Proseguiamo il discorso sui cacciatori di carri occupandoci dei ferri del mestiere, cioè degli strumenti di cui questi uomini dovevano servirsi per sconfiggere il loro avversario.
Gli appartenenti alle squadre cacciatori si sarebbero dovuti scegliere tra quelli che avessero mostrato maggiore attitudine fisica e spirituale all’incarico.
Fisica, perché le modalità di attacco, da effettuarsi partendo da ripari naturali o artificiali, come scarpate, gradini naturali, folta vegetazione, edifici o buche individuali con il lancio, necessariamente preciso, di ordigni o, di più, l’assalto mediante pali o sbarre agli organi esterni della trasmissione, non poteva non essere attuato da personale in eccellente forma e con alto grado di addestramento fisico.
Spirituale, perché attendere in una buca isolata che i carri nemici superino la tua postazione, balzandone fuori non un secondo prima e nemmeno un secondo dopo il necessario, avendo una conoscenza solo approssimativa della situazione all’esterno, sfidando una morte quasi certa, non era certo impresa da persone comuni.
L’attacco al carro, in linea teorica, poteva essere portato con successo da un cacciatore isolato. All’atto pratico il normale impiego dei mezzi corazzati da parte dell’avversario prevedeva la manovra di più unità in grado di prestare reciproco supporto, precedute o seguite da aliquote di fanteria destinate a sfruttarne i successi e a coprirne i movimenti.
Ecco che allora l’impiego dei cacciatori diventava un compito di squadra, prevedendo l’impiego di 4/6 uomini addestrati ad agire in modo coordinato, in tempi strettissimi, evitando di offendersi l’un l’altro.
Almeno due cacciatori avrebbero dato il via all’azione mediante impiego di bombe o artifizi fumogeni, uno o due avrebbero provveduto ad immobilizzare il carro con l’impiego di pali o sbarre metalliche, ancora ad uno o due uomini spettava il compito di distruggere la preda con l’uso di bombe dirompenti e/o incendiarie.
La disponibilità di cariche esplosive, mine anticarro e lanciafiamme, tra gli altri, avrebbe dettato le opportune varianti alla procedura base.
Secondo la classificazione italiana erano detti nebbiogeni i prodotti, liquidi (cloridrina solforica ed anidride solforica), che, nebulizzati nell’aria, creavano una nebbia artificiale densa, bianca, leggermente irritante. Erano impiegati all’uopo sia munizionamento d’artiglieria in calibro 75, 100, 105, sia dei nebulizzatori spalleggiati, carrellati e autoportati.
Erano detti fumogeni, invece, gli artifizi riempiti di un impasto di tetracloruro di carbonio, zinco, ossido di zinco e farina fossile, atti, una volta innescati, a generare un fumo bianco/grigio persistente ed innocuo.
A disposizione dei nostri erano le “Candele fumogene C.C.M. 34”.
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Costituite da un barattolo di latta (1) del diametro di 8 cm. e della lunghezza di 26 cm., portante, all’estremità superiore, un codolo (2) per l’alloggiamento dell’innesco, ed a quella inferiore una scatola (3), chiusa da un controcoperchio, contenente due inneschi ed una cartina di accensione.
La candela veniva fatta funzionare nel modo seguente:
staccato il nastro di tela gommata (5) che circondava l’orlo del controcoperchio si toglieva questo e si estraevano gli inneschi e la cartina di accensione;
si collocava il barattolo orizzontalmente con la parte superiore rivolta verso la direzione del vento, introducendo nell’apposito codolo (2) uno degli inneschi;
si provocava l’accensione della candela mediante il leggero sfregamento, della cartina di accensione, sulla capocchia (7) della miccia (8) dell’innesco (6).
In caso di mancata accensione veniva utilizzato il secondo innesco o un’altra fonte di fiamma libera.
La candela aveva un peso di Kg. 2,300, il suo funzionamento aveva la durata di 2’ con l’emissione di un fronte di fumo di 10/20 metri.
Le stesse caratteristiche generali aveva il candelotto fumogeno.
Di dimensioni minori e del peso di gr. 500 aveva una durata di 1’, era previsto che si potesse lanciare in guisa di bomba a mano.
E arriviamo, così, alle bombe a mano.
Le tre classiche bombe italiane: la S.R.C.M. mod. 35 (che tutti conosciamo alla perfezione), la O.T.O. mod. 35 e la Breda mod. 35, a quanto risulta, vennero prodotte anche in versione F (fumogena) ed FI (fumogena-incendiaria).
Nella versione F la miscela fumogena liquida, sopra ricordata, sostituiva la carica di esplosivo presente sulla bomba ordinaria essendo innescata dallo stesso detonatore.
Altrimenti identiche a quelle ordinarie ne erano distinte dalla colorazione rossa, per la metà superiore, e nera per quella inferiore recante sul fondo la lettera F stampigliata in bianco.
Allo scoppio erano in grado di produrre una nube densa delle dimensioni di 2 m. x 2,5 m. da usarsi con le stesse precauzioni previste per quelle ordinarie.
Stesso discorso per la versione fumogeno-incendiaria, identica la colorazione con stampigliatura bianca FI sul fondo.
Erano caricate con fosforo bianco, che, all’atto dell’esplosione veniva disperso in minuti frammenti, per un raggio di 10/12 metri, aveva, oltre l’effetto fumogeno, la capacità di innescare incendi e di causare dolorose ustioni.
Delle versioni F ed FI non ho immagini, vi dovrete accontentare di una vista in sezione relativa alla Breda mod. 35 ordinaria.
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Dopo le fumogene passiamo ora alle dirompenti anticarro.
La prima era il modello Breda (peso Kg. 1).
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Ci veniva così descritta:
trattasi di potente ordigno capace di sfondare corazze dello spessore di 20 mm. e di provocare, all’interno di quelle di spessore fino a 30 mm., il distacco di grosse schegge. È costituito da una normale bomba a mano Breda (1) alla quale è stato aggiunto, da un lato, un manico (2) di legno o bachelite ed inferiormente avvitata ad una sfera metallica (3) contenete una carica di scoppio suppletiva ad alto potere dirompente.
Erano previste una sicurezza a mano (4) ed una automatica (5) del tutto identiche a quelle presenti sulla bomba ordinaria.
Al momento del lancio si estraeva la sicurezza a mano e si procedeva al lancio, durante il volo la cuffia di svincolo si staccava dal corpo della bomba trascinando con sé il traversino di sicurezza con conseguente esplosione all’impatto.
Lo sfilamento avveniva dopo il compimento dei primi 10/12 metri di volo, se ne prevedeva, quindi, l’impiego contro bersagli posti ad almeno 15 metri dal lanciatore. Quest’ultimo procedeva al lancio dalle posizioni in piedi o in ginocchio, solo ai migliori lanciatori era concesso procedere al lancio dalla posizione a terra, dato il peso dell’ordigno ed i pericoli connessi al suo impiego.
Un lanciatore allenato poteva scagliarla ad una distanza di 25 m.
La seconda era la Bomba a mano controcarri S.T. (inglese) (peso Kg. 1,3).
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Ordigno della massima efficacia, capace di rompere corazze dello spessore di 25 mm., costituito da:
- un serbatoio sferico di vetro, ricoperto all’esterno da sostanze vischiose e contenente la carica esplosiva, il tutto protetto da un involucro di latta suddiviso in due semisfere tenute in sito da una apposita cerniera e coppiglia di unione;
- un’impugnatura che contiene il percussore con molla e la relativa sicurezza costituita da una lastrina di alluminio con testa a T rovesciata e coda a forchetta, per l’inserimento sotto la testa del percussore; detta sicurezza è tenuta in sito a mezzo di coppiglia, con anello e targhetta; l’impugnatura termina inferiormente con un collare mobile munito di avvitatura per l’unione al serbatoio sferico;
- un sistema di accensione con ritardo, che determina l’accensione del detonatore e quindi lo scoppio della bomba dopo circa 5’’ dal momento del lancio.
Le bombe ST erano conservate e trasportate prive del detonatore, per prepararle al lancio si svitava l’impugnatura (6), si toglieva un tappo di legno che ne chiudeva l’alloggiamento si prendeva dall’apposito astuccio un detonatore e lo si poneva, con la capsula in alto, nel predetto alloggiamento avvitando, nuovamente, l’impugnatura.
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La modalità di impiego era la seguente:
1) Impugnata la bomba con la mano destra si teneva il pollice saldamente appoggiato sulla testa a T della lastrina di sicurezza (8).
2) con la mano sinistra si toglieva il pezzo di nastro gommato di unione delle due semisfere dell’involucro metallico e, quindi, con la stessa mano si tirava l’anello della coppiglia di unione (5) fino a sfilarla completamente e, tenendo la sfera verso il basso, si agevolava la caduta dell’involucro metallico.
3) continuando a tenere ben salda la bomba, e badando a non toccare il corpo della stessa cosparso di sostanza fortemente adesiva, si sfilava la coppiglia di sicurezza;
4) si lanciava quindi la bomba nel modo più opportuno, badando ad imprimerle una forte spinta, tale da assicurare la rottura della boccia di vetro e l’adesione della carica al bersaglio.
Liberata dalla pressione del pollice la lastrina di sicurezza scattava liberando il percussore la cui azione, dopo 5’’, avrebbe portato all’esplosione dell’ordigno.
Il lanciatore avrebbe approfittato di questo lasso di tempo per porsi al riparo.
In caso di favorevoli condizioni di attacco, es. attacco notturno su carri fermi, la bomba poteva essere fatta aderire intera al bersaglio e fatta scoppiare una volta sistemata, sempre tramite rimozione della coppiglia di sicurezza, anche in questo caso l’esplosione sarebbe avvenuta a 5’’ dall’attivazione.
Un lanciatore allenato poteva scagliarla ad una distanza di 18 m.
Bomba a mano incendiaria controcarro O.T.O.
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Era costituita da un recipiente di vetro (1), contenente una miscela incendiaria di varia composizione, unito mediante un manicotto di alluminio (2) ad una bomba O.T.O. (3), che funzionava da innesco, differendo dalle bombe ordinarie in quanto priva della carica esplosiva, sostituita dalla filettatura necessaria per il fissaggio del manicotto.
Come ogni bomba a mano ordinaria era munita di sicurezza ordinaria (4) e sicurezza automatica (5).
Il peso dell’ordigno era variabile tra Kg. 1 e Kg. 1,1 a seconda del liquido impiegato.
Il funzionamento era anologo a quello delle bombe a mano ordinarie.
Una volta impugnata, con il recipiente in alto o in basso, a seconda delle condizioni contingenti doveva essere scagliata con forza ad una distanza non inferiore ai 14-15 metri.
La rimozione della sicurezza ordinaria portava, durante il volo, allo sfilamento del traversino, con l’esplosione del detonatore e l’accensione della miscela incendiaria la cui combustione durava 4-6 secondi.
Un lanciatore allenato poteva scagliarla ad una distanza superiore ai 20 m.
Mina anticarro a petardi C.S.
Era il mezzo più potente e di sicuro effetto sui carri avversari, potendone determinare l’immediata distruzione.
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Il funzionamento era a pressione ed era costituita da:
- una cassetta di legno (1) di cm. 30 x 24, alta 16 cm., munita di maniglie di corda per il trasporto a mano, contente circa 5 Kg. di esplosivo;
- quattro congegni petardo capsula (2) che funzionavano da inneschi;
- un cappello (3) con tavoletta di pressione ricoperta da tela mimetizzata ed impermeabilizzata.
Il peso totale era di Kg. 9.
La mina veniva conservata e distribuita carica ma priva dei petardi di innesco.
All’atto dell’impiego veniva attivata con le seguenti operazioni:
- si liberavano i ganci di chiusura (4) rimuovendo il cappello;
- si ponevano al loro posto i quattro petardi di innesco;
- si copriva nuovamente la scatola con il cappello assicurando i ganci di chiusura.
La mina così attivata poteva essere trasportata a mano o su veicolo badando ad evitare cadute.
La mina, da impiegarsi su terreni non cedevoli, poteva essere sotterrata e ricoperta da un leggero strato di terra, sabbia o fogliame, insensibile alle pressioni più leggere (es. persone isolate) era fatta detonare da quelle superiori ai 150 Kg.
Un utile impiego lo si poteva avere occultandola a lato di passaggi obbligati e legando uno dei manici con una fune di adeguata lunghezza che il cacciatore avrebbe convenientemente tirato per portare la mina con esattezza sotto i cingoli del carro avversario in transito.
A presto
Giacomo
I got my bags packed baby and i'm ready to go