00 06/04/2005 13:37
Non parlo mai volentieri del mio passato. Un passato che molti vorrebbero dimenticare, un passato colmo di dolore, di sangue, di rabbia. Un passato che nutre la mia ira, il mio odio, l’unica spinta rimasta a mandarmi avanti.
Ricordo ormai a stento il vento gelido delle montagne dove nacqui. Il mio villaggio natale era piccolo, la vita era dura. Ogni inverno si lottava contro la neve, e a volte le tormente potevano durare anche più di una settimana. Ci si chiudeva in casa, allora, ogni volta sperando, pregando, che il legno reggesse ancora una volta l’impeto delle tempeste.
Non ho mai visto gli occhi di mia madre Eledriel. Morì dandomi alla luce. Gli sciamani del villaggio interpretarono la sua morte come un segno nefasto, e consigliarono a mio padre Daevorn di espormi. Ma egli non permise che l’unico ricordo rimastogli della moglie, nonché il suo unico figlio, morisse per colpa di sciocche superstizioni. Così la mia vita non cessò, quella volta. Oggi, mi chiedo se questo sia stato un bene.
Gli anni passarono, e le tempeste infuriarono ogni anno più forti. Il villaggio era ogni inverno più provato, e il cibo scarseggiava. Mio padre non esitò mai a togliersi il pane di bocca per nutrire me, anche se spesso lo fece di nascosto, per non preoccuparmi. Così crebbi, fino ai dieci anni di età, e da allora fui provato dai duri lavori e dai sacrifici che la vita di montagna richiedeva.
Eppure apprezzavo quella vita spartana, quelle asperità rendevano più dolce il cibo conquistato giornata dopo giornata, la sera.
Ma mio padre deperiva, stagione dopo stagione. Non superò mai la morte di mia madre, e lo vidi deperire sotto i miei occhi. Gli sciamani accusarono me della sua malattia, dissero che la sventura era insita nel mio sguardo focoso, nella mia nascita sventurata. Mio padre non permise che mi toccassero, finché ebbe voce con cui parlare. Ma la malattia lo divorò come una fiamma brucia una candela, ed egli lentamente si spense.
Morì il giorno del mio quindicesimo compleanno.
Non fece nemmeno in tempo a parlarmi per un ultima volta, che la stretta della sua mano morì nella mia.
Fui allontanato dal villaggio, scacciato come un cane, ormai privo della sua protezione. Non vidi neanche il rito funebre. Dovetti allontanarmi, vivere della caccia e dei segreti insegnati da una vita di fatica. Ma sapevo, che per quanto esperto delle montagne e dei boschi, non sarei sopravvissuto ad un inverno da solo.
Chiesi a mio zio Hrotgar, che conduceva una vita solitaria in una casa non molto distante dal villaggio, ma difficilmente accessibile, di accogliermi con lui. Egli parve riluttante ad interrompere la solitudine, ma non poté condannare a morte il sangue del suo sangue. Così mi accolse. Ma fin dal primo giorno, fu chiaro che per lui ero un intruso. Mi costrinse a lavorare duramente, a cacciare. Non mi era permesso avvicinarmi al fuoco per riscaldarmi, abitudine che mio zio riteneva “da donnicciole”.
Ero diventato il suo sguattero, il suo schiavo. Tornavo dalle battute di caccia spesso con ottima selvaggina, ma egli non era mai soddisfatto. Pretendeva sempre qualcosa di più. Pretendeva che gli dimostrassi di essere un uomo.
E io tentavo in tutti i modi di accontentarlo. Cercavo prede sempre più grandi, mia allontanavo sempre di più. E intanto crescevo; il mio corpo venne temprato dalle avversità, si abituò al freddo, e sviluppò una forza senza la quale mi sarebbe stato impossibile sopravvivere.
Non era raro che mio zio mi picchiasse, anche brutalmente. Sebbene non alzai mai mano contro di lui, imparai a sfruttare quella stessa brutalità con cui le sue mani segnavano la mia schiena durante le battute di caccia. E affinai, lentamente, col passare dei mesi, le mie arti combattive.
Una sera d’estate, dopo che lui si era addormentato, uscii, e mi diressi verso la tana di un orso che avevo scovato in una battuta precedente. Tesi un agguato all’orso, ma sottovalutai la potenza della natura. Il mio primo colpo non lo abbatté, e la sua reazione impetuosa mi ferì. Sfruttai la mia superiore agilità per portarmi fuori dalla sua portata, e attesi che la ferita che gli avevo inferto iniziasse a dolergli. Ma l’orso mi si avventò contro, più velocemente di quanto avessi ritenuto possibile per una bestia di quella mole. Una zampata mi colpì al torace, barcollai, ma non caddi. E allora, successe per la prima volta. Non sentii più il dolore. Sentivo solo il sapore del sangue in fondo alla gola, e le vene pulsarmi nelle orecchie, e la rabbia crescere in me... la rabbia di una vita colma di odio e di difficoltà... una rabbia che incanalai in un colpo, un altro, un altro....
Quando rinvenni, l’orso giaceva morto. Dovevo essere svenuto per la perdita di sangue, e mi accorsi di avere delle costole fratturate. Era stata la rabbia a salvarmi, sicuramente non senza una certa dose di fortuna. La prima ferita doveva aver debilitato l’orso, e il mio fisico temprato dalle avversità mi aveva permesso di sopravvivere al suo colpo. Anche se il dolore che mi assaliva mi faceva quasi rimpiangere di non essere morto sotto i suoi colpi.
Rientrai di nascosto, lentamente, a casa. E il giorno dopo, appena sistemate come meglio si poteva le mie ferite, condussi mio zio al luogo dove avevo lasciato il corpo dell’orso, per mostrargli il mio trofeo, impaziente di sentire per la prima volta un complimento uscire dalla sua bocca.
Ma la sua reazione fu diversa. Mi percosse, urlando che anche un ragazzino avrebbe ucciso un orso più grande. Quella volta, mi ridusse quasi in fin di vita.
Passarono mesi, le ferite del corpo si rimarginarono, quella della mente no. Crescevano in me il rancore per quell’uomo che non poteva essere sangue del mio sangue. Per la sua crudeltà, per il suo odio verso di me. La notte del mio ventesimo compleanno, tornai a casa da una battuta di caccia che non aveva avuto il successo sperato. Come sempre, Hrotgar alzò il braccio per colpirmi. Ma stavolta le cose andarono diversamente. Bloccai il suo braccio, e lo colpii allo stomaco. Ero un uomo ormai, non mi avrebbe più messo i piedi in testa.
Egli continuò a colpire me, ed io a colpire lui... rotolammo fuori dalla baita, avvinghiati nella lotta, l’aspra terra mordeva le ferite sanguinanti. Scivolammo giù per un pendio, e continuammo a colpirci. Ci fermò infine un fiumiciattolo che scorreva poco sotto. Mio zio, nella caduta sbatté la testa violentemente contro un sasso, e svenne per la botta. Io, allo stremo delle forze, presi la sua testa e la sbattei nuovamente contro quella roccia. Ancora, ancora, ancora...
Mi risvegliai in un comodo letto... Erano anni che non dormivo in un letto... Appresi che il fiume doveva avermi trascinato per qualche centinaio di metri, mentre mi trovavo in uno stato di semi-incoscienza. Mi trovavo nel villaggio di Kassler, due boscaioli mi avevano rinvenuto e soccorso.
Mi aveva curato Naliene, la curatrice del villaggio, la figlia del fabbro, ma sopratutto la donna più bella che avessi mai visto.
Quando mi fui ripreso, ripagai Kassler con il mio lavoro, sfruttando la mia abilità di cacciatore per procurare selvaggina. Con Naliene nacque nel tempo un sentimento profondo, ci sposammo e andammo a vivere nella casa che costruimmo, con la benedizione del padre di lei. Egli mi donò alle nozze una spada, dicendomi “Giurami di non usarla mai contro un uomo, se non per proteggere la nostra famiglia”. Lo giurai.
I giorni, i mesi, le stagioni si alternarono velocemente come sempre, quando il tempo trascorre felice come un fiume in piena. E come un fiume in piena, il tempo trascinò via la mia felicità, la mia vita.
Naliene mi diede due figli, Shanner e Jerome; il cibo a casa non mancava mai, e spesso trascorrevo il pomeriggio allenandomi con la spada, e pensando a quando avrei potuto insegnare l’arte del combattimento ai miei figli. Anche quel sogno mi fu strappato.
Una notte, fummo svegliati da un urlo, un urlo così violento che squarciò l’oscurità come una luce violenta. Corsi a prendere la spada, urlai a Naliene di rimanere in casa, ed uscii... se mai avevo creduto che un inferno era possibile, vi ero capitato dentro, non c’era alternativa.
Bestie immonde, che amaramente imparai a conoscere come bestie del caos, stavano attaccando il villaggio. Tutti gli uomini del villaggio combatterono, ferocemente come possono farlo coloro che proteggono le proprie case. Una delle bestie si avventò contro di me, io la respinsi e la colpii con la spada. Avrei rispettato il giuramento, avrei difeso la mia famiglia! Nello scontro con la bestia, mi spinse verso il limitare del villaggio, e poi nel bosco a fianco. Lo scontro fu lungo, ma prevalsi. Tornai di corsa al villaggio, la situazione era tragica, gli uomini stavano venendo sopraffatti. Ma a me importava solo di una cosa. La mia famiglia.
Con il poco fiato che mi rimaneva in corpo, corsi verso la mia casa. Troppo tardi.
Il fuoco la stava divorando dall’esterno dopo che le bestie lo avevano fatto dall’interno. Corsi dentro, senza più nemmeno un barlume di senno. Mi ustionai, non sentii il dolore. Dentro giacevano i corpi di Naliene, di Jerome, di Shanner. Erano coperti di sangue, feriti, orribilmente stuprati con una violenza che non ritenevo possibile. Fino a quel giorno.
Credo che urlai, e piansi, e corsi fuori brandendo l’arma con un pazzo, scagliandomi contro ogni nemico a portata, noncurante di ferite e dolore. Nessun dolore del corpo era sufficiente a sovrastare quello della mia anima.
Non ricordo bene cosa accadde dopo, mi hanno raccontato che giunse l’esercito di Blaster e respinse il nemico, di troppo superiore alle nostre forze. Mi hanno raccontato anche che se non mi avessero fermato avrei inseguito le bestie immonde, verso una morte sicura. Non so. Non ricordo. Non voglio ricordare.
Recuperai quel che restava della mia famiglia, della mia vita, e lo seppellii. Anche il padre di lei era morto, come il giuramento che avevo fatto di proteggerla. Ormai la mia vita non aveva più un significato, ma aveva ancora uno scopo: la vendetta.
Blaster partecipò al mio dolore, rispettò il mio silenzio mentre li seppellivo.
“Erano la tua famiglia?” mi chiese infine. “Si. Erano l’unica cosa che al mondo contava per me.” Sussurrai, col cuore rotto dal pianto. “Sei un buon combattente. Vuoi vendicarli?” mi chiese. Lo guardai negli occhi, e non ci fu bisogno di risposta. “Vieni con me allora. Ti mostro i tuoi compagni nella lotta per la libertà.”.