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L'attentato di Sarajevo.

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    Il garfagnin fuggiasco
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    00 18/07/2020 00:30
    Cronaca dell'evento che diede inizio al conflitto.

    Cari amici del forum,

    Avevo accennato in precedenza, in questa cartella, alle incredibili e improbabili circostanze dell'attentato di Sarajevo e l'assassinio dell'arciduca Franz Ferdinand dal quale sprizzò la scintila che incendiò l'Europa in quella calda estate del 1914. Visto che il professor Barbero, certo per motivi di spazio, vi aveva appena accennato, mi ero riproposto di farlo io, con le modeste conoscenze e possibilità a mia disposizione. Il testo era pronto quando Giggirriva iniziò la lunga, interessante e nostalgica cartella sui mondiali di calcio del 1990. Comprensibilmente, non volli disturbare il piacere di tutti di leggersi le varie puntate (il calcio appassiona sempre) e soprassedetti.
    Adesso, terminata quella discussione, mi sono deciso ad aprire questa. Ma dovrò prima fare delle precisazioni.
    In primis, il testo è lungo, giusta la complessa e confusa natura degli eventi e inoltre la mia incapacità d'esser coinciso, virtù che sempre mi sfuggì. Si tratta di almeno una decina di pagine che manderò a puntate, ma certo non è un testo breve e qualcuno lo troverà forse un tantino indigesto.
    Secondariamente, si tratta di uno di quegli scritti che mal si prestano a discussioni dato che è semplicemente un registro di fatti, al massimo con qualche considerazione di carattere generale. Insomma, di quelli che uno legge, dice "Bene, grazie!" e poi tira innanzi. Ma tale è la natura di queste cose.
    Alla fin fine il motivo per cui l'ho scritto è che spesso ho voglia di scrivere, sic et simpliciter. È il forum è uno di quei posti che mi concede questo vezzo. È dunque non vogliatemene e divertitevi, se potete.


    Il Garfagnin Fuggiasco
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    Il garfagnin fuggiasco
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    00 18/07/2020 00:34
    L'attentato di Sarajevo, prima parte.


    Sarajevo, Bosnia austro-ungarica, 28 Giugno 1914, 11.10 del mattino. Un corteo di sei automobili scoperte percorre a velocità sostenuta il boulevard dell'Appel Quay, lungo il fiume Miljacka, tra due file di folla. Sta ripercorrendo a ritroso l'itinerario di un'ora prima, quando il corteo ha portato al municipio di Sarajevo l'erede al trono austroungarico, arciduca Franz Ferdinand von Habsburg e sua moglie, duchessa Sophie Chotek von Hohenberg, dopo l'ispezione alle manovre dell'esercito lungo il confine serbo. Sul predellino della terza automobile, dove siede la coppia assieme al governatore militare della Bosnia, Maresciallo Oskar Potiorek, sta in piedi il tenente colonnello e aide-de-champ del governatore, conte Franz von Harrach, voltando le spalle ai passeggeri e tenendosi con le mani alla portiera. È il predellino di sinistra, che guarda verso il fiume. Val la pena di ricordarselo perché non è un dettaglio da poco.

    Il conte von Harrach si trova in quella inusuale posizione perché durante il tragitto d'andata qualcuno, proprio dalla parte del fiume, aveva lanciato una bomba che era rimbalzata sul retro della limousine decappottabile della coppia dei reali ed era esplosa davanti alla quarta macchina, ferendo il tenente Erich von Merizzi, un altro aiutante di Potiorek. Adesso, mentre il corteo rifà l'itinerario al contrario per uscire da Sarajevo, il conte von Harrach fa scudo al granduca nel caso sulla riva del fiume vi siano altri assassini. Vi sono, ma da un'altra parte. La Storia si manifesta anche così.

    Chiunque abbia avuto occasione di leggersi i dettagli dell'attentato di Sarajevo non avrà potuto non provare un moto di stupore e quasi di rigetto all'idea che le cose siano davvero andate come andarono. La convoluta concatenazione degli eventi, le circostanze inverosimili, gli imprevisti e i contro imprevisti che poi si elidono, o si rafforzano a vicenda, il senso di assurda, impossibile ineluttabilità sono tali che, se si trattasse di una novella, chiunque la boccerebbe ritenendola troppo calcolata a tavolino, uno di quelli escamotage fatti apposta per generare finali a sorpresa. Non vi credetti nemmeno io, pensando fossero abbellimenti dell'autore. Ma le fonti non mentono e concordano tutte sui fatti principali. Quelli che cercherò, con molta difficoltà, di descrivere.

    Varrà la pena di spendere qualche riga per spiegare perché l'erede al trono degli Asburgo si trovasse a Sarajevo quel giorno, visto che se non ci fosse andato la Storia si sarebbe forse svolta diversamente. La Bosnia era stata un protettorato austriaco fin dal 1877, quando diverse popolazioni balcaniche avevano espulso gli ottomani. La Serbia aveva ottenuto l'indipendenza ma il suo sogno di riunire tutte le ex provincie ottomane in una confederazione degli slavi del sud (Jugoslavia), pur sostenuto dall'alleata Russia, era stato proibito dagli Asburgo che non tolleravano la creazione di uno stato unitario ai loro confini che potesse stimolare moti indipendentisti delle sue minoranze. Di qui il protettorato. Nel 1908 poi, in un momento storicamente favorevole, l'impero asburgico decise semplicemente di annettere la Bosnia-Erzegovina come provincia. La Russia zarista, indebolita dalla sconfitta nella guerra col Giappone del 1904 e poi dalla tentata rivoluzione del 1905, non era stata in grado di opporsi e dovette accettare il fatto compiuto.

    Questo evento aveva infuriato i nazionalisti serbi che vedevano il loro sogno definitivamente frustrato. Da quel momento diversi gruppi serbi, ufficialmente privati cittadini ma con potenti agganci nell'establishment, presero a sostenere in tutti i modi le tendenze indipendentiste dei bosniaci con propaganda, armi, denaro e personale. Negli ambienti militari e nei servizi segreti serbi sorsero varie organizzazioni più o meno segrete tendenti a questi scopi, indipendenti dal governo che ostentava ignoranza assoluta ma tacitamente le tollerava. Anche l'ambasciata russa aiutava finanziariamente questi gruppi, dato che la politica degli zar era sempre sospettosa nei confronti del grande vicino centroeuropeo ed un impero asburgico impegnato a sud contro l'espansionismo serbo sarebbe certamente stato meno aggressivo ad est.

    La più pericolosa di queste organizzazioni segrete, e anche quella più fanatica, era “Unione o morte!”, meglio conosciuta come la Mano Nera, il cui fine era appunto la creazione della Jugoslavia. A questo scopo essi attribuivano alla Serbia la stessa funzione di catalizzatore avuta dal Piemonte nella nascita dello stato italiano e infatti la loro rivista si chiamava Pijemont ed i suoi membri si paragonavano ai carbonari, dei quali scopiazzavano a volontà riti, procedure e giuramenti. Il logo del gruppo rappresentava la bandiera dei pirati fiancheggiata da un pugnale, una bomba e un flacone di veleno, più chiaro di così! Ma nonostante queste buffonate da operetta, e a differenza di altri gruppetti consimili dalla molta retorica e poco costrutto, la Mano Nera era una cosa tragicamente seria, soprattutto per la sua infiltrazione tra i militari. Il capo era addirittura il colonnello Dragutin Dimitrijević, detto Apis, il responsabile del servizio segreto dell'esercito serbo, che usava l'importante ruolo per perseguire la sua politica estera, tendente ad inasprire al massimo le frizioni con gli Asburgo contando sulla protezione della Russia, alleata anche con la Francia, che non avrebbe permesso lo schiacciamento della sua alleata nei Balcani. Per i congiurati, l'impero austroungarico era ormai in disfacimento e l'irredentismo delle sue minoranze slave lo avrebbe pian piano disintegrato. Per sollecitare questo, il terrorismo era considerato il metodo più efficace. Quando seppe che Franz Ferdinand, considerato in quei circoli come “il peggior nemico degli slavi”, avrebbe visitato la Bosnia, Apis reclutò alcuni giovani serbo-bosniaci e, dopo un addestramento sommario e un martellante corso di patriottismo, li spedì a Sarajevo dove avrebbero trovato altri congiurati nonché armi e fiale di cianuro. Chi avesse compiuto l'attentato avrebbe poi dovuto suicidarsi cosicché nessuno potesse risalire fino ai mandanti.

    Franz Ferdinand era in effetti il peggior nemico dei nazionalisti serbi. Lo era proprio perché era il miglior amico degli slavi nell'impero. Da quando era diventato l'erede al trono dell'impero austroungarico in seguito al suicidio del figlio di Franz Joseph, Rudolf (Mayerling, 1889) l'arciduca aspettava con impazienza di succedere al vecchio imperatore per realizzare la sua riforma dello stato. Per quanto molto ortodosso e pignolo riguardo alle prerogative e poteri della corona, Franz Ferdinand era in realtà assai pragmatico e moderno nella sua visione dello stato. Capiva perfettamente che la struttura dell'impero, basata sulla supremazia delle due principali nazioni, austriaca e ungherese, ognuna a sua volta dominante su varie etnie che avevano limitati diritti politici (gli austriaci su italiani, sloveni, cechi, ruteni, polacchi; gli ungheresi su slovacchi, rumeni, serbo-croati, altri ruteni), non avrebbe potuto reggere nel secolo dei rinascenti nazionalismi. La sua prima idea era stata quella di trasformare l'impero da duplice a triplice monarchia con la creazione di un terzo polo composto dalle minoranze slave. In seguito, resosi conto della limitatezza di questa sua concezione, si era avviato verso una forma di stati uniti centroeuropei, ognuno con la sua assemblea nazionale, sotto un'unica corona e un parlamento imperiale.

    Difficile dire se questo progetto, di per sé futuristico, avrebbe potuto essere attuato, soprattutto tenendo conto del feroce imperialismo ungherese che pareva eccessivo persino agli austriaci, ma certamente questa sua visione rappresentava un incubo per i fanatici della “Grande Serbia”. Una volta garantite libertà civili, diritti politici e piena cittadinanza, è molto dubbio che le popolazioni slave del prospero, potente e rispettato impero asburgico avrebbero lottato per uscirne ed unirsi ad uno staterello instabile, arretrato e non meno imperialista come la Serbia. Le riforme dell'arciduca rischiavano dunque di spuntare l’arma dell'irredentismo slavo.

    L'altro motivo che rendeva Franz Ferdinand inviso ai congiurati era il fatto che l'arciduca si opponeva con tutti i mezzi alla guerra alla Serbia che molti generali austroungarici vedevano come unico modo di eliminare il focolaio pan-slavista ai confini. Vi si opponeva perché conscio che tale guerra, anche se vinta, avrebbe aggravato e aumentato quelle tendenze secessionistiche degli slavi dell'impero che egli voleva invece ridurre e magari eliminare integrando tali minoranze, facendone cittadini a pieno titolo.

    L'assassinio di Franz Ferdinand avrebbe quindi portato due vantaggi ai congiurati: eliminare un moderato che poteva fare dell'impero un posto attraente per le minoranze slave e, inoltre, provocare un conflitto in cui tale impero sarebbe crollato contro le forze dell'intesa e lasciato il posto alla nascita di una Jugoslavia diretta dalla Serbia.


    [Modificato da Il garfagnin fuggiasco 18/07/2020 00:38]
    Il Garfagnin Fuggiasco
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    00 18/07/2020 13:16
    Ottimo approfondimento GF
    sta diventando una cartella molto dettagliata ed accurata.
    Aspetto la continuazione. [SM=x875377]
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    00 18/07/2020 13:21
    Re: L'attentato di Sarajevo, prima parte.
    Il garfagnin fuggiasco, 2020/07/18 0:34:



    ......... uno staterello instabile, arretrato e non meno imperialista come la Serbia. ....



    e 75 anni dopo croati e bosniaci faranno una guerra per liberarsi del nazionalismo serbo....chi di guerra ferisce....

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    Il garfagnin fuggiasco
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    00 18/07/2020 14:56
    L'attentato di Sarajevo, seconda parte.


    Perché dunque Franz Ferdinand, ben sapendo di essere nel mirino degli estremisti serbi, abbia voluto a tutti i costi presiedere all’ispezione delle manovre dell'esercito imperiale al confine serbo, può sembrare un mistero. In realtà è facilmente spiegabile conoscendo la sua posizione personale nella dinastia e le oscure e medievali regole di quest'ultima. Conoscerle ci fa capire la mentalità dell'epoca. E i fatti che seguirono.

    Quattordici anni prima, in quello stesso 28 Giugno, l'arciduca aveva sposato la contessa Sophie Chotek, figlia di una relativamente oscura famiglia della nobiltà minore ceca e dama di corte della sua cugina, arciduchessa Isabella. Quello che si dice un matrimonio morganatico, tra livelli di nobiltà diversi. Dal punto di vista dello strettissimo codice della dinastia asburgica sarebbe stata la stessa cosa se avesse sposato una domestica. Il vecchio imperatore, fanaticamente attaccato alle tradizioni del passato, cercò in tutti i modi di dissuadere il nipote da tale follia ma Franz Ferdinand, gli va dato credito, fu ancora più testardo. O sposava Sophie o sarebbe rimasto scapolo, cosa ancor più impensabile per un futuro imperatore. Alla fine, tra le due teste dure, la vecchia aveva ceduto alla giovane. Ma se l’imperatore si era ammorbidito, nemmeno lui poteva evitare la vendetta della suprema legge della casata von Hausburg, che non ammetteva al trono chi non avesse i richiesti sedici quarti di nobiltà. Franz Ferdinand fu costretto davanti al consiglio della corona a firmare un documento in cui rinunciava a tutti i diritti per i suoi discendenti.

    Né le vessazioni era finite. Per tutto il resto della vita, Sophie dovette sopportare le innumerevoli, sottili indegnità del protocollo di corte. I nemici dell'arciduca (ne aveva moltissimi, sia tra i conservatori austriaci che tra i boiardi magiari), usavano ogni cavillo per umiliare Sophie e, tramite lei, l'erede al trono. Non le era nemmeno permesso di entrare a corte col marito, ma solo al termine di una infinita processione di arciduchi, arciduchesse, principi e invitati, e comunque solo un quarto dei grandi portali si dovevano aprire al suo cospetto! L'arciduca, uomo sanguigno, privo di pazienza e diplomazia, tratteneva a stento la sua furia. Col tempo, evitò in tutti i modi di apparire a palazzo, creandosi una sua corte alternativa al castello Belvedere sulle colline di Vienna, invitando tutti gli scontenti della dinastia, specialmente slavi, facendo ben capire ai suoi nemici che, una volta che fosse diventato imperatore, avrebbero fatto meglio a far fagotto e pure di fretta.

    Per inverosimile che oggi possa sembrare, questo anacronistico imbroglio protocollare ebbe invero una sua parte nella tragedia che presto avrebbe travolto il mondo della Belle Époque, della Edwardian Age e dell'Austria Felix. Fu infatti per vendicarsi dei suoi nemici e dare a Sophie una soddisfazione che Franz Ferdinand ideò una specie di protokoll-putch. Lui, che nel 1913 era stato nominato Ispettore Generale delle forze armate, avrebbe visionata le manovre al confine serbo-bosniaco e si sarebbe fatto accompagnare dalla consorte, cosa non vietata dalle regole militari. Naturalmente, nella sua qualità di supremo ispettore, avrebbe dovuto essere accolto in pompa magna ed essendo anche l'erede al trono, ovviamente trattato in maniera regale. Sophie avrebbe finalmente avuto un assaggio di quella grandeur che gli era negata alla corte di Vienna.

    Può un uomo andare incontro alla propria morte per fare un regalo gradito ad una consorte umiliata? Va detto che l'arciduca non era molto convinto della possibilità di attentati e si aspettava misure di sicurezza eccezionali. Ma la sua determinazione di far accettare e legittimare Sophie di fronte alle popolazioni dell’impero non va sottovalutata. Va anche aggiunto che, a differenza di altri matrimoni dinastici, quello fu sicuramente una scelta libera e, nel complesso, anche felice. Franz Ferdinand e Sophie ebbero tre figli, adoratissimi dai genitori. I visitatori del palazzo Belvedere erano stupefatti dalla naturalezza e mancanza di formalità nella routine familiare, con l'arciduca che giocava coi bimbi seduto sul tappeto. Anni dopo, furono descritti come una tipica coppia borghese di mezz'età, sazi e rilassati, lui rigido e pieno di sé, lei un po' goffa e matronale. Con buona probabilità, si trattava pure di qualcosa di più. C'è motivo di credere che il giorno in cui salirono in auto per quell’ultimo viaggio, fossero ancora una coppia d’innamorati.

    Veniamo adesso alle paradossali circostanze che precedettero l'attentato. È bene dire subito che le autorità imperiali erano da tempo a conoscenza che qualcosa si stava preparando in Bosnia. E l'informazione veniva direttamente dalla Serbia. Il primo ministro serbo, Nikola Pašić, era un nemico acerrimo della Mano Nera, conscio che le continue provocazioni potevano portare a quel conflitto che il suo governo, pur nazionalista e pan-slavista, non aveva intenzione alcuna di scatenare. Cercava quindi in tutti i modi di neutralizzare le mosse dei congiurati, avendo infiltrato almeno uno dei suoi uomini nella Mano Nera. Fu proprio costui ad avvertirlo della partenza degli attentatori per Sarajevo nonché del loro obiettivo. Pašić, inorridito all'idea delle conseguenze nel caso l'erede al trono fosse stato ucciso, cercò di notificare alle autorità austroungariche la possibilità di una attentato ma dovette muoversi con prudenza. Non poteva infatti svelare pubblicamente l'esistenza della Mano Nera. Non solo perché la rivelazione che una simile organizzazione operava con la complicità dell'esercito e della corona avrebbe esposto la Serbia, come stato provocatore e terrorista, a gravissimi contraccolpi internazionali, ma anche perché tale mossa avrebbe sicuramente portato al suo assassinio e possibilmente ad un colpo di stato. Apis, è bene ricordarlo, fu colui che nel 1903 organizzò ed eseguì, assieme ad altri militari coi quali poi formò la Mano Nera, l'assassinio di re Alessandro I e della regina Draga, i cui i corpi furono bestialmente mutilati e gettati su un mucchio di letame nel giardino. Pašić sapeva bene che Apis non si fermava davanti a nulla. Tutta la sua carriera lo dimostrava.

    Cercò quindi di mettere in allarme le autorità viennesi ma in modo criptico, senza rivelare i dettagli e le fonti, attraverso l'ambasciatore serbo. Costui contattò il ministro delle finanze, responsabile dell'amministrazione della provincia bosniaca, ma lo fece purtroppo in termini così vaghi e nebulosi che nessuno comprese appieno la gravità delle sue rivelazioni, anche se la notizia fu in qualche modo passata alle autorità militari e civili. Ma le varie branche dell'impero non si parlavano tra di loro. L'esercito vedeva nelle manovre una questione puramente militare e non accettava interferenze civili. Il governatore Potiorek si era assunto da solo la responsabilità della sicurezza dell'arciduca e non collaborava con la polizia bosniaca. I servizi segreti non furono attivati, almeno non specificamente per quella faccenda. L'imperatore non fu informato. Le autorità civili di Sarajevo minimizzarono per non alimentare sospetti sulla lealtà dei sudditi. E così via.

    Va fatto notare, a questo punto, un tratto particolare dell'impero austroungarico, che lo distingueva sia dall'impero del Kaiser che dalla moderna repubblica austriaca. Il carattere per niente teutonico, anzi, piuttosto latino della sua amministrazione. A differenza della ferrea precisione e puntuale efficienza così tipica dei popoli tedeschi, l'impero austroungarico, gigantesco puzzle di etnie e nazioni, irrimediabilmente diviso dalla reciproca ostilità tra tedeschi e magiari, era amministrato secondo linee assai più simili a quelle prettamente italiane. E non a caso i tedeschi guardavano con malcelato disprezzo a questi loro confusionari ed approssimativi vicini meridionali (ognuno è il meridionale di qualcun altro).

    C'è una parola tedesca, di quelle che sembrano schioccare e rotolare in bocca: Schlamperei (pron. Sh-lamperai). Nel contesto si potrebbe tradurre con noncurante indifferenza, o indifferente noncuranza, come si preferisce. Era il modo in cui una classe dirigente di origine e maniere nobiliari gestiva l'immenso e frastagliato agglomerato di genti, con aristocratica imperturbabilità e nonchalance. Nessuna fretta né alcuna pressione, con un po' di savoir faire tutto si aggiusterà. La lentezza burocratica e le caotiche relazioni tra gli innumerevoli uffici di stato erano da sempre il marchio della duplice monarchia. E se c'era qualcuno che non sopportava questo stato di cose e voleva porvi rimedio, questi era proprio l'arciduca. Questo noioso, pedante, meticoloso e pignolo aristocratico era essenzialmente prussiano di carattere, tanto da essere il terrore dei suoi sottoposti, dato che non gli sfuggiva il minimo difetto. Quando fosse toccato a lui, avrebbe sicuramente riformato l'intero apparato dalle fondamenta sull'esempio di quello prussiano. Il paradosso è che non solo non ne ebbe il tempo, ma ne finì addirittura vittima.


    Il Garfagnin Fuggiasco
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    00 19/07/2020 05:26
    Bravo Fuggiasco!
    Ottimo approfondimento. aspetto con gioia le prossime puntate.
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    Il garfagnin fuggiasco
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    00 19/07/2020 15:55
    L'attentato di Sarajevo, terza parte.


    Nel frattempo i potenziali assassini avevano raggiunto la loro destinazione. Si trattava di tre giovani serbo-bosniaci, Nedjelko Čabrinović, Gavrilo Prinćip e Trifko Grabež. Ad essi si aggiunsero Muhamed Mehmedbašić, Veliko Čubrilović, Cvjetko Popović, tutti appartenenti alla locale organizzazione segreta “Giovane Bosnia” (ancora riferimenti al Risorgimento italiano, come si vede) come pure il veterano Mihajlo Jovanović che fungeva da organizzatore locale. Danilo Ilić, un membro della Mano Nera, doveva poi dirigere l'operazione sul campo. Le armi, ottenute tramite i depositi dell'esercito serbo, arrivarono per canali diversi a Sarajevo.

    Si trattava di materiale umano di pessima consistenza, giovani ardenti ma inesperti, poco adusi alle armi ed alla disciplina, ribelli e instabili. Apis gli scelse proprio perché, comunque fosse andata, il carattere dilettantistico e improvvisato dell'attentato sarebbe risultato evidente ed avrebbe potuto servire per discolpare esercito e servizi segreti serbi, conosciuti per la loro professionalità.
    Vi era certo il rischio che i ferventi patrioti bosniaci si rivelassero incapaci di agire con decisione. Anche questo era stato preso in considerazione come rischio calcolato e per questo si trattava di un gruppo numeroso. Era virtualmente certo, date le circostanze, che diversi anelli della catena di morte avrebbero ceduto ma alquanto probabile che almeno uno, tra tutti, avrebbe retto. Questa probabilità fu quasi interamente azzerata. Una sorta di miracolo statistico doveva accadere proprio alla fine a far sì che non lo fosse del tutto. E se questo avvenne, lo fu per un fattore indipendente e di segno contrario ma che era pur esso una distinta probabilità: proprio quella schlamperei che era la particolare betê noir di Franz Ferdinand.

    Arriviamo dunque al giorno dell'attentato. Ilić posizionò i suoi sei compagni sul lungofiume della Miljacka, tra il ponte Cumurija e il ponte Latino. Tutti avevano una granata, una pistola ed una fiala di cianuro. Ilić stesso faceva spola tra gli uni e gli altri. Il corteo delle sei automobili entrò a Sarajevo alle 10 del mattino, partendo dalla stazione dove l'arciduca, la moglie e il suo seguito erano giunti dopo la conclusione delle manovre. Mehmedbašić, il primo della fila, non trovò la forza di agire. Čubrilović, in seconda posizione, non si mosse, denotando ancor più la debolezza dei supposti assassini, e ancora il corteo passò indenne. Il terzo, Čabrinović, invece, ci provò. Uscì dalla folla, spezzò la spoletta della bomba contro un lampione e la gettò contro l'auto dell'arciduca. La bomba, lanciata in modo inesperto, rimbalzò come detto sul tettuccio arrotolato dalla limousine, cadde a terra ed esplose davanti l'altra vettura ferendo al volto il tenente von Merizzi. Čabrinović, secondo gli ordini, coraggiosamente ingoiò il cianuro e si gettò nel fiume ma nessuna delle due azioni ebbe il successo sperato. Il cianuro non funzionò, come spesso accade se la fiala viene conservata troppo a lungo, e il fiume, in secca per l'estate, arrivava a mala pena alle ginocchia. L'attentatore fu catturato vivo, portato in caserma e pestato a dovere. Ma nonostante avesse tutte le informazioni necessarie alla polizia per arrestare i restanti congiurati, tenne duro quanto bastò.

    Nel frattempo, controllati i danni, il corteo era ripartito. L'auto danneggiata fu spostata sul marciapiede e il tenente trasportato al vicino ospedale militare. Popović, Princíp e Grabež, udita l'esplosione e convinti del successo, non reagirono in tempo quando le auto passarono a velocità più sostenuta davanti a loro e troppo tardi si resero conto del fallimento del tentativo di Čabrinović. Princíp cercò di radunare i suoi per decidere il da farsi ma presto capì che tutti erano fuggiti. Per dar l'idea del dilettantismo di quei terroristi basterà dire che, a parte il più esperto Mehmedbašić che fuggì immediatamente in Serbia, gli altri andarono tranquilli alle loro abitazioni in Sarajevo, nascondendo le armi in vari modi (uno le mise sotto il gabinetto) e furono debitamente arrestati poco dopo. Princíp, solo e disperato per il fallimento dell'impresa, andò a bersi un caffè dopo l'altro allo Schiller Delicatessen, all'angolo tra il lungofiume e la Franz Josef Strasse, opposto al ponte Latino. Si trattava dell'itinerario che l'arciduca doveva fare al ritorno per recarsi in visita ad un museo nel centro cittadino. Lì rimase, ad attendere nel caso il corteo fosse invero tornato.

    In realtà, proprio tutto stava congiurando contro i congiurati. Dopo il ricevimento al municipio e i discorsi di rito, Potiorek decise saggiamente che sarebbe stato troppo rischioso addentrarsi nelle stradine del centro storico e propose di cancellare il resto della visita per tornare diretti alla stazione. L'arciduca acconsentì a condizione di fermarsi prima a visitare il tenente von Merizzi. Qualunque altra cosa fosse, Franz Ferdinand rimase fino all'ultimo un soldato. Un ufficiale ferito per una bomba diretta a lui meritava almeno un riconoscimento! Potiorek non fece obiezioni perché l'ospedale si trovata sulla via della stazione e una sosta alle caserme non avrebbe comportato rischi. Princíp, del quale ancora nessuno sapeva l'esistenza, non si sarebbe nemmeno accorto delle auto che sarebbero passate veloci sul lungofiume e sarebbe rimasto per tutti inesistente.

    Ma a questo punto si arriva agli avvenimenti che rendono invero inconcepibile e difficilmente credibile il resto della storia. In primo luogo il capo della polizia, che pattugliava le strade con pochi gendarmi, molti dei quali erano adesso impegnati nella caccia ai colpevoli, chiese che fossero fatte arrivare delle truppe dalle manovre fuori città per controllare in forze l'intero tragitto e scoraggiare altri tentativi. Potiorek si oppose con veemenza. Perché? Perché le truppe alle manovre non avevano le divise da parata e non era nella dignità dell'esercito imperiale presentarsi in città sporchi di fango e senza lustrini e decorazioni! L'arciduca, pignolo come sempre, fu subito d'accordo. Il risultato fu che la città si trovò ancor meno controllata di prima. Il dilettantismo e lo snobismo dell'amministrazione imperiale sfioravano l'assurdo proprio nel momento tragicamente meno indicato.

    Tutto questo non avrebbe comunque avuto peso se la schlamperei burocratica del fatiscente impero non avesse di nuovo fatto capolino. Infatti, mentre tutti i membri del corteo erano ormai al corrente del nuovo itinerario, nessuno aveva pensato di avvertire gli autisti, o quanto meno quello della prima auto, di proseguire diritto anziché svoltare sulla Franz Josef Strasse come inizialmente stabilito. Per quanto inverosimile possa sembrare, questo è davvero ciò che accadde. Giunto al ponte Latino, l'autista della prima vettura, ligio alle istruzioni originarie, girò a destra ed imboccò proprio quella strada. Gli altri autisti, naturalmente, lo seguirono nella stretta via, all'angolo della quale aspettava l'ultimo assassino, appena appena uscito dal caffè al rumoreggiare del pubblico che salutava il ritorno del corteo.

    Eppure (e qui il calcolo delle probabilità entra in tilt) neanche questo nuovo scherzo del fato sarebbe probabilmente stato sufficiente a far riuscire la congiura. Se le auto avessero semplicemente proseguito a velocità elevata come ordinato, è molto dubbio che Princíp, che in vita sua aveva sparato pochi colpi d’addestramento in un parco di notte, sarebbe riuscito a colpire un bersaglio mobile stando in mezzo alla folla, senza tempo di mirare, usando un'arma potente come la sua Browning semiautomatica modello 1910 calibro 9mm. È una brutta bestia e va saputa usare. Probabilmente sarebbe finita con qualche vittima accidentale tra la folla. Ma a questo punto intervenne Potiorek. Resosi conto dell'errore, usando le mani come megafono, urlò allo chauffeur: “Non da quella parte, sciocco! Torna sul lungofiume!” Sorpreso ma obbediente, l'autista fermò il mezzo e cominciò a lavorare sul volante per compiere la manovra. Dato che la prima auto si fermò, tutte le altre dovettero pure fermarsi. E l’auto dove sedevano l'arciduca e Sophie si arrestò, puntualmente e inevitabilmente, proprio davanti allo Schiller Delicatessen, in linea retta con un giovanotto mingherlino che, in mezzo alla folla, stava portando la mano all'interno della giacca.




    Il Garfagnin Fuggiasco
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    Walter Matthau
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    00 20/07/2020 10:41
    Dimmi che stai scherzando
    non ci posso crederei, lo leggessi in un romanzo lo butterei nella spazzatura.
    Non avesse causato la prima guerra mondiale ci sarebbe da ridere. Sembra una comica di Charlot
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    00 20/07/2020 17:22
    Re: Dimmi che stai scherzando
    Walter Matthau, 20/07/2020 10:41:

    non ci posso crederei, lo leggessi in un romanzo lo butterei nella spazzatura.
    Non avesse causato la prima guerra mondiale ci sarebbe da ridere. Sembra una comica di Charlot




    Come diceva Sherlock Holmes: "There is only one step from the grotesque to the horrible".


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    george roper
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    00 20/07/2020 17:51
    Assurdo
    e pensare che inetti simili gestivano un impero di decine di milioni di persone
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    00 20/07/2020 21:51
    Re: Assurdo
    george roper, 20/07/2020 17:51:

    e pensare che inetti simili gestivano un impero di decine di milioni di persone




    Vabbè, non che gli altri fossero molto meglio all'epoca. Lo fossero stati, il conflitto non sarebbe scoppiato così facilmente per un episodio.



    [Modificato da Il garfagnin fuggiasco 20/07/2020 21:52]
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    00 20/07/2020 22:24
    L'attentato di Sarajevo, quarta e ultima parte.


    All'inizio avevo fatto cenno ad un particolare apparentemente banale. Il conte von Harrach, in piedi per controllare la folla, si trovava sul predellino sinistro, fronteggiando la folla sul lato del fiume, da dove Čabrinović aveva lanciato la bomba. In quella posizione, però, si trovava adesso a voltare le spalle a Princíp, che stava sul marciapiede a destra, senza poter intervenire. Così, l'estremo tassello dell'impossibile puzzle era andato a posto. Ormai non c'era assolutamente niente tra Princíp e le vittime, inopinatamente ferme in mezzo alla strada, eccetto qualche metro di rilucente aria estiva. L'ostinata e feroce determinazione dell'ultimo uomo rimasto in piedi aveva infine pagato, regalando la più insperata e favorevole delle occasioni. Princíp, scartata l'idea della bomba (visto come era andata in precedenza), estrasse la pistola, fece qualche passo avanti ed ebbe appena il tempo di sparare due colpi prima di essere fermato dagli astanti. Due soli colpi ma entrambi mortali. Il primo colpì Sophie all'addome, il secondo penetrò nel collo dell'arciduca vicino alla giugulare. Non appena si sentì afferrare Princíp, non riuscendo a spararsi una pallottola in testa come poi ammise era sua intenzione, portò la fiala di cianuro alla bocca ma il colpo di manganello alla nuca da parte di un gendarme la fece schizzare fuori. Malmenato e quasi linciato dalla folla, fu poi trascinato via dai poliziotti.

    Nel frattempo, comprensibilmente, si era scatenato un vero pandemonio. Sophie era reclinata in grembo all'arciduca che rimaneva eretto con gli occhi sbarrati ed un filo di sangue sul mento. Potiorek, sconvolto per la nuova sciagura, ordinò all'autista di guidare a tutta velocità verso la sua abitazione. Questi riuscì a districarsi tra le altre auto e la folla e proseguire senza indugio.

    Edward Taylor, nel suo libro “La caduta delle dinastie”, descrive così, con una certa vena di romanticismo, quegli ultimi istanti. “Fin a questo momento il dramma dell'attentato era sembrato più burla che tragedia. Aveva tutta la meschinità e confusione di una corrida di terz’ordine. Ma una buona educazione aiuta a ripulire molte sordide situazioni e il vero amore è capace di redimere quasi ogni squallore. Franz Ferdinand e Sophie avevano vissuto le loro vite tra gli orpelli sbiaditi di una delle epoche più pacchiane della storia ma nella morte trovarono la dignità della tragedia. ‘Sophie, Sophie, non morire, vivi per i nostri figli’ mormorò l'arciduca, cercando di sollevarne il corpo inconscio mentre l'auto correva verso il palazzo del governatore. Poi, alla domanda del conte von Harrach, rispose ‘Non è nulla’. Sei altre volte, con voce sempre più flebile, ripeté ‘Non è nulla’. E così fu.”

    Il dramma, a questo punto, si era compiuto. Nonostante il pronto intervento dei medici militari, nulla poté esser fatto per salvare le vittime. Nel momento in cui gli orologi di tutta Sarajevo battevano le 11:30 del mattino, Franz Ferdinand von Hausburg e Sophie Chotek von Hohenberg erano entrambi deceduti. Gli assassini e i complici saranno quasi tutti arrestati. Tre di loro saranno giustiziati, altri moriranno in carcere durante la guerra.

    Il resto, come si dice, è Storia e tutti sappiamo com'è andata. Dopo un mese di tentativi diplomatici inetti e in alcuni casi insinceri, il rigetto dell'umiliante ultimatum dell'impero austroungarico da parte della Serbia e il conseguente bombardamento d'artiglieria su Belgrado iniziarono la catena delle mobilitazioni generali nei paesi dei due schieramenti. Ogni governo giurava che la sua mobilitazione era puramente difensiva ed avrebbe considerato un casus belli se l'altro avesse mobilitato. Inevitabilmente, dopo pochi giorni le dichiarazioni di guerra iniziarono a rimbalzare tra le cancellerie e le ambasciate delle maggiori capitali europee. Il 4 Agosto, dopo l'invasione del neutrale Belgio da parte delle truppe tedesche, la Gran Bretagna, ultima tra le grandi potenze, entrava nel conflitto.

    E poi. Quattro anni e mezzo più tardi, quasi 10 milioni di militari e altrettanti civili saranno morti, le Fiandre e la Francia del nord-ovest ridotti ad un deserto di crateri, fossati e alberi mozzi, gli Stati Uniti intervenuti militarmente per la prima volta in Europa, i quattro imperi su cui si basava l'ordine mondiale (Tedesco, Austro-ungarico, Russo e Ottomano) scomparsi, una mezza dozzina di nazioni liberate dal giogo straniero solo per finire ben presto in mano a dittature locali e regimi militari d’ogni genere, milioni di persone di varie etnie costrette dagli illogici e arbitrari confini stabiliti a Versailles a diventare minoranze in paesi a cui non sentivano appartenenza, la Russia rivoluzionaria, assalita da ogni parte dagli ex belligeranti che volevano rimettere in piedi lo zarismo, che inizierà ben presto a creare la sua versione di dittatura e la Germania, umiliata, costretta a dichiararsi l'unica responsabile per la guerra e oberata da impossibili riparazioni da pagare, che già si ritroverà gravida di quel senso d’ingiustizia e voglia di rivalsa che porteranno al nazismo e al successivo conflitto mondiale. Come ha detto qualcuno, si è trattato in fondo di un’unica partita mondiale, con vent’anni d’intervallo tra il primo e il secondo tempo.

    Quando si cerca di ricollegare tutto questo, e quel che ne è seguito, a quei due solitari colpi di pistola in una stradina secondaria della capitale fasulla di una provincia fasulla, sparati da un anonimo studente contro la coppia erede di un anacronistico e morente impero, la mente vacilla per l'inerente impossibilità di effettuare la connessione. Sembra quasi il cosiddetto “butterfly effect”, quando il battito delle ali di una farfalla, iniziando una lunga serie di concatenazioni, effetti e controeffetti, può teoricamente risultare in un uragano.

    Si potrà certo opporre che la situazione di un'Europa divisa tra due campi sempre più ostili, sarebbe prima o poi sfociata in una guerra. Questo era in un certo senso inevitabile, anche per l'incredibile dilettantismo e cinismo della diplomazia segreta dell'epoca. Dato il continuo riarmo cui tutti gli stati partecipavano, le reciproche, ma mai esattamente uguali, paure e insicurezze avrebbero prima o poi generato un incidente fatale e decisivo.

    È però importante ricordare che nella Storia il tempo non è mai un fattore secondario o irrilevante. La situazione di oggi non è mai esattamente quella di ieri né quella di domani. Se l'arciduca fosse scampato alle armi degli assassini, data la sua inflessibile volontà di evitare lo scontro con la Serbia per non pregiudicare i suoi piani, la guerra sarebbe stata probabilmente scongiurata, almeno quell'estate. Fosse poi riuscito a diventare imperatore e mettere in atto la sua riforma dello stato, la questione balcanica sarebbe diventata molto meno pressante. Inoltre la rivoluzione russa, dovuta alle gravissime perdite ed allo stato miserevole della popolazione affamata a causa della guerra, poteva non avvenire oppure avere un corso differente, senza intervento occidentale e guerra civile. È impossibile prevedere in che senso la guerra, quando fosse venuta, sarebbe andata ma sicuramente avrebbe trovato una situazione molto diversa. Ma l'attentato, contro tutte le logiche e probabilità, andò a buon fine, e fra tutti i corsi possibili, la Storia prese quello che prese.

    Dal 19° secolo in poi la storiografia ha oscillato tra due dottrine opposte. Quella “eroica”, che vede nelle grandi personalità e le loro gesta il motore della Storia, spesso sfociata poi nella teoria del superuomo di nefaste conseguenze; e quella “materialistica”, che considera i rapporti sociali, le leggi economiche e il livello della tecnologia come il substrato che condiziona l'operato degli umani, trasformata da Stalin in poi in uno sterile meccanicismo che pretende di diventare una scienza esatta. I fatti che ho cercato di descrivere ci fanno però riflettere anche su quella che gli inglesi definiscono “the law of unintended consequences”, quando l’azione di una rotellina secondaria mette in moto meccanismi che nessuno riesce poi a controllare e fa conflagrare una situazione già gravida di pericoli ma che si riteneva possibile da circoscrivere e localizzare e invece ora sfugge di mano.

    Ed anche, ultima riflessione, il ruolo che nelle nostre vite assumono a volte queste rare ma pur reali situazioni quando, come in un incubo, tutto sembra congiurare per portare al disastro, quando con cieca inesorabilità ogni variabile assume proprio e soltanto il valore più pericoloso e meno desiderabile, quando il calcolo delle probabilità perde la sua logica e proprio le congiunture meno probabili sono quelle che puntualmente si avverano.

    Come a Sarajevo, il mattino del 28 Giugno 1914, la miglior dimostrazione della Legge di Murphy: “Se qualcosa può andar storto, lo farà nei modi e nelle circostanze in cui potrà provocare il maggior danno possibile”.


    Il Garfagnin Fuggiasco
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    george roper
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    00 21/07/2020 18:45
    Re: Re: Assurdo
    Il garfagnin fuggiasco, 2020/07/20 21:51:




    Vabbè, non che gli altri fossero molto meglio all'epoca. Lo fossero stati, il conflitto non sarebbe scoppiato così facilmente per un episodio.






    No Certo. Il mio commento si riferiva a tutti gli imperi diventati anacronistici e infatti spazzati via dalla storia e, purtroppo, da una guerra mondiale