00 24/02/2012 03:11
il mio libro fantasy, spero di uscire fuori dagli schemi
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PROLOGO

Anno 3388

“Ma no, per quella giovane umana non c’è stato bisogno del colpo di grazia”.
Pensò il nano accecato dal sole.
Si voltò per un attimo, senza smettere di correre.
Le sue orme nella sabbia giallo limone tracciavano un lunghissimo percorso nella distesa deserta.
Raffiche roventi distorcevano e sfuocavano l’orizzonte assetato di quella regione, chiamata Impugnatura dell’Arco.
Aveva una balestra attaccata al fianco e stringeva a sé un pesante borsone a tracolla.
Era fuori pericolo, ma continuò a correre a perdifiato. Con quel caldo la sua maglia di lino era diventata insopportabile. Se la tolse, ben conscio che così facendo si sarebbe scottato, e riprese a correre a torso nudo.
***
Vide una sporgenza rocciosa in lontananza e pensò:
“Eccolo, finalmente, il rifugio”.
Una grotta isolata dal mondo conosciuto, eppure al suo centro, era davanti a lui, piccola come un puntino.
***
Varcò l’entrata rallentando, ansimante e coperto di sabbia.
Pochi passi e fu all’ombra. Si tolse il borsone di dosso sbuffando, prese la sua borraccia, ci si sciacquò e poi si accasciò su un fianco.
Dopo un tempo indefinito, uno spiffero fresco dal sottosuolo gli diede la forza per rinvenire.
Si mise seduto e si girò a favore di luce. Si asciugò i palmi sulle cosce indurite dalla fatica, aprì il borsone, guardò le schegge metalliche giallastre che lo colmavano e pensò:
“Tasca sbagliata”.
Aprì un’altra tasca e ne estrasse una massiccia lente d’ingrandimento bordata d’ottone e un libretto nero impolverato, intitolato Amagite. Mise la lente su una pagina a caso e cercò il giusto orientamento per leggerne il testo; rischiò di concentrare troppa luce sulla carta, cambiò subito angolazione e pensò:
“Dare fuoco a queste pagine sarebbe come dare fuoco alla nostra ribellione”.

“…un fulmine cadrà sulla vostra incudine: l’amagite ardente sarà plasmabile per poco tempo. Fate in fretta. Nello stampo di metallo potrete dare una prima forma al vostro manufatto usando gli acidi triferàli seguendo le proporzioni descritte nel capitolo 4. Ripetete il processo fino a ottenere l’oggetto desiderato.

- Prese dalla sua borraccia un sorso d’acqua oltraggiosamente calda e per curiosità sbirciò l’ultima pagina del manoscritto –

…quindi, quanto più sarà spesso il vostro manufatto d’amagite, tanto più sarà impenetrabile agli incantesimi.
Di certo avere uno scudo o una spada con aloni giallo limone non vi darà un’aria da condottieri, ma potete starne certi: i maghi smetteranno di usare tutti quei loro termini astrusi e vi porteranno rispetto”.

“Che strano, - pensò grattandosi un baffo - questi ultimi appunti così informali non possono essere stati scritti dalla setta dei senza mente”.

Per un attimo gli parve di vedere una sagoma impolverata, là fuori, da qualche parte.
Spalancò gli occhi e mise mano alla sua balestra:
“Umana, non puoi essere ancora viva”.

IL SUONO

Anno 3388, al largo delle coste di Áttoil

Una mattina un elfo marino disse:
«Hai sentito di Zurjan? Pare che ormai sia diventato vecchio: gli altri dominatori del mare non lo temono più. Un tempo avrebbe distrutto un galeone con un solo morso, ma adesso…».
«Lo faranno a brandelli, ma non credo che assisteremo allo spettacolo. In questo mare sono secoli che non si vede».
Gli rispose un altro con una risatina, mentre file di denti affilati e sanissimi incombevano alle loro spalle.
Negli abissi del mondo di Erön viveva Zurjan, il più grande e antico di tutti gli squali. Le sue cicatrici raccontavano millenni di fierezza.
Dopo quella coppia di piccoli elfi saporiti, il predatore trovò una selva di sargassi e vi si nascose. Rimase in attesa; il muso di un cetaceo grosso la metà di lui spuntò alla sua destra dalla barriera corallina.
“Capodogli… ne ho perso il conto. Ricomincerò da questo”.
Pensò la bestia pregustandolo.
Il capodoglio lo vide.
Lo squalo scosse la sua mole colossale e subito assaporò la preda in un morso fulmineo. Spinse la carcassa della creatura arresa contro il fondale, in frenesia, e tutta quella carne finì presto.
Un’ultima costola croccante rimase incastrata nel letto del mare e il dominatore la strattonò, inarcandosi tutto. Pezzi di roccia saltarono via, seguiti da sbuffi vorticanti di sabbia e sangue.
Zurjan sentì un debolissimo tintinnio provenire dalla spaccatura che si era appena formata. Si avvicinò e si mise in ascolto:
“L’eco lontano di suoni indefiniti”.
Usò tutti i suoi sensi e capì che in quel punto il fondale era un sottile strato di roccia e che avrebbe potuto nascondere una vasta grotta.
Si fermò a pensare: nella sua lunga vita aveva esplorato tutti gli oceani, ma non era mai andato al di sotto di essi.
Tutti i suoi “sudditi” lo avrebbero atteso lassù, al suo ritorno: ormai non gli davano più alcun senso di superiorità, giacché era diventato spropositatamente grande.
Per la prima volta nell’ultimo millennio, il predatore si dimenticò di finire la sua battuta di caccia e decise di seguire un sentiero mai percorso: si allontanò volteggiando di qualche metro e subito guizzò contro la spaccatura colpendola col muso. Il tetto di roccia crollò e si aprì un varco ampio e profondo.
Zurjan entrò seguendo il cadere dei detriti e l’eco risultò subito più nitida e riconoscibile: lo aveva già sentito, ma solo negli abissi più inaccessibili, e non vi aveva dato peso.
Quel giorno, invece, si sentì respinto e attratto da esso.
Proseguì verso il basso. Trovò grotte coralline abitate da gamberi, poi altre più in profondità, con sorgenti sulfuree bollenti alle quali erano attaccate milioni di piccole creature luminescenti.
Un ticchettio sinistro si sovrappose al bel suono. Zurjan si fermò e la sua esperienza gli suggerì:
“Deve essere un crostaceo, grande meno della metà di me. Si sta avvicinando troppo in fretta. Ma forse sta solo scappando da un pericolo. Se si avvicina ancora, lo attacco prima io”.
Il ticchettio si fermò di colpo; una serie di schiocchi modulati nel linguaggio degli abissi provenne da un punto imprecisato:
«Che cosa speri di trovare nelle mie grotte, squalo?».
Improvvisamente Zurjan perse lucidità. Fiutò l’acqua e rispose con versi rochi e profondi:
«Devi essere colui che chiamano Tolat, l’Arconte Gran Chela, padrone delle sorgenti ribollenti del mare a oriente del grande Arco. Ho di meglio da fare che attaccarti e per giunta sono sazio. Scostati».
Tolat il granchio era un dominatore, una delle grosse creature marine nate dalle viscere dell’oceano in un tempo senza nome.
La sua stazza, le sue chele taglienti e la sua spessa corazza erano un chiaro monito, ma aveva un lato nascosto che nessuno conosceva:
esso poteva leggere i pensieri delle creature nelle immediate vicinanze e sopire i loro più feroci istinti.
L’Arconte era vicino al re dei mari e stava già usando entrambi i suoi poteri, rimanendo immobile per non sprecare le forze e chetare il suo avversario.
“Vediamo se il pesce abbocca”.
Pensò, e avido d’informazioni, prese il coraggio di schioccargli:
«Hai sentito di quell’elfo che ha perso tutte le sue… ricchezze?».
Sentendo quell’ultima parola, Zurjan pensò per un istante a una delle sue tane dove teneva nascosti alcuni manufatti da guerra intrisi di magia. Tolat spiò quell’immagine mentale e ne fece tesoro.
Ovviamente nessuno dei due poteva brandire a dovere una spada o indossare una corazza, ma una cosa era certa: se tutte le razze di mare e di terra bramavano tanto quelli oggetti luccicanti, loro dovevano averli. Era una brutale questione di autorità tra creature d’intelligenza superiore.
Tolat prese a spremere al massimo il suo potere per placare il bestione e tremò per la fatica; lo squalo si sentì ancor più intontito e non disse nulla.
Lasciò stare l’Arconte Gran Chela e tornò a seguire quella melodia accennata, cercando varchi o creandone di nuovi, rompendo scogli e coralli.

***

Passò giorni e giorni in viaggio tra le grotte, superando sorgenti sempre più calde, al limite del sopportabile.
Il suono era cresciuto in nitidezza. Vibrava attorno a lui, dandogli la forza per resistere.
A tratti, nei vapori scuri e ribollenti di quella bolgia, lo vide.
Era un insieme di finissime linee curve, brillanti di tutti i colori, che sparivano nel momento in cui le si osservava direttamente.
Lo squalo si soffermò a spiare le forme create dalle linee, poi fu distratto da una piccola creatura di passaggio, una medusa filante di luce propria. La perse subito di vista.
“Che strano, era qui sotto ai miei occhi”. Pensò.
Continuò in caduta libera per molto tempo, finché non trovò più alcuna forma di vita.
***
L’abisso era diventato un lento e continuo turbinio cromatico di linee gentili.
Divenne evidente il più bello dei suoni e si modulò nella più bella musica, e le sue strofe e le sue immagini procedevano assieme alla profondità, tanto che Zurjan nuotò di migliore lena per conoscerne il proseguo.
Rumori insoliti si delinearono con chiarezza crescente. Lo squalo aveva origliato qualcosa di simile nelle rare occasioni in cui era andato sotto costa.
Erano rumori di cannoni, di portoni che si aprono, di carri in viaggio, di frecce che saettano e di spade che s’incrociano; erano voci, canti e applausi.
Fu avvolto dal morbido suono colorato e fu liberato da tutta la stanchezza. Sentì il mondo delle terre emerse vicino, vicinissimo. Fu preso dalla voglia di avvicinarvisi con tutto se stesso. Per un attimo si immaginò adagiato sulla terraferma a parlare con uomini a cavallo.
Una linea arancione, una delle tante che ormai gli saettavano attorno, disegnò davanti ai suoi occhi un giovane umano cinto di foglie d’edera e poi sfumò nell’oscurità.

Al punto più lontano dal cielo
il peso degli oceani proviene da ogni lato.
Torneremo alla meta, al Vortice sereno,
il suono luminoso, avvolgente, profumato.
Vita, madre dei mari di ogni costa,
nuoteremo nella tua forza,
nuoterai nella nostra.
“Vortice sereno”, strofa I

Zurjan pensò al Vortice sereno e si rese conto che descriveva perfettamente la situazione in cui era. Solitamente gli elfi marini intonavano quel canto durante i rituali legati alle nascite o alle vittorie in battaglia. Si sentì cambiato, in qualche modo migliorato. Prese una direzione a caso e iniziò a risalire, mentre quei colori dipingevano un nuovo destino in ogni fibra del suo corpo.

***

Passò un mese e gli elfi marini della colonia corallina di Salavyth ebbero una terribile sorpresa, e anche Zurjan.
Attraversata da un fittissimo banco di pesci in fuga, Najinka, una giovane elfa dai capelli porpora, vide l’enorme dominatore quando era ormai troppo tardi per fuggire.
«Benvenuto, re dei mari. Una flotta di umani è appena passata qui vicino. Hanno reti tanto grandi da poterti impensierire».
Disse lei, contraendo le gambe al massimo per non tremare. Aveva solo bisogno di qualche istante per raccogliere le forze e lanciare un incantesimo accecante, per poi scappare. Lo aveva già fatto altre volte. Il vasto predatore fiutò l’inganno di Najinka, spalancò le fauci e la fece sparire, poi toccò agli altri elfi. Non fu la solita battuta di caccia: Zurjan si contorse per il dolore, come se qualcuno lo avesse appena dilaniato. Volteggiò rapidissimo per guardarsi attorno, cercando un avversario alla sua portata, ma vide solo un elfo nascosto tra i coralli. Proprio in quel momento lo squalo avvertì un terrore atavico, come se una creatura mastodontica gli si fosse appena parata davanti. Si fiutò attorno e pensò:
“Nessun dominatore nei paraggi”.
Guardò nuovamente l’elfo. Più lo puntava, più si sentiva a sua volta minacciato.
“Minacciato così?! Da quell’elfetto?!”.
La sua frustrazione esplose in un ruggito:
«Che incantesimo è mai questo? Rispondi!». Vide l’elfo scappare ed ebbe subito la sensazione di avere due braccia e due gambe e di muoverle ritmicamente.
“Ma che cosa…?”.
Per un attimo si sentì incapace. La paura di non riuscire più a cacciare lo fece raggelare. Attese immobile di riprendersi dalla confusione e dal dolore e reagì all’imprevisto:
“L’Arconte Gran Chela è l’unico dominatore del mare con cui ho mai parlato senza poi attaccare, quindi potrei considerarlo un amico. Forse potrà darmi qualche consiglio. I miei smeraldi come compenso basteranno”.

L’ARCO DI AURION

Due erano i regni a prosperare sul grande continente chiamato Arco di Aurion, separati dallo sconfinato deserto dell’Impugnatura. Entrambi i popoli dell’Arco pensavano di vivere sull’unica terra esistente. Sul versante settentrionale rigoglioso di balfourianae dai tronchi ritorti, si trovava la terra di re Atroch Áttoil, abitata dagli umani: sia il regno, sia la sua capitale affacciata sulla costa nord-est si chiamavano Áttoil e secondo un ironico proverbio di quelle parti, un giorno anche l’aria e l’acqua avrebbero portato quel nome.
Nella zona meridionale viveva il re nano Ruuv Ruur e la sua città-miniera nell’entroterra dominava la catena montuosa di Ghwnohm, lucente di neve tutto l’anno. Ugualmente modesto, anch’egli aveva imposto il suo nome al suo regno e alla sua capitale. I due popoli navigarono sempre sottocosta, per timore dei mostruosi dominatori marini, così un giorno si scoprirono a vicenda.
Il tempo di un tramonto, e fu guerra.

LA GOCCIAVERDE

«Ehi, voi, non siete di Áttoil, vero? Aspiranti mercenari, giusto? Bene, andate sotto al portico delle tre lance. Fatevi avanti adesso, che è presto e non c’è nessuno. Mancano solo tre giorni. Fatevi onore».
***
«Eccomi, mi chiamo Fadek».
«Solo Fadek?».
«Noi dell’Ovest non abbiamo il cognome».
«Sembri in forma, basta e avanza. Ti registro come Fadek sedicesimo, ricordalo quando faranno gli appelli, alla banchina sud. Riceverai istruzioni sul posto e verrai imbarcato. Benvenuto ad Áttoil, firma qui».
Le costruzioni simili a nuraghe, i portici e le strade della città erano di un bianco pulito che rischiarava i vicoli più angusti, nonostante il sole fosse ancora basso.
Dagli ampi balconi in pietra, bianchi come tutto il resto, scendevano fronde rigogliose e ben tenute. Alcune di esse erano cariche di frutti.
Fadek passò sotto al bassorilievo delle tre lance, scolpito sulla volta del portico, e uscì sulla via, chiedendosi se quei frutti fossero lì a sua disposizione o meno.
Si avvicinò a un grappolo di mele gialle e si guardò attorno, poi in alto.
Da un balcone al secondo piano della casa di fronte a lui, una signora molto anziana gli stava facendo cenno di sì con la testa già da prima che i loro sguardi si fossero incrociati. Fadek prese da lei giusto il necessario per la mattinata e proseguì ringraziandola con un sorriso.
“Via del cartaio” recitava una targa alla sua destra.
Due mercanti, solerti e solari, gli si avvicinarono, proponendogli improbabili affari d’oro, ma non gli diedero troppo fastidio, tant’era di buon umore.
Li congedò con pacatezza:
«Sono qui per guadagnare, non per spendere».
Decise di aspettare un orario decente per presentarsi da suo cugino e così si mise a sedere su una scalinata di pietra lì vicino.
Di lì a poco la città si risvegliò e i gradini su cui egli era seduto furono salutati dal sole. Davanti a lui si era formato un gruppetto di bambini, una decina, sui sei anni al massimo. Avevano fatto incetta di scope e spazzavano per gioco in mezzo alla strada, tutti nello stesso punto. Prima di mezzogiorno i maniscalchi presero ad affilare le armi: il quartiere dell’Angoletto, a sud-ovest, puzzava talmente di metallo che le osterie della zona avevano chiuso i battenti e uno studio di architetti aveva sporto denuncia alle guardie, senza successo. Gli attoiliani di tutto il regno avevano solo combattuto sparute guerre civili nel corso della loro storia, così come i nani.
«Quei nani se ne torneranno a casa a nuoto!».
Urlò qualcuno. La propaganda dell’ottimismo era iniziata da poche settimane ed aveva già fatto centro: prospettive di facili vittorie avevano attratto un buon numero di mercenari provenienti dai quattro angoli del regno, così la città era piena di facce nuove e la cosa aveva creato qualche disordine.
Fadek era alto, con gli occhi verdi scuri e i tratti spigolosi nascosti dai capelli mossi rossicci e da una barbetta corta, dello stesso colore. Guardando i bambini, la sua mente tornò per un attimo al Sigis, la sua terra natia, sulla costa ovest del regno attoiliano: il suo addestramento nelle arti magiche dei druidi, iniziato in tenera età, era quasi completo. Egli aveva imparato a comandare la vegetazione alla perfezione e a convincere gli animali di terra e gli uccelli ad aiutarlo. La sua gente era stata colta da una carestia; il giovane si era messo in testa di fare soldi e comprare alcuni rari ingredienti per creare una pozione: essa avrebbe reso i suoi campi abbondanti come un tempo. Per questo motivo aveva lasciato a metà il suo cammino d’iniziazione e si era proposto come mercenario ad Áttoil. Nessuno, eccetto gli altri druidi del Sigis, sapeva delle sue speciali capacità. Suo nonno e mentore, Temdun, gli aveva fatto promettere che prima del suo ventesimo anno avrebbe dovuto mantenerle segrete: tale era l’usanza dei druidi del Sigis.
Il giovane si alzò e fece due passi. Ripensò a ciò che aveva sentito la sera prima in una locanda fuori città:
“Quella guardia reale ha detto che due maghi appena apprendisti sono stati ingaggiati per un prezzo spropositato. È davvero molto strano. Un regno così antico non può commettere un errore così grave: il potere può andare fuori controllo nelle mani di gente inesperta”.
Voleva solo trovare il necessario per la sua gente e per farlo gli sarebbe bastato il guadagno di una battaglia come guerriero semplice.
Il suo biondo cugino Benjan si era trasferito già da qualche anno nella capitale per condurre una bottega di maniscalco e si era offerto di ospitarlo qualora se ne fosse presentata l’occasione. Arrivò mezzogiorno e il sole fece splendere i selciati della città. Il druido arrivò alla casa di Benjan, riconoscibile dal pinnacolo a forma di cicala. Ad aprire la porticina di legno bianco fu una donna magra, dal naso minuto, fascinosa. La sua carnagione scurissima saltava molto all’occhio accanto alla calce dei muri che rischiarava tutta la casa. Uno spillone d’acciaio le fermava i capelli neri e lanosi. Sorrise e disse con calma:
«Benvenuto, io sono Dénev Jan Soltar - Fadek pensò di aver sbagliato indirizzo - e tu devi essere il cugino… il cugino…».
«…Fadek».
Disse lui tirandosi indietro di mezzo passetto.
La donna toccò una scultura propiziatoria in bronzo posta su un mobile di legno alla sua sinistra:
«Accomodati. Benjan è andato un attimo al pozzo».
Fadek si mise a sedere su una sedia di paglia alla fine della stanza, un po’ sorpreso dall’accaduto. Non aveva mai visto nessuno dalla pelle scura, ne aveva solo sentito parlare. L’eventualità che suo cugino avesse trovato una fidanzata così lontana dai suoi canoni lo incuriosì.
“Ma forse è solo la padrona di casa”.
Avrebbe voluto fare molte domande alla donna, ma preferì non mancarle di rispetto. Lei andò in una stanza adiacente ad armeggiare con delle pentole e gli rivolse la parola da lì, in scioltezza:
«Anche tu vieni dal Sigis? Deve essere un bel posto, forse un po’ troppo freddo per i miei gusti. Non so se Benjan ti ha detto che vengo dal Nord-Ovest».
Fadek drizzò le orecchie e chiese:
«Dal Nord-Ovest?! Quindi viene dalle parti di Foera. So che lì crescono alcune piante rare; io starei cercando proprio degli ingredienti...».
In quel momento Benjan rincasò, stanco ma contento, reggendo un pesante secchio d’acqua sulla spalla destra.
Si chinò ad appoggiare il secchio si rialzò e disse a Fadek:
«Ma guardati, sei diventato quasi più alto di me! Hai fatto qualche incontro fortunato lungo il cammino?».
I due si abbracciarono felici, ma anche un po’ in imbarazzo: erano entrambi molto cambiati in tutto quel tempo, e non solo fisicamente.
Fadek ripensò a come i cavalli di tutto il regno lo avessero aiutato, ma disse:
«È stato un viaggio così lungo che è successo un po’ di tutto. Il mio destriero non ce l’ha fatta. Che ti è successo alle spalle? Sono gonfie».
Benjan si pulì le mani annerite con uno strofinaccio bagnato e rispose:
«Ehm, sono muscoli. Dalle nostre parti non se ne vedono così, non si mangia abbastanza carne. Per fortuna alla bottega posso alternarmi con altri maniscalchi, altrimenti mi sarei solo consumato i nervi, a furia di battere il ferro. Ma parliamo di te: così anche tu hai deciso di farti soldato. La flotta reale ti paga bene?».
Si rimisero seduti e Fadek si aggiustò la daga che portava al fianco:
«Sì, molto bene. Una battaglia sul mare non è esattamente il mio genere, ma vista la paga non ne faccio un dramma».
Dénev entrò nella conversazione senza timidezza:
«Avete sentito che cosa dicono sui maghi? Pare che verranno coperti d’oro a fine battaglia, mentre noi guerrieri faremo il solito lavoro sporco per una paga inferiore…».
Fadek non ebbe il tempo di elaborare l’espressione “noi guerrieri” detta da una donna e rispose:
«Saranno pagati molto solo i mercenari, tra coloro che hanno doti magiche».
Dénev lo corresse a sua volta:
«A me risulta che tutti i maghi che partecipano verranno strapagati, perfino quelli nati ad Áttoil».
La conversazione continuò a pranzo e oltre. La tavola non fu sparecchiata. Dénev, che aveva ascoltato Fadek per tutto il tempo cercando segni di contraddizione, diede un’ultima occhiata fugace al giovane druido, poi si rivolse a Benjan e disse:
«Anche per me è sincero, proviamo a dirglielo».
Benjan chiuse le tende di juta davanti alle piccole finestre quadrate della saletta, avvicinò la sua sedia a quella di Fadek e gli disse:
«Cugino, parliamo a bassa voce. Qui le cose non vanno come dovrebbero: la settimana scorsa un nostro amico ha vinto ai dadi un cannocchiale molto potente e abbiamo provato a usarlo dal suo terrazzo; siamo riusciti a vedere il re e la regina seduti sui loro troni. Fin qua tutto bene, ci stavamo anche divertendo. Dopo un po’ ci siamo resi conto che i sovrani erano totalmente immobili. Delle statue! Sono rimasti con lo sguardo fisso per almeno cinque minuti! Poi una delle guardie ha chiuso la finestra. Non credo che ci abbia visti, eravamo davvero troppo lontani. Ora, ti ricordi i racconti di nonno Reirk? Pare che non fossero delle leggende, vediamo se ti ricordi questo pezzo».

Tutti i reali del Nord, la cui mente era ormai succube, radunarono i giovani maghi del regno e promisero loro una facile battaglia sul mare. I più adulti ed esperti, invece, erano stati mandati a sfidare il fato sull’Impugnatura dell’Arco.
I giovani dai modesti poteri erano destinati a una disfatta sul mare e i più avanti con gli anni avrebbero dovuto compiere imprese al di sopra delle loro possibilità, nelle insidie del deserto.

Sottovoce, Fadek disse:
«Ma allora non è una leggenda: deve essere una profezia. Ho sentito che i maghi più forti di Áttoil stanno andando via terra a sfidare i nani di Ruur. È giusto?».
Gli altri due annuirono.
Fadek:«Quindi è probabile che i due eserciti s’incontrino a metà strada… Una guerra in quella fornace. Fa caldo solo a pensarci. Anche una legione di guerrieri scelti è stata inviata da quelle parti».
Benjan si sforzò di fare mente locale:
«Secondo la leggenda, le dinastie controllate con l’inganno da un demone sono due, quindi anche il regno di Ruur è in pericolo. Oppure i nani sono i carnefici e noi le vittime. Non capisco se questa sia una guerra contro Áttoil, contro i maghi in generale o solo contro i maghi di Áttoil. L’unico nei racconti di nonno Reirk a poter controllare la mente di tante persone era Keshénk, il demone arido. Forse nonno Temdun saprà qualcosa in più. Ora, il punto è: vuoi venire con noi o vuoi guadagnare i soldi per la pozione?».
Fadek prese ad immaginare tutte le possibilità:
«Non lo so, dammi tempo. Voi fate pure, intanto».
Dénev e Benjan riempirono cinque grossi zaini col necessario per partire. Qualcuno bussò due volte. Benjan scostò le sacche dalla saletta e aprì la porta di casa. Il nuovo arrivato era alto e molto magro, i suoi capelli erano corti, neri e arruffati e i suoi vestiti erano fatti di semplice tela. Disse un “salve” ai presenti ed entrò subito.
Benjan: «Cugino, ti presento Lagdel, è l’uomo che ci tirerà fuori da questa polveriera».
Fadek ebbe l’impressione di essere tirato in mezzo senza il suo permesso, ma la prese come una dimostrazione di attaccamento nei suoi confronti e fece un mezzo sorriso a labbra strette.
Sotto gli occhi di tutti Lagdel prese una delle sedie, si mise a un angolo della stanza, lontano dalle finestre e disse sottovoce:
«Stasera ce ne andiamo, altrimenti verranno a cercarci quando faranno gli appelli. Nemmeno io ho voglia di finire in mezzo all’armata dei bevilitutti, non so se ti hanno raccontato la storia del cannocchiale…».
Fadek alzò un sopracciglio.
Lagdel era un pescatore molto bravo, ma non era propriamente un letterato e prese a gesticolare per spiegarsi:
«No, praticamente il bevilotutto è quell’affare che sta nelle osterie, quello che si usa per reggere la coppa, ma tanto la coppa si regge da sola… vabbè, è tipo una scultura di vetro addobbata con tanti pendagli inutili. Insomma, una cosa che non serve a niente. Ma torniamo al dunque: ho comprato il bitume come mi avevate chiesto e ho sistemato le scorte a bordo».
Dénev: «Andiamo a Foera, nelle terre del Nord-Ovest, giusto? - Lagdel fece sì con la testa - I miei genitori ti ringrazieranno quando arriveremo a destinazione. Peccato, avrei voluto vendere un po’ di roba prima di partire, ma forse è meglio così».
Benjan la guardò negli occhi e provò a sembrare severo:
«Ne abbiamo già parlato l’altro ieri: più cose vendiamo e più la gente si insospettisce». Ma era chiaro che non riusciva a odiarla, qualunque cosa facesse o dicesse.
Fadek guardò suo cugino aggrottando le sopracciglia:
«No, aspettate un attimo. Benjan, noi abbiamo il dovere di salvare i raccolti del Sigis. Non dirmi che, dopo tutto ciò che la tua terra ti ha dato…».
Benjan strinse forte i pugni e si ripromise di non urlare:
«E che cosa vuoi fare? Partecipare a una disfatta sul mare? La profezia parla chiaro, chiarissimo. O forse vuoi tirare su una ribellione con quei ragazzetti? Alcuni di loro sanno creare una fiamma ma non sanno nemmeno contare. Molti delle regioni interne non sanno nemmeno nuotare».
Si calmò e continuò, avvicinandosi di più:
«E se un comandante ti chiedesse di uccidere un mago? A quanto pare, prima o poi succederà, sempre che non verrai ucciso tu. Dall’esercito non si esce chiedendo per favore.
– Si mise una mano sul petto, era un gesto che faceva raramente –
Vieni con noi nel Nord-Ovest, a Foera, fallo per me. Lì saremo al sicuro, e poi io e Dénev ci sposiamo lì. Non vorrai mica mancare».
Fadek si alzò in piedi stizzito:
«E va bene, ho cavalcato giorni e giorni per niente, ma forse hai ragione, saremo più al sicuro lì e magari troverò qualche erba rara per la pozione».
Dopo un attimo di tensione guardò i due futuri sposi e corresse il tiro:
«E ovviamente vi auguro ogni bene, per il matrimonio, ma più in là vi farò gli auguri come si deve. Ora non è un momento propizio».

All’imbrunire tutti e quattro uscirono per le stradine riparate della città, tenendosi lontani dalle lanterne delle grandi vie principali. Prima uscì Lagdel da solo, poi fu il turno di Fadek e Dénev. Infine Benjan chiuse la porta di casa. Una voce familiare lo chiamò da un vicolo oscuro, forse uno dei suoi compagni di lavoro:
«Ehi, bello, dove te ne vai a quest’ora con quello zaino?».
Benjan si era già preparato una risposta nel caso fosse successo qualcosa di simile e disse senza troppa tensione:
«…».
Se l’era dimenticato. Si guardò intorno. Non c’era nessuno. Si rivolse al tizio e disse:
«Wino sei tu? Hai mica una ventina di monete? Te le ridò domani, garantito».
Dal vicolo uscì un uomo più alto di Benjan e un po’ meno muscoloso, con una lunga barba castana. Era effettivamente Wino. Egli si avvicinò e disse:
«Amico, non è che non mi fido, però io domani vado in battaglia. Se poi ci lascio la pelle a chi li ridai i soldi?».
Benjan sorrise: «Oh, beh, in quel caso sarebbe l’ultimo dei…».
Con un calcio di punta in mezzo alle gambe fece accasciare Wino. Gli diede un pugno sul collo con tutta la forza che poté, aprì la porta di casa in fretta e furia ed entrò portandolo nel buio. L’energumeno non gli avrebbe dato il tempo di legarlo e Benjan lo sapeva benissimo, così chiuse la porta e prese a strozzarlo con le gambe intrappolandogli la testa. Passarono degli istanti in cui prendere aria fu l’unico pensiero di entrambi. Dopo molta fatica Benjan lo sentì arrendersi e svenire. Forse Wino era fuori forma o forse il suo avversario era terribilmente più motivato di lui. Lasciò la presa e corse in cantina. Tastando un mobiletto trovò dei lunghi chiodi. Risalì di corsa in totale silenzio e torse i chiodi a mo’ di manette attorno ai polsi e alle caviglie del malcapitato. Gli mise un pompelmo in bocca, scostò l’uscio di casa e cercò di capire se ci fosse qualcuno nei paraggi. Nessuno. Prese lo zaino e s’incamminò sudando freddo, cercando di non dare a vedere la sua tensione.
Raggiunse gli altri al molo dov’era il capannone di Lagdel e lo trovò socchiuso. Aprì e trovò gli altri tre lì dentro ad aspettarlo. Accanto a loro un solido barcone da pesca occupava quasi tutto l’antro. Lesse Gocciaverde sulla fiancata sinistra e guardando oltre vide una discesa di pietra che dava direttamente sul mare. Lagdel provò a chiudere del tutto il capannone, ma si udì un forte cigolio. Così sussurrò agli altri di sollevare le porte mentre le si spingeva. Diede loro dei secchi di bitume e dei grossi pennelli.
***
L’intera barca, vela compresa, fu resa color notte in un’ora abbondante. Anche il nome fu velato da un ultimo tratto. Lagdel tossì per la puzza di bitume e sussurrò:
«Fortuna che c’è vento secco, apriamo uno spiraglio, che fa corrente. Un consiglio per l’attesa: meno la guardate e prima si asciuga. Poi useremo il bitume rimasto per far scivolare il barcone sulla discesina».
Una guardia stava attraversando la zona del capannone con una lanterna in mano.
Le tre piccole lune di Erön si levarono alte e piene a ovest. Molti innamorati le stavano ammirando dai balconi della città. Alle loro spalle, già al largo, c’erano quattro cuori che in quel momento battevano zitti zitti.
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Per i mod. Il forum mi permette fisicamente di mettere quell'immagine enormissima, se a voi non va toglietela pure.

(ah troppo belli questi emoticon, è la più ricca collezione di personaggetti che io abbia mai visto!) [SM=x1264001] --tessoooro..