le verità nascoste

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faberhood
00mercoledì 5 maggio 2010 15:06
"Così venne ucciso Pasolini"
IL CASO

La verità del docufilm di Martone
Sergio Citti riporta la testimonianza di un pescatore che abitava in una delle casette che circondano l'area dell'idroscalo, e che avrebbe assistito all'assassinio dello scrittore. Un documento che ora fa parte del fascicolo per la nuova inchiesta sull'omicidio del '75
di LAURA LARCAN

TRENTA minuti di verità sconosciuta e scomoda, raccontata con la voce affaticata dalla malattia. Sergio Citti commenta le immagini mute del video che girò all'idroscalo di Ostia subito dopo l'omicidio di Pier Paolo Pasolini avvenuto il 2 novembre del 1975, mentre sullo sfondo il fratello Franco allettato lo guarda. E' il "film nel film" che Mario Martone ha girato nel 2005 1, in collaborazione con l'avvocato Guido Calvi e l'allora assessore capitolino alla Cultura Gianni Borgna, poco prima della morte di Sergio Citti e che è stato depositato una settimana fa al pm Francesco Minisci per la riapertura dell'inchiesta sull'uccisione dello scrittore e regista. Il documento, che è stato illustrato oggi alla casa del Cinema di Roma dal senatore Calvi incaricato dal Comune di Roma che nel 2005 (a trent'anni dalla morte) si costituiva parte civile nell'indagine, rimette in discussione le "verità" di Pino Pelosi (l'unico accusato ufficialmente della morte di Pasolini) rivelandone tutte le incongruenze "incontrovertibili", come ci tiene a sottolineare anche lo stesso Martone.

La novità sta nel fatto che Citti riporta la testimonianza di un pescatore che abitava in una delle casette che circondano l'area dell'idroscalo, e che avrebbe assistito all'assassinio. "Il pescatore mi aveva raccontato cosa aveva visto quella notte ma non voleva essere ripreso perché aveva paura", dice Citti. "Aveva visto entrare due macchine nell'area, e non una sola. E diverse persone. Pasolini fu preso e tirato fuori da almeno quattro, che l'hanno portato contro una rete e cominciato a picchiare". I passaggi più intensi sono poi quelli che documentano la fine quando il pescatore diceva di sentire Pasolini urlare. Sembrerebbe che ad un certo punto Pasolini avesse fatto finta di essere "finito", e allontanatisi quegli uomini, s'era tolto la camicia insanguinata e s'era asciugato, ma che poi una macchina era tornata coi fari accesi, e quegli uomini lo avrebbero inseguito a piedi. Citti ricorda che il pescatore aveva detto di aver visto "sto poveretto alzarsi e scappare, ma poi di non averlo più visto".

E insiste Sergio Citti nella ricostruzione delle manovre della macchina, "assurde e strane" in considerazione delle possibili vie d'uscita dall'area, e quindi evidentemente finalizzare a investire il corpo di Pasolini. "Non credo sia stata la macchina di Pasolini ad investirlo - ribadisce Citti - ma l'altra, la seconda". E proprio su questa macchina entra in scena anche il contributo della testimonianza di Silvio Parrello, 67 anni, uno dei "ragazzi di vita", l'unico intellettuale del gruppo, come si definisce, perche oggi è poeta e pittore, che con un'indagine personale "per affetto e riconoscenza verso la madre di Pasolini, donna che ha sofferto tanto", avrebbe individuato i nomi di alcuni "ignoti": il carrozziere che riparò e ripulì da sangue e fango la macchina che materialmente uccise lo scrittore, e la persona che quella notte gliela portò.

"I nomi li so e l'ho fatti un mese fa al giudice - dice Silvio - Come l'ho scoperto? È' una lunga storia. La seconda macchina, non quella di Pasolini, fu portata quella notte prima ad un carrozziere sulla Portuense che si rifiutò di pulirla e sistemarla, poi ad un secondo che la prese in custodia. Poi, stranamente, il 16 febbraio del '76 a processo iniziato, quella stessa persona che aveva portato la macchina, scomparve. Quattro anni dopo però il suo nome ricompare perché fermato con patente scaduta. Ma il suo caso risultava top secret".

Racconta, nel dettaglio, Parrello, che nel frattempo si era fatto vivo un figlio di quest'uomo, nato da una relazione extraconiugale, sconosciuto anche dai più intimi familiari, chevoleva conoscere il padre. E nella ricerca s'era fatto aiutare da un amico che lavorava alla Digos, che ha scoperto quanto fosse "top secret" la sua posizione. "Quindi non ci vuole una laurea per capire che è un protetto". "Questo Stato ha un grande debito nei confronti dell'indagine - dice Guido Calvi - La morte di Pasolini fu chiusa subito dopo l'arresto di Pelosi, e non fu fatto più nulla con la cancellazione di elementi fondamentali. Stavolta qualche speranza in più la nutro. Anche perché c'è tutta la vicenda strana di Petrolio innescata dalle dichiarazioni di Dell'Utri, che ha dato materia per riaprire l'istruttoria".

Sul fronte del Comune di Roma, l'assessore alla Cultura Umberto Croppi conferma l'impegno a "spingere la nuova amministrazione a continuare a sentirsi parte offesa riguardo ad un possibile omicidio", anche perché , "l'ipotesi politica che verrebbe confortata dal capitolo inedito e scomparso di Petrolio evoca uno scenario inquietante sull'epoca, alludendo a connivenze che hanno forse ancora vitalità oggi se non siamo riusciti a scioglierle in trent'anni". Colpo di scena, Dino Pedriali il fotografo di Pasolini dichiara oggi di aver visto "con i suoi occhi" gli scritti di Petrolio e che lo stesso Pasolini gli aveva confidato di aver scritto seicento cartelle del finale.

(04 maggio 2010)
E_Dantes
00mercoledì 5 maggio 2010 15:18
Re: "Così venne ucciso Pasolini"
faberhood, 05/05/2010 15.06:

IL CASO

La verità del docufilm di Martone
Sergio Citti riporta la testimonianza di un pescatore che abitava in una delle casette che circondano l'area dell'idroscalo, e che avrebbe assistito all'assassinio dello scrittore. Un documento che ora fa parte del fascicolo per la nuova inchiesta sull'omicidio del '75
di LAURA LARCAN

TRENTA minuti di verità sconosciuta e scomoda, raccontata con la voce affaticata dalla malattia. Sergio Citti commenta le immagini mute del video che girò all'idroscalo di Ostia subito dopo l'omicidio di Pier Paolo Pasolini avvenuto il 2 novembre del 1975, mentre sullo sfondo il fratello Franco allettato lo guarda. E' il "film nel film" che Mario Martone ha girato nel 2005 1, in collaborazione con l'avvocato Guido Calvi e l'allora assessore capitolino alla Cultura Gianni Borgna, poco prima della morte di Sergio Citti e che è stato depositato una settimana fa al pm Francesco Minisci per la riapertura dell'inchiesta sull'uccisione dello scrittore e regista. Il documento, che è stato illustrato oggi alla casa del Cinema di Roma dal senatore Calvi incaricato dal Comune di Roma che nel 2005 (a trent'anni dalla morte) si costituiva parte civile nell'indagine, rimette in discussione le "verità" di Pino Pelosi (l'unico accusato ufficialmente della morte di Pasolini) rivelandone tutte le incongruenze "incontrovertibili", come ci tiene a sottolineare anche lo stesso Martone.

La novità sta nel fatto che Citti riporta la testimonianza di un pescatore che abitava in una delle casette che circondano l'area dell'idroscalo, e che avrebbe assistito all'assassinio. "Il pescatore mi aveva raccontato cosa aveva visto quella notte ma non voleva essere ripreso perché aveva paura", dice Citti. "Aveva visto entrare due macchine nell'area, e non una sola. E diverse persone. Pasolini fu preso e tirato fuori da almeno quattro, che l'hanno portato contro una rete e cominciato a picchiare". I passaggi più intensi sono poi quelli che documentano la fine quando il pescatore diceva di sentire Pasolini urlare. Sembrerebbe che ad un certo punto Pasolini avesse fatto finta di essere "finito", e allontanatisi quegli uomini, s'era tolto la camicia insanguinata e s'era asciugato, ma che poi una macchina era tornata coi fari accesi, e quegli uomini lo avrebbero inseguito a piedi. Citti ricorda che il pescatore aveva detto di aver visto "sto poveretto alzarsi e scappare, ma poi di non averlo più visto".

E insiste Sergio Citti nella ricostruzione delle manovre della macchina, "assurde e strane" in considerazione delle possibili vie d'uscita dall'area, e quindi evidentemente finalizzare a investire il corpo di Pasolini. "Non credo sia stata la macchina di Pasolini ad investirlo - ribadisce Citti - ma l'altra, la seconda". E proprio su questa macchina entra in scena anche il contributo della testimonianza di Silvio Parrello, 67 anni, uno dei "ragazzi di vita", l'unico intellettuale del gruppo, come si definisce, perche oggi è poeta e pittore, che con un'indagine personale "per affetto e riconoscenza verso la madre di Pasolini, donna che ha sofferto tanto", avrebbe individuato i nomi di alcuni "ignoti": il carrozziere che riparò e ripulì da sangue e fango la macchina che materialmente uccise lo scrittore, e la persona che quella notte gliela portò.

"I nomi li so e l'ho fatti un mese fa al giudice - dice Silvio - Come l'ho scoperto? È' una lunga storia. La seconda macchina, non quella di Pasolini, fu portata quella notte prima ad un carrozziere sulla Portuense che si rifiutò di pulirla e sistemarla, poi ad un secondo che la prese in custodia. Poi, stranamente, il 16 febbraio del '76 a processo iniziato, quella stessa persona che aveva portato la macchina, scomparve. Quattro anni dopo però il suo nome ricompare perché fermato con patente scaduta. Ma il suo caso risultava top secret".

Racconta, nel dettaglio, Parrello, che nel frattempo si era fatto vivo un figlio di quest'uomo, nato da una relazione extraconiugale, sconosciuto anche dai più intimi familiari, chevoleva conoscere il padre. E nella ricerca s'era fatto aiutare da un amico che lavorava alla Digos, che ha scoperto quanto fosse "top secret" la sua posizione. "Quindi non ci vuole una laurea per capire che è un protetto". "Questo Stato ha un grande debito nei confronti dell'indagine - dice Guido Calvi - La morte di Pasolini fu chiusa subito dopo l'arresto di Pelosi, e non fu fatto più nulla con la cancellazione di elementi fondamentali. Stavolta qualche speranza in più la nutro. Anche perché c'è tutta la vicenda strana di Petrolio innescata dalle dichiarazioni di Dell'Utri, che ha dato materia per riaprire l'istruttoria".

Sul fronte del Comune di Roma, l'assessore alla Cultura Umberto Croppi conferma l'impegno a "spingere la nuova amministrazione a continuare a sentirsi parte offesa riguardo ad un possibile omicidio", anche perché , "l'ipotesi politica che verrebbe confortata dal capitolo inedito e scomparso di Petrolio evoca uno scenario inquietante sull'epoca, alludendo a connivenze che hanno forse ancora vitalità oggi se non siamo riusciti a scioglierle in trent'anni". Colpo di scena, Dino Pedriali il fotografo di Pasolini dichiara oggi di aver visto "con i suoi occhi" gli scritti di Petrolio e che lo stesso Pasolini gli aveva confidato di aver scritto seicento cartelle del finale.

(04 maggio 2010)



Satana è all’inferno per te.
Ed è più moderno di te
Avremo divani fondi come tombe
Stando a quanto dice Baudelaire
Cristo muore in croce per me
Pietro brucia in croce per te
Santa è la bellezza
Tanta è la paura
Fai come faceva Baudelaire
Pasolini è morto per te
Morto a bastonate per te
Nello stesso istante
In qualche altra spiaggia
Si è fatto l’amore
Uniti contro il mondo
E’ necessario credere
Bisogna scrivere
Verso l’ignoto tendere
Ricordati Baudelaire
Caravaggio è morto per te
Luigi Tenco è morto per te
Nei fiori dei campi
Vive Piero Ciampi
Bisogna studiare Baudelaire
Saffo s’è ammazzata per noi
Socrate suicida per noi
Vivere per sempre
Ci vuole coraggio
Datti al giardinaggio dei fiori del male
E’ necessario vivere
Bisogna scrivere
All’infinito tendere
Ricordati Baudelaire. Baudelaire. Yeah.


faberhood
00giovedì 6 maggio 2010 14:40
LA DENUNCIA

Niger, il paese radioattivo
l'altra faccia del nucleare


di ANTONIO CIANCIULLO

Una miniera ad Arlit

LA FALDA acquifera contaminata per milioni di anni. Livelli di radioattività nelle strade di Akokan, in Niger, 500 volte superiori ai valori normali nell'area. Metalli radioattivi venduti nei mercati locali. E' uno dei costi nascosti del nucleare: il prezzo ambientale pagato dall'Africa all'estrazione dell'uranio. La denuncia è contenuta in un rapporto di Greenpeace 1. Nel novembre scorso l'associazione ambientalista, in collaborazione con il laboratorio indipendente Criirad e la rete di ong Rotab, ha effettuato uno studio del territorio attorno alle città minerarie di Arlit e Akokan, in Niger, per misurare la radioattività di acqua, aria e terra intorno. E' qui che opera Areva, l'azienda francese leader mondiale nel campo dell'energia nucleare, la stessa società con la quale il governo Berlusconi e il ministro Scajola hanno stretto l'accordo per costruire quattro centrali atomiche in Italia.

"In quattro su cinque campioni di acqua che Greenpeace ha raccolto nella regione di Arlit, la concentrazione di uranio è risultata al di sopra del limite raccomandato dall'Oms per l'acqua potabile", si legge nel rapporto. "In 40 anni di attività sono stati utilizzati 270 miliardi di litri di acqua contaminando la falda acquifera: saranno necessari milioni di anni per riportare la situazione allo stato iniziale". Anche nelle polveri sottili, che entrano in profondità nell'apparato respiratorio, la concentrazione di radioattività risulta aumentata di due o tre volte.

Areva sostiene che nessun materiale contaminato proviene dalle miniere, ma Greenpeace ha trovato diversi bidoni e materiali di risulta di provenienza mineraria al mercato locale a Arlit, con un indice di radioattività fino a 50 volte superiore ai livelli normali. Gli abitanti del luogo usano questi materiali per costruire le loro case. "Per le strade di Akokan, i livelli di radioattività sono quasi 500 volte superiori al fondo naturale", continua lo studio. "Basta passare meno di un'ora al giorno in quel luogo per essere esposti nell'arco dell'anno a un livello di radiazioni superiore al limite massimo consentito".

L'esposizione alla radioattività può causare problemi delle vie respiratorie, malattie congenite, leucemia e cancro. Nella regione i tassi di mortalità legati a problemi respiratori sono il doppio di quello del resto del Niger. Areva sostiene che nessun caso di cancro sia attribuibile al settore minerario.

Greenpeace chiede uno studio indipendente intorno alle miniere e nelle città di Arlit e Akokan, seguita da una completa bonifica e decontaminazione. I controlli devono essere messi in atto per garantire che Areva rispetti le normative internazionali di sicurezza nelle sue operazioni, tenendo conto del benessere dei suoi lavoratori, dell'ambiente e delle popolazioni circostanti.

"Nella situazione attuale comprare da Areva il combustibile per le centrali nucleari che il governo vuole costruire significherebbe finanziare i disastri ambientali e sanitari in Niger", commenta Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace.

(05 maggio 2010)
lucaDM82
00venerdì 7 maggio 2010 11:56
Che brutta storia [SM=g27993]
Sound72
00venerdì 7 maggio 2010 12:02
domanda tecnica...ma il topic è sui misteri dell'omicidio di Pasolini o generale su ogni tipo di verità nascosta?!
giove(R)
00venerdì 7 maggio 2010 12:09
per il fatto che l'autore del topic inizia con un argomento e poi ne posta un altro, direi la seconda che hai detto.

Sound72
00giovedì 13 maggio 2010 14:52
Firenze, frustate e offese
il call-center diventa un lager
Denunce per maltrattamenti da parte di una decina di ex centraliniste e ex venditori. Il frustino era usato per punire i dipendenti della Italcarone. Aspirapolveri-truffa venduti come "presìdi medici"
di


FIRENZE - Il frustino picchiato sulle gambe a qualche telefonista che nel call center batteva la fiacca, il divieto di alzarsi per andare in bagno se non avevano già fatto un certo numero di chiamate e trovato gli appuntamenti ai venditori per presentare l'aspirapolvere anti-acaro, nei passaggi porta a porta. Umilianti richiami davanti a tutti per chi non raggiungeva gli obiettivi stabiliti e, al contrario, premi, applausi e attestati di lode per chi migliorava i risultati: "Ti stimo tantissimo, non provare mai a deludermi" si legge in una delle pergamene sequestrate dalla Guardia di Finanza di Firenze nella ditta Italcarone di Incisa Valdarno. Sembra di essere nel film di Virzì o fra le pagine del libro autobiografico di Michela Murgia, "Il mondo deve sapere", resoconto di un mese passato al telefono a prendere appuntamenti per smerciare a centinaia di casalinghe gli aspirapolveri di una multinazionale americana. Quasi lo stesso metodo e stesso marchio di elettrodomestico.

Le denunce per maltrattamenti presentate da una decina di ex centraliniste e di ex venditori alla Federconsumatori e alla Guardia di Finanza hanno aperto un'indagine durata tre anni che ha portato all'arresto di cinque persone ai vertici della Italcarone. Le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata alla frode in commercio e alla frode fiscale. Secondo quanto spiegato dalle Fiamme gialle, le vendite in nero dell'azienda con filiali ad Arezzo e a Massa ammonterebbero a quasi quattro milioni e mezzo di euro. Gli addetti venivano reclutati con annunci sui giornali tra persone senza specializzazione che avevano bisogno di guadagnare e si lasciavano attirare dalle promesse di premi e provvigioni. Anche la vita agiata che conducevano i dirigenti faceva colpo: auto di lusso e ville (una sequestrata a Reggello sarebbe appartenuta anche alla famiglia Gucci).

La mattina al call center cominciava sulle note dell'inno nazionale e tenendosi per mano o intonando slogan motivazionali. Le telefoniste, hanno spiegato gli investigatori, dovevano prendere più appuntamenti possibile, i venditori concludere i contratti e piazzare l'aspirapolvere che, importato per un valore reale di 350 euro, veniva venduto a oltre 3.500 euro o a rate di 94 euro per 60 mesi. Inoltre, stando alle accuse, l'elettrodomestico era presentato nelle dimostrazioni porta a porta come "presidio medico chirurgico elettromedicale anti acaro" dotato di autorizzazione del ministero della Salute, autorizzazione smentita dal medesimo dicastero.
Ogni nuovo venditore era affiancato da un "anziano" e la raccomandazione era di puntare all'inizio a parenti e amici, persone più facili da convincere all'acquisto. I premi (anche viaggi esotici) venivano sventolati in caso di raggiungimento degli obiettivi - per esempio 60 dimostrazioni al mese - ma di fatto erano spesso inarrivabili. Se si falliva l'obiettivo del tetto minimo di vendite, saltava il compenso. Il turnover era altissimo e molti dopo qualche mese abbandonavano quel lavoro precario. Partono così le prime segnalazioni, racconti di turni massacranti (fino a 14 ore al giorno nella postazione telefonica) e vessazioni psicologiche e fisiche. La procura apre un'inchiesta, la Guardia di Finanza acquisisce filmati, scattano controlli. Fra gli oggetti sequestrati nella prima perquisizione, un anno fa, nella ditta in Valdarno anche un frustino e cartelli del tipo: "Le persone di successo fanno ciò che i falliti non amano fare. Non dimenticare mai chi siamo: i migliori".

faberhood
00giovedì 13 maggio 2010 14:59
Re:
Sound72, 07/05/2010 12.02:

domanda tecnica...ma il topic è sui misteri dell'omicidio di Pasolini o generale su ogni tipo di verità nascosta?!



Scusami. il topic è su ogni verità nascosta.
E_Dantes
00giovedì 13 maggio 2010 15:02
Re: Re:
faberhood, 13/05/2010 14.59:



Scusami. il topic è su ogni verità nascosta.




ma tipo..

come mai le donne vanno al bagno in due..?

faberhood
00giovedì 13 maggio 2010 15:18
Re: Re: Re:
E_Dantes, 13/05/2010 15.02:




ma tipo..

come mai le donne vanno al bagno in due..?





anche e perchè no?
giove(R)
00giovedì 13 maggio 2010 15:48
a proposito di verità nascoste... fino a poco tempo fa era un mistero conoscere la profondità massima della vagina di una cagna.

poi hanno scoperto il motivo: era stata sempre misurata a cazzo di cane
[SM=g27995]
lucolas999
00giovedì 13 maggio 2010 17:14
Re:
giove(R), 13/05/2010 15.48:

a proposito di verità nascoste... fino a poco tempo fa era un mistero conoscere la profondità massima della vagina di una cagna.

poi hanno scoperto il motivo: era stata sempre misurata a cazzo di cane
[SM=g27995]




è tua o è una citazione ? [SM=g27994]
giove(R)
00giovedì 13 maggio 2010 17:30
dipende... non t'è piaciuta? allora non è mia.
giove(R)
00venerdì 14 maggio 2010 13:00
non si tratta di verità nascoste. ma di quelle che ci nasconderanno....

www.nobavaglio.it

PER LA LIBERTÀ D'INFORMAZIONE, PER LE LIBERTÀ COSTITUZIONALI

All’appello contro la legge bavaglio sulle intercettazioni hanno già aderito oltre 60.000 persone, gruppi, sindacati e associazioni.

All’appello hanno dato il loro sostegno alcuni tra i maggiori costituzionalisti italiani:

Per approvare il disegno di legge è stata impressa una vistosissima accelerata ai lavori parlamentari Sono previste sedute mattutine, pomeridiane e notturne della Commissione Giustizia del Senato per concludere l’esame di un testo dall’impianto proibizionista e punitivo. E’ indispensabile moltiplicare gli sforzi per rafforzare l’opposizione a questo attentato alle libertà costituzionali.

Invitiamo tutti a a metterci la faccia, alla pagina Facebook bit.ly/cVcr10 che ha raggiunto il numero di oltre 25.000 adesioni oppure a firmare in calce l'appello che ha già raggiunto la cifra enorme di 35.000 firme.

Articoli e info La rubrica di Repubblica "No Bavaglio"

“La libertà è partecipazione informata”

Al Senato la maggioranza cerca di imporre la Legge sulle intercettazioni telefoniche che scardinerebbe aspetti essenziali del sistema costituzionale.
Sono a rischio la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto dei cittadini ad essere informati.
Non tutti i reati possono essere indagati attraverso le intercettazioni e viene sostanzialmente impedita la pubblicazione delle intercettazioni svolte
Una pesante censura cadrebbe sull’informazione. Anche su quella amatoriale e dei blog (Art.28).
Se quella legge fosse stata in vigore, non avremmo avuto alcuna notizia dei buoni affari immobiliari del Ministro Scajola e di quelli bancari di Consorte.
Se la legge verrà approvata, la magistratura non potrà più intervenire efficacemente su illegalità e scandali come quelli svelati nella sanità e nella finanza, non potrà seguire reati gravissimi.
Si dice di voler tutelare la Privacy: un obiettivo legittimo, che tuttavia può essere raggiunto senza violare principi e diritti.
Si vuole, in realtà, imporre un pericoloso regime di opacità e segreto.
Le libertà costituzionali non sono disponibili per nessuna maggioranza.

Sound72
00venerdì 14 maggio 2010 16:13
Le verità nascoste del caso Anemone

L'ultimo imbarazzo di Guido Bertolaso, il pied a' terre da 40 metri quadrati di via Giulia 189 allocato nel centro migliore di Roma, conduce - seguendo le nuove carte uscite dalla Procura di Perugia che mettono a fuoco 412 lavori eseguiti dal gruppo edile Anemone dal 2003 al 2008 - alla spiegazione del funzionamento del sistema Protezione civile, alle sue logiche di scambio. I lavori privati realizzati nelle case che contano, le molte falegnamerie allertate per realizzare le librerie private dei politici, facevano scaturire dopo mesi i grandi appalti pubblici per l'imprenditore di Grottaferrata. Gli iperlavori del G8 della Maddalena, la ricostruzione dell'Aquila, poi i Mondiali di nuoto e tutte le opere del "giro fiorentino" sono state evidenziate nella prima parte dell'inchiesta, quella ancora radicata nelle procure di Roma e Firenze. Ora i tre sostituti di Perugia, sequestrando le carte della contabilità di Anemone, hanno messo in fila tutti gli altri appalti, quelli ordinari, figli - secondo l'accusa - di un rapporto diretto con i ministeri retti nel tempo da Claudio Scajola e Pietro Lunardi, soprattutto con il potentissimo ufficio di Guido Bertolaso: la Protezione civile.

Si scopre, allora, come nelle otto pagine di "ricostruzione appalti" i lavori elargiti a Claudio Rinaldi, commissario di "Roma 2009", in via Appia, via Aosta e via Nazionale a Roma si trasformeranno nell'ottenimento - da parte di Anemone - della ricostruzione della scuola di San Giuliano di Puglia, a Campobasso, quella che soffocò con il terremoto del Molise ventisette bambini e un insegnante. Rinaldi, infatti, fu nominato da Bertolaso capo della missione.

E' impressionante scoprire la profondità della ramificazione pubblica di Diego Anemone e della sua famiglia, capaci di ottenere 65 appalti importanti in sei stagioni. Le sue aziende hanno costruito il carcere di Sassari (58 milioni di euro) e realizzato cinque interventi nel "minorile" romano di Casal del Marmo. Era forte su quel terreno, con quei ministeri (Interno, Difesa), l'imprenditore Anemone. E infatti, grazie al "certificato Nos" per i lavori con le "istituzioni sensibili", ha ottenuto dodici appalti per otto caserme della guardia di finanza, corpo nel quale aveva generali e marescialli amici che lo informavano delle inchieste sul suo conto. Si scoprono due appalti con i carabinieri (la caserma di Tor di Quinto, sempre a Roma) e quattro con il Viminale. Importante è il cantiere di via Zama, sede dei servizi segreti.

Seguendo il libro mastro della contabilità di Anemone si torna dal generale (gli appalti pubblici) al particolare (i lavori nelle case dei vertici della polizia e dei servizi). Nella lista si possono avvistare gli interventi nella casa di via Civinini interno 6 intestata all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro (qui appuntato come "capo Ps", ma in realtà vi risiede il figlio) e quelli nella stessa strada romana - presumibilmente lo stesso palazzo - che ospita l'appartamento di Antonio Manganelli, attuale capo della polizia. Lo staff di Manganelli fa sapere che quella dimora è stato presa in affitto, ma non ancora occupata. De Gennaro, invece, conferma di aver conosciuto l'imprenditore Anemone e che la sua famiglia lo ha regolarmente pagato per la ristrutturazione. Negli appunti edili, ancora, c'è il nome dell'attuale capo dei servizi segreti, Nicola Cavaliere: lui assicura di non aver mai incontrato Anemone. E' possibile che i lavori nella casa di Cavaliere siano stati realizzati quando l'appartamento era occupato da Claudio Scajola, ministro dell'Interno dal 2001 al 2002.
Il livello dei rapporti del costruttore del Salaria Sport Village gli ha consentito di entrare direttamente nei palazzi di Silvio Berlusconi. La lista di Anemone racconta, infatti, di quattro interventi a Palazzo Chigi: la consegna di un letto, poi di una cucina, alcuni mobiletti e la generica manutenzione. Appuntava tutto, il costruttore. Una seconda nota parla di "Palazzo Grazioli" (la residenza privata romana del premier), senza ulteriori specifiche. Quindi, si legge di un intervento in un ufficio della presidenza del Consiglio ricavato in via XX Settembre, dell'impianto di condizionamento della sala stampa di Palazzo Chigi e della "sede di Forza Italia".
Tre appalti il costruttore di Grottaferrata li ha ottenuti con il dicastero delle Finanze, uno con le Attività produttive, uno con il ministero dell'Istruzione. Uno, ancora, è stato segnato come "ministero delle Scienze". A Porta Pia le manovalanze di Anemone si sono occupate del nuovo ufficio di AB (presumibilmente Angelo Balducci, il presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici oggi in carcere) e in via Monzanbano dell'ufficio dell'ingegner Rinaldi. Ma i "servigi" dell'imprenditore ai potenti hanno garantito altri appalti pubblici romani: il Policlinico Umberto I (due interventi), l'ospedale Spallanzani, la Facoltà di Architettura di Valle Giulia e a Latina la Casa dello studente universitario. Nello sport, oltre al Centrale del tennis, ecco gli interventi sui centri Coni di Madonna di Campiglio e Schio. Poi lavori su sette chiese, a dimostrazione di un asse di ferro con il Vaticano. E quelli in emergenza (60 milioni) per la frana di Cavallerizzo, provincia di Cosenza. Dove Bertolaso era, al solito, commissario straordinario.

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Se qualcuno ha sbagliato non avrà "nessuna indulgenza o impunità", ma bisogna fermare le "isterie" e le "liste di proscrizione" perchè" è inaccettabile che l'elenco dei clienti di una azienda venga presentato dai giornali come una lista di colpevoli". E' quanto dichiara in una nota il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, a proposito delle inchieste su'appaltopoli' e dell'elenco dei vip e politici per i quali la ditta dell'imprenditore Diego Anemone ha svolto dei lavori..
"Berlusconi? Sceglie schiavi e servi, non persone: sono tutte marionette". Cosi' Carlo Taormina, ex legale di Berlusconi, e gia' parlamentare ex azzurro in una intervista a Left. "Rifletto spesso per capire la ragione per la quale con me c'e' stato un atteggiamento diverso. Ho sempre ragionato con la testa mia e questo non e' un pregio per Berlusconi", ha aggiunto Taormina spiegando il perche' del divorzio dal partito di Berlusconi

( rainews )



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eh si..le liste di proscrizione di Spartacus..
faberhood
00giovedì 20 maggio 2010 11:39
Il suicidio del portiere - I dubbi sul suicidio
l’esito degli esami tossicologici rimettono in gioco tutto
Vanacore non si è avvelenato, prima di annegare: si infittisce il giallo della morte
Corpo senza vita fu trovato il 9 marzo a Torre Ovo mentre galleggiava a due palmi dalla riva

TARANTO — Pietrino Vanacore è morto per annegamento (e questo si sapeva), ma prima di morire non ha ingerito nessun veleno o assunto farmaci. E’ questa la novità che riapre il giallo sulla morte dell’ex portiere di Via Poma, a Roma, il cui corpo senza vita fu trovato lo scorso 9 marzo a Torre Ovo mentre galleggiava a due palmi dalla riva in uno specchio d’acqua profondo novanta centimetri. Pochi per permettere ad un adulto di suicidarsi affogando. Si era pensato all’effetto di un farmaco o di un veleno bevuto precedentemente con la capacità di deprimere il livello di coscienza così da farlo annegare in un secchio d’acqua. Per questo si attendeva l’esito degli esami tossicologici che rimettono in gioco tutto: i campioni organici, prelevati in sede autoptica dal medico legale Massimo Sarcinella, non hanno evidenziato tracce di sostanze farmacologiche o tossiche né nocive.

Caffé e zeppola - Insomma, lo stomaco di Pietrino era pulito ad eccezione di un residuo di caffè e della zeppola che aveva consumato poco prima di recarsi sulla spiaggia dove è stato trovato morto. La perizia del dottor Sarcinella non è ancora giunta sulla scrivania del pubblico ministero, Remo Epifani (titolare del fascicolo con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio contro ignoti), perché il perito non l’ha ancora completata. Il professionista, alla luce dei nuovi risultati, elaborerà le sue determinazioni che non potranno non confermare il suo primo giudizio espresso al termine dell’esame autoptico quando dichiarò: «Pietrino Vanacore è morto per annegamento. I suoi polmoni erano completamente intrisi d’acqua mentre nello stomaco non erano visibili tracce di veleno o altro liquido sospetto. Sul corpo - dichiarò sempre in quell’occasione - non erano presenti traumi o altri segni di violenza». A questo punto, a consegna della relazione avvenuta, la patata bollente passerà nelle mani degli inquirenti che dovranno trarre le loro conclusioni e decidere se accontentarsi degli elementi raccolti, che portano tutti verso l’ipotesi del suicidio, o se prendere in considerazione nuovi approfondimenti, difficili anche questi da immaginare stante la completezza delle attività investigative sin qui svolte dai carabinieri del nucleo investigativo della compagnia dei carabinieri di Manduria. Dove, per la verità, non si è ancora conclusa la ricerca sui tabulati telefonici delle utenze riconducibili a Vanacore il cui traffico in entrata e in uscita, questa almeno è la speranza di chi investiga, potrebbe rendere più chiaro il quadro. Così non è stato con le risposte istologiche dei laboratori che hanno selezionato e catalogato le sostanze presenti nell’organismo di Vanacore, non trovando niente e riaccendendo così i dubbi su un suicidio apparso subito anomalo. Per la poca profondità dell’acqua, appunto, ma anche per l’ambientazione del delitto: il corpo del portiere galleggiava in un’ansa della scogliera di Torre Ovo, la località marina della piccola frazione di Monacizzo dove abitava, con la caviglia destra legata ad una lunga corda di nylon ancorata ad un albero distante 15 metri sopra la scogliera stessa.

Il messaggio - Qualche metro più in alto c’era la sua auto parcheggiata con in bella evidenza due cartelli (un terzo sarà trovato sui sedili), riportanti scritte in stampatello che non lasciavano dubbi sulle intenzioni autolesionistiche del loro autore: «20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano ad ucciderti, lasciate almeno in pace i miei familiari». Invece i dubbi furono poi tanti, tant’è che i carabinieri del nucleo operativo, guidati dal maresciallo Francesco Reccia, chiesero subito i tabulati telefonici focalizzando l’attenzione sulle chiamate ricevute nei giorni immediatamente prima del gesto. Pietrino Vanacore, due giorni dopo la sua morte, era atteso a Roma dove avrebbe dovuto partecipare in qualità di teste all’udienza sul delitto di Simonetta Cesaroni, in Via Poma, suo incubo per venti anni, per il quale era stato già indagato, arrestato e prosciolto prima della riapertura del processo.

Nazareno Dinoi
20 maggio 2010
lucaDM82
00giovedì 20 maggio 2010 13:13
Re: Il suicidio del portiere - I dubbi sul suicidio
faberhood, 20/05/2010 11.39:

l’esito degli esami tossicologici rimettono in gioco tutto
Vanacore non si è avvelenato, prima di annegare: si infittisce il giallo della morte
Corpo senza vita fu trovato il 9 marzo a Torre Ovo mentre galleggiava a due palmi dalla riva

TARANTO — Pietrino Vanacore è morto per annegamento (e questo si sapeva), ma prima di morire non ha ingerito nessun veleno o assunto farmaci. E’ questa la novità che riapre il giallo sulla morte dell’ex portiere di Via Poma, a Roma, il cui corpo senza vita fu trovato lo scorso 9 marzo a Torre Ovo mentre galleggiava a due palmi dalla riva in uno specchio d’acqua profondo novanta centimetri. Pochi per permettere ad un adulto di suicidarsi affogando. Si era pensato all’effetto di un farmaco o di un veleno bevuto precedentemente con la capacità di deprimere il livello di coscienza così da farlo annegare in un secchio d’acqua. Per questo si attendeva l’esito degli esami tossicologici che rimettono in gioco tutto: i campioni organici, prelevati in sede autoptica dal medico legale Massimo Sarcinella, non hanno evidenziato tracce di sostanze farmacologiche o tossiche né nocive.

Caffé e zeppola - Insomma, lo stomaco di Pietrino era pulito ad eccezione di un residuo di caffè e della zeppola che aveva consumato poco prima di recarsi sulla spiaggia dove è stato trovato morto. La perizia del dottor Sarcinella non è ancora giunta sulla scrivania del pubblico ministero, Remo Epifani (titolare del fascicolo con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio contro ignoti), perché il perito non l’ha ancora completata. Il professionista, alla luce dei nuovi risultati, elaborerà le sue determinazioni che non potranno non confermare il suo primo giudizio espresso al termine dell’esame autoptico quando dichiarò: «Pietrino Vanacore è morto per annegamento. I suoi polmoni erano completamente intrisi d’acqua mentre nello stomaco non erano visibili tracce di veleno o altro liquido sospetto. Sul corpo - dichiarò sempre in quell’occasione - non erano presenti traumi o altri segni di violenza». A questo punto, a consegna della relazione avvenuta, la patata bollente passerà nelle mani degli inquirenti che dovranno trarre le loro conclusioni e decidere se accontentarsi degli elementi raccolti, che portano tutti verso l’ipotesi del suicidio, o se prendere in considerazione nuovi approfondimenti, difficili anche questi da immaginare stante la completezza delle attività investigative sin qui svolte dai carabinieri del nucleo investigativo della compagnia dei carabinieri di Manduria. Dove, per la verità, non si è ancora conclusa la ricerca sui tabulati telefonici delle utenze riconducibili a Vanacore il cui traffico in entrata e in uscita, questa almeno è la speranza di chi investiga, potrebbe rendere più chiaro il quadro. Così non è stato con le risposte istologiche dei laboratori che hanno selezionato e catalogato le sostanze presenti nell’organismo di Vanacore, non trovando niente e riaccendendo così i dubbi su un suicidio apparso subito anomalo. Per la poca profondità dell’acqua, appunto, ma anche per l’ambientazione del delitto: il corpo del portiere galleggiava in un’ansa della scogliera di Torre Ovo, la località marina della piccola frazione di Monacizzo dove abitava, con la caviglia destra legata ad una lunga corda di nylon ancorata ad un albero distante 15 metri sopra la scogliera stessa.

Il messaggio - Qualche metro più in alto c’era la sua auto parcheggiata con in bella evidenza due cartelli (un terzo sarà trovato sui sedili), riportanti scritte in stampatello che non lasciavano dubbi sulle intenzioni autolesionistiche del loro autore: «20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano ad ucciderti, lasciate almeno in pace i miei familiari». Invece i dubbi furono poi tanti, tant’è che i carabinieri del nucleo operativo, guidati dal maresciallo Francesco Reccia, chiesero subito i tabulati telefonici focalizzando l’attenzione sulle chiamate ricevute nei giorni immediatamente prima del gesto. Pietrino Vanacore, due giorni dopo la sua morte, era atteso a Roma dove avrebbe dovuto partecipare in qualità di teste all’udienza sul delitto di Simonetta Cesaroni, in Via Poma, suo incubo per venti anni, per il quale era stato già indagato, arrestato e prosciolto prima della riapertura del processo.

Nazareno Dinoi
20 maggio 2010



Io ho pensato subito all'omicidio.I tg e matrix subito a parlare di suicidio...

chiefjoseph
00giovedì 20 maggio 2010 13:51
a proposito di verità nascoste, leggetevi la storia di donato bergamini...
Sound72
00giovedì 20 maggio 2010 13:55
Re:
chiefjoseph, 20/05/2010 13.51:

a proposito di verità nascoste, leggetevi la storia di donato bergamini...



ho letto il libro di Petrini..tempo fa ne riparlavano a Chi l'ha visto..
brutta storia..tanto per dirne una..l'incidente sulla statale jonica da Cosenza per trasferire la competenza territoriale del Tribunale a Crotone..

chiefjoseph
00giovedì 20 maggio 2010 14:10
Re: Re:
Sound72, 20/05/2010 13.55:



ho letto il libro di Petrini..tempo fa ne riparlavano a Chi l'ha visto..
brutta storia..tanto per dirne una..l'incidente sulla statale jonica da Cosenza per trasferire la competenza territoriale del Tribunale a Crotone..





si, io pure l'ho visto a chi l'ha visto...

lo seguo quasi sempre quel programma...certe storie da brividi..
sentivo l'altro lunedì di una ragazzina bolognese vittima di una serie di pedofili negli anni 70 di cui non si seppe più nulla, e ora stanno tentando di riaprire il caso...

pure quella storia della bambina nel potentino che è uscita dopo la vicenda claps [SM=g27991]
E_Dantes
00giovedì 20 maggio 2010 14:16
Re: Re: Re:
chiefjoseph, 20/05/2010 14.10:




si, io pure l'ho visto a chi l'ha visto...

lo seguo quasi sempre quel programma...certe storie da brividi..
sentivo l'altro lunedì di una ragazzina bolognese vittima di una serie di pedofili negli anni 70 di cui non si seppe più nulla, e ora stanno tentando di riaprire il caso...

pure quella storia della bambina nel potentino che è uscita dopo la vicenda claps [SM=g27991]




e quel bastardo che la tartassava di domande per sapere quello come l'avesse violentata..???

e comunque.. anche la storia dell'imprenditore romano.. scomparso da ottobre.. nel nulla.. che girava in Ferrari.. non male..

lucaDM82
00giovedì 20 maggio 2010 14:16
Ricordo nell'album panini 88-89 la figurina di Bergamini.Era il biondino.E ricordo quando mori'.
Sicuramente non era un suicidio.

Sulla vicenda Cesaroni,se quello è stato ammazzato,vuol dire che l'imputato attuale è innocente.
Sound72
00giovedì 20 maggio 2010 14:19
o la ragazza finita nel lago di Como con la macchina tempo fa..chi l'ha visto è diventato in parte come Telefono Giallo che facevano anni fa su Rai3..il caso di Emanuela Orlandi e anche quello di via Poma li hanno riaperti loro
Sound72
00giovedì 20 maggio 2010 14:20
Re:
lucaDM82, 20/05/2010 14.16:

Ricordo nell'album panini 88-89 la figurina di Bergamini.Era il biondino.E ricordo quando mori'.
Sicuramente non era un suicidio.

Sulla vicenda Cesaroni,se quello è stato ammazzato,vuol dire che l'imputato attuale è innocente.




Bergamini grande amico di Padovano poi alla Juve...
quel Cosenza era allenato da Gigi Simoni che nn ha mai voluto riparlare di quella storia..
chiefjoseph
00giovedì 20 maggio 2010 14:29
Re: Re: Re: Re:
E_Dantes, 20/05/2010 14.16:




e quel bastardo che la tartassava di domande per sapere quello come l'avesse violentata..???

e comunque.. anche la storia dell'imprenditore romano.. scomparso da ottobre.. nel nulla.. che girava in Ferrari.. non male..




quello dell'imprenditore romano classico caso di sparizione volontaria, secondo me...chissà gli impicci che aveva...
tra l'altro lavorava a 2 passi da casa mia, a piazza dei navigatori..

il video dell'interrogatorio della bambina da [SM=g27993]
c'era mia sorella che gli veniva da vomitare..infatti poi l'hanno interrotto perchè non si poteva andare avanti.

Sound72
00giovedì 20 maggio 2010 15:43
Ciclismo e doping
Landis ammette: "Mi dopavo"
E coinvolge anche Armstrong


Lo statunitense vincitore del Tour 2006 e poi squalificato rivela: "Ho fatto uso di Epo, testosterone, ormone della crescita, trasfusioni di sangue, ormoni femminili e insulina". Il primo approccio alle sostanze vietate nel 2002 con la US Postal del sette volte vincitore a Parigi: "E' stato Lance a spiegarmi come sfuggire ai controlli"

Ap NEW YORK, 20 maggio 2010 – Ci ha messo 4 anni, ma alla fine Floyd Landis ha deciso di fare i conti con la sua coscienza. E ha vuotato il sacco, l’ex re del Tour 2006, raccontando di essersi dopato per la maggior parte della sua carriera, usando Epo, testosterone, ormone della crescita, frequenti trasfusioni di sangue, ormoni femminili e addirittura insulina. Colpa di Johan Bruyneel, attuale team manager della RadioShack, e Lance Armstrong, accusati in una serie di email spedite ai vertici del ciclismo americano e mondiale e alla Wada, l’agenzia mondiale antidoping di averlo iniziato al doping.

CONFESSIONE — Landis vinse sulla strada il Tour de France 2006, ma qualche giorno dopo dovette riconsegnare la maglia gialla dopo la positività al testosterone. Da allora ha iniziato una battaglia legale per screditare il risultato di quei test, che alla fine gli è costata la carriera, i risparmi di una vita e il suo matrimonio. “Ho deciso di parlare per liberarmi la coscienza – ha raccontato l’ex ciclista a Espn - non voglio più essere parte del problema”. Il primo approccio col doping nel luglio 2002, ai tempi della US Postal diretta da Johan Bruyneel e costruita attorno a Lance Armstrong. L’abuso di farmaci proibiti non è punibile dopo 8 anni, un’altra delle ragioni per cui Landis ha deciso di raccontare tutto: “Se non racconto tutto ora sarà inutile” ha detto, ammettendo di aver speso anche 90mila dollari l’anno in prodotti proibiti.

LE EMAIL — La chiave della confessione di Landis è una serie di email spedita ai vertici del ciclismo Usa e mondiale e all’agenzia antidoping. Il Wall Street Journal ha messo le mani su tre messaggi, anche se quelli scritti dallo statunitense sono molti di più, e li rende pubblici nella sua edizione online. In una email datata 30 aprile, Landis racconta di come nel 2002, al suo arrivo alla US Postal, Bruyneel lo istruì all’uso di Epo sintetica, steroidi e trasfusioni del sangue per sfuggire ai controlli. A spiegargli come funzionava il processo è stato lo stesso Armstrong. “Io e Lance ne abbiamo parlato a lungo durante le sessioni di allenamento – scrive Landis -. E’ stato lui a spiegarmi l’evoluzione dell’uso dell’Epo e di come le trasfusioni fossero diventate necessarie per sfuggire ai controlli”.


Lance Armstrong, 40 anni, è ancora in attività. Reuters L'APPARTAMENTO SPAGNOLO — Landis racconta anche che nel 2003, dopo essersi rotto l’anca, volò a Girona, Spagna (la base europea di molti ciclisti americani) dove nel giro di tre settimane gli venne prelevato circa un litro di sangue, da utilizzare al Tour de France di quell’anno, in cui era gregario di Armstrong alla US Postal. Il prelievo secondo l’ex re del Tour 2006 sarebbe avvenuto nell’appartamento di Armstrong. Il sangue veniva custodito in un frigorifero nascosto nell’armadio del texano, in cui si trovava anche del plasma appartenente a George Hincapie, compagno di Landis e Armstrong alla US Postal. Landis racconta che era suo compito controllare la temperatura del frigo ogni giorno, e che Armstrong gli chiese di fare la guardia durante un suo periodo di assenza.

SCHIAVO DEL DOPING — Nel 2006 Landis lascia la squadra americana per la svizzera Phonak. Al proprietario del team, Andy Rihs, racconta del sistema usato alla US Postal e di volerlo continuare anche nella nuova squadra. Rihs dà il suo ok e paga per i trattamenti, ma al Tour 2006 Landis risulta positivo al testosterone: è la fine della Phonak e della carriera dello statunitense. Il 34enne nativo della Pennsylvania racconta di aver iniziato lui stesso all’uso di sostanze dopanti Levi Leipheimer e David Zabriskie, compagni alla US Postal, e spiega nei dettagli come usare l’Epo senza finire nelle maglie dell’antidoping, definito “una pagliacciata”. Landis ha raccontato di aver tenuto diari dettagliati dei suoi allenamenti e dell’uso di farmaci proibiti durante tutta la sua carriera, e di essere pronto a metterli a disposizione delle autorità
faberhood
00giovedì 20 maggio 2010 16:22
Re: Re: Re: Re: Re:
chiefjoseph, 20/05/2010 14.29:




tra l'altro lavorava a 2 passi da casa mia, a piazza dei navigatori..







hai capito! abitamo vicini!
Io stò all'Ottavo Colle.
Sound72
00lunedì 24 maggio 2010 14:22
Ieri sera ne parlavano in uno speciale su raistoria..Storia inquietante.

Gli amanti diabolici di Torino: Paolo Pan e Franca Ballerini


Il giallo ed il mistero, in questa storia di un marito ammazzato e due amanti da fotoromanzo, non sta tanto nell’inizio quanto nella fine. Tanto è trito e banale l’assassinio del povero Fulvio Magliacani, marito tradito, quanto è intrigante e imprevedibile la decisione finale della giustizia che, senza logica né discernimento, tra due colpevoli da punire, gli amanti appunto, ne sceglie uno solo. Rompendo così una regola aurea del delitto passionale: gli amanti che assieme decidono di eliminare il terzo incomodo. La storia degli amanti diabolici di Torino comincia quasi un anno e mezzo dopo il fatto quando, il 25 ottobre 1973, grazie alle confidenze di uno sbandato, Tarcisio Pan, i carabinieri di Torino scoprono, sepolto sulle colline della città, il cadavere di un uomo ormai saponificato. L’indagine, condotta abilmente dal maresciallo Savoia - un altro investigatore d’altri tempi - ha preso spunto dalle inquietudini di Francesco Magliacani, un padre distrutto dal dolore che da tempo ormai cerca aiuto per ritrovare suo figlio Fulvio. Questi, rappresentante di commercio, benestante, marito da tre anni di una biondina provocante e un po’ irrequieta, Franca Ballerini, madre di una bambina, è misteriosamente sparito nella notte del 20 luglio 1972.Quel cadavere trovato in collina appartiene proprio a suo figlio, ucciso con otto coltellate al petto e due alla schiena. E a farlo ritrovare è stato quel Tarcisio, fratello di Paolo Pan, ex ladruncolo e ora trafficante di auto rubate e, guarda caso, amante della Ballerini, moglie di Fulvio. Il caso è chiuso? Lo sarebbe in un Paese dove investigatori e magistratura si comportano in maniera appena seria, cercando le prove e con quelle istruendo i processi, con pazienza ma anche con celerità. Non avviene - e non è la prima volta, né sarà l’ultima - qui da noi dove - specie in materia di investigazioni e giustizia - l’approssimazione regna sovrana. Basti pensare che il processo alla Ballerini e Pan per il delitto Magliacani comincia il 10 marzo 1977, ben tre anni e mezzo dopo che il caso poteva, davvero, essere considerato chiuso. E al processo di primo grado, così come in quelli seguenti, ovviamente, ne succederanno di tutti i colori.Intanto la vicenda si è complicata perché, come da copione (basti ricordare il caso dei coniugi Bebawi), i due amanti hanno cominciato ad accusarsi reciprocamente: per Paolo Pan ad uccidere Fulvio è stata la moglie Franca, lui ha solo occultato il cadavere. Per Franca, la bionda dagli occhi chiari, stereotipo perfino in quanto amante, ha fatto tutto Paolo da solo, senza neppure avvertirla dell’intenzione del delitto. Due versioni che si elidono, tanto incredibili che alla fine saranno credute, almeno dai giudici di ben due corti d’Appello. Come se non bastasse nella storia si sono poi infilati altri due personaggi: uno è il fratello di Paolo, Tarcisio, colui che ha fatto trovare ai carabinieri il corpo di Fulvio Magliacani che, come da copione, ha ritrattato tutte le accuse, fingendosi pazzo. L’altro è Germano la Chioma accusato di complicità nel delitto del cugino, Giovanni La Chioma, un altro trafficante di auto rubate, ammazzato anzhe lui - secondo le accuse di Tarcisio, anche queste ritrattate - da Paolo Pan.Nel dibattimento di primo grado si delineano meglio le personalità degli accusati, anche grazie alle perizie ordinate dall’accusa: Paolo Pan? Un uomo freddo, amorale, intelligenza sopra la media, un ego molto forte. Suo fratello Tarcisio? Un debole, emotivamente insicuro, condizionabile. E lei, la donna del peccato, Franca Ballerini? Solo una piccola ipocrita, vana e superficiale, con un ego fragile. Il processo è tutto uno scambio di accuse tra i due amanti. Il 2 maggio 1977 arriva per entrambi la condanna all’egastolo, 28 anni a Tarcisio Pan, assolto La Chioma. Ma non è finita. Il 3 dicembre 1978 il processo d’Appello ribalta la sentenza precedente: ergastolo per Pan, assolta la Ballerini così come gli altri due imputati. La corte, che ignorerà nuove prove emerse nel corso del processo, crede alla improbabile versione della donna. Cassata anche questa sentenza dalla Cassazione, l’assassinio di Fulvio Magliacani, così come il delitto La Chioma, tornano nuovamente in Appello da cui arriva la definitiva conferma: ergastolo per lui, assoluzione per lei. Forse ancora una volta giustizia non è stata fatta.



Sound72
00lunedì 24 maggio 2010 22:25
Re: Re: Re: Re:
E_Dantes, 20/05/2010 14.16:




e quel bastardo che la tartassava di domande per sapere quello come l'avesse violentata..???

e comunque.. anche la storia dell'imprenditore romano.. scomparso da ottobre.. nel nulla.. che girava in Ferrari.. non male..





ne stanno parlando stasera... [SM=g27993]
E_Dantes
00martedì 25 maggio 2010 10:44
L’eredità di Tobagi un valore da custodire
Walter Tobagi assassinato. La lezione del cronista che capì i nuovi barbari

di FERRUCCIO DE BORTOLI

Quel 28 maggio di trent’anni fa, era un mercoledì, pioveva e faceva ancora freddo. La primavera a Milano era stata inclemente e l’emergenza del terrorismo, che vivevamo con angoscia quotidiana, sembrava essersi trasformata persino in un cupo fenomeno atmosferico.


Il cielo color piombo, come i troppi anni di soffocante assedio della violenza e del terrore. La mattina, nello stanzone a pian terreno della cronaca di Milano, scorreva regolare nei suoi riti: il caffè, la riunione, le chiacchiere sciolte. Eravamo in due o tre, non di più. Allora i giornali si facevano soprattutto di sera e di notte, le redazioni si animavano verso le cinque del pomeriggio, il ticchettio assordante delle macchine per scrivere (oggi non lo sopporteremmo) si scatenava verso le sette, le otto. Non passava giorno, in quegli anni, che non venisse ucciso o gambizzato (brutto neologismo dell’epoca) qualcuno. E anche noi giornalisti avevamo la netta sensazione di poter essere, come lo eravamo già stati, nel mirino dei terroristi. C’era chi, esagerando come spesso ci accade, si era comprato un’arma, così per sentirsi più sicuro; chi uscendo di casa cambiava ogni giorno percorso; chi confessava di continuare a guardarsi le spalle.

Fabio Mantica, vice capocronista, un maestro della cronaca, alzò il pesante telefono di bachelite nera. Il suo viso si fece all’improvviso scuro e una smorfia gli disegnò il volto già scavato dagli anni. Era un uomo di poche parole, Mantica, ma di rara umanità. Scattò verso l’uscio e salì di corsa in direzione al primo piano. Walter Tobagi era già stato ucciso, ma noi non lo sapevamo ancora. Non c’erano telefonini, siti online, non c’era twitter, solo quei pesanti telefoni fissi, insopportabili in duplex, che restarono ammutoliti per interminabili secondi, durante i quali i nostri sguardi di cronisti si incrociarono nel tentare di capire che cosa fosse accaduto. Poi cominciarono a squillare tutti insieme. Un inferno. Mantica scese in lacrime quando noi avevamo già capito e ci sentivamo sperduti e paralizzati dal dolore. Si appoggiò allo stipite della porta principale dello stanzone, quasi lasciandosi andare. «Ma forse non è morto », disse un collega. «No, nulla da fare, Walter è morto».

Uscimmo tutti di corsa, saltammo in fretta sulle macchine posteggiate più vicino e ci precipitammo sul luogo dell’agguato. Lungo il tragitto, lo ricordo perfettamente, eravamo in tre, nessuno di noi parlò. Appena arrivati, vedemmo una scena alla quale eravamo largamente abituati e che ormai non ci faceva più il minimo effetto: le pantere della polizia e le gazzelle dei carabinieri, come si diceva allora, le ambulanze, la concitazione, le urla, il disordine assoluto. La gente era assiepata, tenuta a bada con fatica e come prigioniera di un senso generale d’impotenza e di sconforto. Le parole spezzate, gli sguardi fissi. Ma c’era chi girava il capo e proseguiva allungando il passo, cercando di dimenticare tutto in fretta. Come se la battaglia contro il terrorismo fosse stata ormai persa, definitivamente, e si dovesse per forza convivere con il terrorismo omicida. Levando lo sguardo: una sorta di omertà. In altre occasioni un pensiero del genere non mi era venuto in mente, non ci avevo fatto caso. Quella volta sì perché sotto il lenzuolo sporco di sangue e intriso di pioggia c’era uno di noi, un collega, un amico. Il velo di cinismo che accompagna il lavoro del cronista, e ne fa un testimone utile proprio perché non sopraffatto dall’emotività, aveva lasciato il posto al dolore e alla rabbia, a un senso opprimente di ingiustizia.

Mi vergognavo di non averlo provato altre volte, quel sentimento. Ho riletto l’articolo di Fabio

Felicetti, pubblicato il giorno dopo l’agguato in prima pagina sul Corriere. Un pezzo di rara tenerezza espressiva e nello stesso tempo asciutto e privo di retorica, quasi distaccato: descriveva quel corpo sbattuto sull’asfalto davanti al ristorante «Dai gemelli», come se lo dovesse toccare, sorreggere, quasi rianimare: la penna schizzata via dal taschino, l’ombrello caduto, la mano che sembrava ancora muoversi. Non dimenticherò di quelle ore convulse il pianto del direttore, Franco Di Bella, il dolore composto del suo vice Gaspare Barbiellini Amidei, il questore Sciaraffia che tentava di consolarli entrambi, la faccia impietrita di Angelo Rizzoli. Ma soprattutto gli sguardi smarriti dei tanti colleghi che erano accorsi lì, in via Salaino, una via sconosciuta, laterale, che poi per molti anni nessuno di noi avrebbe avuto più il coraggio di percorrere. Il direttore Di Bella era uomo duro, schietto, ma di straordinaria carica umana: sembrava aver perduto ogni forza. E ogni speranza. Come noi. Al funerale di Walter gridò la sua rabbia contro uno Stato che non sapeva difendere un suo cittadino. Ancora una volta, come tante volte. Eppure, non lo sapevamo e nessuno di noi lo immaginava, la lotta contro il terrorismo stava per essere vinta grazie ai tanti semi gettati con coraggio in una società provata e disillusa. Molti di quei semi erano nelle parole e negli articoli di Walter, come nei gesti e nell’opera silenziosa di tanti servitori dello Stato.

Il tempo, quel mercoledì, si era fermato all’improvviso. L’arrivo del padre di Walter, il suo urlo («Figlio mio») e il suo amorevole tentativo di nascondere alla nuora Stella la vista del corpo di Walter, ancora schiacciato contro il marciapiede: scene rimaste scolpite per sempre nella mia mente. La rappresentazione del dolore più profondo. Il calvario senza resurrezione. Ma l’immagine che mi è sembrata rappresentare di più la tragedia è quella di Walter ancora vivo, un po’ stanco, ma come sempre arguto e intelligente, la sera prima, al Circolo della Stampa di Milano a un dibattito sull’informazione e sul terrorismo. «È vero, c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti, ma sappiamo come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti... dobbiamo impedire che si propaghi». Walter parlava, citando Mario Borsa, direttore del «Corriere» nell’immediato dopoguerra, della libertà di stampa e della necessità che il pluralismo fosse garantito dalla corretta e aperta concorrenza fra gruppi editoriali. E aggiungeva: «Non è assolutamente sano in un Paese democratico che la politica si faccia nei palazzi di giustizia». Sono passati trent’anni, tutto è cambiato, ma le parole di Walter conservano una straordinaria attualità. La sua eredità morale e culturale rimane integra e viva. Intatta la testimonianza professionale di un cronista libero; fecondo il lascito di un pensatore riformista; profonda la scia di un cattolico impegnato nella società, desideroso di comprenderne le trasformazioni e di segnalarne con onestà e precisione le anomalie, i germi della violenza e del terrorismo.

Quella mattina, prima di sapere che era stato ucciso, una voce parlava di un portavalori ammazzato. Dopotutto, l’informazione non era errata, Walter è stato ed è il nostro portavalori. E che valori! A noi il compito arduo di custodirli senza retorica e amnesie.
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