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Il suo problema era lo sguardo. E non solo. Il colore degli occhi e l’incarnato scuro,probabilmente dovuti alle sue origini ebraiche, la rendevano fortemente somigliante alle donne del Medio Oriente. I lineamenti del volto erano perfetti, tuttavia Rebecca non si amava, non amava il suo corpo, che la costringeva a pesanti diete fino a toccare l’abisso dell’anoressia e bulimia, in età adolescenziale. Era cresciuta con la convinzione inconscia di non essere amata da sua madre o comunque non come sua sorella,Ester, tant’è che un giorno trovò la forza di prendere la bambina nella culla, e infilarla sotto l’armadio.
Era sempre stata una bambina cicciotta, ingurgitava dolci, svegliandosi anche di notte, e nessuno la fermava.
La madre, Giuditta, donna corpulenta, anche a causa delle frequenti terapie, a base di cortisone, dovute ad una frattura mal curata, perché sottovalutata, era cresciuta nel più completo disamore di sua madre, al servizio dei fratelli, una sorta di domestica senza stipendio. Eppure il suo volto, era bellissimo, il suo corpo oramai sfidava quotidianamente dolori costanti e lancinanti alle ossa che si sfregavano l’un l’altra conseguenza dell’usura della cartilagine.
La sua energia senza posa infastidiva Rebecca, la quale invece amava il silenzio, la lettura ,la musica, i movimenti misurati, e sentiva fortemente il bisogno di avere uno spazio solo suo, dove potere riflettere e dare il giusto peso alle cose.
Giuditta aveva trasformato il suo disordine interiore in una patologica ossessione nei confronti di un ordine esteriore. Solo col tempo Rebecca comprese che quella eccessiva operosità, altro non era che irrequietezza della mente e dell’anima, al fine di sopprimere la sua capacità di pensare, di sostare, per contemplare e per capire. Quando suo marito organizzava le feste di compleanno cucinando torte e manicaretti succulenti per la famiglia, Giuditta diventava particolarmente nervosa, poiché invitare i suoi genitori e i fratelli con le relative cognate voleva dire pulire lavare, insomma mettere a soqquadro una casa di appena novanta metri quadri, per una inutile festa di compleanno delle figlie specie se la festa era della primogenita..
Quando Rebecca iniziò la sua avventura scolastica,la madre non si fece carico delle paure e delle ansie di una bimba che stava per affacciarsi in un mondo, ai suoi occhi, già ostile. Infatti, il primo giorno di scuola fu accompagnata dalla signora che viveva al piano di sotto, la cui figlia, Grazia, aveva la medesima età di Rebecca, che non smetteva di piangere e gridare:voleva ritornare a casa, dalla sua mamma, aveva bisogno del suo abbraccio, di parole di conforto, certa di non essere abbandonata. Non fu così. Da quel giorno, cominciò a morire lentamente dentro, ma nel contempo iniziò a viaggiare, nella sua logica di bambina, la convinzione che doveva eccellere in tutto, se voleva essere amata. Sì, perché forse lei era cattiva a tal punto che doveva meritarsi l’amore materno. Rebecca e Grazia pur essendo diverse per carattere e contesti familiari erano diventate amiche, essendo state inserite nella medesima aula e, nel pomeriggio, giocavano insieme, quasi sempre a casa di Grazia, perché la mamma di Rebecca non amava il disordine. Tutto era sempre patologicamente a posto, asettico.
Giuditta appariva agli occhi della figlia come una sorta di fata: le sue mani sapevano fare tutto e in modo perfetto. Rebecca restava lì a guardarla mentre stirava seduta, le camicie di suo padre, piegate in modo assolutamente perfetto, profumate di detersivo. Sembravano appena uscite dalla confezione e invece avevano già una età avanzata.
Giuditta non accompagnava mai la figlia a scuola, in compenso, il suo grembiule era di un bianco candido, profumato e con un fiocco fatto ad arte. I capelli di Rebecca, lunghi e neri corvini, erano sempre raccolti in una coda, al fine di apparire con un aspetto più ordinato, naturalmente, fino al giorno in cui Giuditta, stanca di sciogliere i nodi che si formavano nei lunghi capelli della figlia, decise di farle tagliare quella coda. Le lacrime e le crisi di disperazione di Rebecca offrirono il materiale adeguato per gli inciuci delle donnine del quartiere.
La madre di Grazia, era l’esatto opposto. Rebecca un po’ invidiava Grazia per il fatto che ella aveva una stanzetta tutta sua, nella quale studiare, riposarsi, sistemare le bambole, la casa di Rebecca invece aveva solo una camera da letto , una da pranzo che non veniva mai aperta, eccetto la sera quando Rebecca doveva spiegare il divano letto per dormirci con la sorella. Il resto delle sue attività poi, si svolgevano nella cucina: lì doveva studiare, mentre la madre s’inventava sempre qualcosa da fare, eccetto quando le signore del condominio, che trovavano Giuditta adorabile, si trattenevano a casa per sparlare ora di questa ora di quella, tutte dedite al pettegolezzo quotidiano. In quei momenti Rebecca si isolava nel suo mondo,così diverso, lontano da quella realtà, che in qualche modo subiva. La sua mente percorreva spazi siderali che erano solo suoi, immaginando un futuro di successo professionale e personale che avrebbe reso orgogliosa sua madre. Iniziò a studiare a leggere a scrivere poesie, ma un malessere interiore la divorava ogni giorno un po’ di più. Un morbo viaggiava dalle viscere alla coscienza; si sentiva arida, vuota, sterile.
Nascevano giorni in cui non aveva voglia di vivere e spesso in sogno, vedeva se stessa gettarsi dalla finestra. In seguito, qualcuno le interpretò quel sogno frequente come una volontà di cambiamento radicale. E non si sbagliava.
L’adolescenza fu una fase terribile. I primi innamoramenti le facevano ribollire il sangue, ma i ragazzini,che pure la corteggiavano, poi la ingiuravano con frasi che le squarciavano l’anima, ferendola nella profondità del suo essere. E ancora non mangiava, iniziando a bere caffè in quantità industriali, fino a farsi raggiungere da una intossicazione.
-"Sei un bidone" - Queste le parole dei ragazzi di cui si fidava, gli stessi che qualche giorno prima le avevano dichiarato il loro amore. A volte si sentiva acqua di sorgente, il suo sorriso, il colore degli occhi, la bellezza del volto erano apprezzati da tutti, ma quell’acqua, nel giro di pochi minuti, diveniva un acquitrino paludoso. Rebecca era sola con sé, avrebbe tanto voluto che la madre la coltivasse con le sue carezze, con parole dolci e autorevoli, ma ai suoi lamenti ed eccessi d’ira, la risposta era sempre la stessa.. Già, cosa le mancava? Era vero. Il padre lavorava di notte e nelle feste, faceva il cuoco in un ristorante, quindi restava poco tempo a casa, neppure a Natale e Pasqua la famiglia si poteva riunire come tutte le altre.
Oramai ventenne, Rebecca, che si percepiva, come il dipinto di Munch:"L’Urlo", aveva acquisito una peculiare capacità di attirare a sé ragazzi che interpretavano i suoi sguardi dipanando ragionamenti provenienti dalla parte bassa del loro corpo, mentre lei cercava altro. Certo non mancava l’attrazione fisica, ma non era il suo primo pensiero. Ella desiderava un contatto di anime, di carezze, di parole e non chiacchiere e non riusciva a capire perché tutti la considerassero smidollata, pronta a aprire le gambe.
I suoi giorni buoni, quelli che Rebecca aveva tatuati nel cuore e nella mente, dimoravano nel paesino d’origine dei suoi nonni, poggiato su di una collina a 800 metri sul livello del mare. La famiglia partiva alla fine di Giugno, per quella che un tempo era definita “villeggiatura”.
Per due mesi interi Rebecca respirava l’aria pura dei pini costeggiati lungo il sentiero che amava chiamare “degli amanti”, poiché i giovani innamorati, lì si davano appuntamento, invitando il chiarore delle stelle e della luna. Il martellìo delle cicale popolava il panorama; la loro presenza aveva un senso per il suo orecchio teso, i confini del bosco erano chiari nella purezza di una linea dura. Nella casa dei nonni e della bisnonna Maria Alfonsa, Rebecca visse frammenti di gioia, ascoltando la bisnonna che le raccontava la storia dei Santi. Lei donna devota da sempre, aveva partorito nove figli, adottando sua nonna, abbandonata dalla madre biologica.
Maria Alfonsa era un’adorabile vecchietta di 85 anni, gli occhi azzurri si erano fermati all’Ottocento. Aveva una mente lucida e chiara, memoria vivente di tradizioni antiche come antico era il suo stile di vita,rigoroso, essenziale, a partire dagli abiti che indossava:quella gonna lunga, nera, i suoi capelli argentei, ancora lunghissimi, avvolti in un bellissimo tupè,tenuto da forcine , di quelle che oggi non si vedono, dopo essere stati pettinati e intrecciati con una cura sconosciuta a Rebecca. Amava quella casa dove il silenzio si faceva pensiero in quegli spazi profumati di glicine sulla finestra sedotta dal mare.
Il paesino contava più chiese che anime, e l’estate era scandita dalle numerose feste e sagre, dedicate ora alla Madonna delle Grazie, poi alla Santa Protettrice, Sant’Anna e manifestazioni simili. Il 2 Luglio era il suono della banda a svegliarla col sole appiccicato sul muro: gli alberi portavano dentro una scintilla, una luce spiumata dal grano. Un vigore caldo l’attraversava, nel bollore del sangue verso richiami di amici amati. Si prendevano a spintoni per arrivare primi nella piazza ad incontrare una spensieratezza intensa e breve. Quelle sagre tuttavia, la invitavano a pensare, a spingere la ragione al di là: erano feste religiose o pagane?
La piazza era tutto un luccicare di luminarie, le bancarelle di dolciumi, una continua tentazione e i fuochi d’artificio erano il vanto degli organizzatori di tali eventi. I vecchi del luogo erano legati, come i tralci alla vite, a quelle tradizioni, che ebbero fine con la morte del vecchio parroco.
I successivi sacerdoti, relativamente giovani, avevano chiaramente un’atra struttura di pensiero, sicché gradualmente ma fermamente, quelle feste di paese persero la loro intrinseca peculiarità.
Nel frattempo a Rebecca salì nel cuore una fame di sapere sempre più incontrollabile,sin da bambina sognava di diventare un’insegnante che sapesse entrare nell’intimo dei ragazzi, per capirli e dare loro gli strumenti adeguati per una lettura ragionevole della realtà. Si iscrisse alla Facoltà di Pedagogia e non si presentava ad un esame se non con una buona percentuale di certezza di passare con un voto alto e infatti il suo libretto era un susseguirsi di trenta con la lode e senza, ventotto il voto più basso. Esami che trasudavano fatica poiché la mattina lavorava in una scuola privata fino al pomeriggio e la notte studiava. Lo studio l’aiutava a non pensare, tuttavia quel malessere cresceva: come una lebbra, la consumava, sentiva di essere incompiuta.
Nonostante ciò sapeva relazionarsi con ragazzi e colleghe che spesso la invidiavano, perché appariva come non si sentiva. E questo per lei, era un mistero.
Poi avvenne qualcosa che mutò la sua vita per sempre. Un uomo anziano e sposato iniziò a corteggiarla insistentemente, sapeva parlarle e sapeva cosa voleva che le si dicesse. Rebecca non fece in tempo ad accorgersi del pericolo, che tutti, compresa la moglie, vennero a conoscenza di qualcosa che fu ingigantito, ampliato a dismisura. Suo padre, per la vergogna fu colpito da un infarto che lo portò alla tomba nel giro di un mese, sua madre neppure la guardava.
Rebecca cominciò a lasciarsi andare, ingrassò più di venti chili, il suo unico desiderio era morire. Deglutì un flacone di compresse ma lo stomaco non le accettò. Doveva vivere con quel rimorso che mai si perdonò, sebbene più volte confessato. Continuò a sopravvivere, iscrivendosi alla Facoltà di Teologia studiando con fermezza. Doveva capire chi era Dio e chi era lei. Gli esami, le nuove amicizie, i professori teologi e soprattutto la città di Roma, che amava, le resero la vita più sopportabile, ma la sua salvezza le venne da quell’uomo che un giorno sarebbe diventato suo marito. Rebecca sapeva che ciò era opera di Dio, ma la voglia di morire non le era sparita del tutto. Samuel era un medico, uomo dal carattere forte come una roccia, ma anche complicato e complesso che non riusciva a trattenere la rabbia quando Rebecca si comportava in modo che lui non condivideva.
Chiaramente Rebecca portava sulle spalle la croce della morte del padre, che aveva condotto sua sorella in una depressione, fonte di disperazione per sua madre.
Fu chiesto aiuto a Samuel che da ottimo psicoterapeuta ascoltò in privato le paure di Ester, i sensi di colpa di Rebecca, la rabbia di Giuditta, alla quale neppure importava dei successi scolastici della figlia, tanto che riusciva sempre, forse inconsciamente, a rovinarle la gioia breve che conseguiva all’esito positivo di ogni esame.
Samuel e Rebecca convolarono al Matrimonio, dal quale nacquero Fara e Davide. Furono altresì anche gli anni in cui la salute di Giuditta divenne particolarmente precaria: Rebecca trascorse quegli anni svolazzando fra un ospedale all’altro, assistendo la madre ora per un carcinoma allo stomaco, a distanza di un anno, un intervento di laparocele, seguito da un’embolia polmonare che la stava portando alla casa del Padre, poi graziata. In seguito fu la volta della tiroide che le fu completamente asportata, fino alla sostituzione delle valvole mitralica e aortica che oramai erano andate.
Crepò pure la certezza che non avrebbe commesso i medesimi errori della madre con i suoi figli, e di fatto così fu, ne commise degli altri, diversi, ma comunque seri. Proprio lei che aveva studiato approfonditamente la Psicologia dell’età evolutiva al fine di evitare un errato sviluppo emotivo dei figli. Con Fara, per una sorta di potere infettivo del peccato, Rebecca,non riusciva a comunicare, e, se la figlia cresceva con un temperamento deciso, sebbene in continua sfida con lei, era solo merito di Samuel. Paradossalmente, come la madre aveva rischiato la vita per mettere al mondo Rebecca, anch’ella aveva rischiato la sua per dare alla luce Fara.
Diversa la storia con Davide, che nacque a tre anni di distanza dalla sorella, e con un carattere solare e gioioso e con le medesime passioni di sua madre.
Dopo ventun anni di Matrimonio l’evento tanto atteso da Rebecca stava per compiersi: cominciò a stare male, le fu diagnosticato un cancro in uno stadio molto avanzato.
Samuel disperato, fece partire immediatamente la trafila degli accertamenti, ricoveri chemioterapie e radioterapie.
Rebecca invece si sentì sollevata, certa che senza di lei, tutti avrebbero vissuto meglio, perché aveva continuato a sentirsi una bimba cattiva.