00 20/02/2014 21:01

INTERVISTE A CRONENBERG:
IL MALE & LA MORTE



Nel passato hai detto di essere afflitto dalla maledizione dell'equilibrio.
Cronenberg:
Forse è ciò che la gente intende quando dicono che i miei film sono conservatori. Nel senso che gli attori vorrebbero sempre interpretare un cattivo perché permette loro di esprimere la follia ossessiva che, nonostante la sua pericolosità, è ancora piuttosto ammirata nella nostra cultura.

Al cinema il male è più interessante del bene.
Ma non intendo proprio il male. Il male è tutta un'altra cosa. Nel momento in cui dici male, io penso al Cristianesimo. Non sprecherei quella parola, e forse non è neppure qualcosa in cui credo. Ma diciamo il male cinematografico, okay. Sì, è più interessante. Perché illumina le cose, in parte, e dall'altra parte perché è catartico. Un cattivo è, in modo bizzarro e tortuoso, sempre una figura tipo Cristo. Sai che finirà per morire, e morirà per i tuoi peccati, la tua rabbia, la tua pazzia; lo farà per te in modo che tu non debba farlo.

Ma i tuoi film non ci danno un male facile. Ci presentano sempre entrambi i lati di ciascuna situazione. E finiscono quasi per paralizzare un'analisi...
Sono sicuro che si tratta di qualcosa di canadese, questo equilibrio. Fino a un certo punto è una virtù, oltre è una nevrosi. Conosco delle persone che sono talmente auto-ossessionate, auto-analitiche e auto-critiche che potrebbero sedersi in una stanza a parlare con se stesse per anni e non agire mai. Perché vorrebbero anticipare la esfoliazione, l'elaborazione della situazione. Anticipare un appuntamento, per esempio. Una cosa semplice. Penserebbero: la potrei chiamare, ma allora accadrebbe. Potrei fare in modo di incontrarla accidentalmente: la potrei incrociare in una caffetteria, ma allora accadrebbe. E così via. Fino al punto che nessun azione può essere intrapresa.

[…] Hai affermato che tutto l'horror deriva dalla frase latina “Timor mortis conturbat mea”, la paura della morte mi disturba. C'era un altro modo per risolvere la tua paura della morte che non fosse fare film che ne parlano, o non l'hai proprio risolta nemmeno con i film?
Non so se è davvero risolvibile per me, ma si vedrà. Penso debba avvenire attraverso l’arte, e in un certo senso è quello che l’arte è. Non lo intendo in senso riduttivo, anche se non credo sia così riduttivo, perché il problema della morte non è certo semplice. Non è soltanto la paura della morte, è il senso della vita – sono la stessa domanda. Se sei religioso rifletti su come potrebbe essere fatto Dio, quale potrebbe essere la sua natura. La questione della mortalità umana non è semplice.

Il tuo postulato quindi è “l’arte contro la morte”?
Prendo l’arte come un mezzo per scendere a patti con la morte. Sì, metto l’arte in opposizione alla religione – o come suo rimpiazzo, nel senso che se la religione è usata per permetterti di arrivare a un accordo con la morte, e per guidare la tua vita di tutti i giorni, allora penso che l’arte possa fare la stessa cosa. Ma in un modo meno schematico, molto meno rigido e assoluto. Che è poi quello che per me la rende affascinante, al contrario della religione.

Il tuo particolare genere di horror non è mai stato un “horror situazionale” (l’uomo col coltello nascosto nella cantina, per capirci), piuttosto un horror esistenziale e filosofico. Da dove deriva?
Penso davvero che derivi da ciò per cui ho bisogno dell’arte. Non ho bisogno della storia che si racconta intorno al fuoco; ci sono un paio di grandi esempi di storie horror di quel tipo. Ma sono, in pratica, l’uomo nascosto in cantina col coltello. Allo scopo di essere catartiche e di intrattenere, vanno benissimo. Ma non è abbastanza per me. Io voglio, ho bisogno di molto di più: di più complessità, di filosofia, di più che una semplice lotta. Una lotta con me stesso.

Se c’è l’orrore nel confrontarsi con l’inevitabilità della morte – e tutti noi ci portiamo questo mini-horror film con noi nella forma della nostra stessa morte – la vita eterna non sarebbe un orrore ancora più grande?
Oh sì. Non c’è l’uscita, ecco uno dei problemi. Nessuno vorrebbe davvero vivere per sempre, non davvero. Ma a un livello teorico, in giustapposizione, tu non vuoi morire, quindi dici che vorresti vivere per sempre – anche se sai bene che non sarà così. Ora, ho avuto dei momenti in cui l’inevitabilità della morte diventa un punto di assoluta forza – è una via d’uscita, una libertà. E certe persone che si trovano in una situazione terribile, come i campi di concentramento, arrivano a un punto in cui è una vera liberazione. Quindi l’idea è che la morte è misericordiosa, non è solo un concetto schematico secondo me, la posso avvertire come qualcosa di emozionale, anche.
All’inizio di Pasto Nudo c’è la citazione “Niente è vero, tutto è permesso”. Anche se non credo che sia stata concepita in origine da Hassan I Sabbah come una dichiarazione esistenzialista, per certi versi lo è. Dice: dato che la morte è inevitabile, siamo liberi di inventarci la nostra personale realtà. Siamo parte di una cultura, di un sistema morale ed etico, ma tutti dobbiamo fare questo primo passo al di fuori e capiremo che essi non sono assoluti. Sono solo costruzioni umane, suscettibili di cambiamenti e ripensamenti. E tu puoi essere libero. Libero di essere non-etico, immorale, fuori dalla società e un agente di altri poteri. E se sei un esistenzialista e non credi in Dio e nel giudizio dopo la morte, puoi fare qualsiasi cosa: uccidere e qualsiasi altra cosa che la società reputa taboo.

Incluso il suicidio.
Sì, incluso il suicidio.

La Zona Morta si conclude con un suicidio, essenzialmente; Max Renn si uccide alla fine di Videodrome; Brundlemosca alla fine di La Mosca supplica di essere ucciso; e i gemelli Mantle concludono Inseparabili con quello che in pratica è un doppio suicidio. I tuoi ultimi quattro film finiscono tutti con un suicidio, perciò è qualcosa su cui mediti parecchio.
Sì. È probabilmente l’unico modo per dare un senso alla nostra morte. Perché altrimenti è totalmente arbitraria. Arriva per piccole disfunzioni corporee o per qualche incidente – una caduta sulla testa. […] Quindi dici, non mi piace, non sopporto il fatto che la morte, che è un momento abbastanza importante della mia vita, non abbia senso. L’unica cosa che puoi farci è avere il controllo del momento e del motivo della tua morte. E ciò significa il suicidio. All’opposto, hai un desiderio istintivo e genetico di sopravvivere e rimanere vivo a tutti i costi, anche nelle circostanze più terribili. Sopravvivere, vivere, e chi se ne frega del resto. Nel West il suicidio è considerato un atto di codardia che deriva dalla disperazione e dalla morte di tutte le speranze, ed è qualcosa per cui ti devi curare con terapie, pillole, in modo da non commetterlo. […]
Rimasi scioccato quando Hemingway si suicide, perché avrebbe potuto vivere molto ancora. Ma fece la dichiarazione hemingwayana che tutto ciò che gli importava era scopare, scrivere e andare a caccia e a pesca, e ora non poteva più fare nessuna di queste cose, quindi perché restare vivo? E diventando vecchio ammetti che lui aveva un punto di vista e l’ha portato fino in fondo. Se la tua vita ha un senso, può anche smettere di avere senso. E se sei ancora vivo dopo quel momento, che cosa sei? E io credo anche, sul serio, che l’unico significato dell’universo viene dal cervello umano. Non credo che ci sia un Dio o un sistema esterno, là fuori, che esiste al di là di noi esseri umani. Quindi, da questo punto di vista, è ancor più convincente la possibilità che il suicidio sia un’elegante e corretta via d’uscita dalla vita – o che lo potrebbe essere, comunque. Chissà se mai arriverò a farlo, in certe circostanze tali da sopraffare la mia volontà di vivere, che è molto forte.
Quando seppi che Hemingway era morto, io divenni Hemingway. Lo immaginai che prendeva il fucile, immaginai il modo in cui lo fece, e cosa avesse provato. La canna aveva preso contro ai suoi denti? Come si sentiva? Immaginai il momento della morte. Tutte le volte che leggo di un suicidio penso in questi termini. E, per certi versi, quando nei miei film un personaggio muore, sono io che faccio le prove della mia morte.
David Breskin, Rolling Stone 1992