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J.-J. Chevallier, Storia del pensiero politico, Il Mulino, Bologna, 1981-1989, vol. II, pp. 284-290

Chi è colui che (probabilmente nel 1694) ha osato scrivere a Luigi XIV quanto segue?
«Da circa trent'anni, i vostri principali ministri hanno fatto a pezzi e rovesciato tutte le antiche massime sul reggimento dello Stato per far giungere fino al culmine la sola vostra autorità che di fatto era diventata la loro, perché essa era nelle loro mani. Non si è più parlato né di Stato né di norme; non si è parlato che del Re e del suo buon volere (bon plaisir). Le vostre entrate e le vostre spese sono state ampliate all'infinito e vi si è innalzato fino al cielo per avere voi oscurato cosi vi si diceva la grandezza di tutti i vostri predecessori messi insieme, ma in verità per avere immiserito tutta la Francia al fine di introdurre alla Corte un lusso mostruoso e incontrollabile. Hanno voluto innalzarvi sulla rovina di tutte le componenti dello Stato quasi che fosse per voi possibile essere grande rovinando tutti i vostri sudditi, sui quali, invece, poggia la vostra grandezza».
Ebbene, a scrivere queste frasi è stato il mite (come ci si ostina ancora a dire!) Fénelon e cioè François de Salignac de La Mothe Fénelon, futuro arcivescovo di Cambrai, precettore del 1689 del « piccolo Delfino » (il duca di Borgogna), nipote del re. Queste frasi le troviamo nella memorabile Lettre à Louis XIV, che non venne mai recapitata al suo destinatario e il cui autore, per il momento, non intese scoprirsi.
Seguirono poi altre lettere (molte altre), scritte dalla stessa penna e con lo stesso inchiostro nelle quali, se è vero che i ministri sono indiziati di essere stati loro i veri padroni, quando erano alle dipendenze di un sovrano che « ha creduto, di governare », anche la persona del re non è risparmiata dalle critiche: il re si è lasciato intossicare dai consigli adulatorii, si è compiaciuto delle lodi smisurate di cui è stato fatto oggetto e che sono giunte fino al limite dell'idolatria; il re, inoltre, dopo la guerra d'Olanda del 1672 guerra intrapresa per acquistare gloria ha sempre preteso di dettare la pace agli altri senza equità e senza moderazione e di fatto la pace non ha mai resistito a lungo. In conclusione: « Ce n'è a sufficienza, o sire, perché riconosciate di avere passato l'intera vita fuori della via della verità e della giustizia e, quindi, fuori della via indicata dal Vangelo ».
Facciamo attenzione all'ultima espressione: fuori della via indicata dal Vangelo ... Non è proprio il caso che si possano avere fraintendimenti su Fénelon e cioè su questo grande signore di nobili natali, ricco di ogni qualità di mente e di espressione, nonché uomo di grande cuore e di grande fede. Bisogna convenire che se i Lumi del secolo che già allora si annuncia poterono (contrapponendolo a Bossuet, il grande campione dell'ortodossia) rivendicare in lui un precursore, la sua personalità profonda, in virtù dell'umanesimo e della spiritualità, dell'ideale del principe cristiano e della detestazione ardente della guerra, fa piuttosto venire in mente Erasmo da Rotterdam. Fénelon vorrebbe una politica evangelica. Di fatto se leggiamo il Télémaque, questo capolavoro composto per il piccolo Delfino, non incontriamo forse nel settimo libro là dove sono descritte le meraviglie della Betica il paese di Utopia immaginato da Tommaso Moro? Ebbene, in mancanza di questo paese caro agli dei, dove tutti i beni sono in comune, dove tutti gli uomini sono liberi ed eguali, dove tutti si amano con « amore fraterno », che non conosce turbamenti e incrinature, dove mai fanno sentire la loro voce « crudele e pestifera » la frode, la violenza, i processi, le guerre ... ebbene, in mancanza di una tale Betica di sogno, l'autore del Télémaque propone come esempio il Salento: il Salento del re Idomeneo, consigliato da un Mentore che è Minerva, il quale Mentore gli fa emanare regolamenti imperativi e minuziosi di ogni specie; lo induce a castigare il lusso e a frenare le arti od occupazioni inutili; lo spinge a rimettere in auge l'agricoltura e, da ultimo, a ricondurre tutti ad « una semplicità nobile e frugale ».
Non è proprio il caso di stupirsi se Luigi XIV si sia vivamente risentito per la pubblicazione (nel 1699) di un libro che (quali che fossero le intenzioni precise del suo autore e questa è una questione di cui ancora si discute ... ) brulicava tra le righe di allusioni analogiche o di allusioni a contrario alle colpe e alle tare del potere assoluto, cosi come l'aveva esercitato il re. In verità, quello che importava a Fénelon e ai suoi amici (il duca di Chevreuse, il duca di Beauvilliers) in quegli anni in cui terminava il secolo XVII e iniziava il XVIII e cioè nella fase finale di un regno cosi gravido di minacce diverse, era che l'eventuale successore di Luigi XIV fosse debitamente messo in guardia contro le tentazioni di ogni specie a cui il re defunto aveva ceduto fin troppo.
In tale stato d'animo Fénelon aveva redatto verso il 1697 per il duca di Borgogna, che aveva allora quindici anni, un Pro Memoria dal titolo: Examen de conscience sur les devoirs de la royauté. Più tardi, quando la morte del Grande Delfino fece diventare candidato alla successione proprio il giovane pupillo di Fénelon e cioè un principe le cui felici disposizioni inducevano i Francesi a sperare in un regno riparatore, il suo ex precettore si mise a concertare con il duca di Chevreuse a Chaulnes, in Piccardia dei Plans de gouvernement, detti poi Tables de Chaulnes, che i due si proposero di presentare al nuovo sovrano.
Nell'Examen de conscience, Fénelon, con tutta una sequela di stringenti interrogativi, attira l'attenzione del giovane principe su quello che un re non deve fare (e, implicitamente, su quello che suo nonno aveva fatto, ahimè, anche troppo!), sì da conoscere a fondo la condizione piena di pericoli, in cui egli verrà a trovarsi quando sarà « padrone degli altri » ed esservi preparato. E che pensa al riguardo Fénelon? Precisamente questo: che il Vangelo deve essere la regola di vita non solo dei sudditi, ma anche dei re e che la politica non dispensa i re dall'essere umili, giusti, sinceri, moderati, compassionevoli, disposti a perdonare le offese. Il re deve ben avere in mente che, al pari del più umile dei suoi sudditi, egli sarà « giudicato in base al Vangelo »! Ma il re à proprio a conoscenza di tutte le verità del cristianesimo? Si industria per stabilire, senza cedere all'adulazione e all'autoinganno, quali sono i limiti della sua autorità? Crede egli forse che, se intende regnare senza essere istruito su quanto deve regolare il suo potere, Iddio tolleri che egli regni? E non sarà egli indotto a commettere una qualche ingiustizia nei riguardi di altri paesi? E quando ci sarà rischio di guerra, si metterà egli in primo luogo ad esaminare e a far esaminare da competenti sinceri e scevri da adulazione quale è il suo diritto? Non vorrà egli reputare la sua gloria personale come un motivo « di intraprendere qualcosa » solo per distinguersi dagli altri principi? E soprattutto non vorrà ignorare troppe cose e soprattutto il male che si fa in nome della sua autorità? « Forse anche voi farete un po' di male personalmente, ma infiniti mali si faranno alla gente in nome della vostra autorità posta in cattive mani ».
E con questa frase, tale da dare l'idea del tono generale dell'Examen, lo scritto ha termine.
Non facciamoci illusioni ingannevoli e non interpretiamo a rovescio questo richiamo ai limiti dell'autorità regia e non fraintendiamo la severità estrema dei giudizi espressi (sia nell'Examen sia nella Lettre) sul governo di Luigi XIV! Fénelon non pensa affatto a porre in discussione la monarchia assoluta in se stessa. Non è di Fénelon « l'appello al Cielo » come avrebbe detto Locke, né può venire da lui l'incitamento al popolo ad opporre resistenza o ad insorgere. A questo riguardo un abisso separa il mondo morale di Fénelon da quello dell'autore dei Due Trattati. L'arcivescovo di Cambrai, anzi « il Cigno di Cambrai », (oltre le apparenze) era su questo punto assai più vicino a Bossuet, detto « l'Aquila di Meaux », che con tutta la sua imponenza maestosa alla Luigi XIV, distingueva, come sappiamo, con molta precisione tra governo assoluto e governo arbitrario (il primo approvato, il secondo condannato). Di diverso c'è il fatto (ma è una differenza che pesa moltissimo) che Fénelon non entra, come Bossuet, con spirito di ubbidienza a tutta prova nell'ordine costituito del suo tempo e, anzi, non può [sic ndc] a meno, di constatare che nel regime assoluto ha fatto irruzione proprio il regime arbitrario. Fénelon non vuole chiudere gli occhi e si sdegna, proprio perché fedele all'immagine del vero principe cristiano. Così egli condanna quello che vede di condannabile, anche a rischio di cadere in disgrazia. Non possiamo [sic ndc] a meno di credergli (e senza alcuna reticenza) quando afferma che « ama il Re », che « scorge Dio nella sua persona », che darebbe la vita per vederlo « quale Dio lo vuole » e quando dice che non parlerebbe così se il suo affetto per la Francia, il Re e la Casa Reale fosse languido e tiepido.
Per quanto concerne i Plans de gouvernement ossia le Tables de Chaulnes del 1711, diremo che Fénelon, per frenare il dispotismo ministeriale ed amministrativo tanto nelle province (ruolo degli intendenti) quanto al centro, propone innanzi tutto la messa in opera di un sistema di Consigli diversi da quelli già esistenti; in secondo luogo auspica la ripresa degli Stati Generali (che dovrebbero riunirsi ogni tre anni) e infine vuole rimodellare tutta l'amministrazione locale. In tutto questo si tratta sempre di attuare la correzione dell'esercizio del potere assoluto, di facilitare tale esercizio, di renderlo meno « pericoloso » per il popolo e per lo stesso sovrano. Quindi le riforme divisate, i « sogni di Monsignore di Cambrai », come dirà un maligno, non miravano affatto a colpire colui che resta anche per Fénelon un sovrano che non deve spartire con altri la sua autorità. Quello che importa è che egli sappia bene quale è la vera condizione della Nazione e sia debitamente informato, di quello che non va. Egli, infatti, non è in grado di vedere tutto con i propri occhi né può conoscere nei particolari ogni cosa da solo. Gli si chiede soltanto di ricevere, una volta che li abbia sollecitati, dei consigli illuminati, dato che non è mai cosa che attenti alla maestà sovrana il prestare attento orecchio a chi lo vuole consigliare (ma la cosa dipende sempre solo da lui e solo da lui dipende il tenere conto o no dei consigli avuti). Ogni organo di governo non funziona che « sotto di lui ». Mentre egli è poi vincolato dalle leggi e di fatto deve far si che i suoi sudditi ubbidiscano, non a lui, ma alle leggi.
Abbiamo visto che Fénelon nella Lettre à Louis XIV rimproverava soprattutto i ministri perché avevano voluto innalzare il re sulle rovine di tutte le componenti o condizioni dello Stato. Ebbene, proprio la condizione nobiliare (ossia lo stato della nobiltà) pareva a Fénelon che fosse stata particolarmente e scandalosamente colpita. Mentore, nel Télémaque, dà al re Idomeneo il seguente consiglio: « regolate le condizioni (della gente) in base ai loro natali ». La diseguaglianza dei ranghi sociali, la loro gerarchia erano per Fénelon effetti dell'ordine voluto dalla Provvidenza e cioè dell'ordine stabilito per assicurare la pace della società umana. Qualora tali ranghi andassero confusi, qualora fossero violate le regole gerarchiche della « subordinazione » si infliggeva una ferita all'ordine suddetto. La reazione dell'arcivescovo di Cambrai contro un simile andamento fu vivissima e non si diede tregua nel condannare le usurpazioni di titoli nobiliari, le nobilitazioni abusive e nell'auspicare una epurazione sistematica. Tuttavia, non facendosi affatto illusioni sulle capacità di quei gentiluomini (di cui ci dice essere sua ambizione « di scuotere l'atonia, di incitarli a fare carriera, di svolgere un ruolo importante nello Stato, invece di tollerare l'elevazione di togati e di altri non nobili ») non volle reclamare per la nobiltà le più alte cariche del regno.