00 02/07/2012 14:35

Il capolavoro del nichilismo

Quel convulso mostro cronenbergiano è tornato. A tutti gli effetti. Stavolta il regista canadese ha portato allo stremo una profetica storia come quella di Don DeLillo, scrittore italo-americano che agli albori degli anni 2000 butta giù un romanzo breve che del nostro contemporaneo sa tutto, quasi avesse affrontato un pericolosissimo viaggio nel tempo con l’intento di avvisare il popolo mondiale di un’imminente catastrofe finanziaria. Gli uomini d’affari vagano nel mondo come criminali, sono i fantasmi potenti e protetti dall’esterno: il caso del protagonista Eric Packer atarassico ventottenne senza un minimo di scrupolo che, vuole a tutti i costi attraversare il quartiere di Manhattan pur di andare a farsi i capelli dal suo barbiere di fiducia. Ed è forse quella conclusione dell’alter-ego scrittore che “deve aggiustarsi il taglio”, palesemente in ordine, non così necessario sin dal principio. Ma è la questione di principio che fa, del percorso all’interno della sua limousine futuristica, un’allegoria continua del senso metropolitano di una società corrotta da ogni poro che vigila continuamente. Dietro uno sguardo attento e robotico dei suoi occhiali scuri. Robert Pattinson è magistrale, lascia a casa i suoi canini di plastica magnetico come il replicante che fu, trasformato nell’antitesi di sé, sicuro ed espressivamente inespressivo al punto di non abbandonarsi mai a sentimentalismi recitativi e di vivere veloce, rapido, sempre esposto a quel cambiamento che si misura in microsecondi impercettibili.
Il capitalismo è una pistola sociale che non s’inceppa mai, che tiene sempre sulle spine il consumismo spinto di nostra mano, senza un vero perché. “Uno spettro che si aggira per la città”, vittima di un marciume teso e controverso che sfocia inesorabilmente nel tema dell’alienazione forzata, voluta e meditata dai pochi. Poiché i reali personaggi di Cosmopolis sono i dialoghi nella loro più ampia complessità, elaborati come “i derivati di Wall Street” simboli-concetti composti dalla chiave di tutto il mondo economico, in testa ad un ristrettissima comprensione oligarchica. Siamo topi morti. Noi tutti non siamo altro che carcasse puzzolenti offerte in sacrificio ad un meccanismo altro che ci appende dalla coda, dandoci l’illusione di poter afferrare qualcosa di concreto. Noi siamo la contemporanea “nuova carne” videodromiana che richiama l’Existenz in un sottofondo incosciente che monopolizza tutta la realtà in un confuso sballo d’idee falsamente interpretate. E tutte le situazioni parlate in macchina fanno parte di un gioco di camere insonorizzate che mangia e si alimenta di perversione alla Crash. È la più eccellente post-moderna rivisitazione del cammino di Dante all’inferno, che di Virgilio ne tiene solo il dollaro, ed un anti-Odissea che muta Ulisse in un economista cibernetico dal braccio d’acciaio e dalle venature in fili elettrici. Le riprese paiono ritrarre all’esterno un mare in tempesta composto da ribellione, propaganda, bombolette spray e violenza e all’interno una tecnologia multimilionaria fatta di sesso, invadenti visite mediche e triste consapevolezza.
David Cronenberg non ha niente a che vedere con il trailer mandato in giro, la teatralità di una letteratura sub-apocalittica sul grande schermo ha presto forma mettendo in crisi il pubblico. Persone non l’accettano, si alzano durante le due ore di pellicola in preda alla nausea del quotidiano (che non vediamo) e a giramenti di testa che sfocano il flebile velo psicologico che sosteniamo di avere sempre addosso. Come nello scontro finale. Nei minuti palleggiati a sfida del Pattinson/Personificazione Capitalista e del Giamatti/Uomo medio. Il mito della morte viene ricercato, analizzato in via di declino e la massa fionda torte in faccia al ragazzo, oramai spoglio di giacca e cravatta. Spoglio di sé. Allora l’impostazione beckettiana di Cosmopolis cammina ancora più in fretta. Sembra quasi di cogliere il significato archetipico del denaro, mentre il delirio scatenato dall’imprevedibilità dello Yuan attacca senza tregua. “La parola stessa era oramai perduta in una nebbia fluttuante”, fuori dal guscio della limousine Eric vive la perturbazione della Storia che ha generato lui stesso, il pessimismo dilagante, nel verbo sempre più claustrofobico e visionario. Bei rimandi a Morpheus, all’Oracolo e all’Architetto di Matrix in una totale asimmetria degli eventi che fa sentire male. Il nichilismo ha vinto, vince ed è statisticamente programmato per vincere ancora. Forse per sempre. Eric prova a sanguinare, a subire qualsiasi effetto pensabile, ambisce al dolore, uccide cercando di aprirsi alla possibilità di essere ucciso. Fuori c’è una moglie che non capisce nel suo più degradante rapporto di unione ed il caos si muove strisciante in manifestazioni No-Global cariche di odio. La fine dei giorni.
Benvenuti all’ultimo spettacolo della più cinica di tutte le paranoie.
Rubens Lanzillotti, virgolenellevirgole.it



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Da Pollock a Rothko

“La paranoia è un disturbo del significato.” James Hillman

Il cinema di Cosmopolis non risiede nella consequenzialità dei dialoghi, David Cronenberg stacca ogni USB spinale e attua una sorta di Cut-Up cinematografico applicato al SUO cinema sorvolando sul rapporto causa-effetto e squarciando l’immobilismo voluto dell’intera pellicola con silenzi al limite del “RUMORE bianco” e voragini di corpi con abissi narrativi tanto quanto rivelano e possano rivelare perfettamente l’inconsistenza totale del reale, sempre in bilico tra l’essenziale estremo e l’inessenziale estremo, dando totalmente possibilità allo spettatore di cogliere il punto di svolta della sua asimmetria in ogni potere immaginifico della paranoia.
“Qualunque cosa facciamo la dismisura serberà sempre il suo posto entro il cuore dell’uomo, nel luogo della solitudine. Tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni.” Albert Camus, L’uomo in Rivolta
Altamente profetico [“La logica evoluzione degli affari è l'omicidio” - Don DeLillo, Cosmopolis], profondamente radicato in quell’oggi che è già assente e presente come tale e che risiede prepotentemente con la sua “distanza” nell’assassinio del domani e pertanto nell’irreale tanto quanto la realtà non è altro che una frattura scomposta di se stessa, irriverente e asymmetrical nel proporre e nel proporsi, altamente trapiantato violentemente nel hic et nunc dello STRANIAMENTO tanto quanto il collasso della cyborg finanza e la morte del futuro, già auspicata da Ballard in Crash.
E questa perfetta asincronia [basti pensare al fuori-sincrono visivo di Southtland Tales] non è altro che la materia psicolabile di cui sono fatti i migliori sogni.
“L’ho viste in America, e oggi, ogni domenica nel mio quartiere, a Parigi, durantre i matrimoni cinesi. Sono completamente in sintonia con i nostri tempi: insieme vistose e di cattivo gusto. Sembrano belle dall’esterno, ma all’interno danno la stessa sensazione triste che un hotel frequentato da prostitute. In qualche modo mi toccano, però. Sono obsolete, come vecchi giocattoli futuristi. Penso che segnino la fine di un’era, l’era delle grandi macchine. Queste vetture sono diventate il cuore del film – il suo motore. Le ho immaginate come navi che trasportano gli esseri umani durante i loro ultimi viaggi, le loro ultime missioni. Il film è una sorta di opera di science-fiction, in cui esseri umani, animali e macchine sono in via di estinzione – “motori sacri” collegati tra loro da un destino comune, schiavi di un mondo sempre più virtuale. Un universo dal quale le macchine, le esperienze reali e le azioni stanno gradualmente scomparendo”. Carax sulle Limousine (from / for “Holy Motors”)
E allora queste bare bianche a cielo chiuso asettiche ed erotiche, totalmente insonorizzate, diventano i carri armati blindati per la protezione in-cosciente dell’alienazione che ride di se stessa nel vuoto Imperante del Caos che non può essere confinato con un finestrino alzato perché fiction di un mondo interiore scoeso come un Caronte Bianco di Carne Metallica Dilaniata.
I nomi smettono di avere il loro significato, e l’essere nel suo “essere” umano è solo una scelta nell’infinito gioco delle possibilità. Come tutti i “Ciò in cui Credo” ogni mente è lucidamente offuscata dalla ricerca della distruzione rifuggendo il concetto romantico secondo cui dalle ceneri della distruzione nasca ogni arte e che la creazione non sia altro che giustificata collisione di energia nata dalla distruzione. La distruzione imperiale del capitalismo di Cosmopolis non è che lo specchio della metamorfosi (ancora Cronenberg) del concetto stesso del denaro: topo, topi, uomini-topi, marxismo a cinque stelle. Un valore concettuale portato al paradosso dove campeggia il trionfo dell’apocalisse dello spirito: “facciamo sesso”, che non è altro che il testamento “fuck” kubrickiano di Eyes Wide Shut, l’implosione dell’inibizione, la morte del dialogo, il fottìo della logica, una pallottola che trapassa la mano, la morte del sentimento la cui maschera non è un supporto esterno ma nervi e pelle integrati, totalmente in linea con il concetto di corpi-manichini imposto dalla nostra Società al Cerone di Morte annegata dalle lacrime di ogni equazione che asservita alla corrispondenza più non è, la determinazione a non schivare MAI la collisione nella totale ricerca dell’imperfezione per contrapposizione al non aver mai considerato ogni possibilità di errore, ogni tentativo di soverchiamento, ogni gambizzazione di programmazione da diagramma. E l’opera si chiude proprio sulla frattura Umano contro dis-Umano ["L'ultima questione è sapere se dal fondo delle tenebre un essere può brillare." Karl Jaspers], una frattura solo fasulla, perché basata sul fraintendimento e il totale allineamento (e del suo viceversa) del solo apparentemente Umano, del solo apparentemente Disumano, nell’incertezza prepotente di DOVE siamo, di ciò che siamo, di CHI siamo.
William Dollace, raccontopostmoderno.com