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VII domenica T. Pasqua (Anno C) (12/05/2013)
Vangelo: At 7, 48-57; Ef 1, 17-23; Gv 17, 1b. 20-26
Atti degli Apostoli. 7, 48-57

Stiamo celebrando una liturgia di attesa, carica di apertura e di speranza, tra l'Ascensione e la Pentecoste. I tre testi ci propongono, in modo diverso, il progetto di una Comunità, voluta dal Padre, amata da Gesù, costituita in un progetto che si allarghi sul mondo e porti speranza per tutti.

Stefano, nella comunità ebraica di lingua greca in Gerusalemme, piccola rispetto alla vasta comunità di lingua ebraica, è una presenza particolarmente vivace ma anche sconcertante. "Stefano intanto, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni tra il popolo" (At 6,8). Una presenza così pubblica, carica di segni di liberazione e di parola profetica, che esalta Gesù, vivissimo nella memoria e da pochissimo giustiziato, suscita rancore e rabbia. Perciò "alcuni della sinagoga detta dei Liberti..., sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, piombarono addosso a Stefano, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio" (6,9-12). Luca sviluppa la difesa di Stefano, riportando il lungo discorso che percorre la storia di Israele, riletta alla luce di Cristo. Rappresenta un esempio di predicazione biblica in uso nella Chiesa delle origini, particolarmente comprensibile da parte degli ebrei, anche se non da tutti accettata.

Nel testo che oggi leggiamo, si pone il valore del tempio che è diventato pericolosamente intoccabile, pena la morte per chiunque lo avesse svalutato. Anche il processo di Gesù è incominciato con l'accusa sul tempio. Ma Stefano cita il profeta Isaia (66,1-2: atti 7, 49-50) in cui si afferma che Dio è presente ovunque, al di là di ogni "spazio sacro".

Stefano difende la testimonianza di Gesù che è il Giusto e accusa implacabilmente "i padri e voi, traditori ed assassini" (v 52). Mentre i responsabili della sinagoga stanno decidendo la morte, viene riferita, in sintesi, la visione di Gesù ( in piedi) alla destra di Dio che indica la pienezza del Messia vittorioso. Stefano vede la "gloria" di Dio, parola che si usa, insieme alla "presenza", non potendo dire :"Ho visto Dio e Gesù alla sua destra".

Stefano, e quindi la Comunità cristiana di cui, in questa occasione, Stefano è il portavoce, offrono una sintesi della fede che in Gesù converge e prende forma. Il messaggio di Stefano rimette in discussione pratiche e culto che, nella visione di Gesù che muore e risorge, debbono essere ripensati, ridimensionati, mutati.

Gesù è il giusto e ci obbliga a pensarlo, comunque lo abbiamo considerato, Parola e volontà del Padre. In tal modo ci obbliga a rileggere nella storia che cosa vale davvero. Tutta la struttura che si è costituita, la religione che si è organizzata, le scelte che sono state fatte, i criteri che ci hanno condotto via via nel tempo: tutto questo, ci dice Stefano, va riesaminato alla luce della morte di Gesù che è stato glorificato ed è veramente colui che conta e verifica e giudica il senso della vita e della coerenza.

Efesini 1, 17-23

Paolo saluta i destinatari della sua lettera, all'inizio, augurando "grazia e pace"(1,1). E' il miglior augurio che si possa fare come dono che proviene dal Padre e da Gesù: la grazia è l'accoglienza di Dio che diventa pienezza nel cuore di ogni persona, la pace è il corredo di ogni armonia che trasforma i rapporti con gli uomini e le donne e il rapporto con il creato.

Poi Paolo prosegue: Dio ci ha benedetti e ci ha prescelti: "Il Signore ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizione spirituale in Cristo" (3). E l'elenco delle benedizioni è lungo e prezioso. Ci serve riprenderle, per scoprire la ricchezza di cui siamo fatti segno anche noi, credenti come i fratelli e le sorelle di Efeso.

I. benedizione: la vocazione degli eletti alla vita beata, già cominciata, misticamente, con l'unione dei fedeli a Cristo glorioso (1,4). II. benedizione: il modo scelto per questa santità: è una filiazione divina, di cui Gesù Cristo, il Figlio unico, è la fonte e il modello (1,5; cfr. Rm 8,29). III. benedizione: l'opera storica della redenzione per mezzo della croce di Cristo (1,7). IV. benedizione: la rivelazione del «mistero» (1,9; Rm 16,25). V. benedizione: l'elezione di Israele, «eredità» di Dio, come testimone nel mondo dell'attesa messianica (1,11). VI. benedizione: la chiamata dei pagani che condividono la salvezza già riservata a Israele. Essi ne hanno la certezza, ricevendo lo Spirito promesso. Il dono dello Spirito corona l'esecuzione del piano divino e la sua esposizione in forma trinitaria (1,13).

Paolo ricorda con affetto e ammirazione questa comunità che è ricca di fede nel Signore Gesù e di amore verso "tutti i santi", i fratelli e le sorelle credenti (v15). Lo riconosce. "Rendo grazie per voi".

A questo punto, Paolo vuole esplicitare il contenuto e le motivazioni della sua gratitudine; ci introduce così nella ricchezza della sua fede, fondamentale per una comunità che cresce e che rende testimonianza (15-23). "Vi ricordo nelle mie preghiere" (1,16) perché il Signore "vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui". La fede è il fondamento che penetra nel mistero del Padre e quindi nella pienezza del Figlio.

La preghiera "illumini gli occhi del vostro cuore" (v 18) perché i credenti siano orientati alla speranza. E la speranza suppone sempre un cammino. La chiamata del Signore, infatti, è sempre un iniziare uscendo da qualche luogo, o qualche male, o qualche chiusura: uscire dall'Egitto, dalla paura, dalla solitudine, dall'angoscia, dal vuoto, dal paganesimo, da ciò che blocca senza futuro di gloria e di gioia. Il testo fa riferimento alla luce del cuore. E il cuore, nella Scrittura, è la sede della morale, della fedeltà, delle scelte, dell'amore, dello Spirito, di Gesù che vi dimora (Ef 3,17). C'è anche un nascosto riferimento al battesimo che si richiama al rito celebrato nella notte, illuminata dai fedeli, ma soprattutto dalla presenza del Signore, chiamati ad essere "un cuore solo e un'anima sola" (At 4,32).

La forza di Dio si manifesta nella lotta contro la morte e, quindi, nella risurrezione di Gesù. Questo Dio è il nostro difensore, che ha accolto Gesù accanto a sé "alla sua destra nei cieli", al di sopra" delle "potenze cosmiche" (qui sono elencate secondo la letteratura e la credenza corrente. Non si vuole però fare l'elenco completo, si vuole solo ricordare che non c'è nulla sopra Gesù in dignità e valore, salvo il Padre). "Dio tutto ha posto sotto i suoi piedi" (v 22). E proprio questo Messia è capo della Chiesa (comunità), un tutt'uno con i credenti, a somiglianza di un corpo che nella sua pienezza e integrità si riconosce in tutte le sue membra.

Come comunità cristiana, ci sentiamo ingigantiti dalle scelte del Padre e richiamati dalle decisioni di Gesù. Egli si è fatto, però, prima di tutto servo e quindi, poi, è stato esaltato. La grandezza della Chiesa non è messa all'inizio del suo itinerario, ma a conclusione, nella maturazione della sua fede e della sua carità. La grandezza della Chiesa è gratuita, ma deve essere maturata e si manifesta nel servire come ha fatto Gesù. Non a caso si continua a sentire da una cattedra autorevole: "Noi siamo chiamati a servire, come Gesù, non a glorificarci come se fossimo potenti. Continuiamo ad essere piccoli e poveri, grati per essere chiamati e fiduciosi che un giorno il Padre ci farà grandi nel suo paradiso".

Giovanni. 17, 1b. 20-26

Con la preghiera di Gesù, Giovanni conclude il lungo itinerario di rivelazione e di parole ultime ai discepoli ed alla Chiesa, nell'ambito dell'ultima cena, Tutti i temi toccati tra gli amici si riuniscono, ora, nel dialogo di Gesù con il Padre, nella tenerezza e nella pienezza che Gesù rivela. Siamo al dialogo-preghiera al Padre: vertice della fiducia e della fedeltà che Gesù porta a Dio.

Nella preghiera (Gv17,1-26) Gesù chiede al Padre di glorificarlo (1-5), prega per i suoi discepoli (6-19), prega per tutti coloro che accoglieranno la parola dei suoi discepoli (20-26).

Nella sua preghiera Gesù valorizza la dignità dei discepoli in modo sconcertante. Essi sono mandati da Gesù come Gesù stesso è inviato dal Padre (v 18). Così, attraverso la scelta di Gesù e la loro fiducia e fedeltà, i discepoli sono al termine di una concatenazione stupefacente che inizia dal Padre, passa per Gesù dopo l'attesa di secoli e giunge a semplici lavoratori a cui è affidato il mistero della pienezza. E se spaventati, si volessero sottrarre per paura delle responsabilità o per indegnità riconosciuta, essi sanno che Gesù, per loro, ha offerto se stesso, come garanzia, consacrandosi con una offerta che supera tutte le offerte di tutti i tempi. Essa sale a Dio Padre come il dono più alto che può salire dal mondo, segno di ubbidienza e di consapevolezza di totale pienezza: "Per loro consacro me stesso" (v19).

Il centro di tutta la preghiera è il Padre e l'unità con Lui. Gesù si fa carico del presente, pur tragico e tribolato per la fuga dei suoi, e di questa unità e pienezza, Gesù si fa carico per il futuro. Tutti noi, credenti in Gesù "mediante la loro parola" (20), siamo chiamati alla pienezza dell'unità e allo stesso dialogo con il Padre.

Gesù punta sull'unità con il Padre ed i fratelli. Non si dice come sia possibile o come si possa esprimere, tuttavia Gesù assicura che restano ferme la certezza e la pienezza di amore tra il Figlio ed il Padre. E se è saldo questo legame profondo ed infinito, pur di fronte alle turbolenze della storia, del male, della insofferenza e del capriccio, Gesù sente vera, insieme, la fatica e il successo di una unità nella sua Comunità nella storia. Di fronte a questo amore pieno i popoli potranno ritrovare la testimonianza inequivocabile della Comunità cristiana che lentamente matura nei credenti, e quindi il significato e la presenza di Gesù nella pienezza.

E' come una scommessa che ci lascia stupefatti per l'esperienza che facciamo ogni giorno delle nostre fragilità.

Eppure, in questa notte, Gesù si gioca sul progetto di una comunità nel tempo, di una fedeltà dei discepoli che si aprono nel mondo senza paura, di una loro testimonianza universale, di una certezza legata al suo rapporto con il Padre. Si va dal: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri", al "Da questo sapranno che siete miei amici: se avrete amore gli uni per gli altri" (13,34-35), al " Il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me" (v 23). A questo punto la parola di Gesù al Padre non è più: "ti prego" (20), ma "voglio" (24) poiché sa di poter contare sul Padre in pienezza. Ci sono una coerenza ed una volontà che va a "prima della creazione del mondo".

La parola "conoscenza" e quindi l'amore si rincorrono per almeno cinque volte in due versetti (vv 25-26).

Conoscere significa aprirsi totalmente all'azione misteriosa e presente del Padre.

Scopriamo così che è sconcertante la fiducia che Gesù ci concede. Ma ci permette di trovare speranza anche nell'oggi, e ringraziarlo della intimità a cui ci invita. Nel frattempo dobbiamo riprendere a ricercare la conoscenza di Dio, rivedere il nostro modo di pregare, le richieste ed i silenzi, le attese e le intercessioni.

Sull'amore del Padre e quindi di Gesù che si pone a modello di comunione è necessario riflettere lungamente perché diamo per ovvia la fede (ma con quali contenuti?) e decliniamo come amore semplicemente la fatica del nostro quotidiano. Ma l'amore richiede molta lucidità, analisi, umiltà e tentativi del superamento di ciò che ci sembra ovvio o naturale. L'amore è difficile, così come ce lo presenta Gesù e tuttavia è un progetto che, come credenti, il Signore ci affida. Anzi, il cambiamento e lo stile di questo mondo dovranno trovare, nelle parole di Gesù, la garanzia di nuove possibilità di amore reciproco nuovo.

La storia del mondo viene allora prospettata così. L'opera di Gesù continuerà a farci conoscere il Padre ogni giorno. Il tentativo della comunità cristiana dovrà continuare a credere e ad osare la possibilità di un amore reciproco concreto e capace di visibilità per tutti.