All'inizio avevo fatto cenno ad un particolare apparentemente banale. Il conte von Harrach, in piedi per controllare la folla, si trovava sul predellino sinistro, fronteggiando la folla sul lato del fiume, da dove Čabrinović aveva lanciato la bomba. In quella posizione, però, si trovava adesso a voltare le spalle a Princíp, che stava sul marciapiede a destra, senza poter intervenire. Così, l'estremo tassello dell'impossibile puzzle era andato a posto. Ormai non c'era assolutamente niente tra Princíp e le vittime, inopinatamente ferme in mezzo alla strada, eccetto qualche metro di rilucente aria estiva. L'ostinata e feroce determinazione dell'ultimo uomo rimasto in piedi aveva infine pagato, regalando la più insperata e favorevole delle occasioni. Princíp, scartata l'idea della bomba (visto come era andata in precedenza), estrasse la pistola, fece qualche passo avanti ed ebbe appena il tempo di sparare due colpi prima di essere fermato dagli astanti. Due soli colpi ma entrambi mortali. Il primo colpì Sophie all'addome, il secondo penetrò nel collo dell'arciduca vicino alla giugulare. Non appena si sentì afferrare Princíp, non riuscendo a spararsi una pallottola in testa come poi ammise era sua intenzione, portò la fiala di cianuro alla bocca ma il colpo di manganello alla nuca da parte di un gendarme la fece schizzare fuori. Malmenato e quasi linciato dalla folla, fu poi trascinato via dai poliziotti.
Nel frattempo, comprensibilmente, si era scatenato un vero pandemonio. Sophie era reclinata in grembo all'arciduca che rimaneva eretto con gli occhi sbarrati ed un filo di sangue sul mento. Potiorek, sconvolto per la nuova sciagura, ordinò all'autista di guidare a tutta velocità verso la sua abitazione. Questi riuscì a districarsi tra le altre auto e la folla e proseguire senza indugio.
Edward Taylor, nel suo libro “La caduta delle dinastie”, descrive così, con una certa vena di romanticismo, quegli ultimi istanti. “Fin a questo momento il dramma dell'attentato era sembrato più burla che tragedia. Aveva tutta la meschinità e confusione di una corrida di terz’ordine. Ma una buona educazione aiuta a ripulire molte sordide situazioni e il vero amore è capace di redimere quasi ogni squallore. Franz Ferdinand e Sophie avevano vissuto le loro vite tra gli orpelli sbiaditi di una delle epoche più pacchiane della storia ma nella morte trovarono la dignità della tragedia. ‘Sophie, Sophie, non morire, vivi per i nostri figli’ mormorò l'arciduca, cercando di sollevarne il corpo inconscio mentre l'auto correva verso il palazzo del governatore. Poi, alla domanda del conte von Harrach, rispose ‘Non è nulla’. Sei altre volte, con voce sempre più flebile, ripeté ‘Non è nulla’. E così fu.”
Il dramma, a questo punto, si era compiuto. Nonostante il pronto intervento dei medici militari, nulla poté esser fatto per salvare le vittime. Nel momento in cui gli orologi di tutta Sarajevo battevano le 11:30 del mattino, Franz Ferdinand von Hausburg e Sophie Chotek von Hohenberg erano entrambi deceduti. Gli assassini e i complici saranno quasi tutti arrestati. Tre di loro saranno giustiziati, altri moriranno in carcere durante la guerra.
Il resto, come si dice, è Storia e tutti sappiamo com'è andata. Dopo un mese di tentativi diplomatici inetti e in alcuni casi insinceri, il rigetto dell'umiliante ultimatum dell'impero austroungarico da parte della Serbia e il conseguente bombardamento d'artiglieria su Belgrado iniziarono la catena delle mobilitazioni generali nei paesi dei due schieramenti. Ogni governo giurava che la sua mobilitazione era puramente difensiva ed avrebbe considerato un casus belli se l'altro avesse mobilitato. Inevitabilmente, dopo pochi giorni le dichiarazioni di guerra iniziarono a rimbalzare tra le cancellerie e le ambasciate delle maggiori capitali europee. Il 4 Agosto, dopo l'invasione del neutrale Belgio da parte delle truppe tedesche, la Gran Bretagna, ultima tra le grandi potenze, entrava nel conflitto.
E poi. Quattro anni e mezzo più tardi, quasi 10 milioni di militari e altrettanti civili saranno morti, le Fiandre e la Francia del nord-ovest ridotti ad un deserto di crateri, fossati e alberi mozzi, gli Stati Uniti intervenuti militarmente per la prima volta in Europa, i quattro imperi su cui si basava l'ordine mondiale (Tedesco, Austro-ungarico, Russo e Ottomano) scomparsi, una mezza dozzina di nazioni liberate dal giogo straniero solo per finire ben presto in mano a dittature locali e regimi militari d’ogni genere, milioni di persone di varie etnie costrette dagli illogici e arbitrari confini stabiliti a Versailles a diventare minoranze in paesi a cui non sentivano appartenenza, la Russia rivoluzionaria, assalita da ogni parte dagli ex belligeranti che volevano rimettere in piedi lo zarismo, che inizierà ben presto a creare la sua versione di dittatura e la Germania, umiliata, costretta a dichiararsi l'unica responsabile per la guerra e oberata da impossibili riparazioni da pagare, che già si ritroverà gravida di quel senso d’ingiustizia e voglia di rivalsa che porteranno al nazismo e al successivo conflitto mondiale. Come ha detto qualcuno, si è trattato in fondo di un’unica partita mondiale, con vent’anni d’intervallo tra il primo e il secondo tempo.
Quando si cerca di ricollegare tutto questo, e quel che ne è seguito, a quei due solitari colpi di pistola in una stradina secondaria della capitale fasulla di una provincia fasulla, sparati da un anonimo studente contro la coppia erede di un anacronistico e morente impero, la mente vacilla per l'inerente impossibilità di effettuare la connessione. Sembra quasi il cosiddetto “butterfly effect”, quando il battito delle ali di una farfalla, iniziando una lunga serie di concatenazioni, effetti e controeffetti, può teoricamente risultare in un uragano.
Si potrà certo opporre che la situazione di un'Europa divisa tra due campi sempre più ostili, sarebbe prima o poi sfociata in una guerra. Questo era in un certo senso inevitabile, anche per l'incredibile dilettantismo e cinismo della diplomazia segreta dell'epoca. Dato il continuo riarmo cui tutti gli stati partecipavano, le reciproche, ma mai esattamente uguali, paure e insicurezze avrebbero prima o poi generato un incidente fatale e decisivo.
È però importante ricordare che nella Storia il tempo non è mai un fattore secondario o irrilevante. La situazione di oggi non è mai esattamente quella di ieri né quella di domani. Se l'arciduca fosse scampato alle armi degli assassini, data la sua inflessibile volontà di evitare lo scontro con la Serbia per non pregiudicare i suoi piani, la guerra sarebbe stata probabilmente scongiurata, almeno quell'estate. Fosse poi riuscito a diventare imperatore e mettere in atto la sua riforma dello stato, la questione balcanica sarebbe diventata molto meno pressante. Inoltre la rivoluzione russa, dovuta alle gravissime perdite ed allo stato miserevole della popolazione affamata a causa della guerra, poteva non avvenire oppure avere un corso differente, senza intervento occidentale e guerra civile. È impossibile prevedere in che senso la guerra, quando fosse venuta, sarebbe andata ma sicuramente avrebbe trovato una situazione molto diversa. Ma l'attentato, contro tutte le logiche e probabilità, andò a buon fine, e fra tutti i corsi possibili, la Storia prese quello che prese.
Dal 19° secolo in poi la storiografia ha oscillato tra due dottrine opposte. Quella “eroica”, che vede nelle grandi personalità e le loro gesta il motore della Storia, spesso sfociata poi nella teoria del superuomo di nefaste conseguenze; e quella “materialistica”, che considera i rapporti sociali, le leggi economiche e il livello della tecnologia come il substrato che condiziona l'operato degli umani, trasformata da Stalin in poi in uno sterile meccanicismo che pretende di diventare una scienza esatta. I fatti che ho cercato di descrivere ci fanno però riflettere anche su quella che gli inglesi definiscono “the law of unintended consequences”, quando l’azione di una rotellina secondaria mette in moto meccanismi che nessuno riesce poi a controllare e fa conflagrare una situazione già gravida di pericoli ma che si riteneva possibile da circoscrivere e localizzare e invece ora sfugge di mano.
Ed anche, ultima riflessione, il ruolo che nelle nostre vite assumono a volte queste rare ma pur reali situazioni quando, come in un incubo, tutto sembra congiurare per portare al disastro, quando con cieca inesorabilità ogni variabile assume proprio e soltanto il valore più pericoloso e meno desiderabile, quando il calcolo delle probabilità perde la sua logica e proprio le congiunture meno probabili sono quelle che puntualmente si avverano.
Come a Sarajevo, il mattino del 28 Giugno 1914, la miglior dimostrazione della Legge di Murphy: “Se qualcosa può andar storto, lo farà nei modi e nelle circostanze in cui potrà provocare il maggior danno possibile”.