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L'ESISTENZA È IL CORPO: CONVERSAZIONE CON DAVID CRONENBERG


Lei è uno dei maestri riconosciuti del genere horror e anche uno tra coloro che più efficacemente hanno contribuito a rivoluzionarlo. Vorrei sapere se, secondo lei, in questo genere sia più efficace o, in altre parole faccia più paura, mostrare o meno?

Cronenberg: Il non mostrare è sempre stato una sorta di luogo comune sostenuto da coloro che non amano vedere sullo schermo immagini disturbanti e situazioni molto fisiche. Io penso sempre a Hitchcock, un vero maestro nel risvegliare la paura non mostrando le cose; però penso anche al suo film Frenzy che è estremamente violento, anche sessualmente intendo, al punto di far vedere la scena di uno stupro in cui un uomo strangola una donna usando la propria cravatta. Una scena in cui si mostra ogni cosa. La ragione per cui Hitchcock non esponeva le cose è che allora non gli era consentito; a quei tempi negli Stati Uniti era vietato mostrare determinate scene, quando però lui ebbe la possibilità di farlo diede libero sfogo alla sua volontà e al suo desiderio. Mostrare cose scomode, orribili e indicibili implica che queste alberghino nella propria coscienza, il che significa il doversi confrontare con se stessi e con la realtà, riconoscendo che gli esseri umani sono capaci di fare certe cose. Mostrarle o meno dipende però anche dal tipo di film che si realizza. The Dead Zone, ad esempio, è un film in cui compaiono alcune scene di violenza ma è un tipo di film diverso. Per certi versi, infatti, è il film a dire le proprie esigenze, perché inizia a vivere una propria vita organica e chiede quello di cui ha bisogno al punto da rendere impossibile imporgli cose ad esso incompatibili. Questo è semplicemente il rapporto tra l’artista e la sua creazione. Dopo aver diretto The Dead Zone, la gente ha iniziato ad affermare: «Cronenberg è divenuto più sadico, più simile a Hitchcock», successivamente però ho girato The Fly che è realizzato in quel modo semplicemente perché è un tipo di film diverso. È più legato al corpo umano e alla malattia. Al tempo in cui questo film fu realizzato, la gente volle associarlo al tema dell’Hiv. Io risposi che una malattia come l’invecchiamento è ancor più diffusa dell’Aids. Secondo me la forza di questa pellicola è dovuta al fatto che tratta un tema con cui dobbiamo tutti confrontarci perché, se viviamo abbastanza a lungo, affrontiamo tutti la disintegrazione dei nostri corpi e, per gli esseri umani, è sempre difficile accettare la propria estinzione. Quello che credo di affrontare nei miei film è anche la mia mortalità.

Lei ha spiegato che il mostrare i corpi dilaniati sia un modo per raccontare qualcosa che è intrinseco alla vita umana, alla mortalità dell’uomo. Vedendo i suoi film, però, mi chiedo se lei non pensi che l’uomo sia intrinsecamente anche violento, se sia impossibile per un uomo o una donna sfuggire alla propria violenza.

Sono riuscito a sfuggire alla violenza facendo film. È evidente che vi sia una parte innata della natura umana che è violenta, non si deve certo essere dei geni per intuirlo. Siamo animali, dopotutto, nonostante l’intelligenza che ci contraddistingue, l’inventiva e il nostro linguaggio, il pollice prensile e così via. Rimaniamo sempre estremamente violenti. La differenza tra noi e gli altri animali è che noi possiamo osservare questa violenza, meditarci e specularci sopra e considerare la possibilità di vivere facendone a meno, nonostante non siamo mai riusciti a farlo. Molte persone mi hanno detto: «I tuoi film sono estremamente violenti», ma rispetto ai comuni film d’azione il numero degli atti di scontro nei miei lavori è estremamente ridotto. Se si considera la durata delle scene, la maggior parte dei miei film in effetti ritrae persone che parlano. Dal momento che considero molto seriamente la violenza, però, e non la ritengo una forma di intrattenimento, comprendo che quei momenti hanno un significativo impatto sul pubblico che reagisce vigorosamente a certe immagini – come ad esempio alla visione grottesca di una mandibola distrutta. Per certi versi il senso di quelle scene sta nel fatto che il pubblico gradisce vedere il cattivo che viene ucciso ma allo stesso tempo resta scioccato quando vede che si spara in testa a qualcuno, perché è un’immagine estremamente efferata.
A History of Violence tratta l’aspetto sociale della violenza in un modo che i lavori precedenti hanno fatto in maniera più metaforica perché, nella maggior parte dei miei film, essa aveva una componente fantascientifica che credo protegga le persone. Per certi versi, il genere fantascientifico o l’horror difendono il pubblico, gli consentono di esperire ogni cosa pur restandone a distanza proprio perché le storie non si presentano in forma realistica, come leggendole su un quotidiano. In un film come A History of Violence, invece, si ha a che fare con la violenza sociale in un modo più realistico, privo quindi di quella protezione data dall’elemento fantastico, cosa di cui ero ben consapevole durante la sua realizzazione. Io sono non violento. Non mi diverte la violenza che in vita mia ho solo vista sulle strade una o due volte. È estremamente scioccante, anche quando si tratta di una semplice scazzottata. Per non parlare della sola volta in cui sono stato preso a pugni, durante un trip sotto effetto di Lsd, posso solo dire che fu la cosa più violenta che mi sia capitata. Ero però anestetizzato dalla droga e alla fine non mi fece così male.

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Nei suoi lavori è evidente una ricerca, un percorso d’autore, una personalità molto forte. Mi chiedo come sia stato possibile e, soprattutto, come reagì quando l’industria hollywoodiana le propose di girare prima Star Wars e poi Top Gun.

Non so quanto seria fosse l’offerta per Top Gun ma ricevetti la sceneggiatura dal mio agente. Si trattava di un film estremamente patriottico, militaristico ma, essendo io un canadese, per me è diverso e ho una sensibilità differente. Qualche volta ricevo sceneggiature che non riesco a comprendere perché non sono abbastanza americano. E lo dico sul serio. Nel caso di Star Wars, mi pare ricevetti una telefonata mentre facevo colazione in cucina da quello che credo fosse uno dei produttori del terzo Star Wars – The Return of the Jedi. Mi fu chiesto se fossi interessato a incontrare George Lucas e a girare quel film; io risposi: «Di solito non faccio film di altri» e la persona replicò: «Va bene. La saluto». Suppongo di non aver dimostrato abbastanza entusiasmo per il mondo di Star Wars e nei loro confronti. Questo è quanto sono stato vicino a dirigere quel film ma al tempo stesso risposi seriamente in quel modo, perché giravo solo pellicole di cui avessi scritto io stesso la sceneggiatura e non comprendevo cosa mai potessi apportare a qualcosa così controllato da George Lucas.

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Vorrei fare una domanda su un ruolo che David Cronenberg ha ricoperto nella storia del cinema, ovvero quello di interprete. Mi sento particolarmente legato a un film come Nightbreed (Cabal) in cui lei interpreta il ruolo dell’antagonista. Vorrei sapere com’è stata l’esperienza attoriale in quel film in cui incarnava il male, nei panni di un assassino puro implacabile, così come in To Die For di Gus van Sant, nonostante nella vita reale lei dica di sgomentarsi di fronte alla violenza.

Sono molti i registi che segretamente vorrebbero recitare. Il ruolo che ho interpretato in Nightbreed è stato il tipo di recitazione più serio che abbia fatto. Ho trascorso ben 3 mesi a Londra esclusivamente occupato come attore, benché fossi anche impegnato a scrivere la sceneggiatura di Naked Lunch, si è trattato però del tipo più estremo di recitazione con cui mi sono misurato. Tutti gli altri ruoli che ho interpretato mi hanno impegnato per due o tre giorni, in genere a Toronto, proprio come nel film di Gus van Sant. Si è trattato comunque di un’esperienza molto interessante; è stata infatti la prima volta in cui ho esperito quello che chiamano il «tempo dell’attore», durante il quale si vive in un’altra città, di solito lontano dalla propria famiglia, si trascorrono le giornate accanto al telefono, aspettando il momento in cui ti dicano: «Vieni sul set!». A volte però non sono ancora pronti a girare ma tu non puoi allontanarti. Sono stati momenti in cui ero molto cupo, depresso, perché la famiglia è stata con me solo per un po’, poi è dovuta andar via. Io vivevo solo, in una grande casa a St. John’s Wood e proprio non sapevo come fare, come fare a vivere da attore, sulla location, recitando. C’era un altro interprete del film, Charlie Haid, abbastanza noto per aver lavorato nella serie Hill Street Blues, che mi disse: «David, tu sbagli. Non puoi restartene a casa, devi uscire, devi fare qualcosa, esplorare la città. Dai, ce ne andremo a Stratford-on-Avon e noleggeremo una barca per scendere lungo il fiume Avon, fino a Londra». E così abbiamo fatto. Noi due soli in barca, lungo una sorprendente serie di affluenti. Ed è lì che ho capito da dove nascono tutti quei racconti per bambini alla Beatrix Potter, quelle storie ambientate in una campagna che credevo fossero solo un’invenzione e invece esiste davvero. Per me è stato interessante sotto molti aspetti comprendere non solo la psicologia di un attore sul set ma la loro psicologia di persone che vivono come zingari. È un tipo di vita tanto strano quanto emozionante che necessita di un carattere molto particolare per essere vissuta e debbo ammettere che non sono abbastanza serio come attore per ripetere quel tipo di esperienza e trascorrere ancora tre o quattro mesi a recitare da qualche parte dove si gira un film. Suppongo comunque che se si trattasse di un progetto o di un regista abbastanza interessanti prenderei in considerazione l’offerta ma oggi le proposte che ricevo sono solo per interpretare uno scienziato pazzo oppure uno psichiatra omicida, un medico o cose simili a cui non sono molto interessato. Proprio come ogni attore, ti aspetti che qualcuno scopra il tuo vero «io», che qualcuno riveli il genio che è in te, perché un attore non riesce a farlo da solo. Si dipende troppo dalla sceneggiatura o dal progetto o dal regista ed è questo il motivo per cui la maggior parte degli interpreti prestano particolare attenzione ai cineasti con cui lavorano, sebbene, lo ammetto, per quanto riguarda la mia esperienza, il personaggio viene prima d’ogni altra cosa. Se a un attore interessa interpretare un certo ruolo è disposto a lavorare con un regista che non ammira perché desidera fortemente la parte. Ho capito molto della psicologia degli attori e anche il fatto che, come interprete, tu hai un corpo e quello è lo strumento con cui devi lavorare: non hai alcuna tecnologia a disposizione, hai solo te stesso, il tuo corpo, il tuo tutto. Il corpo è lo strumento che suoni e il cast è l’orchestra.

Il sesso è molto importante nei suoi film. Spesso figura una componente omo-erotica. Vorrei lei ne parlasse più approfonditamente.

Quando delineo un personaggio, in una sceneggiatura, cerco di restare quanto più aperto ad ogni genere di esperienze. Non è come quando si scrive un’autobiografia. Quando le persone vanno al cinema, una delle attrattive principali è riuscire a vivere le vite degli altri, vite che non ci appartengono e che, forse, non vorremmo vivere ma che c’incuriosiscono comunque. È evidente che se il corpo umano è una priorità nella tua vita creativa, allora la sessualità occupa un ruolo centrale. Vorrei tanto essere stato il primo a capire lo stretto rapporto tra il sesso e la violenza ma sono diverse migliaia di anni che gli artisti lo hanno compreso. Nei primi due film che ho realizzato, Stereo e Crimes of the Future, l’attore protagonista era un mio amico omosessuale, perciò si è trattato di una vera e propria collaborazione, molto spontanea. Non esisteva infatti alcuna sceneggiatura per quei film. I quali hanno quindi un orientamento piuttosto omosessuale per via di quell’attore, qualcosa che allora m’interessava molto e che non ho tentato di reprimere. Il protagonista somigliava un po’ all’attore svedese Max von Sydow, noto per aver interpretato i film di Ingmar Bergman. Per certi versi, quello fu l’inizio del processo collaborativo. Mi piacciono i personaggi delineati nella sceneggiatura ma gli attori sono molto più interessanti. Mi incuriosisce quello che disse Fellini quando affermò che si pensa a un personaggio biondo, alto 1 metro e 90 e poi ti ritrovi con un attore bruno e alto 1 metro e 50 che però è reale mentre il tuo personaggio è solo una fantasia. Si inizia allora a pensare che forse quel personaggio dovrebbe essere davvero bruno e alto solo 1 metro e 50. Anche per me è così: subisco molto l’influenza della presenza degli attori, anche se sono io a selezionarli sono loro a influenzarmi successivamente. Nel momento in cui decidi che nel tuo film esplori la sessualità, sarebbe strano escludere uno degli aspetti principali della sessualità che è l’omosessualità. L’attore di cui dicevo ne parlò sin dal mio primo film, la definimmo «onnisessualità» che è la perversione omnimorfa freudiana, l’idea che in un bimbo la sessualità sia in ogni cosa, ogni aspetto della vita sia sessuale e che è solo più tardi che si diventa specifici sulla propria natura maschile o femminile. Tutto questo mi affascina, è molto reale, molto umano, molto valido. Credo che in una pellicola come Crash compaiano tutti i tipi di sessualità. Quando ero a Parigi per girare Naked Lunch, fui intervistato da un giornalista affetto da aids, un omosessuale militante che era molto arrabbiato perché, per lui, William Burroughs era un’icona gay. Ma Burroughs stesso si definiva «checca» e non gay. Era sposato, faceva sesso con donne e trascorse un lungo periodo della propria vita negando la sua omosessualità. Pensai quindi che quel che stavo facendo con Naked Lunch era vero rispetto alla vita di Burroughs, rispetto alla sua evoluzione e al suo sviluppo e che, con questo film, non stavo tentando di affermare alcuna tesi politica sul piano sessuale. Conoscevo bene Burroughs e avevo trascorso molto tempo in sua compagnia. Credo sia molto pericoloso per un artista essere politico nel senso più stretto del termine.

Estratto dall'intervista di Mario Sesti, temi.repubblica.it/micromega-online
[le parti mancanti di questa intervista si possono leggere nelle sezioni specifiche dei film]