verificare per il figlio e i disagi della procedura, agli atti specifici dell'unione coniugale. Ma ci si chiede se nell'impossibilità di rimediare in altro modo alla sterilità, che è causa di sofferenza, la fecondazione omologa in vitro non possa costituire un aiuto, se non addirittura una terapia, per cui ne potrebbe essere ammessa la liceità morale. Il desiderio di un figlio - o quanto meno la disponibilità a trasmettere la vita - è un requisito necessario dal punto di vista morale per una procreazione umana responsabile. Ma questa intenzione buona non è sufficiente per dare una valutazione morale positiva della fecondazione in vitro tra gli sposi. Il procedimento della FIVET deve essere giudicato in se stesso, e non può mutuare la sua qualificazione morale definitiva né dall'insieme della vita coniugale nella quale esso si iscrive né dagli atti coniugali che possono precederlo o seguirlo(48). È già stato ricordato come, nelle circostanze in cui è abitualmente praticata, la FIVET implichi la distruzione di esseri umani, fatto questo che è contro la dottrina già richiamata sulla illiceità dell'aborto(49). Ma anche nel caso in cui si mettesse in atto ogni cautela per evitare la morte degli embrioni umani, la FIVET omologa, attua la dissociazione dei gesti che sono destinati alla fecondazione umana dall'atto coniugale. La natura propria della FIVET omologa, pertanto, dovrà anche essere considerata astraendo dal legame con l'aborto procurato. La FIVET omologa è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell'intervento; essa affida la vita e l'identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé contraria alla dignità e all'uguaglianza che dev'essere comune a genitori e figli. Il concepimento in vitro è il risultato dell'azione tecnica che presiede alla fecondazione; essa non è né di fatto ottenuta né positivamente voluta come l'espressione e il frutto di un atto specifico dell'unione coniugale. Nella FIVET omologa, perciò, pur considerata nel contesto dei rapporti coniugali di fatto esistenti, la generazione della persona umana è oggettivamente privata della sua perfezione propria: quella di essere, cioè, il termine e il frutto di un atto coniugale in cui gli sposi possono farsi "cooperatori con Dio per il dono della vita a una nuova persona"(50). Queste ragioni permettono di comprendere perché l'atto di amore coniugale sia considerato nell'insegnamento della Chiesa come l'unico luogo degno della procreazione umana. Per le stesse ragioni il cosiddetto "caso semplice", cioè una procedura di FIVET omologa, che sia purificata da ogni compromissione con la prassi abortiva della distruzione di embrioni e con la masturbazione, rimane una tecnica moralmente illecita perché priva la procreazione umana della dignità che le è propria e connaturale. Certamente la FIVET omologa non è gravata di tutta quella negatività etica che si riscontra nella procreazione extraconiugale; la famiglia e il matrimonio continuano a costituire l'ambito della nascita e dell'educazione dei figli. Tuttavia, in conformità con la dottrina tradizionale relativa ai beni del matrimonio e alla dignità della persona, la Chiesa rimane contraria, dal punto di vista morale, alla fecondazione omologa in vitro; questa è in se stessa illecita e contrastante con la dignità della procreazione e dell'unione coniugale, anche quando tutto sia messo in atto per evitare la morte dell'embrione umano. Pur non potendo essere approvata la modalità con cui viene ottenuto il concepimento umano nella FIVET, ogni bambino che viene al mondo dovrà comunque essere accolto come un dono vivente della Bontà divina e dovrà essere educato con amore.

    6. Coma valutare dal punto di vista morale l'inseminazione artificiale omologa?

    L'inseminazione artificiale omologa all'interno del matrimonio non può essere ammessa, salvo il caso in cui il mezzo tecnico risulti non sostitutivo dell'atto coniugale, ma si configuri come una facilitazione e un aiuto affinché esso raggiunga il suo scopo naturale. L'insegnamento del Magistero a questo proposito è stato già esplicitato(51): esso non è soltanto espressione di circostanze storiche particolari, ma si fonda sulla dottrina della Chiesa in tema di connessione fra unione coniugale e procreazione, e sulla considerazione della natura personale dell'atto coniugale e della procreazione umana. "L'atto coniugale, nella sua struttura naturale, è un'azione personale, una cooperazione simultanea e immediata dei coniugi, la quale, per la stessa natura degli agenti e la proprietà dell'atto, è l'espressione del dono reciproco, che, secondo la parola della Scrittura, effettua l'unione "in una carne sola""(52). Pertanto la coscienza morale "non proscrive necessariamente l'uso di taluni mezzi artificiali destinati unicamente sia a facilitare l'atto naturale, sia a procurare il raggiungimento del proprio fine all'atto naturale normalmente compiuto"(53). Se il mezzo tecnico facilita l'atto coniugale o l'aiuta a raggiungere i suoi obiettivi naturali, può essere moralmente accettato. Qualora, al contrario, l'intervento si sostituisca all'atto coniugale, esso è moralmente illecito. L'inseminazione artificiale sostitutiva dell'atto coniugale è proibita in ragione della dissociazione volontariamente operata tra i due significati dell'atto coniugale. La masturbazione, mediante la quale viene normalmente procurato lo sperma, è un altro segno di tale dissociazione; anche quando è posto in vista della procreazione, il gesto rimane privo del suo significato unitivo: "gli manca… la relazione sessuale richiesta dall'ordine morale, quella che realizza, "in un contesto di vero amore, l'integro senso della mutua donazione e della procreazione umana""(54).

    7. Quale criterio morale proporre circa l'intervento del medico nella procreazione umana?

    L'atto medico non dev'essere valutato soltanto in rapporto alla sua dimensione tecnica, ma anche e soprattutto in relazione alla sua finalità, che è il bene delle persone e la loro salute corporea e psichica. I criteri morali per l'intervento medico nella procreazione si deducono dalla dignità delle persone umane, della loro sessualità e della loro origine. La medicina che voglia essere ordinata al bene integrale della persona deve rispettare i valori specificamente umani della sessualità(55). Il medico è al servizio delle persone e della procreazione umana: non ha facoltà di disporre né di decidere di esse. L'intervento medico è rispettoso della dignità delle persone quando mira ad aiutare l'atto coniugale sia per facilitarne il compimento sia per consentirgli di raggiungere il suo fine, una volta che sia stato normalmente compiuto(56). Al contrario, talvolta accade che l'intervento medico tecnicamente si sostituisca all'atto coniugale per ottenere una procreazione che non è né il suo risultato né il suo frutto: in questo caso l'atto medico non risulta, come dovrebbe, al servizio dell'unione coniugale, ma si appropria della funzione procreatrice e così contraddice alla dignità e ai diritti inalienabili degli sposi e del nascituro. L'umanizzazione della medicina, che viene oggi insistentemente richiesta da tutti, esige il rispetto dell'integrale dignità della persona umana in primo luogo nell'atto e nel momento in cui gli sposi trasmettono la vita a una nuova persona. È logico pertanto rivolgere anche un pressante appello ai medici e ai ricercatori cattolici perché rendano una esemplare testimonianza del rispetto dovuto all'embrione umano e alla dignità della procreazione. Il personale medico e curante degli ospedali e delle Cliniche cattoliche è in modo speciale invitato a fare onore agli obblighi morali contratti, spesso anche a titolo di statuto. I responsabili di questi ospedali e cliniche cattoliche, che sono sovente religiosi, avranno cuore di assicurare e promuovere un'attenta osservanza delle norme morali richiamate nella presente Istruzione.

    8. La sofferenza per la sterilità coniugale

    La sofferenza degli sposi che non possono avere figli o che temono di mettere al mondo un figlio handicappato, è una sofferenza che tutti debbono comprendere e adeguatamente valutare. Da parte degli sposi il desiderio di un figlio è naturale: esprime la vocazione alla paternità e alla maternità inscritta nell'amore coniugale. Questo desiderio può essere ancora più forte se la coppia è affetta da sterilità che appaia incurabile. Tuttavia il matrimonio non conferisce agli sposi il diritto di avere un figlio, ma soltanto il diritto di porre quegli atti naturali che di per sé sono ordinati alla procreazione(57). Un vero e proprio diritto al figlio sarebbe contrario alla sua dignità e alla sua natura. Il figlio non è un qualche cosa di dovuto e non può essere considerato come oggetto di proprietà: è piuttosto un dono, "il più grande"(58) e il più gratuito del matrimonio, ed è testimonianza vivente della donazione reciproca dei suoi genitori. A questo titolo il figlio ha il diritto - come è stato ricordato - di essere il frutto dell'atto specifico dell'amore coniugale dei suoi genitori e ha anche il diritto a essere rispettato come persona dal momento del suo concepimento. Tuttavia la sterilità, qualunque ne sia la causa e la prognosi, è certamente una dura prova. La comunità dei credenti è chiamata a illuminare e sostenere la sofferenza di coloro che non possono realizzare una legittima aspirazione alla maternità e paternità. Gli sposi che si trovano in queste dolorose situazioni sono chiamati a scoprire in esse l'occasione per una particolare partecipazione alla croce del Signore, fonte di fecondità spirituale. Le coppie sterili non devono dimenticare che "anche quando la procreazione non è possibile, non per questo la vita coniugale perde il suo valore. La sterilità fisica infatti può essere occasione per gli sposi per rendere altri servizi importanti alla vita delle persone umane, quali ad esempio l'adozione, le varie forme di opere educative, l'aiuto ad altre famiglie, ai bambini poveri o handicappati"(59). Molti ricercatori si sono impegnati nella lotta contro la sterilità. Salvaguardando pienamente la dignità della procreazione umana, alcuni sono arrivati a risultati che in precedenza sembravano irraggiungibili. Gli uomini di scienza vanno quindi incoraggiati a proseguire nelle loro ricerche, allo scopo di prevenire le cause della sterilità e potervi rimediare, in modo che le coppie sterili possano riuscire a procreare nel rispetto della loro dignità personale e di quella del nascituro.
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    00 24/03/2007 19:55
    DONUM VITAE 3

    PARTE III

    MORALE E LEGGE CIVILE

    Valori e obblighi morali che la legislazione civile deve rispettare e sancire in questa materia

    I diritto inviolabile alla vita di ogni individuo umano innocente, i diritti della famiglia, dell'istituzione matrimoniale costituiscono dei valori morali fondamentali, perché riguardano la condizione naturale e la vocazione integrale della persona umana, nello stesso tempo sono elementi costitutivi della società civile e del suo ordinamento. Per questo motivo le nuove possibilità tecnologiche, apertesi nel campo della biomedicina, richiedono l'intervento delle autorità politiche e del legislatore, perché un ricorso incontrollato a tali tecniche potrebbe condurre a conseguenze non prevedibili e dannose per la società civile. Il riferimento alla coscienza di ciascuno e all'autoregolamentazione dei ricercatori non può essere sufficiente per il rispetto dei diritti personali e dell'ordine pubblico. Se il legislatore, responsabile del bene comune, mancasse di vigilare, potrebbe venire espropriato delle sue prerogative da parte di ricercatori che pretendessero di governare l'umanità in nome delle scoperte biologiche e dei presunti processi di "miglioramento" che ne deriverebbero. L'"eugenismo" e le discriminazioni fra gli esseri umani potrebbero trovarsi legittimate: ciò costituirebbe una violenza e un'offesa grave all'uguaglianza, alla dignità e ai diritti fondamentali della persona umana. L'intervento dell'autorità politica si deve ispirare ai principi razionali che regolano i rapporti tra legge civile e legge morale. Compito della legge civile è assicurare il bene comune delle persone attraverso il riconoscimento e la difesa dei diritti fondamentali, la promozione della pace e della pubblica moralità(60). In nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula dalla sua competenza; essa deve talvolta tollerare in vista dell'ordine pubblico ciò che non può proibire senza che ne derivi un danno più grave. Tuttavia i diritti inalienabili della persona dovranno essere riconosciuti e rispettati da parte della società civile e dell'autorità politica; tali diritti dell'uomo non dipendono né dai singoli individui né dai genitori e neppure rappresentano una concessione della società e dello Stato: appartengono alla natura umana e sono inerenti alla persona in forza dell'atto creativo da cui ha preso origine.

    Fra tali diritti fondamentali bisogna a questo proposito ricordare:

    1. il diritto alla vita e all'integrità fisica di ogni essere umano dal momento del concepimento alla morte;
    2. i diritti della famiglia e del matrimonio come istituzione e, in questo ambito, il diritto per il figlio a essere concepito, messo al mondo ed educato dai suoi genitori.

    Su ciascuna di queste due tematiche occorre qui svolgere qualche considerazione ulteriore. In diversi Stati alcune leggi hanno autorizzato la soppressione diretta di innocenti: nel momento in cui una legge positiva priva una categoria di esseri umani della protezione che la legislazione civile deve loro accordare, lo Stato viene a negare l'uguaglianza di tutti davanti alla legge. Quando lo Stato non pone la sua forza al servizio dei diritti di ciascun cittadino, e in particolare di chi è più debole, vengono minati i fondamenti stessi di uno Stato di diritto. L'autorità politica di conseguenza non può approvare che gli esseri umani siano chiamati all'esistenza mediante procedure tali da esporli ai gravissimi rischi sopra ricordati. Il riconoscimento eventualmente accordato dalla legge positiva e dalle autorità politiche alle tecniche di trasmissione artificiale della vita e alle sperimentazioni connesse renderebbe più ampia la breccia aperta dalla legalizzazione dell'aborto. Come conseguenza del rispetto e della protezione che vanno assicurati al nascituro, a partire dal momento del suo concepimento, la legge dovrà prevedere appropriate sanzioni penali per ogni deliberata violazione dei suoi diritti. La legge non potrà tollerare - anzi dovrà espressamente proibire - che degli esseri umani, sia pure allo stadio embrionale, siano trattati come oggetto di sperimentazione, mutilati o distrutti con il pretesto che risulterebbero superflui o incapaci di svilupparsi normalmente. L'autorità politica è tenuta a garantire all'istituzione familiare, sulla quale la società si fonda, la protezione giuridica alla quale essa ha diritto. Per il fatto stesso che è al servizio delle persone, l'autorità politica dovrà essere anche a servizio della famiglia. La legge civile non potrà accordare la sua garanzia a quelle tecniche di procreazione artificiale che sottraggono a beneficio di terze persone (medici, biologi, poteri economici o governativi) ciò che costituisce un diritto inerente alla relazione fra gli sposi e non potrà perciò legalizzare il dono di gameti tra persone che non siano legittimamente unite in matrimonio. La legislazione dovrà proibire inoltre, in forza del sostegno che è dovuto alla famiglia, le banche di embrioni, l'inseminazione post mortem e la "maternità sostitutiva". Rientra nei doveri dell'autorità pubblica operare in modo che la legge civile sia regolata sulle norme fondamentali della legge morale in ciò che concerne i diritti dell'uomo, della vita umana e dell'istituzione familiare. Gli uomini politici dovranno impegnarsi, attraverso il loro intervento sull'opinione pubblica, a ottenere su tali punti essenziali il consenso più vasto possibile nella società, e a consolidarlo laddove esso rischiasse di essere indebolito e di venir meno. In molti paesi la legalizzazione dell'aborto e la tolleranza giuridica verso le coppie non sposate rendono più difficile ottenere il rispetto dei diritti fondamentali richiamati in questa Istituzione. Ci si augura che gli Stati non si assumano la responsabilità di rendere ancora più gravi queste situazioni di ingiustizia socialmente dannose. Al contrario, c'è da auspicare che le nazioni e gli Stati prendano coscienza di tutte le implicazioni culturali, ideologiche e politiche connesse con le tecniche di procreazione artificiale e sappiano trovare la saggezza e il coraggio necessari per emanare leggi più giuste e rispettose della vita umana e dell'istituzione familiare. La legislazione civile di numerosi Stati conferisce oggi agli occhi di molti una legittimazione indebita di certe pratiche; essa si dimostra incapace di garantire quella moralità, che è conforme alle esigenze naturali della persona umana e alle "leggi non scritte" impresse dal Creatore nel cuore dell'uomo. Tutti gli uomini di buona volontà devono impegnarsi, in particolare nell'ambito della loro professione e nell'esercizio dei loro diritti civili, perché siano riformate le leggi civili moralmente inaccettabili e corrette le pratiche illecite. Inoltre deve essere sollevata e riconosciuta l'"obiezione di coscienza" di fronte a tali leggi. Ancor più, comincia a imporsi con acutezza alla coscienza morale di molti, specialmente fra gli specialisti delle scienze biomediche, l'istanza per una resistenza passiva alla legittimazione di pratiche contrarie alla vita e alla dignità dell'uomo.

    CONCLUSIONE

    La diffusione delle tecnologie d'intervento sui processi della procreazione umana solleva gravissimi problemi morali in relazione al rispetto dovuto all'essere umano fin dal suo concepimento e alla dignità della persona, della sua sessualità e della trasmissione della vita. Con questo documento, la Congregazione per la Dottrina della Fede, adempiendo al suo compito di promuovere e tutelare l'insegnamento della Chiesa in così grave materia, rivolge un nuovo accorato invito a tutti coloro che, in ragione del loro ruolo e del loro impegno, possono esercitare un influsso positivo perché, nella famiglia e nella società, sia accordato il dovuto rispetto alla vita e all'amore: ai responsabili della formazione delle coscienze e dell'opinione pubblica, ai cultori della scienza e ai professionisti della medicina, ai giuristi e agli uomini politici. Essa auspica che tutti comprendano l'incompatibilità che sussiste tra il riconoscimento della dignità della persona umana e il disprezzo della vita e dell'amore, tra la fede nel Dio vivente e la pretesa di voler decidere arbitrariamente dell'origine e della sorte di un essere umano. In particolare la Congregazione per la Dottrina della Fede rivolge un fiducioso invito e un incoraggiamento ai teologi e, in particolare, ai moralisti perché approfondiscano e rendano sempre più accessibili ai fedeli i contenuti dell'insegnamento del Magistero della Chiesa, alla luce di una valida antropologia in materia di sessualità e matrimonio nel contesto del necessario approccio interdisciplinare. Si potranno così comprendere sempre meglio le ragioni e la validità di questo insegnamento: difendendo l'uomo contro gli eccessi del suo potere, la Chiesa di Dio gli ricorda i titoli della sua vera nobiltà; solo in tal modo si potrà assicurare all'umanità di domani la possibilità di vivere e di amare in quella dignità e libertà che derivano dal rispetto della verità. Le precise indicazioni che vengono offerte nella presente Istituzione non intendono quindi arrestare lo sforzo di riflessione, ma piuttosto favorire un rinnovato impulso, nella fedeltà irrinunciabile alla dottrina della Chiesa. Alla luce della verità sul dono della vita .umana e dei principi morali che ne conseguono, ciascuno è invitato ad agire, nell'ambito della responsabilità che gli è propria, come il buon samaritano e a riconoscere anche il più piccolo tra i figli degli uomini come suo prossimo (Cf. Lc 10, 29-37). La parola di Cristo trova qui una risonanza nuova e particolare: "Ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avrete fatto a Me" (Mt 25, 40).

    Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza accordata al sottoscritto Prefetto dopo la riunione plenaria di questa Congregazione, ha approvato la presente Istruzione e ne ha ordinato la pubblicazione.

    Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 22 febbraio 1987, Festa della Cattedra di S. Pietro Apostolo.

    Joseph Card. Ratzinger
    Prefetto

    Alberto Bovone
    Arc. tit. di Cesarea di Numidia
    Segretario
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