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Historia Anglorum Plantagenetarum Regum

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    ~ Cerbero ~
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    00 10/11/2012 17:56
    BC 6.3, campagna Feudal full - storica, molto difficile / molto difficile
    Questa AAR con la fazione inglese (da me preferita su tutte) vuole essere, oltre che un interessante svago per il sottoscritto, anche un mio personale e modesto omaggio alla mod di Bellum Crucis e ad i suoi creatori. Le intenzioni di portare la campagna e la cronaca sino al loro termine ultimo or ora ci sono tutte, e tuttavia non posso assicurare tutti coloro che vorranno leggermi che così sarà davvero. "Di doman non c'è certezza" scrisse qualcuno, no?

    Prima di cominciare vorrei precisare soltanto alcune cose.

    Sebbene già la scelta della modalità storica ne dia conto, chiarisco che in questa campagna non si vedrà la creazione di un'enorme impero inglese comprendente gran parte della mappa. Vorrei attenermi su una linea meno ambiziosa e grandiosa, ma più verosimile da un punto di vista storicizzante.

    Per quanto riguarda lo stile, spero non risulti troppo pesante o farraginoso. Anch'esso è pensato per dare una plausibile patina storica al tutto, per quanto essa non risulti vera né filologicamente accurata (non sono infatti neanche vagamente un esperto di storia o di filologia).

    I numeri delle unità coinvolte in ogni manovra militare verranno mantenuti uguali a quelli della campagna su Bellum per quasi tutto il XII secolo, verranno poi moltiplicati per 5 dal 1191 al 1273, ed infine moltiplicati per 10 dal 1274 sino alla fine.

    Chiedo scusa per la parte iniziale di introduzione, la quale non racconta alcun evento della campagna su Bellum, ma fa una grossolana sintesi degli avvenimenti storici precedenti l'incoronazione di Enrico II Plantageneto: non sono riuscito ad esimermi dallo scriverla.

    Detto tutto ciò, sperando che avrete piacere nel leggerla, vado a cominciare questa AAR.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 09/12/2012 14:33]




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    deemax87
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    00 10/11/2012 18:01
    In bocca al lupo :)!!! [SM=x1140522]





    "Chi in cento battaglie riporta cento vittorie, non è il più abile in assoluto; al contrario, chi non dà nemmeno battaglia, e sottomette le truppe dell’avversario, è il più abile in assoluto."
    Cit. - Sun Tzu, L'arte della guerra
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    ~ Cerbero ~
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    00 10/11/2012 18:46
    Seque qui il testo integrale, nelle parti note e rimaste, del manoscritto tardo-trecentesco Historia Anglorum Plantagenetarum Regum ("Storia dei Re Plantageneti d'Inghilterra"). Il testo, frammentato e mutilato di alcune sue porzioni, ci è pervenuto in tali condizioni a seguito dell'incendio che, il 30 marzo 1461, scoppiò nella cistercense Abbazia di Rievaulx, presso il villaggio inglese di Helmsley, alcune miglia a nord di York. Le truppe della Rosa Bianca, guidate da Edoardo IV, avevano sanguinosamente trionfato sulle forze dei Lancaster nella grande battaglia di Towton, avvenuta il giorno prima, e due reparti della cavalleria edoardiana avevano inseguito diversi fuggitivi che, nella loro rotta per cercare la salvezza al porto di Whitby, si erano rifugiati presso gli edifici dell'abbazia. Vicende mai chiarite del successivo scontro là avvenuto causarono un incendio che distrusse buona parte della biblioteca monastica e dei suoi preziosi volumi L'Historia Plantagenetarum, di cui finora non si sono mai ritrovate altre copie, fu mutilata dalle fiamme e dall'acqua e, solo grazie alla disperata opera dei monaci, che tentarono di mettere in salvo quanto più ruscirono di ciò che conteneva il loro scriptorium, la porzione restante poté salvarsi e giungere a conoscenza della contemporaneità.

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    Sua Maestà Riccardo II, Re d'Inghilterra e d'Irlanda e di Francia, fa affidamento su di noi, Lord Alessandro Neville, Arcivescovo di York e Conte di Carlisle, affinché sia composta una cronaca che dia conto della storia del Regno a partire dall'ascesa della gloriosa sua casata dei Plantageneti. Sendo noi, nella nostra opra, guidati dalla più grande fede nella verità di Dio, la quale si dispiega ai nostri occhi attravrso il susseguirsi della Storia delle umane genti, et assistiti dall'industrioso et erudito aiuto dei monaci di tutti gli scriptoria della terra inglese, con grande disponibilità di testimonianze scritte et autentiche, sendo noi stati braccio fedele et accorto, al massimo delle nostre possibilità, al servizio del Sire nostro e del di lui padre, Sua Maestà Re Riccardo confida che saremo indi in grado di dare compiuta e fausta esecuzione ad un cotale ufficio. Ecco dunque, in queste pagine sarà nostro inesausto intento il riportare narrazione esatta degli accadimenti legati alla storia della Corona d'Inghilterra, dal tempo dell'ascesa del primo dei Plantageneti, Re Enrico II, sino al limitare dei giorni nostri. Lasciamo in primis a Sua Maestà et in secundis ai lettori tutti il giudizio circa il valore della nostra opra e la sua capacità di assolvere il compito affidatoci.

    York, anno Domini 1386






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    Enrico Plantageneto vide i propri natali il giorno quinto del mese di Marzo dell'anno Domini 1133, nella città angioina di Le Mans, generato dal seme di suo padre Goffredo il Bello, Conte d'Angiò e del Maine, e dal ventre di sua madre, l'Imperatrice Matilde. Egli era il primogenito della nobile famiglia del Conte Goffredo ed ebbe in sorte quali diletti fratelli minori Goffredo e Guglielmo, e quale fratellastro, per parte di padre, Hamelin, quarto figlio illegittimo di Goffredo. Il Conte d'Angiò era illo tempore detto Plantageneto, a cagion del fatto che egli era solito portare infilato nel proprio copricapo un piccolo ramo di ginestra, o planta genesta, donde deriva – come si puote ben intendere – il nome dell'intera dinastia reale. Un nome, questo, che di... [†]





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    Nel mese di Dicembre dell'anno Domini 1135 spirava, per volontà di Dio, che decise di dare termine ai di lui giorni di senectute e di chiamarlo a Sé, il Re Enrico I. Tristi et accompagnati dalla malinconia erano stati gli ultimi anni del vecchio Sire, giacché niuno erede maschio e legittimo del suo proprio sangue era in vita per succedergli e con sé la linea diretta della regia casata del Conquistatore veniva ad estinguersi. E su codesti suoi neri pensieri circa il futuro del governo del regno, su tutti aveva gravato il dolore per la tragica perdita del suo prode figlio legittimo Guglielmo, che egli amava grandemente e che era morto quindici anni addietro.

    Nell'anno di grazia 1120, infatti, il giorno vigesimo quinto di Novembre, la Nave Bianca naufragò e si inabbissò al largo delle tempestose coste di Barfleur, in Normandia, portando seco le vite di nobili principi e signori. Et alla testa di codesti giovani cavalieri d'Inghilterra v'era il valente figlio del Re, che perdette la vita, nel fulgore dei propri anni, assieme a tutti costoro, quando, impegnati in momenti di letizia per festeggiare degnamente il fruttuoso periodo che avevano trascorso in terra francese, furono ghermiti dalla triste Morte, che nera et inaspettata – la volontà di Dio è imperscrutabile – suole spezzare i cuori degli homini. I flutti accolsero, quel giorno, i vigorosi corpi di oltre trecento tra i più valenti e fulgidi giovani del Regno, oltre a quello del Principe Guglielmo. Et in codesto modo, non l'unica fu la linea dinastica del Re ad essere interrotta, bensì furono intaccate quelle di molti feudi e casate signorili, generando scompiglio e lutto generali.

    Si racconta che da allora il Sire d'Inghilterra smise di sorridere e che per tutto il resto della sua vita niuno poté più vedere sulle sue labbra espressione di letizia.

    E si racconta inoltre che, all'epoca, strani mormorii strisciarono per la Corte, mormorii i quali alludeano ad un'occulto complotto, ordito da una ristretta cerchia di grandi Baroni, che avevrebbero fatto sabotare la Nave Bianca per spezzare la forte discendenza della Corona et acquisire così maggior potere su un Trono indebolito. Se ciò corrisponde alla realtà e codesto invero era l'intento loro, allora – possiamo oggi dire in grazia di ciò che il Signore, attraverso il dispiegarsi della Storia, ci ha finora mostrato del destino che ha disposto per l'umane genti – i loro piani, se magari promettenti agli inizi, si rivelarono infine infruttuosi, et anzi si rivolsero contro gli stessi che li avevano elucubrati.

    Il Re, dunque, perdette in quel nefasto evento il suo unico erede maschio legittimo, oltre che due suoi figli illegittimi, et a lui rimanea la sola Matilde, battezzata col nome di Adelaide, sua unica figlia legittima. Ma ella non potea succedergli, giacché al tempo era moglie del Sacro Romano Imperatore Enrico V. Il Re convolò dunque a nozze con Adeliza, figlia del Duca della Bassa Lorena, Goffredo di Lovanio, dalla quale sperava di ricevere un nuovo erede maschio. Ma l'unione si rivelò, negli anni successivi, infruttosa e niuno figlio diede al Sire.

    E tuttavia l'Imperatore germanico morì nell'anno 1125 e Matilde, rimasta vedova et impedita nel conservare a sé le insegne e la dignità imperiali per poterle trasmettere ad un nuovo marito, accolse indi la richiesta del padre che le chiedeva di tornare in Inghilterra. Quivi il Re Enrico, potendo apprezzare il di lei fiero portamento et il temperamento capace e risoluto, e risolvendo che tali qualità poteano far di lei un valevole sovrano, la nominò sua diretta erede al trono d'Inghilterra; et era la prima volta nella storia del Regno, se non d'Europa, che una donna avea ad ereditare e cingere la corona. Per consolidare i di lei diritti di succesione, passati due anni, il Re – cosa di certo inusuale e mai avvenuta prima – convocò ad un concilio il cognato suo, Re Davide di Scozia, e tutti i più grandi signori delle terre inglesi, reggitori delle cose terrene come di quelle spirituali, compresi tra essi il suo primogenito illegittimo Roberto di Gloucester, e suo nipote Stefano di Blois. E da ognuno di loro egli pretese il giuramento che, alla sua morte, avrebbero riconosciuto et accettato Matilde quale loro Regina e ad ella avrebbero dato la loro fedeltà di sudditi, giuramento quello che quasi tutti i convenuti accondiscesero a giurare.

    Il Sire Enrico dunque, concluse con insperato successo lunghe trattative diplomatiche con il signore dell'Angiò, da sempre fiero nemico delle patrie terre inglesi di Normandia, diede Matilde, che adusava portare ancora l'appellativo di Imperatrice, come fece per tutta la vita, in sposa al giovane Goffredo Plantageneto, Conte d'Angiò e del Maine. Il Re, lungimirantemente, andava in cotal modo a pacificare le terre inglesi d'Oltremanica e ad ingrandire i futuri feudi della Regno in Francia. Il matrimonio, tuttavia, non risultò affatto gradito a tanti tra i Lord che l'anno precedente aveano prestato il giuramento di lealtà, i quali già eo tempore avevano mal digerito il concilio e la faccenda della succesione di Matilde, e costoro disconobbero indi la propria solenne promessa. Essi furono però costretti dal Re a giurare nuovamente nell'anno 1131, dopo che alcuni nobili riottosi erano stati ricondotti all'ubbidienza con la forza delle armi.

    Dall'unione di Matidle con Goffredo – come abbiamo già avuto modo di dire precedentemente – nacquero tre figli, sani e forti, il primo dei quali fu Enrico, venuto alla luce nel 1133. Quello stesso anno il Re si recò nelle terre di Normandia per far visita alla figlia e vedere il proprio nipote, da poco nato. Fu durante quel soggiorno che insorsero, tra il Sire da una parte e la figlia Matilde et il genero Goffredo dall'altra, dispute et incomprensioni accese, tutte vertenti su talune questioni circa i territori di alcuni feudi di cui ormai s'è persa memoria. Tali diatribe contribuirono a che tutti quei nobili d'Inghilterra che già non vedevano di buon occhio l'Imperatrice Matilde accrescessero nei loro animi l'astio verso l'erede del Regno. Et accadde proprio a quel tempo, mentre si trovava ancora Oltremanica, impegnato in codeste dispute, Re Enrico morisse per un morbo improvviso nella cittadina di Saint-Denis-le-Fermont, ove la Corte aveva momentaneamente preso sede, nel 1135. La linea diretta della Casa di Normandia e del Conquistatore si estinse con lui.






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    Ordunque, sendo morto il Re Enrico I, subito i Baroni inglesi, ritenendosi impropriamente svincolati dai giuramenti che, quasi costretti, aveano prestato al Sire pochi anni addietro, convennero in concilio per discutere della succesione e risolvere a favore di uno dei candidati. Grande fu allora l'indignazione dell'Imperatrice, la quale a buon et iusto diritto reclamava come ella sola fosse la legittima erede al Trono d'Inghilterra, e per discendenza di sangue e per volontà di suo padre il Re e per il solenne giuramento che i Lord aveano, innanzi a Dio, giurato al Sire Enrico.

    Nel frattempo, il cugino minore di Matilde, figlio terzogenito della sorella del Re Adele, Stefano di Blois, Conte di Mortain e Boulogne, che grande prestigio vantava in seno alla nobiltà inglese, raggiunse l'Inghilterra per perorare la propria candidatura. Egli fu accolto con grande entusiasmo e benevolenza presso Londra; e tuttavia il consesso dei nobili indugiava ancora, indeciso. Gli venne dunque in soccorso l'allora potentissimo Vescovo di Winchester, suo fratello minore Enrico di Blois, il quale, forte della ricchezza et influenza della Chiesa in Inghilterra, dei suoi stretti legami con il Santo Padre a Roma, e dell'amicizia con molti Baroni, convinse infine la nobiltà ad eleggere il Conte di Mortain Re d'Inghilterra. E nemmeno il ricorso che l'Imperatrice Matilde sottopose all'attenzione del Papa Innocenzo II, tentando di far valere la sua discendenza, la volontà del padre defunto et il giuramento, potè fermare l'ascesa al trono di Stefano, giacché il Sommo Pontefice finì per sostenere il Vescovo di Winchester nelle sue scelte. Fu così che Stefano, preferito dai Baroni per la sua indole mite, e "scelto e fatto Re" – come le voci d'allora presero a dire – dalla Chiesa e ad essa legato da vincolo di riconoscenza, venne incoronato il giorno vigesimo sesto del mese di Dicembre dell'anno Domini 1135 a Westminster.

    Re Davide I di Scozia, zio dell'Imperatrice, si mosse allora per sostenere in armi le pretese di sua nipote et invase breve tempore le terre settentrionali di confine: il Cumberland e lo Yorkshire. Tuttavia egli finì per siglare un accordo di tregua e pace con il nuovo Re Stefano, accorso nel frattempo con le proprie truppe per respingere l'invasione. Così pure il potente fratellastro di Matilde, Roberto di Gloucester, il quale si era rifiutato inizialmente di riconoscere il Blois come sovrano, infine si accordò con Stefano.
    Matilde era, in quel tempo, in attesa del suo figlio... [†]

    ~


    Il parziale fallimento della sua impresa in Normandia, durante la quale avea scontentato diversi Baroni et in particolar modo il nobile Roberto di Gloucester, costò caro al Re Stefano. Lord Roberto si riavvicinò infatti alla sorellastra Matilde e strinse alleanza con lei e suo marito, il Conte d'Angiò; pubblicamente egli disconobbe poi il Re e lo denunciò quale usurpatore del Trono. Unitosi con le sue schiere alle truppe di Davide I di Scozia che nuovamente marciava contro l'Inghilterra, fu però con questi duramente sconfitto presso Cowton Moor nella Battaglia dello Stendardo, da alcuni detta altresì Battaglia di Northallerton, e costretto alla fuga.

    Re Stefano sedeva dunque ancora saldamente sul suo trono, forte della benevolenza dei Baroni che lo avevano insediato e, sopra ogni altra cosa, forte del decisivo sostegno di suo fratello, il Vescovo di Winchester Enrico, il quale, una volta innalzato dal Santo Padre alla ulteriore dignità di Legato Papale, era in grado di mobilitare come ritenea più opportuno la gran parte delle energie e delle sostanze della Chiesa in Inghilterra.

    Fu indi – come a questo punto si puote ben intendere – un atto cieco e improvvido, nonché arrogante, quello che il Re compì nell'anno di graza 1139: cieco e improvvido giacché Stefano non sembrò avere – o non volle avere – piena consapevolezza di quanto il suo destino fosse legato alla benevolenza dei Vescovi, arrogante giacché, privo di codesta coscienza, con cotanti nemici et avversari che premevano di qua et insidiavano di là, tentò di sottomettere e ridurre il potere di quello stesso grande clero che era la base fondamentale per il suo proprio. Egli infatti fece imprigionare il Vescovo di Salisbury Ruggero, il quale rifiutava di consegnare il proprio castello alle schiere regie, e dopo la di lui morte, si appropriò di tutti i beni dell'Episcopato di Salisbury. Lo sconcerto e l'indignazione che tale atto suscitò in Inghilterra furono striscianti e provocarono l'ira e la condanna del potente Vescovo Enrico, che più di ogni altra cosa era sempre stato intento a perseguire, a modo proprio, il maggior bene per la Madre Chiesa. Cosicché il sostegno della comunità e dei nobili ecclesiastici prese a venir pesantemente meno.

    L'Imperatrice Matilde, scaltramente, scelse proprio quel momento, che vedeva tra le altre cose anche la vittoria parziale di suo marito, il Conte Goffredo Plantageneto, sul Ducato di Normandia, per dar avvio alla sua offensiva in Britannia. Sbarcata sul suolo inglese alla testa di 140 cavalieri et accompagnata dal fratellastro Roberto di Gloucester, ella si congiunse con le forze di diversi nobili sollevatisi contro Stefano e, forte dei castelli e delle armi di codesti Lord suoi alleati, portò la guerra contro le forze del Re. Diversi furono i successi delle truppe dell'Imperatrice, particolarmente nell'Inghilterra occidentale, ma non sufficienti.

    Trascorso che fu infatti un anno e più, la situazione era in stallo e niuna delle due fazioni riusciva ad avere ragione dell'altra. E la guerra imperversava, e continuava, in un irrequieto et, ad un tempo, immoto equilibrio; e le alleanze e le lealtà dei nobili, grandi Baroni o piccoli signori che fossero, cambiavano innumerevoli a seconda dei calcoli di convenienza e delle decisioni di ciascuno, e se Matilde, magari, perdeva l'amicizia di due Conti, che si volgevano a Stefano, a quest'ultimo finiva per venir di lì a poco a mancare quella di un Duca o di un grande Vescovo. Et in un modo siffatto la guerra si protrasse quasi sino al suo termine et il disordine era tale che le terre e le genti di molti dei feudi d'Inghilterra erano grandemente colpite e provate da codesta Anarchia.

    Nell'anno di grazia 1141 l'esercito di Roberto di Gloucester, ormai gran generale dell'Imperatrice, diede battaglia a quello del Re nei pressi della città di Lincoln. Le due schiere pressappoco si eguagliavano per possa, entrambe contavano circa un migliaio di uomini, tra cavalieri e fanti, ma le forze di Lord Roberto ebbero la meglio e, nel culmine della battaglia, fecero prigioniero Stefano, le cui schiere si diedero alla fuga pochi momenti dopo la di lui cattura. Il Re fu indi incarcerato nel castello di Bristol, una delle roccaforti delle forze dell'Imperatrice. Colà egli giurò che avrebbe riconosciuto sua cugina Matilde quale legittima Regina d'Inghilterra e che si sarebbe poi ritirato in esilio nei suoi possedimenti francesi di Blois e di Boulogne.

    L'Imperatrice dunque si diresse in marcia verso Winchester et alle porte della città, sulla strada, le venne incontro il potente Vescovo Enrico di Blois, il quale le rese omaggio e, ottenuta da lei assicurazione che la Chiesa avrebbe mantenuto piena libertà per quanto riguardava i propri affari sia spirituali che temporali, la riconobbe Domina Anglorum, Signora delle genti d'Inghilterra. Egli, indi, le aprì i cancelli di Winchester, ove pochi giorni dopo un concilio riunitosi nella grande cattedrale la salutò quale Regina d'Inghilterra.

    Matilde giunse allora a Londra per essere finalmente incoronata nell'Abbazia di Westminster, le cui mura, da ben prima della venuta del Re Guglielmo il Conquistatore, erano solite vedere l'incoronazione e l'unzione di ogni sovrano d'Inghilterra. Tuttavia, prima che ella potesse essere incoronata, il suo diniego a riconoscere i privilegi della città di Londra, l'aperta ribellione della popolazione cittadina e l'avvicinarsi di un esercito guidato dalla moglie di Stefano, Matilde di Boulogne, la costrinsero a fuggire. Et il Vescovo di Winchester Enrico subito ritirò l'appoggio datole e riconobbe nuovamente il proprio fratello Stefano quale legittimo Re. Le schiere dell'Imperatrice cinsero dunque d'assedio Winchester per prenderne possesso e piegarne il Vescovo una volta per tutte. E fu proprio in occasione di quell'assedio che Lord Roberto fu fatto prigioniero dai soldati di Matilde di Boulogne, che aveano sorpreso gli assedianti con un attacco alle loro spalle.

    La Domina Anglorum perdea così il più valente dei suoi fidi e di gran lunga il suo miglior generale, e, per riaverlo indietro, si vide costretta a scambiare la sua liberazione con quella di Stefano, scambio di prigionieri questo che in effetti avvenne. Stefano fece indi ritorno a Londra et il giorno di Natale fu per la seconda volta incoronato nella cattedrale di Canterbury. Egli riprese poi l'iniziativa e, una volta radunate le proprie schiere, attaccò le forze di Matilde: ben presto pose l'assedio al castello di Oxford, ove l'Imperatrice si era rifugiata. Fu solo in grazia di una fortunosa fuga, avvenuta calandosi dai ripidi bastioni della fortezza, che ella, assistita dalla Provvidenza, poté salvarsi dalla caduta del castello e dal cadere nelle mani del nemico Stefano. Sfuggita all'assedio dunque, la Domina si ritirò a Wallingford.

    Non il ritorno dalla prigionia del valoroso Lord Roberto di Gloucester, che conducea seco altri 360 cavalieri, né l'arrivo del giovane figlio Enrico in Inghilterra, né persino la vittoria ultima del marito Goffredo Plantageneto sulla Normandia, di cui veniva ad assumere il titolo di Duca, valsero alla Domina la possibilità di far prevalere le sue sorti su quelle del Re Stefano. La guerra mossa dall'Imperatrice continuò, con grande scempio di vite e consumo di ricchezze e disordine nel Regno e sofferenza per le genti, sino all'anno 1147, quando Lord Roberto morì di malattia. L'Imperatrice, stanca e sfibrata nelle forze, sebbene il suo animo rimanesse saldo nei propositi et ardente nella volontà, si risolse a cedere i propri diritti al Trono d'Inghilterra in favore di suo figlio primogenito, Enrico Plantageneto, cui andava ora il dovere di sostenerne la pretesa, con la forza delle armi, nel conflitto contro Stefano. Ella attraversò la Manica e fece ritorno nei possedimenti francesi dei Plantageneti, ove risiedette e consigliò, dall'alto della sua esperienza e del suo acume nelle cose del potere secolare, il figlio Enrico, il quale mai rinunciò ad ascoltare le sagge parole di una sì grande consigliera, sia prima che dopo la sua ascesa al Trono, per la qual cosa gli fu da taluni dato il soprannome di Fitzempress, Figlio dell'Imperatrice.

    Enrico Plantageneto dunque attese qualche tempo, trascorso il quale si... [†]

    ~


    Nell'anno Domini 1152, seguendo il saggio consiglio di sua madre, Enrico, già Duca di Normandia per volere di suo padre e, dopo la di lui morte improvvisa, ora anche Conte d'Angiò, sposò Eleonora d'Aquitania. Ella era sì già stata sposata con il Re di Francia Luigi VII, matrimonio che era poi stato dichiarato nullo dalla Chiesa, et aveva sì ben più anni del Plantageneto, ma era erede del ricco Ducato d'Aquitania e della Contea del Poitou e portava in dote al suo nuovo sposo proprio codesti diritti ereditari. Fu così che i possedimenti plantageneti in Francia si espansero ulteriormente e ciò rafforzò di molto la posizione di Enrico.

    Re Stefano, nel frattempo, aveva cinto d'assedio il castello inglese di Wallingford, una delle roccaforti delle forze plantagenete, et il Duca Enrico era impossibilitato a soccorrerlo poiché intento a fermare l'invasione delle truppe francesi di Luigi VII, le quali marciavano contro la Normandia et alle quali si erano uniti il figlio del Re Stefano e Conte di Boulogne, Eustachio di Blois, et il fratello dello stesso Enrico, Goffredo d'Angiò. Tuttavia il Plantageneto, riuscito a sconfiggere la soldataglia francese e ad aver ragione della ribellione di suo fratello, sbarcò in Inghilterrà e soccorse Wallingford, ove sconfisse le truppe del Re e liberò i suoi alleati assediati, che aveano resistito con tenacia e lealtà per molti mesi.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 09/12/2012 13:31]




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    ~ Cerbero ~
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    00 12/11/2012 10:02
    deemax87, 10/11/2012 18:01:

    In bocca al lupo :)!!! [SM=x1140522]


    Crepi! Grazie, deemax. [SM=g27963]





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    ~ Cerbero ~
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    00 12/11/2012 11:45
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    L'anno successivo, il 1154, giunse però improvvisa – tutto è come Dio dispone – la notizia della morte del primogenito figlio del Re, Eustachio, la quale recò grandissimo dolore a Stefano et andò ad aggiungersi, nel di lui animo, all'afflizione già provocata dalla scomparsa della devota moglie Matilde di Boulogne. E così, fiaccato nello spirito, sentendosi ormai vecchio e troppo stanco per continuare la guerra a giovamento dell'eredità di suo figlio minore Guglielmo, Re Stefano si risolse a cedere e si incontrò con il Duca Enrico. Essi stipularono tra loro un trattato, in base al quale Stefano riconobbe come suo legittimo successore al Trono d'Inghilterra Enrico, et in base al quale, inoltre, a Guglielmo, figlio del Re, restavano i propri diritti ereditari sui feudi di Blois e di Boulogne. L'anno di grazia 1154 fu dunque invero pieno di grazia, giacché, dopo tanto spargimento di sangue e tanta devastazione, finivano con sollievo di tutti, grandi nobili, piccoli signori, pii oratores, ricchi mercanti, villici contadini e plebei cittadini, i tempi funesti dell'Anarchia. Et il giubilio di quell'anno fu ancor più grande, dopo cotante tribolazioni, poiché un nuovo e grande Re saliva sul Trono d'Inghilterra, portando pace e sicurezza ad una terra esausta: Stefano infatti morì in Ottobre et il Duca Enrico gli succedette, quietamente e legittimamente, venendo incoronato a Westminster il giorno decimo nono di Dicembre.

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    Enrico, figlio di Goffredo il Bello e di Matilde l'Imperatrice, Conte d'Angiò e del Maine, Duca di Normandia et Aquitania e Conte del Poitou, secondo del suo nome, era Re d'Inghilterra e la dinastia reale dei Plantageneti era fondata.

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    Et il Regno era nuovamente in pace, il giusto ordine voluto da Dio ristabilito dopo diciannove anni d'Anarchia, et anzi, esso risultava persino ben più grande di quanto non fosse prima della guerra civile: il Re avea infatti riunito sotto la sua corona e le tradizionali terre d'Inghilterra e i feudi francesi dei Plantageneti, i quali si estendevano dalle tempestose coste settentrionali della Normandia alle propaggini meridionali dell'Aquitania. Il Regno d'Inghilterra governava ora su tutte le terre che si spandeano dal freddo confine con la Scozia sino alle lontane pendici dei Pirenei.

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    Dopo che suo figlio, incoronato a Westminster, si era infine seduto sul Trono e si era insediato nella sua nuova corte a Londra, l'Imperatrice, finalmente soddisfatta nelle sue legittime pretese e compiaciuta nel suo fiero orgoglio, si ritirò per il resto della vita nell'Abbazia di Notre-Dame-du-Pré, a Rouen, ove avrebbe condotti i suoi sereni giorni di senectute. Colà spesso si potea veder il Re, il quale si recava periodicamente a fare visita alla veneranda sua madre, per riceverne l'astuto consiglio riguardo le faccende del Regno.

    Non un attentato alla vita del nuovo Re all'interno della Cattedrale di Canterbury, né la momentanea ribellione del fratello minore Goffredo, che fu poi stroncata et anzi finì col vedere la riappacificazione dei due Plantageneti, valsero a funestare l'ascesa al trono di Enrico, il quale, sebbene non fosse certo carente di avversari et animi ostili, riscuotea la festosa fiducia delle genti inglesi e la giusta obbedienza et il vivo rispetto dei nobili.

    E quivi, rammentandoci di quelle voci di cui abbiamo accennato supra, in ragion delle quali un oscuro et indefinito complotto di alcuni grandi Baroni avea causato il naufragio della Nave Bianca et avea indi portato con ciò al germinare dell'Anarchia, possiamo constatare, se quelle voci davvero corrispondono al vero, come Dio avesse voluto rispondere alla superbia di coloro che tentatavano di deformare il Suo ordine terreno e destabilizzare il Regno d'Inghilterra, con grande risolutezza, ponendo sul Trono il più forte Re che su di esso si fosse mai seduto dopo Guglielmo il Conquistatore.






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    La pace, come un salubre balsamo per membra da fin troppo tempo affaticate e sfiancate, si spanse per l'intero Regno e chetò le grandi tribolazioni delle genti et i torvi pensieri dei nobili. Le piccole faccende quotidiane, la cui semplice e benefica fatica suole rasserenare i precordi degli homini, che fossero esse l'aratura del campo per il contadino, l'immagazzinamento dei sacchi di lana per il mercante, l'amministrazione della terra e della giustizia per il Lord o la celebrazione del rito sacro per il monaco, presero possesso delle giornate di ciascuno.

    E tale nuovo clima di serenità, che quasi si potea tastare nell'aere, ebbe gioco persino nell'evitar scontri di rilievo in occasione della riassegnazione di alcuni grandi feudi d'Inghilterra e Francia che il Re volle compiere poco tempo dopo, al fine di rafforzare la posizione della dinastia plantageneta e prevenire nuove lotte intestine. Duchi e Conti, anche loro ammorbiditi nell'animo e vinti dal clima pacifico, fiduciando nel prestigio del nuovo Re, si prestarono ad una siffatta riorganizzazione dei benefici, la quale, in tempi diversi, avrebbe altrimenti e certamente scatenato la loro ribellione. Solo pochissimi di loro, e tutti piccoli signori, contestarono l'atto regio di riassegnazione, che comunque, – era cosa innegabile – riordinava il Regno in modo iusto et equo, et a nessuno facea gran torto, nemmeno a coloro i quali sino a soli due anni prima erano stati i nemici del Re Enrico: i Blois-Boulogne. Ognuno dei piccoli e sparuti oppositori potè indi essere facilmente riportato all'ordine dal Re, o con maniere affabili, o con la di lui decapitazione. Et inoltre tutti quei castelli, numerosi invero, che i signori aveano edificati a partire dall'inizio dell'Anarchia, senza che per essi fosse stata rilasciata l'autorizzazione regia, furono demoliti per ordine di Enrico II.

    Hamelin Plantageneto, fratellastro maggiore del Re per parte di padre, la cui fedeltà era indubbia, fu nominato Alto Secriffo del Nottinghamshire e del Derbyshire, e gli furono, una volta tolte ai Kevelioc, assegnate le due contee sorvegliate da Nottingham, uno dei più possenti castelli d'Inghilterra e punto nevralgico del Regno in Britannia. Ugo di Kevelioc, nipote, per parte di madre, del prode e defunto zio Roberto di Gloucester, come compenso per la perdita del Nottinghamshire fu nominato Conte della ricca Winchester, titolo cui da sempre aspirava. Il grande Ducato dello Yorkshire fu dato al più giovane dei fratelli del Re, Guglielmo Plantageneto, e per mantenere in mano della dinastia reale la più grande città dell'Inghilterra settentrionale, con il suo ampio feudo, e per ripagarlo in parte dei benefici per lui previsti in occasione della mancata sepdizione in Irlanda, che il Re non compì a cagion del parere negativo espresso dall'Imperatrice Matilde a riguardo. Il Ducato di Normandia fu invece legittimamente riconsegnato ai Gloucester-Normandia, et in particolare a Lord Guglielmo, il quale era il figlio secondogenito del Conte Roberto di Gloucester, fratellastro dell'Imperatrice. Al terzogenito omonimo del defunto Conte di Gloucester, Roberto di Gloucester-Normandia, restavano gli atavici possedimenti della Contea del Devon, mentre al primogenito Hamon veniva concessa, in onore alla lealtà et alla dedizione alla causa plantageneta dimostrate da sua padre durante gli anni dell'Anarchia, la Contea dell'Angiò, terra natia dei Plantageneti. Infine al fratello Goffredo, il Re cedette il proprio titolo di Duca d'Aquitania, al fine di legarlo definitivamente a sé. E si racconta che, commosso dalla benevolenza di suo fratello maggiore, cui due volte si era apertamente ribellato in passato, Goffredo fece pubblica penitenza, cosa che colpì l'ammirazione di molti, e giurò, per espiare le sue colpe passate, assoluta et eterna fedeltà ad Enrico. Il Re, dire non si puote se nell'impeto del sentito momento fraterno o se per una decisione presa precedentemente, lo fece alzare da terra, ove Goffredo s'era inginocchiato nel prestare il proprio giuramento, e lo riconobbe suo erede legittimo al Trono – fintantoché un primogenito del Re non fosse nato –, nominandolo Principe d'Inghilterra.

    Tuttavia, in codesto riordino, il Re tenne per sé il ricco Ducato d'Essex, e pretese che, escluso il Principe, i nuovi signori dei feudi appartenutigli direttamente, ovvero la Contea d'Angiò et il Ducato di Normandia, accettassero con solenne giuramento, enunciato e scritto, di governare pro tempore, sebbene vita natural durante, quelle terre in nome e per conto della Corona, come suoi diretti emissari, senza che su di esse potessero in futuro reclamare diritti ereditari i loro discendenti.

    ~


    Il Re potè dunque, tacitate le ultime questioni interne, rivolgere il proprio sguardo e la propria attenzione ad alcune faccende estere che reclamavano la sua attenzione.

    In primis, v'era la questione del Galles. Da tempo infatti i Gallesi erano nuovamente sfuggiti alla dominazione inglese, precedentemente imposta loro dai Baroni di Guglielmo il Conquistatore, et aveano espugnato i castelli da questi colà costruiti per difendere e controllare il territorio. Non solo: durante i tempi dell'Anarchia, mentre i massimi poteri d'Inghilterra erano intenti a darsi battaglia, l'uno contro l'altro armato, codeste genti riottose aveano profittato della situazione et aveano, superando il confine, subdolamente compiuto razzie e saccheggi nelle limitrofe terre di Gloucester e Chester. Esse erano guidate da capibanda e piccoli signori che si consideravano pari dei grandi nobili inglesi e che aveano eletto il proprio "Re" tra di loro. Salito al Trono il Plantageneto e sendo stati gli ultimi tentativi loro di scorreria fermati con la forza dalle pattuglie del Conte di Devon e dell'Alto Sceriffo di Nottingham, ora che essi, come gli altri Lord, poteano nuovamente adoprarsi alla custodia dei confini e delle terre, i Gallesi aveano cessato i loro sconfinamenti. E tuttavia rimaneano una minaccia, per quanto poco significativa, alle regioni centrali et occidentali dell'Inghilterra et un'offesa alla stessa persona del Re.

    Fu così che Lord Hamelin, Alto Sceriffo di Nottingham, su ordine del Sire Enrico, radunate diverse truppe, per la maggior parte di leva contadina, giacché le nuove guarnigioni erano ancora in addestramento un po' in tutti i feudi inglesi, marciò con 1.200 uomini contro il Galles.


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    Preso possesso dei centri principali e strategici, tra i quali erano il porto di Cardigan e la città di Montgomery, che i gallesi chiamavano nel loro barbaro idioma Aberteiti e Trefaldwyn, nell'anno 1156 strinse d'assedio il castello di Bangor, nel settentrione, ov'aveva trovato rifugio il cosiddetto Re gallese di Gwynedd. Dopo poche settimane Lord Hamelin ordinò l'assalto delle mura, non potendosi permettere di aspettare che fossero i nemici a cedere: l'inverno infatti era alle porte et il nuovo Cancelliere dello Scacchiere, l'Arcidiacono Rufo di Basingstoke, curatore delle casse del Regno, reclamava a gran voce azioni rapide e poco dispendiose. La battaglia che seguì fu breve ma aspra, ed ebbe gioco, nella sua risoluzione, più il numero delle truppe di Lord Hamelin che la loro qualità od il loro valore.

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    L'assalto alla fortezza ebbe luogo in un freddo giorno d'autunno, per quanto assolato, e vide le torri lignee e le numerose scale muovere contro le mura di pietra et i lancieri miliziani sciamare sugli spalti da ogni lato.

    Il loro numero – come detto – era ingente e permise ai soldati inglesi di dedicarsi sia alla pugna sui bastioni sia allo scardinamento dei cancelli, dai quali, una volta aperti, poterono entrare le compagnie di cavalleria leggera dei servienti, che diedero man forte all'assalto principale per le strade del castello.


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    I Gallesi, con i propri razziatori et arcieri, tentarono di aver ragione della rilevante superiorità numerica del nemico, consci che la loro libertà dipendea dall'esito di quella battaglia, e pugnarono tenacemente. Ma il numero degli Inglesi era di gran lunga superiore e gli accessi ai bastioni procurati dalle scale e dalle torri troppi per potervisi opporre con efficacia. Alla fine della giornata tutti i 670 difensori del castello erano morti o prigionieri e la fortezza espugnata. Lord Hamelin, dopo aver dato lettura dell'editto reale che proclamava la soppressione della ribellione gallese e che annunciava come il Galles avrebbe d'allora in poi fatto parte dei feudi direttamente amministrati dalla Corona, fece decapitare nella piazza il loro Re di Gwynedd e ne fece inviare la testa, assieme alle lacere insegne gallesi, a Londra. La conquista di Bangor e la successiva spedizione, vittoriosa, per prendere la cittadina di Castletown sull'Isola di Man, segnarono la fine della guerra contro il Galles, i cui abitanti adusavano chiamare Cymru.

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    ~


    Analogo corso seguirono, l'anno successivo, gli eventi della campagna in Bretagna, guidata da Guglielmo di Blois, figlio secondogenito del defunto Re Stefano.


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    Il Re Enrico II d'Inghilterra era, illo tempore, costretto in una situazione scomoda e tesa con il vicino Regno di Francia. Sebbene infatti egli governasse su un territorio di alcune volte più vasto rispetto a quello del Re francese, era invero a questi legato da vincolo di obbedienza feudale. La Francia, inoltre, sebbene modesta come dimensioni, restava comunque un nemico temibile, forte dei suoi valorosi cavalieri, i più rinomati della cristianità, et era inquieta et intenta ad armarsi, giacché vedea di cattivo occhio il grande potere dei Plantageneti inglesi sul continente. Per risolvere la situazione, Enrico profittò dell'invito inviatogli dal Re di Francia Luigi VII Capeto, il quale lo convocava perché gli rinnovasse l'omaggio feudale, e si presentò in Francia alla guida di una grande ambasceria, di cui faceano parte il suo Lord Cancelliere, Tommaso Becket, e soprattutto l'astuta e diletta sua madre, l'Imperatrice Matilde, che avea pianificato col figlio una tale linea d'azione. Grande fu l'eco di cotali ambasciatori alla Corte di Francia, e dotte e difficili le discussioni che in quell'occasione si fecero. Difficili, certo; ma senza alcun dubbio fruttuose: l'accordo diplomatico che ne seguì, noto come il Trattato di Amiens, luogo ove infine erano convenuti i due sovrani, slegava il Re Enrico e tutti i feudi francesi che egli governava dal vincolo vassallatico nei confronti del Re di Francia, e, in cambio, cedeva il titolo et il controllo della Contea del Limosino ai Francesi, assieme a tutti i diritti che i Plantageneti poteano vantare sulle contee di Tolosa e dell'Alvernia e Rouergue. Veniva inoltre stipulata un'alleanza tra i due reami, cosicché l'Inghilterra poté avere, sul continente, l'intero confine sud-orientale coperto e sicuro, mentre la Francia potea concentrarsi in tutta tranquillità a contrastare le pressioni del Sacro Romano Impero germanico ad est e quelle del vivace Regno d'Aragona a sud.

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    Il rafforzamento della Francia era infatti molto utile al Re, giacché gli avrebbe permesso di ottenere una relativa sicurezza dai potenti vicini, alcuni dei quali, come la Scozia, particolarmente infidi, e di volgere la propria attenzione e le proprie risorse verso altri obbiettivi.

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    Tutto il popolo, particolarmente quello dei feudi continentali, gioì alle nuove che giungevano dal fausto consesso di Amiens, e crebbe nei cuori degli homini l'ammirazione e la riconoscenza con cui guardavano ad Enrico II.

    Lord Guglielmo di Blois rimanea però senza terra, poiché era egli il Conte di Lemotges a cui era stato sottratto il feudo, et il Re, nella sua riorganizzazione del Regno, volle indi porlo a capo della spedizione contro il Ducato di Bretagna, sul quale l'Inghilterra potea vantare diritti di sovranità, che il Duca di allora, Conan IV di Penthièvre, rifiutava di riconoscere. Il corpo di spedizione inviato, anch'esso comprendente soldataglie di bassa estrazione e di poco addestramento per 1.300 effettivi circa, in ragione degli stessi motivi occorsi per la guerra contro il Galles, percorse le terre d'Angiò e, seguito il corso occidentale della Loira, la attraversò all'altezza di Nantes, cittadina bretone posta a guardia del rispettivo ponte, la quale cadde dopo breve combattimento. Da lì, Guglielmo di Blois puntò dritto sulla città di Rennes, centro del feudo, che il nobile non perse tempo a stringere d'assedio, bensì attaccò quasi immantinenti – le vive obiezioni, mosse dal Cancelliere dello Scacchiere, sui costi di codeste campagne continuavano infatti a dettar legge.

    Anche a Rennes il numero valse più del valore, e con la stessa brulicante modalità vista a Bangor le inesperte e mal equippaggiate truppe inglesi assaltarono le mura lignee della città.


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    E, sebbene i difensori diedero molti pensieri agli assalitori che avanzavano, in special modo con un diffuso utilizzo di frecce incendiarie, le loro soldataglie cittadine non furono in grado di arginare la marea dei lancieri miliziani e dei servienti a cavallo.

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    La pugna finì breve tempore per spostarsi per le strade urbane, ove i difensori poterono esser attaccati da più direzioni et ove furono uccisi per la gran parte. Le schiere inglesi conversero dunque verso la piazza centrale; colà era l'ultima e disperata linea di difesa, costituita da Conan di Penthièvre e dai suoi comites. Mentre Lord Guglielmo entrava in città per i cancelli divelti dall'ariete, il Duca di Bretagna veniva ucciso nella piazza, il di lui corpo e quello del di lui cavallo trafitti da molteplici lance.

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    Alla sua caduta, diversi dei cavalieri suoi comites si arresero, ma altri lottarono con nobile coraggio sino alla morte, che giunse immantinente per mano della moltitudine dei lancieri. Di circa 600 difensori che combatterono sugli spalti e per le strade della città di Rennes, 400 furono uccisi e 200 furono fatti prigionieri. Ma per far ciò, dei 1.300 militi inglesi, più della metà, circa 730, erano morti nell'assalto all'insediamento bretone.

    Prima di prendere legittimo possesso del palazzo ducale, Lord Guglielmo diede pubblica lettura, ai cittadini che erano stati adunati nella piazza, del decreto reale che condannava il defunto Duca ribelle e che nominava il nobile Blois nuovo signore di Bretagna. Egli ordinò indi che la testa di Penthièvre fosse staccata dal corpo et inviata in Inghilterra.

    Con la caduta di Rennes, l'intera Bretagna centrale era presa. La conquista del feudo fu poi definitivamente completata con l'espugnazione della città portuale di Brest, sita all'estremità occidentale delle terre bretoni, in posizione strategica per il controllo delle rotte marittime che collegano il Canale della Manica con il Golfo di Biscaglia. La Bretagna andava così ad aggiungersi ai possedimenti soggetti all'autorità del Re Plantageneto et a compensare sia il Regno che Guglielmo di Blois della perdita della Contea del Limosino, ceduta ai Francesi.


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    [Modificato da ~ Cerbero ~ 09/12/2012 13:42]




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    00 12/11/2012 22:56
    complimenti bella cronaca e belle immagini, anch'io sono un fan degli inglesi :)
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    ~ Cerbero ~
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    00 13/11/2012 11:24
    Grazie, testimonial! Bene, gli inglesi sono fin troppo bistrattati, specialmente dalle I.A., hanno bisogno di fans! [SM=g27960]




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    ~ Cerbero ~
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    00 13/11/2012 19:04
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    Nel frattempo il Regno cominciava a prosperare. I traffici commerciali inverdivano, le strade erano percorse da viandanti e piccole carovane, le greggi e le mandrie pascolavano numerose sui prati e sulle torbiere, sempre nuovi terreni erano strappati agli artigli delle grandi foreste e dei piccoli boschi e messi a coltura; non v'era villaggio, città o castello che non avesse una qualche opra di deforestazione o bonifica in corso, come non v'era insediamento ove non fosse cominciata la costruzione di qualche nuovo edificio, da una cappella ad una bottega per il fabbro, da un banco del grano od un mercato ad una struttura portuale, da un alloggiamento della guarnigione ad una sala consigliare.

    Le iniziative dei mercanti si moltiplicavano e spandevano: diversi tra loro tornarono a viaggiare oltre i confini del Regno in tutta l'Europa occidentale, sostenuti in questo dalla diplomazia del Cancelliere dello Scacchiere, il quale continuava ad inviare i propri legati per raggiungere con gli altri Regni europei accordi commerciali che aprissero le porte delle risorse di ciascuno ai traffici dell'altro.

    In particolare, due rilevanti spedizioni mercantili si dipartirono in quegli anni, tra il 1157 et il 1162, dall'Inghilterra e viaggiarono verso sud e verso est, per raggiungere sia le calde terre iberiche e almohadi, ove avrebbero commerciato sete e tessuti, la carta di Xatavia, l'oro e gli schiavi della catena africana dell'Atlante, sia per recarsi nelle ricche terre italiche, ove la carta di Fabriano, le ceramiche et il vetro veneziani, il marmo della Tuscia e dell'Istria, le sete et il sale della Sicilia sarebbero state le merci da loro trafficate. Anche i giacimenti d'oro della Boemia furono raggiunti, ma colà sempre erano scontri con i mercanti imperiali e polacchi et il controllo di quei traffici passava continuamente dall'uno all'altro, o nelle mani di questi, o nelle mani di quelli o nelle mani di quegli altri ancora. La preziosa ambra delle terre danesi di Selandia, invece, divenne con il tempo esclusivo appanaggio dei mercanti inglesi.

    Le produzioni interne al Regno non erano poi da meno, e spiccavano tra queste i rinomati vini dell'Aquitania et i metalli ferrosi estratti in Bretagna, Devon e Galles. Ma sopra ogni altra cosa, grande ricchezza procurava all'Inghilterra il traffico della lana, la quale, ricavata dalle numerose greggi che si moltiplicavano sempre più, veniva riunita in matasse nei sacchi o filata cogli arcolai e stivata nei porti della Manica, donde, per mare, giungea ai laboratori delle terre fiamminghe, i quali la lavoravano in tessuti. E sì grandi erano codesti traffici che l'allora Conte delle Fiandre, Thierry d'Alsace, un nobile più o meno indipendente dai suoi potenti vicini di Francia e Germania, volle mettervi mano e tassare il commercio della lana con un pesante et iniquo dazio, da cui concupiva di ricavare ingenti ricchezze personali. Gravi erano gli effetti di codesta gabella, i quali incidevano di molto sul commercio laniero e sulle casse dello Scacchiere.

    Già prima che le gilde mercantili, le quali prendeano sempre più a fiorire nel Regno, si presentassero insistentemente in ambascerie persso la Corte, chiedendo a gran voce azioni risolute contro i Fiamminghi, il Re avea risolto assieme ai suoi Lord consiglieri di portare la guerra nelle Fiandre e di sottometerle al potere dell'Inghilterra. Una mossa siffatta avrebbe, d'altronde, non solo riaperte libere e fruttuose strade al commercio della lana, e non solo fatto acquisire al Regno il possesso di un feudo molto ricco, ma avrebbe anche assicurato agli Inglesi il controllo di una regione chiave sul continente e molto ambita e dalla Francia e dall'Impero, le azioni d'invasione dei quali, nei confronti della regione fiamminga, apparivano ai più accorti come una mera questione di tempo. Il Re era inoltre alquanto indispettito dall'arrogante e riottosa irriverenza del Conte Thierry d'Alsace, et all'enessima ambasceria fiamminga che recava uno sdegnoso et offensivo rifiuto di riconoscere le ragionevoli prerogative inglesi e l'apertura di una trattativa sulla questione, incorrendo in uno degli esplosivi accessi d'ira per i quali il suo forte carattere era noto, il Sire ordinò che i messi fiamminghi fossero ricondotti in malo modo alla loro terra natia, recando seco al proprio signore unicamente ceppi e catene, l'unica risposta appropriata che per Enrico II potea darsi al Conte delle Fiandre.

    Nel frattempo, altre nuove erano giunte a Corte, nuove che riferivano della presa della vasta Contea di Tolosa da parte delle forze aragonesi e che, sebbene non individuassero un pericolo immediato per il Regno, convinsero il Re di come un'espansione et un rafforzamento dell'Inghilterra erano urgenti e d'uopo.


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    Fu così che il Re radunò le truppe necessarie nei pressi di Canterbury, nell'Essex, e parò un esercito sì di medie dimensioni, cossicché le casse del Regno non fossero dissanguate, ma altresì di qualità elevata, composto da due battaglioni di lancieri corazzati, da altri tre di archi lunghi – armi codeste che il Re avea adottato nelle proprie forze dopo che Lord Hamelin ne aveva potuto constatare la grande efficacia in occasione della guerra contro il Galles – e dai due battaglioni di cavalieri feudali che costituivano la guardia del Sire. Imbarcatosi al porto di Chatham, all'estrema foce del Tamigi, et attraversate sulle navi le acque comprese tra lo Stretto di Dover et il Mare del Nord, sbarcò con i suoi 450 uomini circa nei pressi del porto fiammingo di Bruges, il quale quasi subito cadde nelle mani degli Inglesi. Fu indi respinta una manovra delle forze fiamminghe che accorrevano, in ritardo, a difendere Bruges. Apertisi la strada a colpi di lama, le truppe del Re mossero contro la città di Gand, capitale delle Fiandre, la quale fu cinta d'assedio nell'anno Domini 1160 e tuttavia non fu assaltata.

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    Le forze inglesi, infatti, erano inferiori al numero dei difensori cittadini, e per loro un assalto frontale delle mura avrebbe costituito un grande rischio; altresì gli assediati, guidati dal Conte Thierry d'Alsace stesso, si asteneano dall'effettuare un attacco di sortita contro gli assalitori, giacché aveano timore dalla fama del Re e delle sue truppe, conquistata nelle terre di Bruges poc'anzi, e giacché gli Inglesi, prevedendo un lungo assedio, aveano eretto tutt'attorno alla città terrapieni e palizzate difensive, al fine d'isolare completamente l'insediamento et impedire colpi di mano da parte dei Fiamminghi. Per sostenere i costi dell'assedio, oltre ai bisanti che – v'è da dire: al contrario di quanto si possa pensare vista l'accortezza dello Scacchiere sotto l'Arcidiacono Rufo – arrivavano quasi con generosità dal tesoro del Regno, il Sire permise che fossero saccheggiate alcune magioni e case nobiliari, ma soltanto quelle direttamente riconducibili al Conte et ai suoi fiancheggiatori, mentre le proprietà dei plebei e dei piccoli nobili fiamminghi che s'erano schierati dalla parte di Enrico II furono risparmiate.

    Si racconta di come, dopo alcuni mesi d'assedio, un messo del Re s'avvicinasse ai cancelli sprangati della città e, data una voce alle sentinelle di guardia nemiche che lo vedevano ivi giungere per parlamentare, comunicasse ai difensori l'offerta del Plantageneto, il quale avrebbe risparmiato la vita di tutti loro in cambio della resa immediata. Dagli spalti lignei s'affacciò indi lo stesso Thierry d'Alsace, il quale lanciò nell'aere, in direzione del messo, un qualche cosa di metallo. Il messo guardò il grovigio ferroso ch'era rovinato sul terreno, a qualche passo da lui, e vi riconobbe le stesse catene e gli stessi ceppi che il Re avea irosamente consegnato, mesi prima, all'ambasceria fiamminga, e sentì il Conte esclamare a gran voce dalle mura: "Rendiamo all'illustre Sire d'Inghilterra, Enrico il Mangiarane, la sua risposta, giacché essa si addice più a lui che a noi!".

    Il messo inglese raccolse i vincoli da terra e li portò al campo del Re. Entrato nella tenda reale, ov'Enrico era intento a pianificare con i propri attendenti, consegnò al Sire i pesanti vincoli e gli riferì le parole dell'Alsace. Il Re – da quel che si narra – rosso divenne in volto e la sua ira proruppe come fiume in piena, tanto che tra parole e grida di collera egli ribaltò nell'impeto il pesante tavolo d'abete su cui poggiavano mappe e cibo e candele. L'ira del Re fu tale che alcuni dei suoi attendenti colà presenti, homini forti et avvezzi alla crudezza della guerra, furtivamente si defilarono, temendo addirittura per la propria incolumità. Ma il Re non era solito rivolgere la propria collera su coloro che non la meritavano o non n'erano la ragione, bensì su coloro che lo offendeano e gli erano nemici. Così egli diede spietatamente ordine che tredici tra i numerosi prigionieri fiamminghi, catturati mentre tentavano di recare celatamente vettovaglie e rifornimenti alla città assediata, fossero impiccati con quelle stesse catene, uno al giorno, uno dopo l'altro, per tredici giorni consecutivi. Et ordinò che lo fossero in un loco all'interno della terra di nessuno, tra le mura cittadine et i terrapieni d'assedio, un loco che non potea non vedersi dagli spalti di Gand. Et ordinò ancora che, una volta terminate le impiccagioni, i vincoli usati a guisa di corda fossero conservati, perché con essi – a Dio piacendo – si sarebbe incatenato et impiccato lo stesso Thierry d'Alsace.

    Per trdici giorni e tredici notti il corpo inerte et agonizzante di un prigioniero fiammingo, ogni dì diverso, penzolò dall'alto del ramo di una grossa quercia, schelettrica e spoglia, radicata su un piccolo colle brullo di poco distante dalle mura urbane. Il lieve cigolio e clangore metallico che da quelle catene appese e mosse dal vento giungea all'orecchio era invero spaventevole, e rendea il tutto ancora più sinistro. E per tredici giorni l'inquietudine gravò come una presenza fisica sui cuori di tutti quei Fiamminghi che, o per guardia o per altro, stavano sugli spalti; persino il borioso Conte ne fu colpito e sentì germinare nel suo animo il dubbio e la paura.

    L'assedio intanto perdurava, mese dopo mese, e sebbene all'interno della città scoppiassero epidemie e pestilenze, dilagasse l'inedia et il morale s'abbassasse sempre più, i Fiamminghi resisteano, ma non attaccavano. Probabilmente Thierry d'Alsace era ancora convinto che prima o poi sarebbero giunte forze di soccorso dal castello d'Anversa e che, pertanto, bisognasse resistere fintantoché i loro alleati non avessero attaccato le linee inglesi alle spalle. Egli però era all'oscuro di come il signore d'Anversa si fosse già accordato con il Re, et in cambio della promessa che avrebbe mantenuto il proprio titolo et il proprio feudo, aveva giurato fedeltà all'Inghilterra.

    ~


    Frattanto, alcune notizie di importante rilievo giunsero colà al Sire Plantageneto, intento nell'assedio di Gand. La prima lo informava che, a conclusione di lunghe trattative diplomatiche con il nordico Regno di Norvegia, avea avuto luogo nel marzo dell'anno di grazia 1161 il matrimonio tra la Principessa norvegese Brigida Haraldsdotter et il Principe Goffredo Plantageneto, matrimonio che andava a sigillare la nuova alleanza tra i due Regni.


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    Tale alleanza rafforzava la posizione dell'Inghilterra, ponea al riparo da eventuali scorrerie dei normanni, i cui padri soprattutto erano stati alacri nel fare ciò, le terre inglesi settentrionali e mettea sull'avviso gli infidi e bellicosi nobili scozzesi delle Lowlands e delle Highlands.

    Le altre nuove riferivano invece di decisi movimenti del Regno di Castiglia e Leon e di quello d'Aragona contro le regioni indipendenti limitrofe alle terre plantagenete in Francia. E riferivano soprattutto di una grande paura che tornava ad invadere la cristianità: una jihad era infatti stata indetta contro Costantinopoli dagli infedeli musulmani, e l'eventuale caduta della grande città, baluardo di ciò che rimanea della grande Roma e porta d'Europa sull'Oriente, avrebbe significato il ritorno dell'incombente minaccia islamica sulle terre cristiane del continente.


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    ~


    Intanto, l'assedio della capitale fiamminga si avviava al proprio termine. Poco dopo l'arrivo del nobile Sir Stefano II di Cowles, il quale avea sposato la Principessa Maria di Blois et avea così fatto entrare la propria casata nel novero delle grandi d'Inghilterra, i difensori di Gand, oppressi dalla fame e grandemente ridotti nel numero per via dell'inedia e delle pestilenze, si risolsero a condurre un attacco disperato per spezzare il blocco inglese.

    La battaglia che seguì ebbe luogo innanzi alle porte occidenatli della città, sul suolo, gelato dall'inverno, della terra di nessuno. Nel mentre i Fiamminghi faceano fuoriuscire dai cancelli i propri homini, il cui numero era più che dimezzato dall'inizio dell'assedio e si attestava ora sulle 334 unità, il Re ebbe tempo di schierare i suoi 500 soldati (o poco meno) in formazione da battaglia. Prima che i nemici completassero le loro manovre, la cavalleria feudale inglese diede di sprone e caricò i reparti di cavalieri pesanti fiamminghi, che già si dirigeano di gran lena verso le file degli archi lunghi al fine di spazzarle via e sottrarre agli Inglesi il grande vantaggio che questi davano loro.


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    La cozza fu terribile e le lance in resta dei militi inglesi penetrarono nella carne dei cavalli e trafissero le cotte di maglia dei nemici. Questi risposero all'assalto e combatterono con tenacia, ma erano inferiori di numero, debilitati nel fisico, et i loro cavalli anch'essi (molti di quei fieri animali erano infatti serviti da pasto agli assediati durante i lunghi mesi di blocco): in breve tempo furono costretti a ritirarsi.

    Fu allora che il Conte d'Alsace, vedendoli fuggire, scese in campo accompagnato dalla propria scorta montata e, radunati i superstiti, guidò la carica contro il centro dello schieramento inglese, ove i due battaglioni di sergenti corazzati, posti a protezione degli arcieri, si paravano ad accoglierli.


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    Questi, a costo di diverse perdite, ressero l'urto dei cavalieri fiamminghi e li impegnarono in un combattimento spalla a spalla.

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    La cavalleria inglese, frattanto, muovendo una manovra d'accerchiamento, si unì alla pugna, colpendo il nemico sul fianco et alle spalle. Il sangue prese ad imbrattare le armature e le lame dei combattenti. Accerchiati da tutti i lati, i cavalieri fiamminghi soccombettero tutti, chi ucciso da una lancia, chi ferito da una spada, chi catturato, et il Conte fu infine disarcionato e fatto prigioniero dagli homini del Re, che lo trascinarono via urlante – ordine del Sire era infatti quello che non lo si uccidesse, ma lo si catturasse vivo.

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    Annientata l'intera cavalleria nemica e colpiti i Fiamminghi nel loro morale, le linee inglesi si ricomposero e lasciarono che la sibilante opra degli archi lunghi concludesse lo scontro. La fanteria fiamminga difatti, non potendo star dietro alla velocità della propria controparte a cavallo, s'appropinguava solo in quel momento contro i nemici et era per la maggior parte composta dai rinomati picchieri delle Fiandre, terribili quando il loro muro d'aste s'abbatte contro cavallieri e fanti alla carica, ma lenti e vulnerabili a rapide manovre in campo aperto et alle frecce. Essi erano là, che lentamente avanzavano in formazione, alla stregua di enormi e minacciosi istrici. Ma nulla poteano contro il micidiale tiro degli archi lunghi, i quali ebbero tutto il tempo di traffiggerne continuamente i ranghi dalla distanza e di volgerli in fuga, decimati. Nella loro rotta, i picchieri coinvolsero anche i pochi spadieri et arcieri fiamminghi rimasti, titubanti innanzi all'avanzata degli Inglesi. E fu cosa facile per i cavalieri del Re inseguirli e concludere lo scontro: tutti i soldati difensori erano stati catturati od uccisi, a fronte di 143 homini persi dagli Inglesi.

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    Una volta che le truppe inglesi ebbero preso possesso della città e, per piegarne l'insolenza, l'ebbero saccheggiata, mettendo assieme 1.544 bisanti per le casse dello Scacchiere, il Re ordinò che si compisse il fato del tracotante Thierry d'Alsace. Egli fu preso et impiccato, in spregio al suo rango, ai rami di quella stessa quercia ov'erano stati appesi i tredici prigionieri, e lo fu con quelle stesse catene per mezzo delle quali lo erano stati loro e che cotanta parte aveano finito per avere nei rapporti tra il Conte fiammingo e l'Inghilterra. A chiunque fu proibito di toccare e seppellire quel corpo penzolante, et esso fu lasciato lì per lungo tempo alla mercé degli elementi e delle bestie. Il Re, frattanto, tornò in Inghilterra, alla sua Corte di Londra, per riprendere in mano più appropriatamente l'amministrazione del Regno.

    Fu così che, dopo tre anni e più d'assedio, nell'inverno del 1163, la città di Gand cadde e le Fiandre furono sottomesse. Stefano II di Cowles diveniva il nuovo Conte di Fiandra e le manovre militari sul fronte fiammingo aveano termine.


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    ~


    Nel mentre, la convulsa situazione dei feudi e dei signori del continente francese andava definendosi, in particolare modo per l'azione degli Aragonesi, i quali aveano preso possesso della Contea d'Alvernia e Rouergue, e per mano degli Imperiali, i quali erano calati sulla Savoia e sul Delfinato et aveano espugnato la ricca città di Lione.


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    Erano comunque tempi di pace e di serena industria quelli che il Regno vivea al suo interno e, finita che fu la guerra fiamminga, anche al suo esterno.

    I giorni del Re, frattanto, furono allietati dalla gioia di veder venire al mondo, nell'anno di grazia 1164, la sua figlia primigenita, che egli, in brevissimo tempo imparò da amare grandemente. Vero era come il Re, in cuor suo, desiderasse ardentemente un maschio, in particolar modo affinché si mettesse al sicuro la successione al Trono, e tuttavia v'era qualcosa nella personalità di quella graziosissima bambina sua figlia che gli ricordava se stesso e gli facea intravedere il carattere forte e la grandezza di sua madre. E così mai vi furono mesti periodi tra lui e la figlia e sempre v'era grande amore paterno et altrettanto amore filiale, e rispetto et orgoglio.

    Per i primissimi anni la Principessa, che portava il fiero nome di Alexandra, fu accudita dalla madre, la Regina Eleonora d'Aquitania, e cresciuta presso di lei. Quando però ella raggiunse i cinque anni d'età, il Re Enrico volle che prendesse ad abitare presso l'Imperatrice Matilde, la di lei nonna, nell'Abbazia di Notre-Dame-du-Pré a Rouen, in Normandia, affinché quest'ultima potesse crescerla et educarla nelle cose che concernono una Principessa e Dama d'Inghilterra et anche nelle cose del potere secolare e del governo, in cui Matilde era grandemente versata. La Principessa Alexandra visse dunque la sua prima giovinezza colà, istruita et accudita dall'illustre nonna, con la quale instaurò un rapporto filiale simile a quello che avea con il Re suo padre. Ella cresceva in quegli anni bella et in salute, forte e fiera nell'animo, elegante nel portamento e nelle maniere, erudita et astuta nella mente.

    ~


    Giungea all'attenzione del Re, frattanto, la notizia di grandi movimenti delle forze scozzesi. Esse infatti aveano attraversato il Canale del Nord, partendo con le navi dal porto scozzese di Wigtown, et erano sbarcate nell'Irlanda orientale, espugnandone la principale città, Dublino, e sottomettendo l'intero cosiddetto Mide.


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    Diversi tra i grandi Lord d'Inghilterra chiesero ad Enrico II di rivendicare contro gli Scozzesi i diritti inglesi alla sovranità sull'Irlanda, e di mettere in atto una contromossa, attacando la città irlandese di Cork. Ma il Re non concordò con i consigli dei suoi nobili, giacché non ritenea i tempi maturi per intraprendere un'altra spedizione – la guerra nelle Fiandre s'era conclusa soltanto da un anno. In più, mantenere sotto il tallone le bellicose genti irlandesi e terminare la conquista della loro verde isola sarebbe costato molti homini et infinite fatiche al piccolo Regno di Scozia, la qual cosa avrebbe fiaccato le loro risorse per un'eventuale guerra contro l'Inghilterra: tale pensiero rinfrancava l'animo del Re, che decise indi di porre da parte, per il momento, la questione irlandese.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 09/12/2012 13:51]




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    00 14/11/2012 19:29
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    All'inizio dell'anno Domini 1164 il Re Plantageneto convocò una grande assise nella cittadina inglese di Clarendon, ove convenirono i Baroni et il Consiglio dei Vescovi. Enrico intendea riordinare le leggi sui delitti e sui rapporti con le giurisdizioni ecclesiastiche, accentrando i poteri che concerneano ambiti siffatti nelle mani della Corona. I Vescovi erano illo tempore guidati da Tommaso Becket, divenuto, dopo il termine della sua carica di Lord Cancelliere, nel 1162, e con l'appoggio del Re stesso, di cui era amico, Arcivescovo di Canterbury e principe della Chiesa in Inghilterra.

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    Le Costituzioni di Clarendon, dette in inglese Assize of Clarendon, si componeano di tredici articoli diversi, i quali, tra le altre cose statuivano che tutti gli homini accusati pubblicamente di un qualche delitto di assasinio, ladrocinio o brigantaggio o che avessero dato ricetto ad un assassino, un brigante od un ladro, fossero tradotti dagli Sceriffi innanzi ai giudici del Re e da questi soltanto giudicati e condannati: tutti i malfattori che invece venissero provati quali innocenti doveano in ogni caso abbandonare il Regno. E statuivano altresì che tutte le città erigessero carceri per la detenzioni di codesti individui, ov'avrebbero atteso la sentenza dei giudici regi, e che i loro beni venissero incamerati dallo Scacchiere del Regno. Inoltre gli stessi appartenenti al clero, qualora avessero commesso uno di codesti delitti, doveano essere soggetti ai regi tribunali e l'immunità derivata dalla loro appartenenza alla Chiesa dovea colà essere invalidata. Tali misure erano volte a rirpistinare la pace e la giustizia del Re e ad infrangere le ingerenze nel governo delle cose temporali da parte delle giurisdizioni ecclesiastiche, spogliandole dei loro poteri di privilegio.

    Grandi et accese furono le discussioni nell'alto consesso di Clarendon riguardo tali questioni e lunghi i giorni che i Lord et i Vescovi impiegharono per vagliare i tredici articoli. Infine il Re riuscì, nell'anno 1166, ad imporre le proprie decisioni e le Costituzioni furono, anche se di malavoglia, accettate dai nobili e dagli alti prelati. All'ultimo momento, mutando avviso, l'Arcivescovo Becket, i cui rapporti con il Re aveano cominciato ad incrinarsi, si rifiutò tuttavia di firmare il documento dell'assise.

    ~


    Giunsero, nel frattempo, alcune nuove alla Corte d'Inghilterra, nuove che aveano a che fare con l'Oriente e le terre d'Oltremare. Con grande sollievo della cristianità, la jihad contro Costantinopoli era fallita: pochi erano stati i signori infedeli che aveano risposto alla chiamata alle armi pronunciata dai loro sacerdoti e le loro sparute forze erano state annientate e respinte ai confini dell'Impero Bizantino, nelle lontane et aspre terre dell'Anatolia, dalle truppe del Basileus.

    L'Europa rimanea dunque intoccata dalla minaccia musulmana, et anzi, sull'onda dell'entusiasmo provocato dal fallimento degli infedeli, il Santo Padre, Adriano IV, risolse che giunto era il tempo per una nuova crociata.


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    Da Roma si dipartirono messi che annunciavano ai ministri della Chiesa et ai signori della cristianità la chiamata alle armi contro i seguaci di Maometto e contro la città d'Edessa, chiamata dagli infedeli Urfa. I preti di tutte le chiese cristiane presero a fare sermoni che incitavano plebei e nobili ad unirsi alla crociata et a cercare la redenzione combattendo, con il Rex Latinorum d'Oltremare e gli ordini monastici e cavallereschi, per la tutela del Regno dei Cieli in terra, laggiù nei luoghi della vita di Nostro Signore Gesù Cristo. "Deus lo vult!" dicevano e gridavano dai propri pulpiti.

    Il Re, tuttavia e con grande rammarico, decise che l'Inghilterra e la Corona non avrebbero partecipato con una propria grande spedizione alla crociata, giacché le condizioni del Regno, dentro e fuori ai suoi confini, sebbene prospere, non lo permetteano. I Cardinali inglesi riferirono indi la decisione di Enrico al Papa, e si adoprarono per condurlo a più miti consigli, dall'inziale disdegnò che il Santo Padre mostrò in primis, assicurandogli che comunque l'Inghilterra avrebbe prestato man forte et aiuti ai crociati per quanto potea e che non avrebbe impedito ai sudditi che voleano partire per Edessa di lasciare in armi il Regno – diversi furono infatti gli homini inglesi che così fecero – e che già numerosi messi il Re avea mandato presso le Corti dei Reami vicini affinché incitassero i sovrani a rispondere alla chiamata del Papa.

    La cosa non fu invero vana e diversi Re cristiani presero parte alla crociata indetta dal Pontefice romano.

    Frattanto, all'interno del Regno, una nuova casata, quella di Doncaster, facea il suo ingresso tra le Parìe d'Inghilterra con il matrimonio tra la nobile Mabel di Gloucester-Normandia e Sir Roberto di Doncaster, il quale fu ben presto fatto Duca d'Essex, alle dirette dipendenze della Corona. Et il Re, per parte sua, emanava nel 1167 un nuovo editto, in base al quale si proibiva agli studenti inglesi d'andare a compiere i propri studi presso l'Università francese di Parigi. Essi conversero indi verso l'illustre et antica Università inglese di Oxford, che ebbe da ciò grande giovamento e crebbe in dimensioni e prestigio.


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    ~


    Intanto andava perdurando, tra alti e bassi, il conflitto germinato tra il Re et il suo Arcivescovo di Canterbury.

    Lord Becket infatti insisteva a rigettare le Costituzioni di Clarendon et a denunciarle come contrarie al diritto canonico et alle consuete prerogative ecclesiali, inaccettabili dunque per la Chiesa in Inghilterra. Et a nulla valsero le ragioni e le pressioni del Re, che in molti incontri e vive discussioni con l'Arcivescovo tentò di piegarne la volontà e di indurlo ad accettare le nuove leggi del Regno. La contesa tra i due raggiunse tali livelli d'asprezza che Tommaso Becket ritenne di dover lasciare l'Inghilterra, ove gli aspri ordini di Enrico II lo voleano recluso fintantoché non avesse mutato il proprio parere pubblicamente.

    L'alto prelato si trasferì dunque, in volontario esilio, nelle terre di Francia, presso alcuni Vescovi francesi che gli diedero asilo – ciò anche per volere del Re Luigi VII, il quale, sebbene alleato e pari del Sire inglese, non perdea occasione per intromettersi nelle faccende inglesi e tantare di indebolire l'autorità del Re Plantageneto. In patria, nonostante l'Arcivescovo di Canterbury fosse dunque all'estero, i suoi partigiani, in gran numero all'interno del clero, criticavano apertamente il Re e faceano pressioni sulla Corte affinché la Corona rinunciasse ai propri intenti d'instaurare le misure – iuste, poiché rivolte all'ordine et al benessere generali del Regno – previste dagli articoli di Clarendon e le restrizioni che sempre più il Re si convincea necessarie per definire e porre un fermo alle ingerenze temporali della Chiesa.

    La disputa andò avanti per alcuni anni, sino a quando, visto che il clima in Inghilterra s'era un poco disteso, l'Arcivescovo di Canterbury non tornò in patria, riprendendo le pur sempre accese discussioni con il Sire Enrico.

    Fu in quei giorni che avvenne il grande misfatto della morte di Becket, la cui eco ebbe sì grande risonanza in tutta la cristianità; misfatto causato indirettamente da una frase detta per caso dallo stesso Re Enrico II. Ad egli infatti, terminata l'ennesima e faticosa discussione con l'alto prelato, capitò, mentre passeggiava presso la Corte a Londra, d'esclamare: "Chi mai mi libererà di questo prete turbolento?". L'invito, per quanto non voluto e non inteso, fu all'insaputa del Re raccolto da alcuni cavalieri che l'udirono, i quali si riunirono con altri individui della medesima fatta per congiurare. E nell'anno Domini 1170, in armi e vestendo elmi et armature, entrarono nella Cattedrale di Canterbury mentre l'Arcivescovo, con in dosso i paramenti sacri, era intento alla celebrazione della Santa Messa e lo uccisero, fracassandogli il cranio con le lame.


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    La mitra vescovile più sacra d'Inghilterra giacea sul freddo pavimento di pietra della Cattedrale, insozzata del sangue del principe della Chiesa inglese per mano di sacrileghi individui, et attorno ad essa si stendeano i corpi senza vita di lui e dei suoi diaconi.

    Gli spregevoli cavalieri autori dell'empio assassinio aveano agito credendo di compiacere il Re e di accedere con il loro atto alle sue buone grazie. La ricompensa che s'aspettavano non fu quella che in effetti ricevettero, giacché aveano di molto sbagliato i loro calcoli sulla nobile indole del Plantageneto. Egli infatti, sconvolto dalla notizia del massacro dell'Arcivescovo Tommaso, il quale, nonostante la recente contesa, comunque per lungo tempo era stato suo amico e suo grande consigliere, e preso dallo sdegno e dalla collera, fece arrestare e giustiziare per il sacrilegio commesso fino all'ultimo di quei cavalieri e ne fece lasciare i cadaveri alla mercé di bestie et elementi, giacché non si dovea permettere che i loro corpi avessero la possibilità di risorgere nel giorno del Giudizio che verrà.

    Nonostante ciò e nonostante il rammarico che il Re avea mostrato, molte furono le voci, sussurrate e men sussurrate, che l'additavano come il mandante di quell'assassinio e che ben presto presero a persuadere gran parte della Chiesa e dei sudditi. Grandi furono per questo il dispiacere e l'amarezza che crebbero in cuore al Re, e così anche il risentimento che generarono nel suo animo, poiché egli non avea colpa et alta dimostrazione della sua nobiltà e maestà di sovrano avea dato in sedici lunghi anni di prosperità del Regno.

    La ferrea volontà della Corona et i fermi suoi propostiti nel mettere in atto le misure ch'erano state al centro di quella grande disputa non furono però fermati dall'accaduto: l'autorità del Re sul popolo d'Inghilterra infatti non era stata toccata od inficiata.

    Intorno alla figura dell'Arcivescovo assassinato, conosciuto ora in Europa quale martire della Chiesa contro la pretesa dell'assolutismo regio, tuttavia prese ben presto a svilupparsi un vero e proprio culto, alimentato dai pulpiti di molte chiese, e numerosi erano i pellegrini che si recavano a Canterbury per adorarlo. Tanto che il Papa Adriano IV, il giorno vigesimo primo di Febbraio dell'anno 1173, fu indotto a canonizzare Tommaso Becket, quale santo e martire, nella chiesa romana di San Pietro a Segni.

    Il moto d'adorazione fu tale che, infine, lo stesso Re fu poi costretto, il giorno decimo secondo di Luglio dell'anno Domini 1174, a sottoporsi ad una pubblica penitenza: dopo una greve processione, egli venne metaforicamente flagellato per espiare la porpria "colpa" dai Vescovi colà convenuti, ciascuno dei quali lo toccò sulla schiena denudata con una canna di legno. E per sempre, nei precordi del Sire, albergò la mortificazione e l'amarezza per l'umiliazione che i suoi sudditi, traviati da sciocchi sentimentalismi e da voci mendaci, l'aveano costretto ad infliggersi.

    Gli eventi della guerra che scoppiò in quegli anni, ricca di accadimenti, tuttavia valsero poi a rinsaldare il rispetto delle genti inglesi nei confronti del loro sovrano e riaffermarono la sua nomea e la sua autorità quale grande e capace duce dell'Inghilterra.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 09/12/2012 13:56]




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    bob92
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    00 17/11/2012 16:12
    complimenti! senza nulla togliere alle altre cronache ma questa mi sta proprio prendendo
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    ~ Cerbero ~
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    00 20/11/2012 01:34
    Beh, ti ringrazio, bob! ^^
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 20/11/2012 01:48]




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    ~ Cerbero ~
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    00 20/11/2012 02:19
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    E dunque, negli anni appresso il 1170, la situazione era siffatta e si protraeva, per quanto concernea le vicende estere, nervosamente quieta, in una condizione di stallo. Il Re, il cui intento rimanea quello d'assicurare al Paese il più lungo periodo di pace e prosperità possibile, sentiva tuttavia in cuore che la tregua e sul continente e sul confine scozzese non era destinata a durare.

    L'alleanza con il Regno di Francia per il momento era intatta, sebbene invero le relazioni erano andate deteriorandosi, giacché i Francesi continuavano a rivolgere occhi avidi e piccati nell'amor proprio alle terre plantagenete d'Acquitania, Bretagna e Normandia piuttosto che alle regioni francesi di Lione, Tolosa e Clairmont, in mano all'Impero et agli Aragonesi. Enrico, supportato nei suoi timori dal Principe Goffredo di Bordeaux, dal Duca di Normandia e dai Conti d'Angiò e delle Fiandre, i quali – nel frattempo – erano stati alacri nel rafforzare i presidi militari nei propri feudi in vista della possibilità di un conflitto, egli – dicevamo – era sempre più convinto che i Francesi, legati a doppio filo d'alleanza anche con l'Aragona, oltre che con lui, progettavano di tradire il Trattato di Amiens et attaccare i domini inglesi d'Oltremanica. Et innanzi ad una tale evenienza il Re – questo il suo timore – si sarebbe visto costretto ad annientare le forze francesi, inferiori di numero e di possa, et a presidiarne i territori. Con il risultato che – Dio non volesse – gli inglesi si sarebbero ritrovati davanti ad un fronte interno, per il quale avrebbero dovuto tener continuamente sotto il tallone i Francesi sconfitti, et a due esterni, uno sul continente, fronteggiando gli infidi Aragonesi e gli orgogliosi Imperiali, et uno sull'isola nostra, poiché gli Scozzessi, da barbari irrequieti quali sempre sono stati, avrebbero di sicuro pensato di profittare vilmente del conflitto in Francia per attaccare da nord lo Yorkshire.

    L'Inghilterra, per quanto prospera e forte fosse già a quel tempo, parata non era ad un conflitto di siffatte dimensioni, il quale avrebbe di certo precipitato il Regno in un periodo di tali turbolenze, tali massacri e tale dispendio di ricchezze da far impallidire i tristi e malversati anni dell'Anarchia, che aveano preceduto l'ascesa al trono di Enrico. Et egli ben sapea come la sua dinastia avrebbe pagato grandemente il fio d'una tal colpa, financo con la Corona, magari, s'avesse sospinto nuovamente le genti inglesi in cotali orrori.

    Certamente dicea il vero chi asseriva che erano in ogni caso già passati sedici anni, sedici anni di pace, dalla fine della guerra civile. Ma si sa, lenta è la mente dei villani a ricordare i lieti giorni di pace et i suoi fabres, quanto lesta è a rammentarsi con odio i lividi giorni della guerra et i suoi autori, poiché in essi non scorge gloria né onore, ma solo la morsa dello stomaco affamato e la paura per il sangue delle proprie carni. "Il popolo ragiona con la pancia, figlia mia. Rammenta: ideali e visioni possono riepirne lo stomaco solo per un tempo ristretto" disse una volta il Re, in visita presso l'Abbazia di Notre-Dame-du-Pré, alla propria figlia Alexandra. "Guardati dal popolo quando è affamato e stanco, ma guardati anche dal nobile quando è troppo pasciuto e riposato".

    La Principessa, cusriosa et in parte ancora ingenua delle cose del mondo, interrogò allora il padre: "Perchè dunque, caro padre, oggi i plebei sono così dediti a pensare al martirio et ai diritti della Chiesa et a venerare in pellegrinaggio Becket? Non hanno fame?".

    Si racconta che il volto del nobile Re si fosse adombrato a tali parole, indurito in una maschera d'amarezza e tristezza, e che, dopo molti istanti di silenzio, solo allora egli avesse risposto: "Esatto, figlia mia. Il popolo ora non ha fame e quindi si dedica scapestramente a questioni che non lo concernono né di cui ha piena consapevolezza. E preferisce cogliere comodi pretesti e dicerie mendaci per disprezzare colui che l'ha nutrito e gli ha dato pace e giustizia piuttosto che continuare umilmente a rispettarlo et a lavorare nei campi e nelle botteghe et a curare le greggi".

    Fu in quei giorni d'inizio inverno dell'anno Domini 1170, dunque, mentre il Sire era intento a consigliarsi in consesso a Basingstoke con i suoi Lord di York, Angiò e Normandia, che arrivarono messi speciali con novelle urgenti et importanti. Gli Aragonesi erano scesi in guerra contro l'Inghilterra.

    Grande fu la sorpresa dei nobili Lord, men grande quella dell'accorto Re, nell'apprendere dai messaggeri che il sovrano d'Aragona Don Ramon Berenguer IV, senza che niuna dichiarazione di guerra fosse consegnata ai ministri d'Inghilterra, avea inviata una colonna armata ad invadere le ricche terre d'Aquitania. Tale schiera, forte di quasi mille homini, avea inizialmente marciato sin quasi al confine con l'Angiò et avea intercettato una colonna di 257 archi lunghi – quello infatti era il loro obbiettivo iniziale – in marcia dal castello d'Angers per rafforzare le guarnigioni della città di Bordeaux.

    Colti alla sprovvista nel mezzo della loro marcia da un nemico di molte volte superiore, e numericamente e tatticamente, gli archi lunghi inglesi furono schierati dal loro capitano su una lieve altura sita a fianco della strada meridionale, e colà s'erano trincerati, decisi ad infliggere qualche vittima al nuovo nemico prima di ritirarsi.


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    Et i dardi scoccati contro l'avanguardia di cavalleria leggera nemica che s'appropinquava furono molti e trafissero diversi Aragonesi.

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    Tuttavia, il gran numero di soldati montati convinse il capitano inglese ad ordinare una rapida ritirata, durante la quale gli arcieri di retrogurdia avrebbero dovuto tenere a bada i cavalleggeri aragonesi e proteggere la marcia di fuga dai loro inseguimenti, cosa che fecero. Benché avessero consegnato il campo ai nemici, gli archi lunghi inglesi riuscirono a tornare quasi del tutto incolumi al castello d'Angers.

    In un modo siffatto scoppiò il conflitto che avrebbe contrapposto il Regno d'Inghilterra et il Regno d'Aragona per lunghi anni et ebbe inizio quella che fu detta dagli storiografi la Guerra d'Oltremanica. I due Regni erano dunque ora nemici e l'alleanza tra l'Aragona et i Francesi, stipulata qualche tempo prima, veniva stracciata da quest'ultimi, che infine aveano scelto di rimanere fedeli all'Inghilterra e di schierarsi al suo fianco, sebbene rimanessero nell'immediato neutrali nei confronti delle manovre di guerra intraprese dai contendenti.


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    ~


    I messi giunti a Basingstoke innanzi al Re et ai suoi Lord riferirono, inoltre, che le truppe aragonesi erano in quel momento innanzi alle porte di Bordeaux, intente alle opre necessarie per porre l'assedio alla città e per prenderne possesso. I corrieri aveano viaggiato senza sosta, cambiando continuamente cavallo, per portare il più velocemente possibile la notizia al grazioso sovrano; una notizia infausta, avrebbero detto molti, ma il Re, dal canto proprio, non era affatto certo di doverla considerare tale: qull'improvviso attacco aragonese era difatti già valso a sbloccare la situazione di stallo sul continente et a costringere la Francia a rinnovare la propria fedeltà all'alleanza con gli Inglesi. I corieri gli consegnarono inoltre una lettera di suo fratello il Principe Goffredo, il quale così vergava:

    Porgiamo i nostri omaggi
    al nobile Re d'Inghilterra,
    Enrico II, nostro Sire e fratello.

    Siamo dolenti di dovervi confermare, Maestà, l'infauste notizie di cui i messi v'avranno già certamente messo al corrente. Un'armata di soldati iberici, conducente con sé le insegne del Regno d'Aragona, si dipartì dalla Contea di Tolosa e velocemente invase l'Aquitania settentrionale, et è ora giunta in vista della nostra città di Bordeaux nel momento stesso in cui scriviamo.

    Le spie non ebbero sentore della cosa sino al momento in cui non videro la soldataglia nemica rivelarsi, penetrare nelle nostre terre et attaccare i nostri archi lunghi in marcia sulla via meridionale. Tutto il tempo che dai loro tardi avvisi ci è stato concesso è bastato soltanto a dare urgentemente gli ordini necessari affinché la città e le nostre guarnigioni si parassero per l'assedio et a sederci per vergare questa lettera per voi. Non temete: ho già comandato a che le spie, almeno quelle che a noi si sono presentate con tempismo ammirabile – oseremmo dire – per farci un tale inutile rapporto, siano gettate nelle segrete del nostro palazzo quivi a Bordeaux, a cagion della loro imperdonabile incompetenza.

    Da ciò che le vedette e gli esploratori hanno scorto, possiamo riferirvi, Sire, che l'armata inviata contro di noi si compone per una buona sua parte di cavalleria, pesante e leggera: ecco – a nostro modesto avviso – la ragion per la quale i loro spostamenti furono sì tanto rapidi. Ci giunge, inoltre, notizia che entro la giornata tali formazioni montate saranno raggiunte da diversi contingenti di lancieri, giavellottieri et arcieri. Possiamo, dalle informazioni in nostro possesso, stimare le forze nemiche attorno al migliaio, forse meno.

    Non sembra, d'altro canto, che stiano avendo luogo ulteriori manovre nei pressi dei nostri confini da parte di contingenti aragonesi altri. È nostra convinzione che il Re Ramon consideri sufficiente una sola armata per strappare a voi l'Aquitania e che truppe ulteriori non sia il caso di mobilitarle per combattere questa guerra, visto che il nostro Ducato è l'unica terra inglese confinante con il Regno d'Aragona.

    Ebbene, Maestà, potete star certo, faremo intendere al Berenguer quanto poco accorti furono i suoi calcoli e quanto poco pagherà la sua fellonia, nel muoverci guerra senza motivo e senza darne dichiarazione!

    Riteniamo infatti che le truppe di guarnigione di cui abbiamo il comando saranno sufficienti per avere ragione del nemico e che non sia d'uopo pregarvi d'inviare rinforzi. Confidiamo nelle nostre mura e nei nostri archi lunghi, e, certamente, in Dio et in San Giorgio, nostro protettore.

    Porgiamo a sua Maestà il Re, nostro fratello, nuovamente i nostri omaggi.

    In fede,

    Goffredo Plantageneto,
    Principe d'Inghilterra e Duca d'Aquitania


    Il Re Plantageneto lesse la lettera di suo fratello il Principe con grande attenzione e meditò per lunghi istanti di silenzio. Poi, dati a ciascuno dei Lord presenti i propri ordini e licenziatili affinché tornassero sul continente per parare i loro feudi alla guerra, scrisse al Principe Goffredo che la Corona fidava nelle sue capacità di difendere validamente il Ducato d'Aquitania dai nemici e che avrebbe cominciato a disporre immediatamente le manovre necessarie al conflitto, e consegnò il messaggio ai corrieri, i quali ripartirono senza porre tempo nel mezzo alla volta di Bordeaux, per consegnare il dispaccio al fratello di Enrico.


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    Frattanto, la città guascona vedea le truppe aragonesi avvicinarsi alle proprie mura per condurre l'assalto. Una torre d'assedio, un ariete e diverse scale gli invasori aveano allestito per l'occasione e con siffatti strumenti d'assedio s'appropinquavano ai bastioni et ai cancelli.

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    La maggior difesa della città consistea – com'avea scritto nella sua lettera il Principe – in sei battaglioni di archi lunghi, coadiuvati da due reparti di rinomati balestrieri guasconi. I tiratori inglesi non si risparmiarono e dagli spalti lignei sensa sosta vomitavano con maestria i loro dardi sibilanti contro le fila degli Aragonesi, i quali attendeano che le loro macchine d'assedio giungessero a destinazione.

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    Erano pochi le frecce et i quadrelli che mancavano il bersaglio e ad ogni istante qualche d'uno dei nemici era trafitto, che fosse egli uno dei loro fanti, uno dei giavellottieri, uno dei cavalieri.

    Dietro le porte, i quattro battagioni di sergenti corazzati attendeano, pronti e pazienti, et alle loro orecchie giungea il respiro et il nitrito dei nobili animali montati dai cavalieri feudali e dal Principe, che stavano subito alle loro spalle. Il muro delle loro lance era stato reso più minaccioso et al tempo stesso arduo da raggiungere grazie ad una selva di pali acuminati, piantati nel terreno poco prima dagli archi lunghi, che si rivolgeano insidiosi alla volta dei cancelli – efficace quanto sanguinario espediente, questo, che gli arcieri inglesi erano soliti e generosamente propensi ad adottare per difendere le proprie posizioni.


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    L'opra dei tiratori inglesi avea già aperto grandi varchi nelle file degli Aragonesi, i quali tentavano di difendersi come poteano dalla granuola dei dardi, quand'ecco che l'ariete divelse i ligneii cancelli e la soldataglia nemica s'ammassò presso di essi, per penetrare in città. Primi ad entrare di gran lena furono molti cavalieri, i quali, nella loro avanzata impetuosa, trovarono ad attenderli, sinistramente immobili e silenti, i grossi pali acuminati et i quali furono da questi disarcionati, ribaltati, feriti od uccisi.

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    Seguì indi il resto delle forze aragonesi, che, pur colpite dal massacro recato dalla trappola di pali, riuscirono ad ingaggiar battaglia coi lancieri pesanti inglesi.

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    La pugna era caotica, ma non fu difficile per i soldati corazzati inglesi arginare gli assalitori et abbatterli con le loro armi: come un maroso che si disfa contro l'inamovibile roccia dello scoglio, così le file nemiche si disfarono a contatto con la solida linea di difesa degli Inglesi. I pochissimi sopravvissuti tentarono di fuggire, ricercando la propria strada verso la salvezza attraverso lo stuolo dei cadaveri dei propri compagni caduti, ma non poterono sfuggire agli ultimi tiri dei balestrieri, sempre sulle mure appostati.

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    ~


    L'attacco del Re d'Aragona era dunque fallito et egli, colpito oltretutto dalla scomunica del Santo Padre, con il quale i suoi rapporti s'erano grandemente deteriorati, non da ultimo per la vile fellonia nell'attaccare a sorpresa il pacifico Regno d'Inghilterra, mantenne le proprie forze in riorganizzazione dietro ai propri confini, in attesa di ulteriori sviluppi nel conflitto. Sviluppi che, come il Re Enrico II presentiva, non tardarono a verificarsi e valsero ad allargare et intensificare di molto la guerra.

    Truppe del Regno di Castiglia e Leon e del Sacro Romano Impero, infatti, attaccarono due anni dopo, nel 1172, i lati estremi dei possedimenti inglesi sul continente: il primo mosse da sud sempre contro l'Aquitania, et il secondo da est contro le Fiandre.

    Dovea trattarsi – come immaginò il Re – d'una manovra a tenaglia ordita precedentemente in occasione delle trattative che i tre Paesi, alleati fra loro, aveano segretamente intrapreso negli anni precedenti, manovra volta a distruggere, o quantomeno a ridurre pesantemente le posizioni inglesi in terra francese, con l'eventaule e ponderata conseguenza d'un preventivo accerchiamento strategico del Regno di Francia, alleato dell'Inghilterra. Un piano ben congegnato, indi, aperto dall'improvvisa avanzata aragonese, e che tuttavia non tenea conto della potenza inglese, la quale non si sarebbe certo lasciata derubare dei propri domini senza combattere tenacemente. La Guerra d'Oltremanica entrò da quel momento in poi nel suo vero infuriare e gran parte del continente francese, sino alle coste del Mar Mediterraneo, ne sarebbe stata abbracciata dalle vicende.


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    Nel mentre il Re inviava una flotta a porre il blocco al vicino e ricco porto olandese di Haarlem, per fiaccare gli introiti commerciali dell'Impero, le truppe germaniche assediavano la fiamminga città di Gand e ne assaltavano le mura con un esercito forte di 1.196 homini, per la maggior parte lancieri lotaringi e corazzati e cavalieri pesanti.

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    Anche a Gand, le truppe nemiche avanzarono contro i bastioni ligneii, attraverso la fitta grandine di dardi che le numerose compagnie di archi lunghi inglesi concitatamente riversavano loro contro.

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    Et i fanti et i cavalieri germanici, seppur protetti dalle loro spesse cotte di maglia e dalle loro armature, cadeano numerosi, trafitti e dissanguati.

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    I sergenti corazzati inglesi attendeano, schierati et impazienti di condurre la pugna nella mischia, al di là delle porte e degli onnipresenti pali appuntiti, sotto lo sguardo risoluto del Conte di Fiandra, Stefano II di Cowles.

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    Ma dovettero pazientare ancora il loro tempo, giacché gli Imperiali non aveano ancora sfondato i cancelli et erano intenti ad assaltare con le torri d'assedio gli spalti, ove gli archi lunghi, impegnatisi nel corpo a corpo, li respinsero.

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    Infine i soldati germanici penetrarono le porte urbane e si riversarono con i loro cavalieri e fanti alla carica contro i difensori e subito urla di dolore sostituirono quelle della furia guerriera – il massacro subito dai militi aragonesi per inanimata mano della trappola di pali acuminati sembrava non aver insegnato nulla ai capitani nemici, a cagion forse della loro stoltezza o della loro arroganza.

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    Il sangue, più germanico che inglese, scorse sul terreno di Gand, imbrattò armi et armature, homini et animali, e la pugna innanzi ai cancelli fu furiosa, poiché bellicoso era lo spirito dei soldati imperiali.

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    Ma ben presto la valente difesa degli Inglesi ebbe ragione del nemico, costretto dalle schiere dei difensori in uno spazio angusto e decimato in continuazione dai pali e dalle lance.

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    Et il Conte Stefano poté così, di lì a poco, dilettarsi con la sua scorta montata in una proficua caccia all'uomo contro i sopravvissuti imperiali che fuggivano di corsa dal luogo dello scontro, per cercare la salvezza lontano dalle mura di Gand.

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    L'inseguimento dei fuggitivi si protrasse fino a sera, e solo allora il Conte poté constatare, avendo avuto luogo i conteggi fatti dai suoi attendenti, un'indiscutibile vittoria: 51 degli 870 difensori inglesi erano morti, a fronte dello sproporzionato numero di 794 soldati imperiali caduti e 364 catturati. I prigionieri furono poi giustiziati, a seguito dello spietato rifiuto di pagarne il riscatto comunicato dalla corte imperiale.

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    Lo stupore prese i nobili germanici e lo stesso Imperatore Federico I quando ai loro orecchi giunsero i rapporti sulla battaglia di Gand: raramente infatti il fior fiore delle truppe pesanti imperiali, interi battaglioni di lancieri lotaringi e cavalieri in armatura, era stato prima d'allora sconfitto da forze numericamente inferiori appartenenti ad un Regno inferiore anch'esso – come essi erroneamente riteneano. L'errore che i comandanti germanici e loro alleati non aveano la saggezza, et anche l'umiltà, di riconoscere et emendare era infatti arrogantemente sottovalutare la potenza d'una delle armi d'elezione dell'esercito inglese: gli archi lunghi; potenza quella che si moltiplicava di molto quand'essi poteano godere della protezione e della sopraelevazione offerta da spalti e mura. Fintantoché gli insediamenti inglesi fossero stati protetti da un numero relativamente alto di codesti abili arcieri, niuno di quelli – potea quasi osare dirsi – sarebbe mai caduto nelle mani degli assalitori.

    Tutto ciò il Re lo conosceva bene et infatti sua premura era stata quella di dare ordini ulteriori affinché sempre le compagnie di archi lunghi ridotte nel numero dopo un combattimento fossero reintegrate da nuove unità: la chiave per fermare i nemici innanzi alle mura stava infatti nella pioggia delle loro frecce. I generali nemici invece non ne riconoscevano l'utilità e mai s'adoprarono nella concezione di strategie altre per neutralizzare il baluardo chiave fornito dai battaglioni di archi lunghi.

    E tuttavia grave era lo smacco subito dalle forze germaniche a Gand e la Corte imperiale cominciò a temere e ad essere consapevole del fatto che, dietro alla mera estensione territoriale del Regno inglese, la quale s'avvicinava ormai a quella dello stesso Sacro Romano Impero, stesse una degna e corrispettiva potenza di forze militari, d'influenza diplomatica e di ricchezze, grazie alla quale l'Inghilterra potea tentare di rivaleggiare adeguatamente con la potenza dei Germanici.

    Codeste preoccupazioni che prendeano ad affollare i calcoli del Barbarossa furono però di molto attenuate, se non addirittura spazzate via, dall'entusiasmo che prese l'Impero in occasione della sua vittoria contro gli infedeli. Nell'anno 1173 le mura d'Edessa furono espugnate dai crociati teutonici e la regione dell'Osra entrò a far parte dei domini imperiali: la crociata era vittoriosa, con somma soddisfazione del Papa, la cui chiamata alle sacre armi era stata fruttuosa, e per il suo prestigio e per la cristianità intera.


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    Frattanto le truppe del Regno di Castiglia e Leon, nello stesso anno in cui gli Imperiali cingeano d'assedio Gand, aveano mosso contro la ricca Bordeaux e l'avevano assaltata in forze.

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    I vessilli inglesi e della dinastia plantageneta, nonché quello del Principe d'Inghilterra in persona garrivano quietamente al vento, osservando lo svolgersi delle manovre belliche alle porte della città e lo schieramento degli Inglesi, che aveano aggiunto alle proprie guarnigioni un valente battaglione di lancieri templari, ideali per reggere l'assalto in prima linea.

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    L'andamento dello scontro non fu diverso da quello degli assalti subiti in precedenza. Le forze nemiche sottovalutarono le difese e le armi inglesi e furono ancora una volta messe in rotta.

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    L'intera prima serie di attacchi del nemico, che avea aperto concitatamente la Guerra d'Oltremanica, fu neutralizzata e respinta con successo, inficiando totalmente la manovra strategica di annientamento della presenza inglese e di accerchiamento della Francia ordita dagli alleati germano-iberici.

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    ~


    Bordeaux fu per molte tempo lasciata in pace dalle truppe nemiche, in grazia della nomea che i suoi difensori ed in particolar modo il Principe Goffredo, detto allora il Degno, s'erano conquistati sul campo. E mentre la flotta del capitano Maurice era inviata a porre il blocco al porto aragonese di Blanes, gli Imperiali soli perduravano testardamente nei loro propositi d'invasione delle Fiandre et ammassavano ad uopo numerose truppe nella Lotaringia.


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    E di nuovo attaccavano risolutamente la fiamminga città di Gand con una grande armata di 1.168 homini: lancieri lotaringi, sergenti corazzati, cavalieri pesanti, saggittari et altre milizie.

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    Le perdite che i nemici subirono nelle sole operazioni d'assalto delle mura e dei cancelli, per mano degli archi lunghi inglesi, furono più numerose di quelle viste in qualsiasi altro scontro fino ad allora occorso e quasi da sole valsero a decidere irrevocabilmente lo scontro a favore dell'Inghilterra, giacché inficiarono in modo irreparabile la possa dell'esercito assalitore prim'ancora che questo giungesse a contatto con le linee difensive inglesi, appostate dietro spalti e pali acuminati.

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    L'intervento poi dei sergenti corazzati e dei fanti fiamminghi inglesi, una volta che gli Imperiali aveano fatto breccia nelle porte, et il successivo inseguimento dei fuggiaschi da parte della scorta montata del Conte Stefano completarono la disfatta nemica.

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    Disfatta che più rovinosa non potea essere: soltanto otto soldati germanici si salvarono dal disastro, 1.047 furono uccisi e 113 catturati. Alla fine della battaglia, durata poche ore, il sole si stagliava sulla città e sul campo, ove una strada intera fatta di cadaveri germanici conducea sinistramente all'ingresso cittadino. E l'astro si stagliava pure su... [†]

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    [Modificato da ~ Cerbero ~ 09/12/2012 14:23]




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    deemax87
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    00 01/12/2012 20:48
    Finito! Davvero complimenti per questa cronaca mi ha appassionato molto! Non ho idea di come tu faccia a scrivere in quel modo, all'inizio è un po difficoltoso seguire la vicenda ma pian piano ci ho fatto l'abitudine. devo dire che grazie allo stile particolarissimo ci si immedesima proprio in quell'epoca :P. Le immagini inoltre davvero molto belle, spero di riuscire anchio a fare scatti cosi. Come hai fatto a fare la cartina... [SM=g27966] ? Mi insegni [SM=g27964] ?





    "Chi in cento battaglie riporta cento vittorie, non è il più abile in assoluto; al contrario, chi non dà nemmeno battaglia, e sottomette le truppe dell’avversario, è il più abile in assoluto."
    Cit. - Sun Tzu, L'arte della guerra
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    00 02/12/2012 15:07
    deemax87, 01/12/2012 20:48:

    Finito! Davvero complimenti per questa cronaca mi ha appassionato molto! Non ho idea di come tu faccia a scrivere in quel modo, all'inizio è un po difficoltoso seguire la vicenda ma pian piano ci ho fatto l'abitudine. devo dire che grazie allo stile particolarissimo ci si immedesima proprio in quell'epoca :P.


    Ti, ringrazio. :)

    Bene, sono contento che comunque risulti comprensibile! xD Visto che scrivo un po' come mi viene, senza alcuna aderenza ad un modello o ad uno stile storicamente vero. Diciamo che mi ricordo grosso modo come, leggendo al liceo autori classici e medievali (Petrarca, Dante, Boccaccio, Machiavelli), mi suonavano le loro frasi e ho cercato di far suonare le mie allo stesso modo. L'intento è appunto quello di dare alla cronaca una vaga patina medievaleggiante, e sono contento almeno in parte di esserci riuscito.



    deemax87, 01/12/2012 20:48:

    Le immagini inoltre davvero molto belle, spero di riuscire anchio a fare scatti cosi. Come hai fatto a fare la cartina... [SM=g27966] ? Mi insegni [SM=g27964] ?


    Per la cartina ho un po' improvvisato. Ne so davvero pochissimo di Photoshop & co., ma ho cercato di seguire le istruzioni che già frederick the great aveva dato in questa discussione: Come realizzare cartine geografiche per le AAR

    Io non ho Photoshop (cui la guida di frederick fa riferimento), ho GIMP; però i due programmi sono abbastanza simili, quindi sono riuscito più o meno a seguire la guida, almeno per la parte di base. Per il resto ho improvvisato secondo una primitiva modalità alla paint, vista la mia inesistente esperienza nel fotoritocco! [SM=x1140419]



    P.s.: Volevo risponderti nella tua AAR, ma non riesco più ad entrarci perché ora mi dice che non ho i diritti per accedervi, così come me lo dice anche per la nuova discussione Le pagine bianche, dove - suppongo, visto che non posso controllare - tu abbia spostato la tua cronaca. [SM=x1140417]

    Comunque, per risponderti, neanche a me dà la possibilità di modificare i messaggi già postati da un po' di tempo (ci sarebbero nella mia AAR varie piccole sviste e modifiche da apportare!). Quindi se scopri la via d'uscita, fammelo sapere! [SM=x1140430]




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    00 02/12/2012 15:17
    P.p.s.: Anzi, rettifico, visto che ho appena fatto una prova. Ora non ho neanche più i diritti per modificare i messaggi postati da alcuni minuti... [SM=g27966]




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    00 02/12/2012 16:34
    Anchi'io ho notato che senza essere loggato non posso più accedere alla mia AAR...pensavo pertanto che da sempre solo gli utenti del forum potessero leggere ma poi ho visto che potevo accedere normalmente alle altre AAR (sempre senza login)...se mi dici così è un bel problema... [SM=x1140417] [SM=g27981] In pratica mather per consentirmi di effettuare le modiche che volevo ha spostato temporaneamente il topic in "udienza" ma qualcosa deve essere andato storto successivamente... in teoria nel bardo gli utenti dovrebbero essere liberi di modificare i propri post senza limiti, ma qualcosa che sfugge allo stesso mather non lo rende possibile [SM=g27982]...speriamo che riesca a risolvere...prova a scrivergli anche tu....
    adesso do un occhiata alla guida [SM=g27964] qualcosa su photoshop so fare... la mia AAR come penso anche per te, sta diventando il mio nuovo hobby e ci tengo molto a farla bene [SM=g27960]





    "Chi in cento battaglie riporta cento vittorie, non è il più abile in assoluto; al contrario, chi non dà nemmeno battaglia, e sottomette le truppe dell’avversario, è il più abile in assoluto."
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    00 02/12/2012 22:52
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    Spirava, nell'anno Domini 1174, il Re di Francia Luigi VII Capeto, et un tale lutto non movea solo il compianto della Corte di Francia, ma anche le preoccupazioni di quella d'Inghilterra. Il Re Capeto, infatti, sebbene avesse sempre vissuto in cuore un mai sopito et irrequieto spirito di rivalità con Enrico II, era comunque stato il massimo fautore, da parte francese, dell'alleanza stipulata col trattato di Amiens. La sua morte indeboliva il vincolo tra i due Regni, già provato dalla guerra, e concedea nuovo spazio alle lagnanze et agli spiriti turbolenti d'alcuni grandi nobili francesi, ai cui stolti consigli meno immune di quanto fosse stato il defunto Luigi VII era il nuovo sovrano, Re Roberto Capeto.

    Avendo consapevolezza di tali fatti et adattando il proprio pensiero alla composita situazione cogente, il Plantageneto concepì dunque un piano audace, che sarebbe valso a rinsaldare il legame d'alleanza con la Francia e ad indebolire il nemico imperiale, il quale era invero il più vivace e caparbio dei tre a quel tempo, oltre ad essere forse il più pericoloso: una nuova spedizione germanica contro le Fiandre era stata proprio in quei mesi fermata e respinta.

    Fu durante l'anno seguente, il 1175, che il Re fece la propria mossa. Negli stessi giorni in cui giungea la notizia che la Repubblica di Pisa diveniva stretto alleato dell'Impero in Italia et in cui il primo mulino a vento, mirabile marchingegno della tecnica che perfezionava il più semplice mulino ad acqua, veniva costruito nei pressi di Chatham, in Essex, una modesta schiera di 318 Inglesi si dipartì dal castello d'Angers et attraversò le terre del Maine, del Berry, della Borgogna e del Delfinato. Sergenti corazzati, armigeri et i due reparti di cavalieri feudali della guardia del Re la componeano. Alla guida v'era il Plantageneto in persona, che avea precedentemente lasciato Londra e s'era portato nell'Angiò per i preparativi, et ora marciava attraverso le terre centrali della Francia per colpire il nemico ov'era più vulnerabile et ove meno s'attendea un attacco et era indi meno parato a fronteggiarlo. Le spie infatti aveano riferito che gli Imperiali, nei loro continui ma vani sforzi di strappare all'Inghilterra le Fiandre, unica terra inglese con l'Impero confinante, stavano esaurendo tutte le forze di cui disponeano nei feudi occidentali, e, per attingere truppe nuove da lanciare contro Gand, aveano sguarnito i meridionali confini con il Regno di Francia, et in particolare la guarnigione della ricca città di Lione. Sendo allora la Francia neutrale e modesto Paese stretto ad occidente et a meridione dall'alleanza iberico-imperiale, i Germanici non aveano ritenuto che essa potesse rappresentare una minaccia et aveano smobilitato molti reparti dal Delfinato e dalla Savoia, et anche dall'Elvezia e dalla Svevia, tutte terre con i Francesi confinanti, per trasferirli in Lotaringia et Oldanda, donde si sarebbero unite agli scontri in Fiandra.

    E proprio colà, nel fianco sguarnito offerto dal nemico, il Re avea deciso di colpire.

    Le spie s'erano infiltrate infatti all'interno della città imperiale di Lione et aveano mandato rapporti su come questa avesse a presidio poco più d'un centinaio d'homini e come in tutto il territorio del Delfinato e della Savoia non vi fosse traccia di altre soldataglie germaniche. Enrico II avea dunque parato quel modesto contingente, adatto allo scopo d'effettuare un rapido attacco d'assalto senza dover poi difendere o rafforzare la posizione conquistata.

    Allorquando la schiera del Re stava già entrando di gran lena nelle terre del Delfinato, per di più marciando durante i giorni più prossimi all'inizio dell'inverno, cosicché la sorpresa fosse maggiore, le poche vedette che l'Impero avea lasciate ivi di guardia s'accorsero della manovra inglese e s'affrettarono ad informare il nobile Mattia I di Lorena, il quale s'era acquartierato con il proprio grande esercito nella Svevia per svernare. Questi, non appena gli giunse l'inaspettata notizia, lasciò precipitosamente i porpri quartieri e guidò le truppe in una concitata marcia forzata per soccorrere Lione e fermare sul campo gli Inglesi. Tuttavia il tempo non era dalla sua parte.

    All'imbrunire del giorno decimo settimo di Novembre, gli Inglesi giunsero non visti e molto più rapidamente di quanto si potesse credere in vista delle mura della città e, allertate le spie che s'erano infiltrate oltre le difese urbane, attesero che calasse la notte.


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    Il capitano della guarnigione era sì stato allertato della presenza di un contingente inglese nelle terre savoiarde e della contemporanea marcia di soccorso intrapresa da Mattia di Lorena, ma s'era ingannato sui tempi di manovra degli Inglesi, per cui s'aspettava di veder comparire il nemico alle proprie porte solamente in capo ad una settimana, et ancora non avea date particolari disposizioni di stretta guardia alla guarnigione. Peraltro, ciò di cui non erano a conoscenza né il capitano di Lione né il nobile Lorena né il resto dell'Impero era che un gruppo di cavalieri del Re di Francia si stava anch'esso movendo e seguiva ad un paio di giorni di distanza gli Inglesi.

    Fu facile, indi, per i soldati del Re Plantageneto arrivare nottetempo fin sotto le mura di Lione di sorpresa e per le spie infiltrate aprire le porte cittadine ai compatrioti che s'appropinquavano. Il freddo e terso cielo stellato di quella notte osservava gli Inglesi moversi e non diede grande aiuto agli Imperiali, giacché la luna era già calata e non rischiarava la terra e ciò che sulla terra brulicava.


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    Gli Inglesi colsero gran parte della guarnigione nel sonno, sebbene alcuni cavalieri di Masovia, truppe d'origine polacca fatte evidentemente giungere lì dai confini orientali del Sacro Romano Impero, riuscirono a montare sulle loro cavalcature e ad ingaggiar battaglia cogli assalitori, dando il tempo a diversi fanti loro commilitoni d'armarsi e radunarsi nella piazza cittadina.

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    Nonostante ciò, l'attacco a sorpresa inglese potea dirsi riuscito e la resistenza della guarnigione germanica fu rapidamente annientata dalle spade degli armigeri e dei cavalieri, sino all'ultimo uomo.

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    Quarantadue soldati del Re caddero nella rigida notte della presa di Lione, mentre tutti i 120 difensori furono uccisi. Una volta che i palazzi urbani furono saccheggiati per quasi 2.000 bisanti, i cittadini superstiti – la gran parte dei quali era comunque sopravvissuta – furono adunati nella piazza, ove si trovarono faccia a faccia col Re Plantageneto in persona, vestito con la proprio armatura et avvolto nel manto d'ermellino. Egli, con perentorietà accentuata dalle ombre delle fiaccole che gli celavano a sprazzi il volto, annunciò che Lione e le terre del Delfinato e della Savoia sarebbero entrate a far parte dei possedimenti del Re di Francia suo alleato.

    Et infatti, due giorni dopo, giunse la piccola schiera francese di cui prima accennavamo, et essa prese possesso della città, ceduta in ottemperanza al Trattato d'Amiens e secondo gli accordi diplomatici rinnovati dal Re, il quale subito si rimise in marcia sulla via di ritorno, giacché certo niuna intenzione avea di lasciarsi raggiungere et attaccare dall'ormai prossima armata imperiale di Mattia di Lorena.


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    Questi, trascorsi pochi giorni, giunse infatti dinanzi alla città di Lione ed ebbe gran stupore nel constatare che sulle torrette delle mura non vessilli imperiali né stemmi inglesi erano issati, bensì i tre fiorini di Francia. Indeciso sul da farsi, non sapendo se aperto s'era dunque uno stato di guerra anche con il Regno francese, il nobile s'accampò col proprio esercito nei pressi dell'insediamento, in attesa di ricevere notizie e rapporti dai pochi informatori germanici ancora colà presenti. Rapporti che non tardarono ad arrivare et a renderlo edotto di come quelle terre, una volta assaltate, fossero state immantinenti cedute ai Francesi e di come il Plantageneto, secondo una manovra – come si suol dire in codesti casi – di toccata e fuga, già si fosse ritirato nuovamente oltre i confini francesi della Borgogna.

    Mattia di Lorena, preso dunque dalla frustrazione di non essere riuscito ad impedire il piano inglese et a distruggere il Re Enrico assieme a tutti i di lui homini, già meditava d'attaccare Lione et i Francesi, per punirli d'essersi ignobilmente prestati all'operazione compiuta dagli Inglesi. Quand'ecco che sopraggiunse, al suo accampamento, un messo dalla Corte imperiale, inforata di già sui fatti, il quale gli riportò l'ordine dell'Imperatore di non movere in alcun modo offesa a quelli che di fatto erano ora territori francesi, poiché la situazione cogente sconsigliava categoricamente una mossa che avrebbe provocato l'estendersi della guerra anche al Regno di Francia. Il nobile Mattia fu dunque costretto a levare il campo et a ripercorrere l'accidentata strada nord-orientale verso l'Elvezia.

    Con una mossa siffatta, sebbene essa avesse in fin dei conti coinvolto un ben modesto numero di truppe, il Re non solo indebolì il Sacro Romano Impero privandolo di un ricco feudo, et alleggerì la pressione nemica sulle Fiandre, bensì, cedendolo al Regno di Francia, andò anche a rinsaldare l'alleanza con il Re Roberto Capeto et a rafforzare lo stesso suo alleato, indispensabile per la sicurezza di quasi l'intero fianco orientale dei possedimenti inglesi sul continente, et inoltre andò a sbarrare al Sacro Romano Impero la strada più diretta per accedere alla Francia meridionale et a tranciare così le vie di comunicazione tra i Germanici et i loro alleati aragonesi e castigliani. Senza contare oltretutto il fatto che l'Impero cominciò a moversi con più cautela et a sguarnire di meno posizioni che prima avrebbe tranquillamente lasciate senza gran difesa.

    Alla fine dell'anno poi, profittando della situazione di stallo nella manovre militari seguita alla vicenda lionese, il Santo Padre emise una decretale in base alla guale il Regno d'Inghilterra et il Sacro Romano Impero erano chiamati a rispettare una "tregua Dei" della durata di tre anni e mezzo. I messi inglesi presso la Corte pontificia comunicarono, com'anche quelli inviati dall'Impero, che il Re si sarebbe attenuto all'invito papale et avrebbe cessate le manovre di guerra contro gli Imperiali per tutta la durata della tregua, ma che, una volta che questa fosse giunta a scadenza, non avrebbe garantito d'astenersi da nuovi attacchi. Come conseguenza immediata fu tolto il blocco navale all'importante porto olandese di Haarlem e la flotta ritirò in patria. Il fronte germanico era così, per il momento, tacitato.

    ~


    Frattanto, diversi accadimenti occorsi fuori dai confini del Regno giunsero all'attenzione del grazioso sovrano. Prima fra tutte la notizia, riportata dalle spie, che gli Scozzesi erano riusciti ad aver ragione delle resistenze nel Mide irlandese, da poco sottomesso, et aveano indi mosso contro il Munster e la città di Cork, i cui abitanti adusavano chiamare Corcaigh. Dopo una pugna feroce assai, l'insediamento era stato ridotto alla sottomissione e così anche il resto del selvaggio territorio irlandese, con il suo castello di Tipperary et il suo porto di Limerick. La situazione sulle Isole Britanniche s'aggravava dunque per l'Inghilterra, con il rafforzamento del piccolo ma bellicoso Regno di Scozia e con l'indebolimento dei diritti inglesi alla sovranità sulla verde isola d'Irlanda.


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    Altra notizia riferiva di come l'Impero avesse profittato della "tregua Dei" per rafforzare i propri confini sud-orientali, stipulando alleanza con la Serenissima Repubblica di Venezia et il Regno magiaro. Il Re d'Aragona, oltretutto, era in quei giorni perdonato dalla Santa Sede e riammesso in seno alla comunità della Madre Chiesa: l'impasse in cui versava a causa della scomunica cessava e gli Aragonesi, che sempre erano, come tutte le genti iberiche, particolarmente fedeli alla Chiesa di Roma a cagion della loro incessante guerra santa di Reconquista contro gli infedeli, che numerosi e minacciosi non smetteano di premere ai confini, poteano riprendere a cuor leggero le opre per la continuazione del conflitto d'Oltremanica.

    Nell'anno Domini 1176, inoltre, un grave lutto colpì la persona del Re Enrico: il giorno decimo del mese di Settembre, infatti, richiamata a Sé da Dio, morì nell'Abbazia di Notre-Dame-du-Pré ove dimorava, l'anziana Imperatrice Matilde, sua diletta madre. Nei giorni luttuosi di quel mese, il Re e gran parte della Corte si recarono in Normandia per rendere l'estremo omaggio alla Domina Anglorum, sulla cui tomba fu scritto l'epitaffio:

    Qui giace la figlia, moglie e madre di Enrico, grande di nascita, più grande per matrimonio, ma grandissima nella maternità.

    La Principessa Alexandra, ormai cresciuta e divenuta una giovine di grande beltà et intelligenza, sebbene ancora raggiunto non avesse i tredici anni, si trasferì per volere del padre a Londra, cosicché potesse abitare presso la Corte e fare esperienza delle cose mondane del governo e della politica e potesse vivere presso il padre.

    Ma i lutti illustri non finirono colà. Sebbene infatti la morte del Re d'Aragona Ramon Berenguer IV, cui seccesse Ramon Berenguer III, non colpì più di tanto le coscienze delle Corti europee, se non forse quelle degli alleati castigliani et imperiali, la dipartita del Papa Adriano IV, da lungo tempo ormai nobile e piissimo reggitore del Solio di Pietro, rieccheggiò nell'anno del Signore 1177 per tutta la cristianità.


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    E sulle triste note di codesta eco i Cardinali si riunirono poco tempo dopo in Conclave a Roma per eleggere un nuovo reggitore della cristianità; per molti e molti giorni le consultazioni e le votazioni degli alti prelati ebbero infruttuosamente luogo dietro alle sacre porte oltre le quali essi s'erano chiusi. Infine, quando già si cominciava a temere che mai avrebbero trovato un accordo, grazie in particolar modo all'energico sostegno delle Eminenze del clero inglese, i Cardinali elessero il francese cinquantaseienne Enrico Capetingio a nuovo successore di Pietro. Egli sedette sul trono pontificio col nome di Papa Andrea, il pastorale universale nella mano sinistra e l'aura mitra di principe dei Vescovi sulla testa, e con occhio benevolo guardava, oltre che ai Francesi, sua gente d'origine, anche agli Inglesi, la cui influenza nella Chiesa ed i cui voti nel Conclave s'erano rivelati assai preziosi per la sua elezione.

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    Egli era un uomo retto e pio, deciso a mantenere ferma la rotta della Chiesa sull'inflessibile via tracciata dai dogmi della vera fede, e grande nemico delle eresie. Subito le sue attenzioni si rivolsero alla situazione dei Crociati in Terra Santa, donde giungeano confuse notizie di grandi movimenti et altalenanze e della venuta di un potente sultano chiamato Saladino e di quella d'un Re Lebbroso.

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    Forse era un segno inviato dal Signore ai cristiani, et in particolare ai Lionesi, quello che fosse stato scelto un Papa che per molto tempo era stato un inflessibile inquisitore et a lungo avea mondato le terre francesi dall'infame presenza d'eretici e miscredenti. Un segno che la fede professata e praticata da quel Valdo di Lione, il quale sempre più diveniva famoso e proprio allora cominciava una predicazione virulenta et una condotta spregevole nei confronti all'autorità della Madre Chiesa, fosse aberrazione della parola di Dio et andasse condannata, come avrebbe poi avuto modo di fare il Santo Padre.

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    E mentre colà, nelle terre francesi della Provenza e del Delfinato germinava la mal'erba d'una nuova eresia, la dedizione al lavoro et alla preghiera, con la rettitudine intrinseca che il Signore Misericordioso ha voluto porre in questi Suoi due doni, s'aumentava invece nelle terre inglesi d'Hampshire e di Galles, grazie all'insediamento et alla crescita di due grandi monasteri di monaci cistercensi, alacri nelle opre loro e saldi nella loro sacra regola allo stesso modo e forse più dei loro fratelli benedettini., dalle fila dei quali essi provennero in origine.

    ~


    Ma torniamo ora alle sanguinose vicende della Guerra d'Oltremanica, la quale, dal canto suo, sebbene vivesse invero un periodo di stallo, conclusa non s'era affatto et anzi andava riprendendo vigore nei bellicosi piani dei Regni coinvolti. Assieme ai suoi Lord di Francia, il Re Plantageneto avea elaborato una nuova manovra per portare la guerra, stavolta, contro il Regno d'Aragona, che illo tempore s'era fatto il più pericoloso tra i suoi nemici – permanea infatti la "tregua Dei" tra l'Impero e l'Inghilterra. Dalle guarnigioni d'Angers e Rouen, che poteano essere sguarnite in grazia della difesa prestata dal Regno di Francia al fianco orientale inglese sul continente, fu ordinato che si dipartissero diversi contingenti e che si radunassero presso la fortezza di Tours, situata sulle sponde della Loira. Radunato che ebbe un esercito di 1.013 homini, composto da due reparti d'armigeri, sette di lancieri coscritti, tre d'archi lunghi e tre compagnie di cavalieri feudali, Re Enrico si parò a partire alla volta di Alvernia e Rouergue.

    Negli stessi giorni in cui il figlio primogenito del Principe Goffredo il Cavalleresco, Giovanni Plantageneto, terzo in linea di successione al Trono, compiva il suo sedicesimo compleanno e raggiungea la piena maturità, venendo nominato Visconte d'Aquitania, l'esercito inglese lasciò le proprie posizioni presso Tours et entrò nel Berry francese. Contemporaneamente a ciò, una grande flotta regia dai porti inglesi di Southampton, Plymouth e Cherbourg penetrava nel Golfo di Biscaglia e, dividendosi in tre compagini minori, ponea il blocco ai porti castigliani di Gijòn, Santander et A Coruña.


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    L'anno era il 1179: le truppe del Sire penetrarono nell'Alvernia e Rouergue, lasciate quasi indifese dagli improvvidi Aragonesi, et assediarono la città di Clairmont. Tuttavia un'armata guidata dal Re aragonese Don Ramon Berenguer III di Barcellona in persona accorse in aiuto degli assediati et in tutta fretta s'appropinquava alla città et alle posizioni inglesi.

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    Il Re Plantageneto, dovendo scegliere tra assaltare la città immantinenti od andare incontro agli Aragonesi per dar loro subito battaglia, risolse a favore della prima ipotesi, concludendo che fosse preferibile non lasciarsi nemici, per quanto pochi, alle spalle. Clairmont fu indi presa d'assalto, espugnata in pochi giorni e saccheggiata per 1.558 bisanti, giacché grandemente dispari era l'entità delle forze che presso le sue mura s'erano scontrate.

    Lasciati pochi fidi homini a guardia della città conquistata, il Re volse poi a sud-ovest e s'incontrò, nel mezzo dell'inverno, col sovrano nemico sul campo di quella che fu detta poi la Battaglia di Clairmont. La mattina del giorno decimo secondo di Gennaio era fredda e tersa, e le schiere inglesi presero posizione su una lieve altura, al crocevia delle strade che conduceano alla città da poco espugnata, ostruendo il passo all'armata nemica. Colà la fanteria regia si trincerò, utilizzando i pali a protezioni delle proprie linee, mentre la cavalleria feudale fu disposta dal Re alle ali dello schieramento, abile così a manovrare e pronta a travolgere la soldataglia avversaria con la sua carica irresistibile.


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    L'esercito aragonese intanto, costretto a moversi risalendo il pendio e col sole in faccia, si schierava innanzi agli Inglesi, a circa 600 metri di distanza. Una moltitudine di contadini francesi, armati di lunghe lance e reclutati nelle terre di Tolosa, cavalleggeri e lancieri iberici, cavalleggeri coperti, oltre alla sua guardia pesante personale, Re Ramon Berenguer III avea radunato per formare l'esercito che colà contendea il campo ad Enrico II.

    Sul finire delle manovre di schieramento, il Plantageneto si portò innanzi ai suoi homini e, consapevole che la maggior parte di loro, se pur addestrata adeguatamente, mai avea prima d'allora affrontato una battaglia campale, apostrofò le proprie truppe per galvanizzarle et ispirarle alla vittoria. Fiera e maestosa era la sua figura, mentre a cavallo arringava le truppe. "Miei valenti soldati, – disse egli – oggi siamo qui per spezzare la minaccia aragonese e far intendere ragione al loro sciocco Re. Oggi non vacillerete né arretrerete, così com'io, in mezzo a voi, condividendo la mia fatica et il mio sangue coi vostri, non vacillerò né arretrerò. Gli occhi di tutto il Regno guardano a noi et al nostro valore; siate consapevoli di ciò et infiammate il vostro animo alla portentosa chiamata delle armi. Questo è l'ordine: marciate impavidi e vittoriosi per il vostro Re e per Dio nostro Padre, l'Inghilterra e San Giorgio!" gridò il Plantageneto sguainando la spada.

    Urla eccheggianti di bellicosa acclamazione accolsero le sue parole. E subito, quasi a compimento di ciò che parea alle truppe esser un comandamento ispirato dal Cielo, i pesanti passi dei destrieri della cavalleria feudale presero ad empire il campo, lanciati contro le linee aragonesi per ordine del Sire.


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    In pochi attimi il ritmo battente del trotto si trasformò in un rombo assordante e, lancia in resta, i cavalieri d'Inghilterra s'abbatterono al galoppo contro le schiere ancora impreparate degli Aragonesi, travolgendone i fanti in prima fila e portando scompiglio e scempio tra i nemici, et in particolar modo tra i contadini armati. Sempre plebaglia di tal fatta, che viene scioccamente armata da generali improvvidi et i cui homini si ritengono boriosamente e ciecamente veri e propri soldati, verrà sul campo dispersa e sterminata, e le sue fragili ossa saranno spezzate, et i villani che la compongono tremeranno dal terrore prima di morire, ogniqualvolta la portentosa carica di nobili e potenti cavalieri in armatura – quellì sì veri bellatores! – travolgerà le loro fila.

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    L'iniziale attacco della cavalleria, nei piani del Re, dovea indebolire il centro aragonese e costringerne poi l'intero schieramento ad inseguire le truppe montate inglesi – che si ritiravano subitaneamente verso le loro posizioni iniziali – e ad assaltare sotto lo spietato tiro degli archi lunghi il presidio trincerato degli Inglesi sul pendio. E così avvenne. Gli arcieri incoccarono innumerevoli le frecce e le scagliavano con letale precisione sui ranghi avversari, facilitati in ciò dalla posizione sopraelevata e godendo della protezione dei pali e dei fanti.

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    Mentre la fanteria aragonese faticosamente avanzava, Re Ramon ordinò che i tiratori a cavallo andassero a controbattere agli arcieri inglesi con le proprie frecce et i propri giavellotti. Egli li seguì a poca distanza assieme alla sua cavalleria pesante, puntando contro l'ala sinistra degli Inglesi.

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    E tuttavia i cavalleggeri nemici non poterono rivaleggiare contro i rinomati archi lunghi et in poco tempo furono decimati e dispersi a distanza dai loro dardi. La carica della guardia del Re aragonese, invece, non potea esser fermata dalle frecce, e già i cavalieri nemici erano prossimi a riversarsi, lancia in resta, contro le linee dei lancieri coscritti sul fianco sinistro.

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    La Provvidenza, però, avea deciso altrimenti per quella sanguinosa giornata: evidentemente accecato dal sole che gli baluginava in viso et impossibilitato a scartare per via dei comites che gli stavano affianco et appresso, il Re aragonese terminò la propria carica, assieme ad una parte della sua guardia, contro i pali acuminati piantati nel terreno e da essi fu rovinosamente trafitto.

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    Grida di trionfo s'alzarono dai ranghi inglesi, giacché tutti i soldati aveano potuto vedere il corpo del sovrano avversario, all'apice dell'eroico impeto della carica, sbalzato e squartato dalla solida trappola lignea. Il volere di Dio, che chiaro si delineava nella mente di tutti gli homini inglesi quel giorno, non solo si rivelò truce contro coloro che gli erano avversi, ma anche beffardo. In un modo siffatto perì Ramon Berenguer III di Barcellona e gli Aragonesi si ritrovarono improvvisamente senza un Re et un duce nel bel mezzo della battaglia e della guerra.

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    I cavalieri aragonesi rimasti furono circondati dai lancieri coscritti e dalla guardia del Plantageneto e, ancora sconvolti dalla pardita del proprio Sire, furono distrutti.

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    L'impatto della tragica fine di Re Ramon sul morale delle proprie truppe fu enorme. Mentre ciò che restava della cavalleria pesante aragonese si lanciava contro la controparte inglese, anch'essa in carica, l'intero fronte dei nemici cercava tra i pali d'abbattersi contro la fanteria regia per vendicare la morte del proprio sovrano, il tutto sotto la costante granuola del tiro degli archi lunghi, i quali, intoccati dall'assalto in grazia della loro posizione, continuavano alacremente nella propria mortifera opra.

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    Ma il morale degli Aragonesi era ormai spezzato e ben presto cominciarono a cedere terreno, lasciando che i compagni delle prime file fossero feriti et uccisi dai fendenti degli armigeri e dalle lance dei coscritti inglesi. E subito Re Enrico comandò che l'intero suo fronte avanzasse et ingaggiasse furiosamente il nemico che pian piano arretrava.

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    La ritirata delle ali, che cedettero infine sotto l'attacco della cavalleria feudale inglese, precedette di poco la rotta dello stesso centro aragonese. L'intero esercito nemico si volse e si diede ad una rotta precipitosa, discendendo il pendio. Inseguiti dai soldati del Re, gli Aragonesi correano a più non posso in cerca della salvezza. Stavolta però, col sole che beffardo gli illuminava le spalle.

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    La vittoria inglese sul campo della Battaglia di Clairmont fu grande et indiscussa: 255 Inglesi erano periti, mentre dei 979 soldati nemici, 614 erano stati uccisi assieme al proprio Re e 219 erano fatti prigionieri. Soltanto 146 soldati aragonesi riuscirono a tornare incolumi a Tolosa, recando seco l'infausta notizia della morte del Sire d'Aragona, cui, nei giorni seguenti, successe Re Don Alfonso di Barcllona.

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    ~


    La "tregua Dei" pontificia, indetta tra l'Inghilterra e l'Impero giungea agli inizi dell'anno 1180 al proprio termine et i Germanici, preoccupati dei successi inglesi contro gli alleati d'Aragona, nuovamente presero ad ammassare truppe nei loro forti di Treviri et Aquisgrana, nei pressi dei confini della Lotaringia. Lo stesso anno, il nuovo Papa Andrea sanciva un'altra "tregua Dei", codesta volta tra il Regno inglese e la Castiglia, che sino ad allora poco o niente avea fatto se non subire le operazioni navali delle flotte plantagenete. Il Re, volendo andare incontro alle richieste del Santo Padre in grazia delle relazioni d'amicizia con questi detenute, ordinò che le flotte impegnate nel Golfo di Biscaglia cessassero le operazioni di blocco contro i porti castigliani, levassero l'ancora e doppiassero lo Stretto di Gibilterra, alla volta del Mediterraneo occidentale.

    L'armata d'Angers, sempre guidata dal Plantageneto in persona, una volta che i prigionieri aragonesi catturati nella Battaglia di Clairmont furono giustiziati – il nuovo Re d'Aragona avea rifiutato di pagarne il riscatto – et una volta che Clairmont e le terre d'Alvernia e Rouergue passarono sotto il controllo dei Francesi secondo la solita strategia diplomatica dell'alleanza di Amiens, essa – dicevamo – si diresse a sud, oltrepassò il fiume della Dordogna presso il ponte d'Aurillac e conquistò il forte di Rodez.


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    Da lì, le truppe del Re penetrarono poi nella Tolosa settentrionale, generando l'allarme delle numerose forze aragonesi colà stanziate, le quali improvvidamente non s'erano immaginate che gli Inglesi, da Clairmont, avrebbero proseguito penetrando ancor più nei possedimenti del loro sovrano. Ma così gli Inglesi fecero in effetti et Enrico II, consapevole che una manovra incauta in campo aperto, circondato da superiori schiere nemiche, l'avrebbe esposto al rischio d'un disastro, diede l'assalto alla piazzaforte d'Albi, a metà strada tra Rodez e Tolosa, la espugnò e vi si trincerò col proprio esercito all'interno, costringendo gli Aragonesi a venirgli incontro e ad attaccarlo colà. I suoi piani ebbero di lì a poco la propria conferma, e la sua astuta strategia ancora una volta fu vincente.

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    Gli 800 (o poco meno) soldati del Re doveano fermare alle porte d'Albi la possente armata aragonese, forte di ben 1.265 homini, altrimenti Enrico e la di lui spedizione si sarebbero trovati colà in trappola e sarebbero periti per mano del nemico. La fiducia che il Re mostrava ai suoi militi tuttavia empiva d'orgoglio i loro cuori e con grande determinazione essi s'apprestarono a difendere ogni singolo parapetto del forte d'Albi et a spezzare la risolutezza delle forze nemiche innanzi a quei bastioni.

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    Con torri e scale il nemico si diresse appresso le mura di pietra, passando attraverso la stretta strada lasciata libera dal fossato, empito d'acqua, che circondava la piazzaforte su tutti i lati. Il Re potea osservare lo svolgersi dello scontro intero dalle feritoie dell'altro maschio del fortilizio, che su tutto colà dominava.

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    Gli Aragonesi spazio non torvarono per utilizzare le scale e le torri – ben costruito era infatti quel forte dalle molteplici difese, scelto saggiamente dal Re Enrico come luogo dello scontro – e dovettero accalcarsi presso i cancelli divelti, ove gli Inglesi parata aveano non solo una salda linea difensiva, ma truci stratagemmi. La densa massa dei nemici colà costretti e fermati nel passo dai fanti e dai cavalieri difensori fu decimata dalle frecce degli archi lunghi, sugli spalti appostati, e soprattutto dalle micidiali colate di pece bollente che il presidio del cancello riversava loro adosso dall'alto delle caditoie.

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    Diverse volte gli Aragonesi si ritirarono innanzi a quell'orrore di corpi ustionati e bruciati dalla pece infuocata e trafitti dai dardi che avea luogo sotto l'arco delle porte, e tutte le volte furono risospinti nuovamente all'attacco dagli ordini sbraitati, dalle minacce e dagli improperi dei propri capitani. Ma ogni volta erano molti meno nel numero et infine ne rimasero davvero pochi e quei pochi che rimaneano si diedero alla fuga, lasciandosi le armi e gli innumerevoli cadaveri dei propri compagni alle spalle.

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    Soltanto trentatré di loro sopravvissero a quella giornata: la grande armata aragonese era disfatta, la superiorità del nemico in quelle terre spazzata via e la strada per Tolosa s'apriva nuovamente sgombra dinanzi all'avanzata del Re Plantageneto.

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    Et il Re difatti avanzò. Giunto presso l'imponente castello di Tolosa, vi pose l'assedio e mandò esploratori in avanscoperta nelle regioni circostanti per aver informazioni circa le mosse del nemico. Essi lo informarono di lì a poco di come oltre il fiume, sulla cui sponda orientale sorgea la fortezza, era acquartierata una schiera aragonese di rilevanti dimensioni, e di come dai Pirenei, i quali divideano materialmente in due il Regno d'Aragona e ne individuavano le due compenenti francese et iberica, stessero discendendo altre forze.

    Gli Inglesi arruolarono ad uopo un battaglione di rudi e forti lancieri mercenari, lo unirono ad uno di archi lunghi, et inviarono quelle forze oltre la Garonna, ove presero posizione nella fitta boscaglia che precedeva ad occidente i guadi di Tolosa. Loro compito, nel caso in cui le truppe aragonesi, poco più ad ovest stanziate, avessero tentato di passare i guadi et andare in soccorso dei difensori del castello, sarebbe stato quello di tender loro un'imboscata e sbarrargli il passo fintantoché Tolosa non venisse espugnata.


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    Cosa che però i nemici non fecero, poiché preferirono rimanere ai loro posti et aspettare l'esercito del nobile Oriol Montcada, distante un paio di settimane di cammino.

    E tuttavia le mosse del Re Enrico furono più rapide di quelle dei suoi nemici. Egli, non potendo permettersi il lusso di protrarre l'assedio per lungo tempo, ordinò che prontamente si parassero scale e torri et arieti, e, una volta terminati, che si desse immantinenti l'assalto alle mura, giacché i difensori erano di molto inferiori nel numero e non avrebbero saputo arginare l'attacco inglese. Neanche le mura del castello di Tolosa, che si stagliavano imponenti dall'altura sulle quali erano edificate, poteano infatti fermare le truppe del Re se non presidiate a dovere dalla guarnigione.


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    Il castello era sotto l'autorità dell'aragonese Alfonso Montcada, il quale si profuse di persona nella difesa dell'insediamento, assieme ai suoi cavalieri et al suo nobile parente Domingo Montcada, che era riuscito ad ottenere che tra i ranghi della piccola guarnigione ci fossero anche alcune schiere dell'Ordine Templare. Ma tutti costoro erano comunque destinati a soccombere e furono falcidiati dagli arcieri inglesi, che erano riusciti a prendere possesso dei bastioni, e dai fanti del Re.

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    Fu così che, nell'anno Domini 1181, Tolosa cadde nelle mani dell'Inghilterra e colà vennero saccheggiate ricchezze per 3.346 bisanti, et un altro duro colpo era inflitto ai nemici d'Aragona. L'iniziativa degli alleati iberico-germanici era andata scemando nel corso del conflitto, lasciando il campo alle iniziative degli Inglesi. Ma la guerra vicina non era ancora alla sua conclusione, ed altri sanguinosi giorni avrebbero infuriato selle terre d'Oltremanica.

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    micesp85
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    00 17/01/2013 12:36
    Lavoro meraviglioso Cerbero, complimenti sinceri... ;-) [SM=x1140522] [SM=x1140522]
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    SerRobertLongstride
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    00 05/03/2014 22:51