00 12/08/2005 12:18



Assalto ai soldi pubblici per salvare la Cit
La compagnia privatizzata sette anni fa e un piano statale da 380 milioni


Prendete nota: 380 milioni di euro. Più che l’intero incasso annuale che verrà dall’aumento delle tasse sulla casa con i nuovi estimi catastali. Ecco la somma che, in questi tempi di vacche magre, il governo potrebbe spendere per tener in vita uno sgangherato carrozzone che da qualunque altra parte, con tutto il rispetto per i dipendenti, sarebbe fallito da anni: la Cit, Compagnia italiana per il turismo. Che dopo essere stata «privatizzata» a spese delle pubbliche casse, ancora alle pubbliche casse chiede soldi per un «rilancio». Una storia sconcertante. E piena di retroscena.

Certo, salvare posti di lavoro a rischio è uno degli obiettivi di ogni saggio governante. E i lavoratori della Cit devono godere della comprensione di tutti. Quanto si può fare va fatto. Ma resta un mistero: se è vero, come denuncia l'Osservatorio Cgil, che «la progressione delle aziende in crisi è spaventosa», che le imprese con l'acqua alla gola sono passate in un anno da 1.429 a 4.064, che cassintegrati e messi in mobilità sono saliti a 223.547, che sono sull'orlo del licenziamento 517.067 persone, perché tanta cocciuta dedizione al singolo caso della Cit, i cui dipendenti (a parte gli stagionali che lavorano negli alberghi e nei villaggi turistici) sarebbero scesi ormai a 530?

Partiamo dall'inizio. Cioè dal '95 quando le Ferrovie, che si sono accollate fino ad allora i buchi della Cit, fondata nel '27 da Mussolini e spesso usata come copertura prima dall'Ovra e poi dai «servizi », si chiedono cosa fare di quella baracca dalle sedi prestigiose (Galleria a Milano, Piazza Esedra a Roma, Camera e Senato dove spesso i parlamentari si dimenticavano di passare a pagare…) che in settant'anni, a forza di tirare avanti tra regalie e clientele, non ha mai chiuso un solo bilancio in attivo.

A entrare, comprando le agenzie «Viaggi del Sestante» e sventolando l'idea di creare il più grande gruppo turistico italiano, sono la Donzelli Spa e Calisto Tanzi. Un«pacco»: titoli «strapagati» con probabile cresta per i dirigenti, una montagna di debiti (692 miliardi di lire) scaricata sulla compagnia pubblica, false fatture Parmalat per centinaia di miliardi, soldi girati a società caraibiche. Una brutta storia. Finita con 15 rinvii a giudizio per corruzione, falso in bilancio, aggiotaggio. Col contorno di una morte oscura (quella del principale testimone, Sergio Piccini, l'uomo che per conto di Tanzi teneva i rapporti con i politici) e un giallo intorno all' acquisto dell'albergo Baia Paraelios, in Calabria, che faceva capo all'architetto Adolfo Salabè. Nel '98, gravata da 270 miliardi di perdite, la Cit viene finalmente privatizzata. A comprarla è Gianvittorio Gandolfi, un varesino arricchitosi esportando frigoriferi nel Terzo mondo e proprietario della «Sì viaggi».

Prezzo pattuito: 61,5 miliardi. Rimasti solo sulla carta. Al punto che, tirate le somme dopo un estenuante braccio di ferro contrattual-legale, le Ferrovie si ritroveranno in cassa (oltre ai vecchi debiti: 270 miliardi soltanto negli anni '90) neanche la metà: una trentina di miliardi. Meno di quanto Gandolfi ha nel frattempo incassato (25 milioni di sterline) dalla sola vendita di Cit-Inghilterra. Un affarone. Che l'imprenditore prova a ripetere comprando «Italiatour » da Alitalia.

Siamo nel nuovo millennio. Il mercato del turismo è in crisi. Gli osservatori sentono sinistri scricchiolii. I dipendenti ridono amari sul gossip che certi dirigenti avrebbero ottenuto come auto di servizio una Lamborghini o una Ferrari. Eppure, a novembre 2002 la Cit viene quotata al mercato ristretto. A dicembre 2003, mentre le nubi si fan sempre più fosche, la Consob dà il nulla osta al debutto sul mercato principale. Una prova di fiducia. Dovuta forse ai nomi ruotati negli anni, prima o dopo, intorno alla società. Da Luca Danese, il nipote di Andreotti sottosegretario ai Trasporti con D'Alema quando Alitalia aveva venduto Italiatour alla Cit e poi presidente di Cit Belgio a Giuseppe Vimercati, già presidente del Mediocredito Regionale Lombardo (ora Banca Intesa, primo creditore di Cit) che aveva assistito Gandolfi nella scalata. Ma soprattutto tante figure vicine a Berlusconi. Come Ubaldo Livolsi, il banchiere già socio d'affari. E Candia Camaggi, l'ex moglie del cugino Giancarlo Foscale. E Carlo Bernasconi, l'uomo di fiducia alla Medusa. E Salvatore Sciascia, capo dei servizi fiscali di Fininvest condannato per tangenti alla Finanza e oggi vicepresidente della Idra cui è intestata villa Certosa. E Tarak Ben Ammar, piazzato nel CdA di Fininvest dallo sceicco Al Waled.

Fatto sta che neanche 15 mesi dopo la Consob impugna il bilancio 2003 firmato da Livolsi, il titolo è sospeso a tempo indeterminato e la Procura di Milano apre una inchiesta per falso in bilancio e ostacolo all'attività di vigilanza. Il caos è tale che i revisori della Ernst Young scrivono: «Non siamo in grado di esprimerci sulla conformità dei prospetti contabili consolidati ».Afebbraio 2005 il panorama è nerissimo. Il deficit patrimoniale sta, stando a Livolsi, a 140 milioni. Le perdite marciano al ritmo di 7 milioni al mese. Il deficit di cassa ammonta a 61,13 milioni.

Qualunque altra società sarebbe già coi libri in tribunale. Non la Cit. Troppi rischi, dicono i maligni: cosa ci sarà nelle carte degli ultimi anni? Così, fallito il tentativo (per il no dell'amministratore delegato Massimo Caputi) di fare riprendere allo Stato la società- colabrodo appena privatizzata attraverso Sviluppo Italia, spunta tra le nebbie un Cavaliere Bianco. Meglio, azzurro: Benito Benedini, già presidente di Assolombarda. Già candidato da Fininvest alla presidenza di Confindustria. Interista ma berlusconiano a quattro ruote motrici.

Gli chiedono: vuoi fartene carico tu? Certo, dice. Vorrebbe solo, per rilevare il 44,5%, un «aiutino» statale. E, fedele al piano di risanamento fatto da Livolsi (che stando alle intercettazioni cerca di coinvolgere anche in questa faccenda Gianpiero-prezzemolo-Fiorani), elenca: 1) 270 milioni di euro a fondo perduto per costruire villaggi e alberghi secondo vecchi impegni dello Stato. 2) 10 milioni dal fondo imprese in crisi. 3) 65 milioni di fidejussioni per aver un prestito ponte dalle banche. 4) L'ingresso col 30% nel capitale, pari a 15 milioni, di Sviluppo Italia. 5) L'abbuono da parte di Alitalia e Ferrovie dell'80% dei crediti vantati: altri 20 milioni. Ma in pratica, lui, di tasca sua, quanto tirerebbe fuori? Ecco qua: 5 milioni ad Alitalia e Ferrovie più 35 (il 40% del totale) ai piccoli creditori. Il tutto, si capisce, entro il 2008. Con calma. Contro i 380 che lo Stato dovrebbe sganciare subito. Mica male, per una società già privatizzata una volta…

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

12 agosto 2005