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Recensione dell'antologia "Generazione entrante", curata da Matteo Fantuzzi

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    Nihil.
    Post: 711
    00 14/11/2011 22:22
    E' difficile recensire obiettivamente un libro a cui si è molto legati, ma proverò a farlo. “Generazione entrante” (Ladolfi editore, 168 pagine, 12 E) non è un'antologia del meglio prodotto dai nati fra il 1980 e il 1989, ma è una mappatura del panorama poetico under 30, che intende mostrare come ci sia un tacito patto generazionale che percorre tutta la penisola, un patto che prescinde da sesso, posizione politica, credo religioso e scelte estetiche. Ma andiamo con ordine: qui abbiamo 15 autori selezionati da Matteo Fantuzzi e presentati in ordine alfabetico, introdotti da puntuali schede redatte da poeti e critici più “anziani”, che compiono una ricognizione e uno scavo più ampio rispetto ai pochi testi antologizzati per ogni autore. Leggendo solamente le note biografiche e bibliografiche degli antologizzati, si nota come il tratto comune più evidente sia il loro decentramento geografico rispetto ai grandi poli tradizionalmente deputati alla produzione poetica: Milano e Roma qui non sono più catalizzatori del fare poetico, e nemmeno sfondi in cui muoversi per cercare la fortuna letteraria. Gli autori provengono da piccoli centri, si appoggiano alla rete (blog e/o facebook) o a piccole case editrici locali per farsi conoscere, e questo non per scelta di campo militante, ma con la naturalità di chi è per forma mentis estraneo al vecchio modo di proporsi (o di imporsi) che passa per la via crucis di concorsini, concorsi, rivista, case editrice media, reading e passaggio ad editori più “blasonati”.
    Scavando più in profondità, si scopre come i “nostri” poeti abbiamo chiuso i conti con le logiche del '900 non solo a livello organizzativo-promozionale, ma anche estetico: il secolo del “lutto” per le grandi ideologie totalizzanti cantato da Montale è superato, così come i giochi linguistico-concettuali delle avanguardie degli anni '70, e se Porta e Pagliarani sono più che semplici influenze, questo non lo si deve alle loro “spericolate” sperimentazioni grafiche e linguistiche, ma all'urgenza etica e sociale che è il soffio vitale dei loro testi. E' proprio questa urgenza, che fa si che il linguaggio si semplifichi, cerchi la prosa (a volte perfino l'anti-lirismo), si ibridi con l'hi-tech, oppure si faccia ardito dialogo fra culture, tradizioni e secoli, in una contaminazione post-moderna che vede nella pluralità dei punti di vista non il caos, ma la via per una verità che ha radici nell'esistenza e nelle sue contraddizioni, non nelle verità consegnateci dalla storia. In questa prospettiva, anche l'assenza dei padri, le strade interrotte della tradizione, non sono più un peso che schiaccia, ma la possibilità di aprirsi all'altro, di accettarlo nella sua nudità, anche quando questo crei lacerazioni, crisi d'identità e il dubbio che le macerie del '900 non siano state ancora del tutto rimosse. A tratti, si può parlare perfino di una nuova fede nella parola, vista come un aggancio al reale e non effusione lirica del soggetto, che anzi, viene ferocemente rimesso in discussione, nelle sue pretese di autonomia ed auto-sufficienza rispetto all'”altro”, rigorosamente con la minuscola: qui infatti anche dio si deve accontentare di essere minuscolato, non essendo più la verità che dall'alto chiama a sé l'uomo, ma un bagliore, una possibilità immanente, che appare come di sfuggita per ritrarsi quando si tenta di afferrarlo, definirlo.
    A livello metrico, accantonate le sperimentazioni da “art pour l'art” degli anni '70, e la fedeltà ad una tradizione -per quanto “aggiornata”- tipica della linea lombarda, si assiste al recupero del metro tradizionale, perfino di forme chiuse, che valgono in quanto funzionali alla comunicazione, allo scambio, non come valori in sé, da adorare o da demolire.
    Credo sia proprio questa visione funzionale della parola, questo bisogno di tornare a comunicare e condividere, il vero filo rosso che lega i nostri 15 autori, e rende superfluo menzionarne uno rispetto ad un altro, visto che sono alla loro opera prima o addirittura non hanno mai editato un libro. Lascio quindi al lettore scegliere i suoi preferiti, nella speranza che li ami a tal punto da inseguirli nei meandri della rete e delle riviste, perché per i ragazzi qui antologizzati, questo libro non è un traguardo, ma il punto da cui si può cominciare a costruire.


    "Il poeta è puro acciaio, duro come una selce" Novalis

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    f.almerighi
    Post: 41
    00 04/01/2012 14:22
    Jacques Prévert è qualcuno di cui si imparano le poesie a scuola. Ne risulta che amava i fiori, gli uccelli, i quartieri della vecchia Parigi ecc. Gli pareva che l’amore sbocciasse in un’atmosfera di libertà; più generalmente, era piuttosto per la libertà. Portava un berretto e fumava delle Gauloises; lo si confonde talvolta con Jean Gabin; del resto è stato lui a scrivere la sceneggiatura di Porto delle nebbie, di Mentre Parigi dorme ecc. Ha scritto anche la sceneggiatura di Amanti perduti, considerato il suo capolavoro. Molte buone ragioni per detestare Jacques Prévert, soprattutto se si leggono le sceneggiature mai girate che Antonin Artaud scriveva alla stessa epoca. È desolante constatare che il ripugnante realismo poetico, di cui Prévert fu l’artefice principale, continua a fare danni e che si pensa di fare un complimento a Léos Carax accostandolo a lui (nello stesso modo, Rohmer sarebbe probabilmente un nuovo Guitry ecc.). Il cinema francese, in realtà, non si è mai ripreso dall’avvento del sonoro; finirà col creparne e non è un gran male.
    Nel dopoguerra, circa alla stessa epoca di Jean-Paul Sartre, Jacques Prévert ha riscosso un successo enorme; si è colpiti dall’ottimismo di quella generazione. Oggi il pensatore più influente sarebbe piuttosto Cioran. All’epoca si ascoltavano Vian, Brassens… Innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine, baby boom, costruzione massiccia di case popolari per alloggiare tutta quella gente. Molto ottimismo, molta fiducia nel futuro e un po’ di stupidità. Certamente siamo diventati molto più intelligenti.
    Con gli intellettuali, Prévert ha avuto meno fortuna. È sfuggito dunque essenzialmente alle tesi di dottorato. Oggi, tuttavia, entra nella Pléiade, il che costituisce una seconda morte. La sua opera è lì, completa e fissa. È un’eccellente occasione di interrogarsi: perché la poesia di Jacques Prévert è così mediocre che si prova talvolta una sorta di vergogna a leggerla? La spiegazione classica (perché la sua scrittura «manca di rigore») è completamente sbagliata; attraverso i suoi giochi di parole, il suo ritmo leggero e limpido, Prévert esprime in realtà perfettamente la sua concezione del mondo. La forma è coerente con la sostanza, il che è proprio il massimo che si possa esigere da una forma. Del resto, quando un poeta si immerge a tal punto nella vita, nella vita reale della sua epoca, sarebbe fargli torto giudicarlo secondo criteri meramente stilistici. Se Prévert scrive, significa che ha qualcosa da dire; torna tutto a suo onore. Purtroppo, ciò che ha da dire è di una stupidità senza limiti, talvolta nauseante. Ci sono belle ragazze nude, borghesi che sanguinano come porci quando li sgozzano. Storia vecchia; si può preferire Baudelaire.


    se Michel Houellebecq nel suo libro la ricerca della felicità dice questa cosa di Prevert, posso dire lo stesso di Fantuzzi e dei suoi poeti nati morti?