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La Grotta Tra amicizia e Letteratura... Oltre le "barriere" virtuali

La lettera

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    lanternablu
    Utente Junior
    00 30/03/2007 12:19
    Flora,la tua idea mi sembra fantastica!!!
    Più che una lettera vera e propria,tempo fa ho scritto un racconto in cui come tema centrale c'era per l'appunto una corrispondenza mai avvenuta.
    Spero possa essere di gradimento [SM=g27823]




    Ritornare è sempre una rinascita. Ritornare è come voler guarire dai mali di cui il mondo è infetto. I mali dell’anima, quelli più subdoli.
    La cosa strana è che ogni volta che ritorno ho come l’impressione di non essere mai mancato. E mentre il treno si ferma ed il paesaggio diviene quadro immobile sul finestrino, immagine accesa negli occhi e nella memoria senza alcuna assenza di particolari, io smetto di sentirmi estraneo in viaggio e torno ad essere radice del giardino a cui sempre apparterrò.
    - Che fa? Non scende?
    - Sì, scusi. Scendo.
    - Non è di queste parti.
    - Si sbaglia. Lavoro al nord, ma la mia famiglia d’origine è ancora qui.
    La ragazza mi supera. È svelta, leggera. Sembra quasi una foglia d’autunno al vento, coi capelli sciolti, lisci, neri neri. Come la notte. Come i suoi occhi.
    Si ferma e voltandosi mi fissa per qualche istante.
    - La vengono a prendere? - , mi chiede questa volta.
    - No. Pensavo di chiamare un taxi.
    Mi fissa ancora. E ancora. La gonna che indossa le dona. È una gonna larga, svolazzante, colorata. La fa antica. Distante dalle donne strette nei loro tailleur a tinta unita che ogni giorno incontro negli uffici, durante i congressi, lungo le strade.
    - Se vuole le do un passaggio. Ho la macchina nel parcheggio della stazione, la lascio sempre lì. Dove deve andare?
    - Su, in collina. Ma non c’è bisogno che si disturbi, posso chiamare un taxi.
    - Nessun disturbo. Venga, vado nella stessa direzione. Qui i taxi non esistono. E se ha la fortuna di trovarne uno, se ne esce spennato come un pollo.
    La sua macchina è un’utilitaria di vecchia generazione. È piena di roba, soprattutto quotidiani, riviste e fogli scritti sparsi sul sedile anteriore. Lei sembra accorgersi dei miei sguardi furtivi.
    - Scrivo -, si giustifica.
    - Come dice?
    - Scrivo per alcuni giornali locali. Ogni tanto mi mandano fuori per dei pezzi.
    - Interessante.
    Proseguiamo in silenzio. L’automobile si inerpica per le stradine impervie del promontorio. Il sole si spegne e bagna con gli ultimi raggi i filari di ulivi. Giganti con le braccia tese al cielo e la chioma verdedorata.
    - Ma lo sa che quelli della nostra regione sono gli ulivi più alti e massicci della penisola?
    - Lo so. Peccato che siano quelli meno messi a frutto. Quelli da cui tutti scappano. Come è scappato lei -, risponde secca.
    Il tono è amaro, i lineamenti sono contratti in una smorfia di rassegnazione. Ma io mi perdo ancora nel saluto tenero della mia terra. Sfilano gli aranci. Le casupole degli agricoltori. I bambini che si rincorrono. E il ruscello. Sì, lo stesso ruscello della mia infanzia. Il fiumiciattolo dove da bambino la mamma mi portava a fare il bagno mentre lei e le zie si accanivano sulle coperte invernali. Battile bene, Rosa, battile quelle coperte. Battile fino a quando l’odore di chiuso e di fumo non se ne sarà andato, fino a quando l’acqua non tornerà a scorrere limpida sotto di loro, fino a quando non diventeranno bagnate e fresche come le tue carni giovani e bianche.
    - Eccoci, penso sia quella casa sua.
    I ricordi mi abbandonano facendomi trasalire. La giovane donna ha fermato la vettura all’ingresso di un breve vialetto costeggiato da limoni in fiore.
    - È questa. Ma come faceva a sapere?
    - In paese tutti sanno, tutti conoscono tutti. Non dovrebbe stupirsene. E poi, lei è la fotocopia giovane di suo padre.
    Per la prima volta da quando siamo scesi dal treno, mi rivolge un sorriso. Luminoso, cordiale, gentile. Di quei sorrisi che ti allietano la giornata e ti rimangono nel cuore.
    - Prende lei il suo bagaglio? Il cofano si apre a mano.
    L’odore stuzzicante dei limoni mi avvolge. Odore misto al profumo di terra bagnata e di aria buona. Sono a casa. Faccio scivolare il trolley accanto alla ruota posteriore della vettura. Sto per richiudere il portello, quando la mia attenzione è attratta da una busta che giace sul fondo del cofano. Si tratta di una comunissima busta da lettera. È sigillata e l’indirizzo del destinatario – un uomo, da quanto riesco ad intuire – è stato depennato malamente e forse con rabbia da tratti forti e irregolari. Mi prende una smisurata curiosità di sapere che cosa la busta contiene e perché è stata abbandonata nel cofano della macchina. Senza pensarci troppo mi chino a raccoglierla e con scioltezza me la infilo nella tasca della giacca.
    - Allora, grazie del passaggio.
    - Si figuri.
    - In ogni modo, io sono Francesco.
    - Piacere, Atonia. Tutti mi chiamano Nina.
    - Il piacere è mio, Nina.
    La ragazza sorride ancora. È rimasta in macchina, al suo posto di guida.
    - Mi tolga una curiosità, di che cosa si occupa, lassù al nord.
    - Dirigo una grande azienda.
    - Un dirigente -, mormora senza troppo interesse. - Il motivo del suo ritorno?
    - Niente di particolare. Una piccola vacanza, una scusa per rivedere i miei genitori. Sa, ormai sono anziani.
    Nina sembra riflettere.
    - Vede, non sempre c’è data la fortuna di conoscere in anticipo le intenzioni della vita. Ma creda, nulla è per caso, nessuna delle nostre azioni è per caso, nessun ritorno è per caso.
    Così dicendo, mette in moto, accenna ad un saluto ed io mi ritrovo da solo a guardarla andare via. Sono a casa. Che gran sorpresa sarà per i vecchi.

    - Sei tornato, figlio. Sei tornato, figlio. Figlio. Figlio mio, adorato.
    - Sì, mamma. Sono qui. Qui, con te. Sono tornato.
    Sono tornato, mamma. Ed il tempo che passa lo misuro attraverso te. Le tue carni non sono più giovani e bianche, mamma. La tua pelle si è annerita. I tuoi capelli si sono spenti. Il tuo sguardo è cambiato sotto la stretta di rughe profonde. Dicono che in vecchiaia le rughe diventino tanto più profonde quanto più si è sofferto in vita. E tu, mamma, devi aver sofferto proprio tanto.
    - Cosa vuoi mangiare? Cosa ti preparo? Ti vedo sciupato. Stanco.
    - Sono i segni del viaggio, mamma. Non ti affaticare. Stasera vi porto fuori a te e a papà. Prendiamo la macchina e vi porto fuori.
    - No, no. Cucino io, figlio mio. Ti preparo una cena che non te la dimentichi più. Dimmi solo cosa vuoi.
    Non sei cambiata, mamma. Il tuo amore lo esprimi sempre facendo qualcosa per gli altri. Donandoti agli altri. Non sei cambiata. La cerata del tavolo della cucina ha sempre una fantasia a fiori. Mette allegria, hai continuato a ripetere per anni. E la piccola sala brulica di centrini fatti all’uncinetto e delle bomboniere dei matrimoni e dei battesimi di tutto il paese. Come sempre.
    - La zuppa, voglio. La zuppa e il pane caldo. E la carne arrostita sulla brace.

    Papà sta nel campo dietro la vecchia chiesa. Arrivando non riesco a scorgerlo. Poi intravedo una schiena piegata ad arco in mezzo ad un mare di terra bruna smossa. I piedi affondano. Ho quasi l’impressione che le scarpe Cesare Paciotti urlino di dispiacere per il degrado a cui le sto sottoponendo. Siamo scarpe di classe, noi, che ci facciamo nella melma di un terreno appena concimato? Raggiungiamo mio padre, ed anche se vi ho pagato un occhio della testa, siete le mie scarpe e fate quello che io vi dico.
    - Papà, è tardi. È quasi buio. Perché non torni a casa?
    Solleva lo sguardo. Ometto scuro scuro e rinsecchito dagli anni e dalla fatica.
    - Sapevo che saresti venuto, me lo sentivo.
    Nulla è per caso. Nessun ritorno è per caso. Le parole di Nina mi sussurrano all’orecchio.
    - Sei diventato veggente, papà.
    - E tu sei diventato un uomo. Vieni, aiutami a sollevarmi. Le artrosi hanno smesso di avere pietà di me.
    Torniamo a passo lento verso casa. Il vecchio si sorregge al mio braccio e parla con tono greve e senza fretta.
    - Vedi Francesco, tutto sta andando verso la perdizione. Voi giovani andate via, com’è giusto che sia. Dite che qui non ci può essere niente per voi. Dite che la terra non è più cosa che vi riguardi, che la terra non può darvi nulla. Eppure io questa terra l’ho sposata per la vita. E mi ha dato tanto, lei. E ha dato anche a te. Ti ha permesso di studiare e di diventare quello che sei. Ma presto io non ci sarò più, e la mia terra diventerà vedova e poi morirà insieme a me.
    Si ferma e riprende fiato.
    - Che c’è papà, ti senti poco bene?
    - Sto bene, figliolo. È la vita che se ne va, me n’è rimasta poca ormai.
    - Non dire così, non è giusto che tu dica così.
    - È giusto. Per ogni uomo c’è un tempo, l’importante è che allo scadere di esso ciascun uomo apra la mano e dentro vi ci trovi qualcosa.
    Mi allunga la mano destra, la apre e scopre sul palmo, appoggiate come due reliquie, una piccola patata novella ed un’oliva.
    - Sono dell’ultimo raccolto. Ma con patate e olive come queste ho nutrito te e tua madre. Patate e olive come queste le ho vendute, e sono riuscito a mantenervi. Nella mia mano c’è tutto il mio mondo e il mio amore, figliolo. Tutto ciò che mi rimane.
    Lo stringo forte. Ometto piccolo e smilzo nelle mie braccia di potente direttore aziendale.
    - Andiamo papà, la mamma ci aspetta.

    È mattina, lo sento dagli uccellini che cantano sul davanzale della mia camera. A Milano se la sveglia salta a causa della corrente, per capire se è mattina mi devo alzare ed aprire le imposte. È mattina, e da basso la mamma ciabatta indaffarata per casa. Che pace. Accanto al letto c'è la sedia su cui ieri sera ho appeso la giacca. Mi sporgo e tiro fuori dalla tasca la busta gialla del giorno prima. Il mio piccolo furto. Perché l’ho fatto? La apro. Una lettera. In alto un luogo e una data. È stata scritta di recente, ma non abbastanza da pensare che sia ancora in tempo per essere spedita. Stupidamente il cuore mi batte, quasi come se fosse stata indirizzata a me. Leggo.

    Ciao,
    ti scrivo. Finalmente ti scrivo. Non so se ti farà piacere ricevere questa lettera. Siamo figure impresse nel passato, ormai. Ferme al momento in cui ci siamo visti per l’ultima volta. O forse, a prima. A prima, quando eravamo vicini, uniti da quel filo speciale che sembrava non dovesse rompersi mai. Ora, non siamo più noi. Ora, siamo presente. Sconosciuti.
    Ma io ti scrivo lo stesso. Perché non passa giorno in cui non ti dedichi un pensiero. Per te sarà difficile accettare questo mio modo di vedere le cose. Lo è sempre stato. I miei stati d’animo controversi e apparentemente insensati, le mie nostalgie, i miei pianti ridicoli e immotivati… Per te sempre e solo fragilità. Nella vita bisogna lottare, Nina. Bisogna tirare fuori le unghie. Bisogna credere nei propri sogni. Bisogna. Bisogna. Ma io sono fragile. Lo sono sempre stata e continuo ad esserlo. A volte, penso che sono nata essere umano per sbaglio. Io sarei dovuta nascere erba o albero. Per accogliere su di me gli innamorati felici o i passi stanchi degli anziani maltrattati. Per fare ombra alle donne sudate che tornano dal mercato con le buste della spesa o ai ragazzini che sognano i loro sogni di una vita fantastica. Io non sarei dovuta nascere donna tra gli uomini. Io sono sola in mezzo a questo mondo di donne e uomini che credono di non esserlo. Sola. Una foglia sola che non vede l’ora di marcire. La mia unica consolazione rimane la scrittura. Non potessi più scrivere, morirei all’istante. La mia unica terapia è la scrittura. Voglio scrivere. Scrivere. Scrivere. Scrivere fino a sfiancarmi. La direttrice del giornale si stupisce di tutti i pezzi che riesco a sfornare in un solo giorno. Rimane stupita, lei. Lei che non sa che tutto il mio mondo è in quello che scrivo.
    Vedi, ti sto scrivendo ed è sabato. Sabato sera. Cancella dalla tua mente la ragazzetta socievole e chiacchierona di qualche anno fa. Non parlo più con nessuno. Blatero parole quando serve. Ma non parlo. Non dialogo. Non ho più nulla da dire agli altri. Posso solo scrivere per loro. Solo scrivere per te, di sabato sera, dopo aver disdegnato il milionesimo invito dei sabati sera. Stupidi inviti a finire in una pizzeria affollata, e poi nei pub incasinati, e nelle discot


    Non finisco il periodo che la porta d’ingresso della camera viene spalancata con veemenza. È la mamma. Pallida. Ansimante. Con in viso un’espressione di terrore. Farfuglia qualcosa. Papà. Male. Malessere. All’ospedale. Ma lei non sa. È venuto compare Gianni. Era giù al campo.
    Mi vesto in fretta e furia. E mentre mi vesto capisco tutto.
    Nulla è per caso. Nessun ritorno è per caso. Papà, avrei potuto non esserci. Avrei potuto non salutarti. Avrei potuto mancare la nostra ultima cena. La nostra ultima zuppa. E pane caldo. E carne arrostita sulla brace. Ma sono qui, papà. Qui, accanto al tuo ultimo sonno. Quello eterno.

    La gente va e viene. Tutto il paese va e viene. Porta conforto alla mamma e l’estremo saluto ad un uomo amato e rispettato. Mi apparto. Ho bisogno di respirare un po’. La morte è l’unico mistero capace di lasciare senza fiato. In epoca moderna, dove la tecnologia è regina di ogni quesito, la morte tiene ancora banco.
    All’ombra di uno dei limoni mi accorgo di avere ancora in tasca un foglio accartocciato.

    e nelle discoteche soffocanti.
    Ho cercato di individuare il momento preciso in cui ho iniziato ad allontanarmi da te. E non sono state le bugie dei primi tempi. Non sono state le infinite litigate. Non sono stati i ripetuti tradimenti . Non è stato tutto questo. Su tutto questo avrei anche potuto sorvolare in nome non del tuo ma del mio amore.
    In realtà, sarei dovuta fuggire da te quel lontano venerdì mattina. Quel venerdì piovoso e freddo di fine Ottobre. Quello stesso venerdì mattina che in macchina mi portavi tranquillo verso una delle ferite in cicatrizzabili della mia, spero breve, esistenza. Quello stesso venerdì mattina in cui mi hai detto che non sarei mai riuscita a fare la madre. Che era colpa mia se quel miracolo che mi stava accadendo non poteva divenire miracolo. Che era colpa mia.
    Ti potrà sembrare patetico che ti scriva tutto questo. Ma sono stanca di piangere da sola. Sono stanca di continuare a cercare soluzioni dentro e fuori di me. Sono stanca. Ho provato in ogni modo a dimenticare, a rimuovere, a staccarmi. Non ce la faccio. C’era stata offerta la possibilità di continuare insieme, per sempre. Eravamo stati messi di fronte ad un bivio. Potevamo farcela. Ci saremmo riusciti. Ma quella sera, nella camera da letto del solito albergo, tu mi hai chiesto se mi fidavo di te. Lo ricordi? Ti fidi di me? mi hai chiesto. E la mattina dopo parlavi di una cellula. Una cosa da niente. Il nostro miracolo. Il nostro futuro. Una cosa da niente.
    Almeno mi avessi detto, una sola volta, che ti dispiaceva. Mi dispiace, Nina, ho avuto paura, non ero pronto. Mi sarebbe bastato quello. Ed invece… Invece io sto qui a piangere e a scriverti. A scriverti e a piangere. Ogni giorno della mia vita. E tu stai non so a quanto di distanza. E continuo a pensarti. Mentre tu hai la tua carriera e tutte le cose che non hai fatto prima.
    Ora conosci la rabbia e l’astio che mi porto dietro. E qualsiasi cosa pensi di me e di quello che ti ho scritto, alla fine non può più toccarmi. Sono diventata immune ai giudizi. Non me ne frega più niente. Non mi importa degli uomini che mi guardano. Non li voglio. Non so amare io, e non potrò mai imparare a farlo. Odio troppo me stessa per avermi lasciato convincere a non portare avanti la vita.
    Probabilmente non mi risponderai neppure. L’ho messo in conto. Cosa posso chiedere ormai a te? Tu sei passato. Sei niente.
    Nina


    Ripiego il foglio e continuo a tenerlo in mano. Nina. Nina. Nina. Angelo spezzato. Ma perché ti arrendi? Sei così bella. Se solo potessi rivederti.
    - Sono addolorata per suo padre. Addolorata.
    Strabuzzo lo sguardo stupito. Ma è lei. È l’angelo. È Nina.
    - Aveva ragione. C’era un motivo per il mio ritorno.
    - Non volevo fare il gufo. La lascio da solo. Mi perdoni se mi sono avvicinata, volevo solo esprimerle il mio dolore.
    Fa per andarsene, ma io la blocco. Forse arrossisco. O forse mi sono semplicemente impazzito.
    - Aspetta. Questa è tua.
    Prende il foglio e lo fissa esterrefatta. Non le lascio proferire parola, sarebbe la fine.
    - Ascolta, non so perché l’ho presa. È stato più forte di me. Sono mortificato. Ma sappi che mi dispiace. Noi uomini spesso non siamo pronti alle cose belle della vita. Abbiamo paura. Siamo dei vigliacchi. Tu però non devi mollare. Non devi. E non è vero che non puoi imparare ad amare. Non ci credo.
    Aspetto che esploda. Oggi indossa jeans ed una magliettina scura. I capelli legati. È bella quanto ieri. Più bella. Perché da qualche istante i suoi occhi emanano una luce nuova. Lampi di riconciliazione con il mondo. Riprendo a parlarle. E a parlare a me stesso. Perché ora so molte cose di cui fino a qualche ora prima ero all’oscuro.
    - Voglio rimanere qui. Nella mia terra. Nella nostra terra. Voglio imparare ad amarla. Insieme a te. Se tu vuoi. Una grande azienda, qui, proprio qui. Ecco quello che voglio. E quando il mio tempo starà per finire stringere in mano quello che la vita mi avrà donato. Anche io sono fragile, Nina. Anche io lo sono sempre stato. Non voglio più esserlo.
    Nina sorride. Ride di gioia. Mi tende le braccia.
    - Nulla avviene per caso, Francesco. Nessun ritorno è per caso. Tornavamo insieme, ieri. E non era un caso.
    Goccioline di pioggia ci raggiungono attraverso le foglie larghe dei limoni. È la prima pioggia di Aprile. La pioggia nuova che annuncia una nuova primavera.

  • Maggiofrancese
    00 01/04/2007 20:32
    Una piacevole scoperta: sei brava anche a scrivere in prosa cara Anna! [SM=g27823]

    Ho letto con piacere il racconto e tutto in un fiato perchè volevo scoprire il finale. Se hai sucitato questa curiosità vuol dire che hai fatto un bel lavoro. Inoltre anche i dettagli mi sembrano ben curati. [SM=g27811]