tradire

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00lunedì 1 gennaio 2007 18:48
Tradire


Mentre mi tengo stabile sui centotrenta, dopo aver tolto il plaid dall’ammasso informe che trasporto sui sedili posteriori, il telefono inizia a vibrare e saltellare davanti ai miei occhi, sul cruscotto. Fa un rumore pazzesco. Come quello che aspetti dopo aver contato i secondi dal bagliore di un lampo.

"Mamma? Pronto mamma?"

"…………."

"Si! Arrivo fra un’oretta in albergo, sì sto con Dario e sta guidando piano, tranquilla. Ora però non posso parlare perché ho la batteria scarica, comunque ti saluta! Ciao ciao, un bacio."

"…..."

Sbatto il telefono contro la borsa e, guardando lo specchietto, con la voce più isterica che mi riesce ed il sorriso forzato che mi tende il collo strillo: "Pezzo di merda hai sentito?! Ti saluta anche lei bastardo!" e scuoto la testa facendomi svolazzare i ciuffi biondi in faccia.

Ciò che vedo oltre le gocce di saliva e birra che ho spruzzato sullo specchio è un corpo steso fetale sui sedili posteriori. Polsi e caviglie legati come un agnello pronto per essere macellato.

Macellato.

Quel corpo. Quella faccia.

Da un po’ ha smesso di mormorare e frignare. Tanto lo scotch sulla bocca non fa sentire nulla. E si sarà pure stancato. Non piange neanche più. Forse ha capito che non attacca. Non più.

"Figlio di puttana chè mi guardi così?" - E tirandogli appresso la bottiglia semivuota - "Che, vuoi bere?". E lascio esplodere un’altra risata isterica.

Il verme si limita ad accusare il colpo allo stomaco. Così, poco soddisfatta della sua reazione, accendo una sigaretta e alzo al massimo il volume sperando si assordi dietro, dove le casse fanno più rumore.

Ma voglio godermela ancora. Me lo merito. E mi spetta.

mi spetta.

Mio caro bastardo.

Così accosto alla prima piazzola, freccia e piede sulla frizione. Slacciandomi la cintura mi giro con la sigaretta accesa fra i denti. Lui è sempre lì, impassibile ma estremamente teso. Si starà chiedendo cosa ho in mente. Così assaporo ancora quest’ attesa e rimango ferma aspirando e facendo cerchietti col fumo. Apro lo sportello del passeggero e mi abbasso le mutandine. La faccio lì. Guardandolo con la testa appoggiata su una spalla, fischiettando una canzoncina appena composta.

Scrollandomi appena allungo un braccio alla borsa. Trovo i fazzoletti e lo guardo di nuovo.

"Sono pazza. Ed ora sono cazzi tuoi."

Mi strofino ripulendo ciò che è rimasto e gli butto il fazzoletto molliccio addosso in piena faccia.

E’ tanto terrorizzato da non cercare neanche di allontanarsi. O magari gli piace pure.

Comunque, nel dubbio e non ancora soddisfatta gli prendo la mano che si lascia aprire delicatamente. I miei occhi nei suoi, sorrido ancora.

Gli schiaccio la sigaretta accesa nel palmo.

Carne che frigge. Il fumo che ne esce ha l’odore di una grossa bistecca grondante di sangue, cotta su una piastra larga e incandescente.

E finalmente eccole lì. Le rughe sulla fronte. Le ciglia che quasi si accartocciano su se stesse. E soprattutto le lacrime.

Quelle cazzo di lacrime di merda.

"Ahhh…Ora va molto meglio" - Sussurro come fossi nel pieno del mio migliore orgasmo - "Beh, è ora di andare, ti ho organizzato una bella festa... amore mio".

Così stringo il suo pugno attorno al mozzicone e ascoltando i singhiozzi salgo e chiudo lo sportello. Spengo le quattro frecce e attacco con quella a sinistra.

Prima di mettere in moto prendo un’altra sigaretta, schiaccio l’accendisigari e controllo il contachilometri. Poco più di un’ora e ci siamo.

Ci siamo.

La strada verso la felicità. Lo scorrere dei metri verso l’inevitabile: sigaretta dopo canzone dopo sigaretta dopo canzone, sono quasi allo svincolo.

Rallentando passo sulla corsia di destra e, frugando sotto il sedile in cerca della bottiglia d’acqua, osservo dallo specchietto il suo mansueto arrendersi.

"Amore perché metti sempre l’acqua dove è impossibile prenderla?"

Sorrido.

Sento fra le dita il tappo e tiro forte, facendo sgusciare la bottiglia dall’anfratto in cui si era ficcata. Il suono della plastica che scricchiola nella mano lo distoglie dal suo torpore.

Sbatte gli occhi.

"Ti concedo un bicchiere d’acqua amore mio. Stanotte ti voglio sveglio e vigile: niente alcool.".

Tenendo ferma la bottiglia fra le cosce trovo al primo colpo la boccetta nella borsa. Stando bene attenta a nascondere tutto dal suo campo visivo faccio scattare l’apertura anti bambino-ingozza-farmaci e forzo il contagocce versando tutto nell’acqua. acqua corretta con diazepham. Tanto diazepham. Efficace contro l’ansia.

La mia ansia.

Sono sotto gli ottanta orari, così con tranquillità mollo il volante e una per una lascio cadere lungo il collo della bottiglia le pillole che sfilo dal taschino della gonna.

Tavor. Compresse orosolubili. Stesso uso del diazepham. Forse stesso principio attivo. In ogni caso utile.

Utile.

Con la destra sbatto su e giù la bottiglia, con la sinistra tengo il volante. I miei movimenti sono gli stessi di una madre che prepara il biberon ad un bambino. Un bambino monello. Molto monello.

Dallo specchietto lo vedo placido e calmo. Quieto. Arreso. Allora frugo nel cruscotto e trovo qualche bicchiere impacchettato nel cellophane.

Riflettendo se scegliere qualcosa di più drastico per la mia sentenza vedo lo svincolo. Decido di non cambiare i piani e buttandomi a destra rischio di schiantarmi. Riprendo il controllo e accosto al primo spiazzo libero. La breccia scricchiola sotto i pneumatici finché non tiro il freno a mano e, come da copione, vedo rotolato sui tappetini un verme che singhiozza. Scoppiando a ridere mi volto, cingendo con un braccio il sedile del passeggero e osservando in basso.

"Amore! Ma che fai lì? Dai ora ti aiuto a tirarti su stupido!".

Così, con un ginocchio su un sedile ed uno sull’altro cerco di rimettere in piedi il corpo fra le mie mani. Un peso morto frignante.

Verso l’acqua corretta nel bicchiere e strappando lo scotch dalla bocca lo sento mormorare qualcosa ma con una mano tappo le parole.

Parole.

"Bevi e non dire nulla. Non affaticarti amore, presto la tua serata inizierà".

E lui, mansueto come un soldato con un generale, beve dal bicchiere che la mia mano poggia sulle sue labbra.

Quelle labbra.

Quelle cazzo di labbra.

Le stesse che frugavano tra le gambe di quella troia.

Bastardo.

Supponevi non tornassi a casa.

Pensare si trattava di una questione di minuti.

Il tempo che cambia le cose. E i sentimenti.

Eccome.

asciugandogli le lacrime che solcano la guancia sinistra, gli accartoccio il bicchiere in faccia.

"Ok. Ora fai il buono e non dormire, non parlare…

…E NON ROMPERE IL CAZZO, PEZZO DI MERDA!"

Stacco una striscia di scotch bella larga ed ecco di nuovo tutto in ordine. Niente smorfie né proteste né parole.

Torno al mio posto e accendo una sigaretta. Il sapore del fumo in bocca è come quello della prima boccata d’aria fresca di un detenuto appena liberato, dopo due anni in una prigione di cristallo.

Lontano da tutto e tutti in una dolce reclusione.

E con un coltello affilato in pugno.

Ancora a bordo, quasi arrivati.

Pochi metri più avanti già le prime macchine parcheggiate.

Auto grandi e nuove. Auto dopo auto dopo auto dopo auto. Una fila di auto lunga un’eternità riempie i bordi della strada.

La faccia oscura della felicità. L’ altra faccia della medaglia del piacere. Quello che non si racconta in chiesa.

Incastro la macchina in un buco di tre metri ed esamino allo specchio il trucco.

Tutto è più o meno in ordine, poche tonalità e tutte scure, occhi e labbra quasi lividi. Capelli appena tagliati, rasatura dalla nuca in giù e sopra ciuffi volutamente disordinati sparsi fino agli zigomi. Recupero una sigaretta dal fondo della borsa e stacco le chiavi spegnendo il quadro e fuori l’aria è fresca e leggera, tutt’ intorno campagne buie e silenziose a perdita d’occhio, ulivi, notte, unico rumore il sordo sfrecciare delle auto oltre lo svincolo. Mentre mi piego per tirare il freno a mano (la macchina sta inesorabilmente indietreggiando appoggiandosi all’auto parcheggiata dietro) due luci mi abbagliano; una donna sulla quarantina squadra la mia espressione ebete mentre rallenta quasi sfiorandomi. Sorrido, un sorriso sincero. Come quello di un giudice al boia.

"Eccone una! Le tue nuove amichette!" - Grido ridendo e puntando un dito verso la strada- Ma lui è praticamente in dormiveglia e non mi presta attenzione. Mi chiedo se ho esagerato con i farmaci ma quando sbatto lo sportello lo vedo sussultare come se si fosse svegliato da un brutto incubo.

Incubo.

Magari una caduta da un burrone.

O un aereo che si schianta.

Giro la chiave nella serratura del portabagagli ed ecco sotto i miei occhi, sigillati in un anonimo sacchetto nero, i miei giocattoli.

"I nostri giocattoli!" strillo, così che senta forte e chiaro la mia voce. Altre macchine passano e rallentano e osservano. Tante macchine, tante donne.

Il sogno dell’emancipazione. La realtà della prevaricazione.

Ritorno al posto di guida e accendo la lucetta in alto. Dentro il sacchetto c’è tutto ciò di cui ho bisogno. Un vestito in latex strettissimo, un guinzaglio borchiato, una catena luccicante ed un moschettone viola intenso, metallizzato. Velocemente mi tolgo gonna felpa maglia reggiseno e calze e mi infilo nel nero brillante e gommoso e freddo.

Come un maniaco che indossa un preservativo prima di violentare una donna. Impaurita. Legata. Incredula. Qualcuno di cui si fidava. Che amava.

Sfilo da un involucro trasparente il guinzaglio. E’ di cuoio e nero e rigido e borchiato. Il metallo che spunta dalla pelle scura è come la lama di una mannaia pesante che fa a pezzi il corpo scuoiato di un maiale grasso. Orrendo. Morto.

Aggancio la catena fredda e dura al moschettone e il moschettone all’anello del guinzaglio. Costruisco la mia vendetta pezzo per pezzo.

Come un cecchino che monta il suo fucile in una stanza buia.

Unire oggetti. Usare strumenti. Trarne beneficio. Sopravvivere. La mia personalissima evoluzione. L’anello che mi mancava.

Mi sporgo verso Dario e spingendo le sue labbra contro le mie spalmo il rossetto scuro sullo scotch. Lascio cadere la mano lungo il suo braccio e gli porto il guinzaglio alla gola chiudendolo dietro il collo. Avverte la presa ma si limita a cercare di tenere gli occhi aperti, sedato com’è nel suo incubo.

In attesa di un altro incubo che sta per avere inizio.

Prima di lasciarlo lo bendo con una fascia per capelli.

Come un condannato a morte.

Appallottolato sul cruscotto c’è un foglietto. Lo recupero e lo stendo al centro del volante, tenendolo bene aperto. Con un pennarello nero sono scarabocchiate le indicazioni. Do un’ occhiata intorno.
Ci sono. Eccoci.

Eccomi.

Su una villa enorme, antica, maestosa, possente, edere si arrampicano ovunque, cercano spazio, stritolano mura e pietra, si attorcigliano fra loro, si ficcano dappertutto e crescono.

Come il mio odio.

Come le tue parole.

Le tue stronzate.

Bagliori continui e ripetuti illuminano facce indiscrete che camminano verso l’entrata, sporgono da corpi stretti in vestiti scuri e lucidi. Camminano silenziosamente, si osservano e parlano a bassa voce, poche battute.

Come nel mezzo di una processione, di un martirio.

Il tuo martirio.

Il piazzale antistante all’entrata è buio ma ad intervalli regolari dalle bocche di due leoni di pietra che reggono l’architrave escono vampate enormi di fuoco i cui bagliori illuminano la piccola folla sottostante.

Un grande portone di cui è aperta solo un’anta è sorvegliato da un uomo con un abito scuro da cui esce un auricolare. Lascia passare la gente in modo ordinato e ogni tanto stringe una mano e sorride.

Dario è al guinzaglio e cammina con le mani legate. Devo tenerlo sveglio prendendolo a calci sugli stinchi. Ogni tanto cerca di accasciarsi ma è mansueto e arreso. Probabilmente non ha più forze e sarà al picco dell’obnubilamento.

Sfilo dalla tasca il foglietto:

Privé S-Mistress.

Uscita 150 km a nord dall’autogrill.

Graditi schiavi.

Lo accartoccio e lo butto via, mi giro verso Dario e accarezzandolo premo forte lo scotch sulla bocca e la fascia sugli occhi.

Una vedova nera. Una mantide.

Mantide.

In fila per l’entrata passo dopo passo dopo passo dopo passo sento crescere l’imbarazzo. Ma le facce intorno a me sono tranquille e placano leggermente il mio stato d’animo fino alla porta. Lì l’uomo in abito scuro mi chiede:

"Buonasera signorina, benvenuta nel privé S-Mistress. Posso avere il suo nickname?"

"Lilith" - Gli rispondo con un sussurro.

La sua cortesia trasmette una leggera serenità. Mi lascia passare senza problemi, con eleganza.

Oggi sul sito del privé scelgo il nickname e leggo il regolamento ed i costi e, seppure bisognerebbe entrare con una tessera annuale abbastanza costosa, ogni terzo sabato del mese si tiene lo slave party e sono accolti anche i non tesserati, esclusivamente accompagnati da schiavi.

Oggi è il terzo sabato del mese.

E all’orecchio di Dario mormoro: "C’è lo slave party. Ogni schiavo viene affidato alle domine del privè in uno spettacolo nella sala più grande del palazzo. Il mio schiavo…".

Schiavo.

Lui si limita a sussultare e oppone la resistenza che può al guinzaglio ma un altra stivalata sullo stinco lo fa stare buono.

Come un cavallo dopo una frustata.

L’atrio che fa da anticamera alla sala è enorme e sovrastato da una cupola molto alta, interamente in vetro, con una grata di ferro che separa i finestroni curvi e incrinati sotto la morsa dell’edera. La gente lascia cappotti leggeri al guardaroba. Ad un piccolo ed elegante bar al lato sinistro della sala alcune donne bevono vino in calici larghi e mangiano minuscoli stuzzichini, stando sedute sulla schiena del loro schiavo o tenendolo semplicemente al guinzaglio. Altre ancora sono in piedi con i tacchi conficcati nel torace dei loro uomini.

Abbasso la fascia dagli occhiali di Dario ma è così frastornato che quasi non ci fa caso. Probabilmente crede di avere allucinazioni. O di sognare. Ma non c’ e fretta, meglio gustare tutto momento dopo momento dopo momento.

Al bar ordino una vodka-7 e pago carissimo. Ho bisogno di parlare con qualcuno per capire meglio come gestire il tutto ma non so esattamente come divincolarmi e pormi per chiedere informazioni cosi mi limito a sorseggiare dal bicchiere e osservare sperando mi venga rivolta parola. Nell’ attesa le luci vanno lentamente offuscandosi senza spegnersi mai. Tutte le donne nell’ anticamera con uno schiavo si dirigono verso la sala e rimango l unica al bar. Cosi, un ragazzo muscoloso e abbastanza volgare mi domanda sporgendosi appena dal bancone: "é la prima volta che siete qui?"

Sorride, ha la voce di una donna. é una donna. Ma é talmente mascolina e massiccia da non avere piu nulla di femminile se non nel timbro della voce. Nonostante questo é gentile e disponibile, tutto sommato sembra cordiale. Cosi, grattandomi la rasatura sulla nuca le rispondo: "beh si! Sinceramente non ho capito bene come funziona… cercavo appunto qualche dritta…"

"non preoccuparti"- risponde strofinando un bicchiere con un panno bianco - "stanno prendendo gli schiavi per lo spettacolo, se vuoi che anche il tuo partecipi ti basta andare in sala e lasciarlo alla domina che trovi sulla sinistra appena entri. Se hai preferenze particolari sul trattamento parla con lei. E rilassati, qui siamo tutti liberi."

Quasi senza parole, con un sorriso ed un cenno del capo, le dico: "ti ringrazio! Sei gentilissima, corro allora!"

Lei mi strizza l’ occhio e con un inchino quasi ironico mi saluta mentre trascino Dario verso la porta della sala.

Come una leonessa con il suo spuntino.

E tutto procede cosi come immaginavo: donne dopo donne dopo donne dopo donne; schiavi al guinzaglio dopo schiavi in manette dopo schiavi incatenati a piercing ai capezzoli e cosi via. Come una deportazione.

Alla domina sussurro parole veloci senza farmi sentire da Dario.

La mia sentenza.

Lei annuisce prendendo il guinzaglio.

Inderogabile.

La sala é enorme, la gente si raccoglie intorno ad un piccolo palco appena rialzato. Luci stroboscopiche colorano le facce, donne si baciano flirtando. Il fumo del tabacco si mischia a quello artificiale mentre un battito minimale e ripetitivo aumenta fino a stabilirsi ad alto volume.

Qualcosa che ti apre in due.

Come tigri da una gabbia le domine escono camminando su tacchi altissimi, dimenano i fianchi e alla loro destra tutti gli schiavi marciano a testa bassa uniti da una catena agganciata ad ogni guinzaglio.

Un dolore senza forma.

Si dispongono in cerchio rendendosi simultaneamente tutte visibili. Alcune portano maschere anti gas e tengono fra le mani pinze e tenaglie, altre sono armate di fruste di ogni tipo e colore, altre ancora indossano slip con enormi falli lucenti attaccati.

Un piacere che non conoscevo.

Al centro del palco una donna longilinea e molto magra, stretta in un abito da sera elegante e nero con due lunghi guanti viola fino alla spalla fa schioccare tre colpi di una frusta lunghissima e strilla qualcosa, un segnale.

O non volevo conoscere.

Tutte le domine piegano gli schiavi in posizione supina e la donna al centro sferra colpi alla cieca sugli uomini. Rumore sordo ed acuto su toraci, su schiene, su glutei, su facce, su testicoli.

Una sola donna, mille vendette.

Dario é lontano dalla mia vista. L ho inquadrato subito. Trema. Cerca di dimenarsi ma non ci riesce. Fa parte del gioco qui. é chino come tutti gli altri e sulla sua schiena incombe un tacco pesante.

Come un insetto schiacciato.

Una per una le domine iniziano la loro opera. Davanti a me un uomo viene schiaffeggiato prima e dopo l urina della donna innaffia la sua testa. Accanto a lui un altra pizzica ogni centimetro dello schiavo con una grossa pinza.

Un adorabile inferno. Una serena violenza.

La domina che si occuperà del mio Dario é magrissima. Indossa un vestito di pelle che le sta come un laccio emostatico e all’ altezza della faccia regge un tubicino chiaro. Sembra dentifricio. Lo spreme. Cola una scia trasparente e luccicante. Gocciola fino ad un fallo. Enorme. Attaccato al suo vestito. Spalma il liquido per tutta la sua lunghezza. Sembra masturbarsi.

Con un colpo deciso e forte strappa i boxer di Dario. A novanta gradi davanti a lei trema e ogni tanto cerca di opporsi. Lei sa il fatto suo e lo riempie di schiaffi e calci ad ogni tentativo.

L attesa é interminabile.

Spalmando cio che le é rimasto sulle mani fra i glutei di Dario sembra osservare le sue dimensioni, prendere la mira. Si distoglie e punta il suo feticcio contro cio che non e mai stato violato.

Proprio come una prima volta.

Un battesimo. Per lavare via il peccato.

Entra come un pugnale nella carne.

Un asteroide contro un pianeta.

La sua testa é china e arresa. Ad ogni colpo si scuote e si dimena per quanto gli sia possibile. Soffre abbastanza visibilmente.

Il mio sorriso é sempre quello. Nessun rimorso. Nessuna tristezza.

E mentre ogni donna in questa sala assapora il suo piacere io mi incanto nella bellezza di questo istante.

E qui ed ora, in questo posto, in questo istante, la mia evoluzione é compiuta.

La larva e diventata regina.

Fonte:www.racconti.it
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