CREDENTI

LA FEDE NEL TESSUTO SOCIALE

  • Messaggi
  • OFFLINE
    Credente
    00 11/02/2013 22:22

    La vera laicità
    e il ruolo pubblico del cristianesimo

    Joseph WeilerÈ laico o non è laico lo Stato che espone il crocifisso negli spazi pubblici? Il dilemma provocato nel 2006 dal ricorso Lautsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro lo Stato italiano sembra destinato a durare. Almeno fino a quando laico viene contrapposto a religioso, e religioso inspiegabilmente associato a privato. E se invece la religione rivestisse un ruolo nella vita pubblica di una democrazia?

    A rispondere, in una recente intervista a un quotidiano nazionale, è Joseph H.H. Weiler, Professore di Diritto presso la New York University e Professore onorario presso la London University. A lui, ebreo osservante e figlio di un rabbino, si deve nel 2010 la difesa del crocifisso nelle aule scolastiche italiane, davanti alla Grande Chambre della Corte europea.

    Non è affatto vero – afferma Weiler – e non è ovunque vero che la religione debba essere esclusa dalla vita pubblica. Ad esempio, in Gran Bretagna i leader religiosi sono membri d’ufficio del Legislativo, e non solo in senso simbolico. Nell’arché di tutte le democrazie moderne, il punto di vista religioso rappresenta una delle più autorevoli interpretazioni della realtà sociale, economica e politica, anche in coloro che nella House of Lords non sono religiosi, o cristiani. Sembra, infatti, che per il popolo britannico la presenza della religione – e in particolare della tradizione cristiana – sia fondamentale per raggiungere decisioni legislative necessariamente eque. Se la stessa la cosa capitasse in Italia, se il presidente della CEI, card. Bagnasco, sedesse in Senato a legiferare, quanto sdegno solleverebbe nell’opinione di massa (e soprattutto tra gli indignados di professione, ndr)?

    Citando il discorso di Papa Benedetto XVI al Parlamento tedesco nel 2011, Weiler sottolinea che quando il cristiano entra nell’arena pubblica ha l’onore e l’onere di farlo in forza della ragione, e non della fede. In Europa la problematica più allarmante dell’euro è l’attuale crisi demografica; è evidente – spiega l’eminente studioso – che la politica non può affrontare una probabilissima estinzione di civiltà con le sole armi dell’economia e della sociologia. Né tanto meno comprendere la crisi esistenziale di interi popoli nei tempi di uno o più mandati politici, spesso tra loro diversissimi e contrastanti. Considerato poi il dovere di un’Europa tradizionalmente pluralistica, è altrettanto evidente quanto la prospettiva millenaria cristiana rappresenta invece un contributo antropologico fondamentale al dibattito legislativo.

    In Usa, conclude Weiler, il crollo della famiglia naturale ha provocato a detta di molti studiosi crisi sociali profonde; equiparare ad omofobia il desiderio di alcuni, compresa la Chiesa, di proteggere la famiglia naturale è una valutazione oltre che offensiva, profondamente pericolosa. È in definitiva sui temi etici – come l’inizio e il fine vita, la questione delle unioni gay o la morale sessuale in generale – che si giocherà sempre di più la sorte della nostra civiltà, mentre la tanto osannata laicità di stato dovrà rispondere delle conseguenze, anche economiche, che determinate scelte legislative comporteranno sulla vita e sul futuro di milioni di persone, e di generazioni.

    Valentina Fanton

  • OFFLINE
    Coordin.
    00 09/06/2014 19:12
    Laici-credenti, per un nuovo umanesimo

    LAICI-CREDENTI, PER UN NUOVO UMANESIMO


    Laici-credenti, per un nuovo umanesimo


     


    Non è mai mancato nei nostri incontri un momento di confronto più specifico tra laici e credenti. E lo sanno bene alcuni dei presenti a questa tavola rotonda che potremmo qualificare come i veterani di questo confronto. Abbiamo sempre preferito parlare di laici piuttosto che di non credenti, anche perché, per fare solo un esempio, Arrigo Levi ha voluto sottolineare, fin dall’inizio, che lui è credente sebbene in un altro modo ad esempio da me, ed anche Mario Soares non ha mai voluto presentarci con quella specificazione. Insomma l’atmosfera non solo umana ma anche culturale nella quale noi continuiamo a muoverci in questi incontri è ben lontana dal clima che permetteva affermazioni come quella del noto medico-filosofo francese del Settecento, Julien de la Mettrie: “L’universo non sarà mai felice, a meno che non sia ateo”. Questa affermazione nasceva da una antropologia materialista che giungeva a far dire a questo medico-filosofo: “i sordi, gli imbecilli, i malati di mente, non meritano di appartenere a una classe particolare”, ossia non meritano di beneficiare dello statuto di uomo. Erano gli albori di quel pensiero che avrebbe poi condotto ad una concezione materialista dell’uomo. Il clima qui è ben diverso e ci permette di rispettare, anzi di apprezzare, la diversità perché la sentiamo come una ricchezza, come la opportunità per percorrere insieme le nuove frontiere che si aprono davanti a noi. La differenza non ci spaventa e non viviamo nell’ossessione di eliminarla. Certo cerchiamo di sottolineare quel che ci unisce, ma non in modo ingenuo e acritico. Se Arrigo – continuo a citarlo perché mi ha costretto a scrivere almeno due libri – arriva a dire che noi siamo ormai quasi completamente d’accordo non nasconde le diversità che pure ci sono.



    Lui comunque continua a domandarsi – e a ragione – cos’è la fede e, dopo non poche analisi, rivendica che anche lui è credente, seppure in un altro modo. Per parte mia continuo a domandarmi cos’è la laicità e arrivo a dire che anch’io sono laico, distinguendomi tuttavia da una laicità fondamentalista. Volendo riprendere la nota affermazione di Benedetto Croce secondo il quale “Non possiamo non dirci cristiani”, noi cristiani potremmo rovesciarla e dichiarare: “Perché n


    on possiamo non dirci laici”. Non è un gioco per confondere i due concetti. Penso però che mentre cerchiamo di chiarirli si arricchiscono di senso ed aiutano ad allontanarci dal rischio di cadere in un pericoloso estremismo sia della fede che della ragione. Chi è dunque il laico? Molti sono stati i dibattiti su questo tema, e non solo in ambito francese. In questi ultimi tempi sia la nota questione relativa ai simboli religiosi nei luoghi pubblici sia la lunga vertenza sulle radici cristiane nell’ambito della redazione della Costituzione europea hanno portato molti a interrogarsi sul senso della laicità. Molte possono esserne le definizioni. Ma, inserendomi nella interpretazione che la Corte Costituzionale ha dato della Costituzione Italiana circa la “laicità” dello Stato, a me pare molto significativo sostenere che il laico non è colui che rifiuta, o peggio che deride il sacro, semmai è colui che lo discute, che lo interroga, che si mette di fronte al senso del mistero che anche il sacro porta con sé. Ed è laico anche ogni credente che non è superstizioso, che non è fanatico, che non è arrogante, che non è chiuso alla ricerca di una verità sempre più chiara e piena. E’ laico altresì ogni non credente che non assolutizza e non idolatra il proprio relativo punto di vista e la propria ricerca. Il laico non credente sa invece riconoscere la profonda analogia che lo lega alla domanda del credente e alla sua continua ricerca del vero e del bene. Su ambedue, insomma, sia sul laico che sul credente, incombe la soglia del mistero, come riconosceva Norberto Bobbio. E il mistero chiede ad ambedue l’umiltà di riconoscere il proprio limite e di aprirsi all’altro. La laicità perciò non è una ideologia, è una sensibilità. Non si identifica a priori con nessun credo preciso, con alcuna filosofia, ma è attitudine critica ad articolare il proprio credo filosofico o religioso secondo regole e principi logici che non possono essere condizionati da nessuna fede, perché in tal caso si cadrebbe in un torbido pasticcio, sempre oscurantista. Ecco perché la cultura, se è tale, è sempre laica, non importa se proposta da un credente o da un ateo. Laicità perciò significa tolleranza, e in certo modo anche dubbio rivolto pure alle proprie certezze, demistificazione di tutti gli idoli, anche dei propri. Laicità è capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pure essi rispettabili. In questo senso la laicità è utile sia alla fede che alla ragione, ad ambedue infatti impedisce di cadere in un due pericoloso estremismo.


    Fatta questa premessa, entro un po’ più direttamente nel tema della tavola rotonda: Laici e credenti: per un nuovo umanesimo. Molte sono le riflessioni che questo tema suscita. Ma vorrei fermarmi su quel versante che tocca il valore stesso dell’uomo che viene messo in discussione dalle nuove frontiere della bioetica, dell’ecologia e dell’informatica. Si tratta di tre rivoluzioni contemporanee che interpellano tutti, laici e credenti, anche perché in qualche modo fanno già sistema tra loro. E se non sono governate, se non sono cioè guidate con lungimiranza e sapienza, portano alla distruzione dell’umanità stessa dell’uomo. E’ infatti messa in gioco la dignità dell’uomo. La letteratura in materia è ormai abbondante. Basti pensare ad autori come Jurgen Habermas che scrive, I rischi di una genetica liberale; a Paul Virilio il quale, dopo aver pubblicato La bomba informatica, si scaglia contro il fondamentalismo tecnoscientifico, L’incidente del futuro. Tutti conosciamo Jeremy Rifkin lo studioso che si occupa dell’innovazione scientifica e tecnologica, il quale nel volume Il secolo biotech avverte: “La rivoluzione della biotecnologia ci obbligherà a riconsiderare molto attentamente i nostri valori più profondi e ci costringerà a porci di nuovo seriamente la domanda fondamentale sul significato e sullo scopo dell’esistenza…Tutti gli aspetti della nostra realtà individuale e di quella parte della vita che dividiamo con gli altri saranno toccati e seriamente modificati nel secolo della biotecnologia”( 370).


    Sono solo alcuni cenni dai quali emerge che l’orizzonte delle sfide poste all’inizio di questo nuovo millennio coinvolge sempre più le dimensioni della libertà, dei diritti dell’uomo, della coscienza, insomma la centralità stessa dell’uomo. E’ una singolare parabola del pensiero moderno che ha voluto porre al centro del mondo l’uomo con la pretesa di cacciare Dio dalla scena. Il grande teologo De Lubac, accennando a questo processo, scriveva un volume dal significativo titolo Il dramma dell’umanesimo ateo. Nel testo si mostrava che un umanesimo senza Dio avrebbe portato all’eliminazione stessa dell’uomo. Salvatore Natoli, un filosofo italiano dei nostri giorni, un non credente che cerca però un incontro con i credenti, critica l’ateismo che potremmo chiamare fondamentalista. In un piccolo scritto dal titolo Il cristianesimo di un non credente scrive: “L’uomo moderno ha cercato di conquistare l’infinito in termini positivi, ha perseguito la propria autoaffermazione contro Dio per prenderne il posto. Per l’uomo moderno il farsi Dio (da parte dell’uomo) ha coinciso con lo sforzo di espandere la propria potenza fino a pervenire a un assoluto delirio di onnipotenza”(64). L’esito di questa esaltazione da onnipotenza – continua Natoli – porta l’uomo “ad aspettative che non può soddisfare e l’accresciuta potenza non lo scioglie affatto dalla sua costitutiva finitezza, ma gliela rende solo insopportabile. Nel tentativo di ‘prendere il posto di Dio’, l’uomo si scopre un Dio mancato. La modernità, specie nei suoi esiti estremi, si è tormentata da una tracotante negazione di Dio e un bisogno di salvezza senza Dio. Ma gli uomini moderni non riescono più a credere. Non resta loro che la disperazione. E, allora, sono ‘orfani di Dio’. L’esito non poteva essere più fallimentare”. Così Natoli che mostra l’esito della parabola dell’uomo moderno tra onnipotenza e nichilismo con la scienza unica regina.


    Già Martin Heidegger metteva in guardia dal pericolo dalla dittatura della scienza e della tecnica. Di qui il suo grido: “Ormai solo un Dio ci può salvare!” Non si riferiva al Dio della fede, ma ad un oltre, potremmo dire al mistero. Comprendeva infatti che affidare il destino dell’uomo alla ragione scientifico-tecnologica e quindi alla calcolabilità, alla misurabilità e in definitiva alla manipolabilità, significava ridurre l’uomo a un oggetto. Ed è il processo messo in atto in questo tempo. Jean-Claude Guillebaud, in un libro coraggioso, Le principe d’humanité, denuncia che da una ventina d’anni a questa parte si sta distruggendo a poco a poco quell’idea di uomo acquisita da secoli e che faceva dire a Kant che l’uomo non può mai essere un mezzo, ma solo e sempre un fine (lo diceva nel 1785 all’inizio della industrializzazione che condannava uomini, donne e bambini ad essere strumenti di lavoro). Questa idea kantiana – profondamente laica – nasceva all’interno della tradizione giudaico-cristiana, come dimostra bene Shmuel Trigano nel volume Le monothéisme est un humanisme (2000). Questo stretto rapporto tra monoteismo e umanesimo Arrigo Levi lo sosteneva già nella sua tesi di laurea. Credenti e laici sono accomunati da questa convinzione: la vittoria del fondamentalismo scientifico porta al naufragio dell’uomo. Lo stesso Norberto Bobbio, poco tempo prima di morire, affermava che lo scontro nel futuro sarebbe avvenuto tra fede e scienza e non tra fede e ragione. “La Scienza, è la sola religione dell’avvenire” scrive Francois Raspail. E’ in questo orizzonte che abitano i grandi contrasti dei giorni nostri.


    A dire il vero, il problema non è la scienza che di per sé è neutra, ma negli uomini che dispongono del potere scientifico, i quali possono manipolare gli esseri umani sino a renderli oggetti e strumenti nelle loro mani. Rifkin giunge a dire, riferendosi alla ingegneria genetica, che “colui che controllerà i geni controllerà il XXI secolo”. Anche qui le riflessioni potrebbero continuare a lungo; dovrebbe però metterci sull’avviso il fatto che i primi esperimenti genetici sull’uomo siano iniziati nei campi di sterminio nazisti quando uomini e donne erano divenuti appunto materiale di sperimentazione. Il problema, come si vede, va diretto verso la concezione stessa dell’uomo e della intangibile dignità della persona umana, anzi del senso stesso della vita e della morte.


    Già solo questi superficiali e brevissimi cenni fanno comprendere quanto siano delicate le sfide che ci sono poste dalle nuove frontiere di una scienza sganciata da un orizzonte etico e religioso. La fede e la ragione sono chiamate a mostrare tutta la ricchezza della loro riflessione sull’uomo e sulla sua dignità. Le religioni nel XXI secolo, al di là di ogni aspettativa, hanno un ruolo chiave nell’epoca della globalizzazione. Ma debbono scendere nel profondo della loro sapienza per coglierne la ricchezza. Jonathan Swift, causticamente afferma che abbiamo “religione quanto basta per odiarci l’un l’altro, ma non abbastanza per amarci”. Le religioni possono essere fonte di discordia ma anche fonte di soluzione dei conflitti. E possono farlo suscitando e praticando un nuovo umanesimo, quello dell’incontro e del rispetto delle differenze basandosi sulla ineliminabile dignità della persona umana.


    Ma credo che anche anche della ragione abbiamo bisogno che sia piena e integra. la nuova società globalizzata hanno un nuovo ruolo, possono favorire o rallentare i conflitti e l’orgoglio.


    La stessa etica, intesa come analisi dei comportamenti, non basta più. Il materialismo positivista e scientista rischia di distruggere in radice il mondo. L’etica, sostiene con originalità Ferry, è sostenibile unicamente se la si coniuga con la dimensione del sacro. Un’etica puramente razionale è troppo ristretta e non ha la forza di liberare l’uomo dall’essere un semplice meccanismo della natura. Sento, tuttavia, l’eco delle parole di Guardini: l’etica spiega, spinge, sostiene, giudica, esalta, colpevolizza, ma non salva. Ferry, ovviamente, non esce dalla prospettiva della soggettività, sebbene voglia sottrarsi dall’asfissia del non senso e del ripiegamento egoistico. E rivendica una vera e propria “spiritualità laica”, che egli scorge sulla via di una “trascendenza immanente”, l’unica che, sempre all’interno di un umanesimo religioso ma ateo, può far uscire l’umanità dal vuoto. Non basta perciò il semplice umanesimo che vede la realizzazione della pienezza nell’autenticità e nella rigorosa osservanza dell’imperativo morale: “la volontà di realizzare una perfetta immanenza a sé è destinata a fallire. Per una ragione di fondo: l’esigenza di autonomia, così cara all’umanesimo moderno, non sopprime la nozione di sacrificio, né quella di trascendenza. Semplicemente, ed è questo che bisogna capire, implica una umanizzazione della trascendenza e, quindi, non lo sradicamento, ma piuttosto uno spostamento delle figure tradizionali del sacro”. Si passerebbe perciò da una trascendenza “verticale” ad una trascendenza “orizzontale”; il sacro scende dal monte alla valle e apre un varco verso una “religione dell’Altro”. Lo sforzo del filosofo francese si concentra nell’interpretazione dell’umanesimo moderno nel suo versante spiritualista, ove l’amore è il valore più chiaro e più forte.


    In un certo senso possiamo dire che non sono due campi separati. Un nuovo umanesimo deve raccogliere questa sfida. E non pochi umanisti, anche non credenti, mostrano i limiti di un’etica semplicemente immanente, ossia che non fa i conti con il mistero, con un oltre di cui non siamo padroni e che dobbiamo sentire con umiltà.


    L’uomo può essere fabbricato? E non stiamo fabbricando esseri viventi? E’ l’antico mito di Pigmalione, re di Cipro, il quale voleva dare la vita ad una statua di donna ce lui aveva scolpito, e di cui si era innamorato. Fece del tutto perché quella statua prendesse vita, ma la materia non prendeva vita. Dovette rivolgersi ad Afrodite la dea protettrice di Cipro perché ella desse la vita a quella statua. E fu accontentato. Senza gli dei è impossibile dare la vita, dicevano gli antichi greci. Potremmo dire che il mito di Pigmalione è una lezione antimaterialista. C’è comunque oggi il rischio di  abbattere la frontiera tra la macchina e la vita, tra la scienza e la vita. C’è il problema del prevalere della tecnica che rischia di trasformare l’uomo in strumento e non in fine. E’ quel che accade quando la tecnica strumentalizza l’uomo (lo fa a pezzi) magari per guarirlo meglio. C’è in gioco l’uomo e la sua dignità. Cosa è l’uomo?


    Hans Jonas, tra i primi si è posto il problema di un’etica per la civiltà tecnologica. Di fronte all’incombente pericolo di distruzione dell’ambiente e quindi dell’umanità, è un dovere primario riproporre la domanda sulla responsabilità collettiva per prevenire il pericolo del collasso ambientale e della distruzione stessa dell’umanità. E’ anzi assolutamente necessario tornarvi a riflettere e a riproporlo in ogni modo, facendo magari emergere anche la paura del disastro generale per smuovere almeno la cattiva coscienza che rode l’edonismo della moderna cultura del godimento e dell’uomo tecnologico come “macchina desiderante”. Questo “carpe diem”, che ripropone il benessere individuale come legge suprema di comportamento, è un andazzo antico. Jonas legava il principio di responsabilità ai comportamenti eco-solidali.


    L’irreversibile erosione delle forme religiose tradizionali (l’autore si riferisce soprattutto al crollo del cristianesimo come religione dogmatica che fonda la morale su di un’autorità esterna all’uomo) rende, a suo avviso, strutturale la crisi etica contemporanea; né lo tranquillizza la definitiva sconfitta della religione “nemica” della modernità. Si affretta, invece, ad aggiungere che se si vuol evitare il rischio di cadere nel baratro del nulla, non basta un semplice “ritorno all’etica”. E’ necessario che essa sia irrobustirla con i tratti della religiosità: “La morale è utile e anche necessaria: ma rimane nell’ordine negativo del divieto. Se le etiche laiche, anche le più sofisticate e più perfette, dovessero costituire l’ultimo orizzonte della nostra esistenza, ci mancherebbe ancora qualche cosa, per la verità l’essenziale. E questo qualche cosa, naturalmente, ci è rivelato nel modo più chiaro dall’esperienza di quei valori che i comunitaristi chiamano “carnali” o “sostanziali”. A cominciare dal più alto: l’amore (sia degli individui sia delle comunità di appartenenza)”. Parafrasando la nota frase di Heidegger, di fronte al prevalere assoluto della cultura tecnologica, si potrebbe allora dire: “Solo l’amore ci salverà!” La necessità di proporre una morale che aiuti ad uscire dalle secche di un individualismo esasperato è la via che deve vedere laici e credenti uniti per salvare la vita.