da "autobiografia di un lupo-cane" - cap. 5

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ciuteina
00lunedì 24 novembre 2008 11:13
L’ “APOCALISSE A 4 ZAMPE”


Nel corso delle mie peregrinazioni solitarie vidi anche alcuni husky come me, messi in giardino per fare la guardia. Pretesa assurda! Come si può chiedere ad un husky di fare la guardia? Che io sappia quello è il compito, caso mai, di un cane lupo, non certo di un lupo cane. Ne sono sicuro, ce l’ho dentro e l’ho imparato viaggiando: il territorio di un husky è infinito, nel senso che per lui il suo territorio è il terreno stesso su cui poggiano le sue zampe in quello stesso momento. Ed è un mezzo nomade. A noi è rimasto dentro un qualcosa che ci riporta al nostro diretto progenitore, il lupo (su di noi l’intervento umano è stato minimo… ma sto calcando troppo sulla parola lupo è forse sto facendo troppo il saccente…) Insomma, volevo dire che credo sia questa la ragione per cui a volte gli husky, se non sono tenuti costantemente al guinzaglio, alla prima occasione scappano e non tornano più. Troppo forte il “famoso” richiamo delle origini. Noi siamo nati per correre. Infatti, questi miei poveri colleghi erano anche loro sconcertati, e pur se non erano confinati sul terrazzo al quinto piano ma avevano tanto spazio a disposizione, non erano comunque tanto felici. Altri cani invece si adattavano meglio alla situazione: ebbi molti scambi d’idee con loro, non sempre eravamo in clima di ostilità. Ma in linea di massima mi fecero capire che si sentivano quasi tutti più o meno repressi. I più fortunati erano quelli che giornalmente venivano condotti fuori, in passeggiata, al guinzaglio; ma solo agli stra-fortunati erano concesse passeggiate degne di tale nome: belle-lunghe-campagnole, in piena libertà, dove si può quasi avere l’illusione che lì domini solo e veramente Lei, la Grande. Come nelle mie scorrerie dei primi tempi col capobranco, per intenderci.

Molti dovevano accontentarsi di un breve giretto, e sempre con lo stesso tragitto, magari solo per consentire loro di svuotare vescica ed intestino fuori dal territorio-giardino-casa. (Devo ammettere però di aver conosciuto cani che erano felicissimi così: gli bastava un breve giretto, anche se ripetitivo, col loro umano accanto; era un’abitudine, una specie di rito che attendevano con ansia tutto il giorno. Non gli occorreva altro. Erano appagati così). Mi capitò di vedere piccoli cortili abitati da un cane, magari di taglia grande, il quale al passaggio di qualcuno, cane o umano che fosse, oltre ad abbaiare furiosamente, si metteva a compiere strane evoluzione, girando e quasi volando in tondo, in continuazione, freneticamente… come un moto perpetuo, una trottola impazzita…. Alcuni passanti umani, notata la cosa, rimanevano dapprima stupiti, poi si fermavano a guardare incuriositi e divertiti. Per loro era una scena buffa. Io osservavo il tutto dall’altro lato della strada. Non c’era niente di buffo. Io capivo perfettamente che quel cane stava letteralmente impazzendo a causa della reclusione forzata, per di più in un ambiente così angusto. Sentivo fino in fondo la sua disperazione: l’avevo conosciuta fin troppo bene per tanto tempo. Evidentemente non veniva mai fatto uscire di lì, o davvero troppo, troppo raramente. Vidi più di uno di questi casi, vidi invece tantissimi cani che dovevano vivere in giardino, grande o piccolo che fosse, ma non ne uscivano mai. Magari erano anche soli, senza la compagnia di nessuno, e i loro umani si degnavano appena di dargli da mangiare; a parte questo, nessun tipo di rapporto con umani o non-umani. Per forza erano “imbestialiti” e abbaiavano rabbiosamente al passaggio di qualcuno, come non capirli? I cani sono esseri sociali... esattamente come gli umani. Eppure molti umani si infastidivano di fronte a queste più che legittime proteste, sbuffavano e si lamentavano, sbraitavano dicendo “cagnacci!” (un dispregiativo, vero? Oltretutto…), li vidi e li sentii molte volte. In quei momenti mi passava completamente la voglia di fare lo sbruffone e mi sentivo, proprio io, l’individualista, l’opportunista, il menefreghista che pensa solo a sé, solidale con quelli della mia specie. Ma ero anche consapevole che non potevo farci niente. Inghiottivo quello che viene umanamente definito un… sentimento, e tiravo dritto. Forse, dove comanda la Grande Padrona, fra il popolo dei lupi vige la solidarietà, ma qui, ognuno per sé. D’altra parte vedevo anche un’infinità di miei simili che avevano avuto la fortuna di poter instaurare uno strettissimo rapporto di mutua dipendenza affettiva col loro umano, tenerissimo e assolutamente esclusivo, loro accettavano di “ottimo” grado anche lo stramaledettissimo guinzaglio, che per me rappresentava una limitazione alla libertà: per loro invece altro non raffigurava se non il prolungamento del braccio protettivo e affettuoso del loro adorato compagno umano; era quindi un oggetto che rendeva tangibile l’inscindibile legame affettivo tra i due. D’altra parte, dovrebbe essere vera la storia di un lupo che, nella notte dei tempi, si fece avvicinare da uno o più umani, e da allora si stabilì il sodalizio. Mutuo soccorso, reciproca convenienza, scambio di servigi tra le due specie. Altrimenti, perché noi ci troveremmo ancora qui? Manifestamente, la cosa ha funzionato, tutto sommato. A quanto pare, era anche previsto che una delle due specie dominasse l’altra. Però, come al solito, nella mia mente canino-lupesca si affollavano le domande. Eh sì, ogni tanto non potevo fare a meno di trasgredire ad una delle regole fondamentali: accettare tutto ciò che è un dato di fatto e non farsi domande. La regola fondamentale della saggezza, credo; ma io non ero affatto un saggio, ero decisamente un ribelle. Il guinzaglio non faceva proprio per me! Mi ci adeguavo ogni tanto, e per non più di poco tempo, giusto per far contento qualche amico umano, anche occasionale. Infatti il mio capobranco stesso, tra le tante definizioni che mi attribuiva (“cane da scappa” ad esempio) mi diede anche quella del “cane di tutti e di nessuno”. Posizione un po’ inconsueta per uno come me, molto più frequente invece nei randagi o mezzo randagi, che di solito sono meticci. Io, infatti, fra le altre cose, ero un mezzo randagio (lo ero dentro, pur se gli umani avevano voluto attribuirmi l’appartenenza ad una razza). Solo che passavo meno inosservato di altri (era a causa del mio aspetto piuttosto appariscente all’occhio umano, ormai l’avevo capita!) Era vero, chiunque poteva entrare nel mio giardino, mettermi tranquillamente il guinzaglio (il capobranco stesso aveva dato l’autorizzazione), io lo seguivo docilmente per poi costringerlo a mollarmi quando la cosa incominciava a venirmi a noia: seminare qualunque umano appiedato non era certo un problema. Già, le poche volte che mi portò a spasso a piedi (poco dopo il mio arrivo), seminai anche lui, il mio “rustico” capobranco. Infatti imparò molto in fretta che non ero tipo da “passeggiatine”. Del resto non lo era neanche lui, l’ho già detto. E io capivo sempre di più la mia situazione privilegiata, rispetto a tanti miei simili, e gli ero sempre più grato. L’ho definito “rustico” per il fatto che non mi “seguiva” certo nella maniera in cui vedevo accudire tanti quattro zampe dai rispettivi umani, ma, oltre al fatto che a me stava benissimo così, era rustico così per dire: in realtà a volte era affettuosissimo e premurosissimo con me, mi riempiva di coccole (quando era in vena riusciva addirittura a cambiare la voce per vezzeggiarmi teneramente), mi imboccava persino (con i bocconcini migliori), piegato sui talloni accanto alla mia branda su cui ero comodamente disteso e io ero felicissimo di assecondarlo, mi lasciavo imboccare e coccolare come un cucciolo per il piacere di vederlo contento. Non posso certo negare, inoltre, che non si prendesse cura di me in caso di vero bisogno: oltre al già citato episodio dell’orecchio, una volta (eravamo in pieno inverno, un inverno gelido… meraviglioso per me!) accadde che, per seguirlo sul suo cavallo d’acciaio, mentre lui attraversava un ponticello, io scivolai nel fiume ghiacciato sfondando la crosta di ghiaccio. Mi ritrovai nelle acque gelide e vi restai immerso per parecchi secondi, credo… insomma me la vidi brutta, e anch’egli temette che non ne uscissi più. Ma noi siamo straordinariamente forti e resistenti al gelo (siamo stati progettati proprio per vivere al freddo, a quanto sembra), e riuscii, anche se con uno sforzo enorme, ”sovracanino” (si può dire? Lo dico.), a schizzare fuori dall’acqua. Allora il mio umano mi riportò subito a casa (per fortuna non eravamo lontani), mi avvolse in una coperta di lana, mi stese sulla mia brandina e mi frizionò a lungo, finchè smisi di tremare e cessarono i brividi. D’altra parte io dormivo benissimo “il sonno del mezzo-lupo giusto” anche all’aperto, al freddo, sulla nuda terra e perfino sotto la pioggia, con grande stupore dei miei amici umani, quando se ne accorsero, ad esempio la mia vicina di casa, nonché grande amica, che spesso di notte gironzolava per il giardino confinante, con piena visuale sul mio. E che posso dire di ciò che provai una mattina (veramente era ancora buio) quando, svegliandomi, mi ritrovai immerso in un mondo fantastico, fatto di materia candida e gelida? Sul mio terrazzo ne avevo avuto soltanto qualche assaggio che mi aveva procurato una strana, inspiegabile sensazione di rimpianto…. ora potevo godermelo in pieno, il contatto con la neve! Sì, decisamente era quello il mio elemento. Non esisteva per me un contatto fisico più naturale e piacevole di quello con la neve. Ancora meglio dell’erba, del fango, dell’acqua dolce o salata, tutte cose che pure adoravo. Purtroppo svanì molto in fretta… come un bel sogno (sì, lo so che quest’espressione mi farà scadere ridicolmente in un’immagine retorica e scontatissima, ma non m’importa; fu proprio quello per me: un bel sogno svanito troppo in fretta). Lasciò soltanto, per un po’ di giorni, una fanghiglia sporca e fredda, tanto per consolarmi un po’…. e per fare imprecare gli umani. Mentre correvo all’impazzata nella neve fresca, felice come non mi ero mai sentito, mi sorse spontanea una domanda (stava diventando ormai un vizio, farmi domande, ogni nuovo evento mi forniva nuovi spunti di riflessione al quale faceva seguito immediatamente una domanda…… non regolare, ciò, ma non potevo evitarlo): allora era così, forse, la mia terra d’origine, la terra degli husky, la terra dei miei avi, la terra dei lupi? Nessuno dei miei simili seppe dirmelo con esattezza, e il fatto di aver sentito formulare questo concetto sotto forma di suoni codificabili dal mio cervello canino (perché lo dicevano i miei amici umani) non m’interessava proprio per niente (teoria pura! Non sapevo che farmene!): era proprio così, ne ero sicuro perché lo sentivo. Era bastato l’approccio una sola volta con la neve per darmene la prova. E anche ad altri come me. Che bellezza se la neve fosse rimasta con me per tutto l’anno! E, proprio volendo esagerare con le domande (ma sì, tanto ormai mi ero lanciato): perché cavolo gli umani non ci avevano lasciato nelle nostre terre d’origine? Forse per farci fare una vita meno dura? E che ne sapevano loro, con quale diritto… ma erano solo piccoli sprazzi di ribellione interna, in realtà ci siamo adattati benissimo anche qui… o quasi. Anche perché la realtà è questa e non possiamo che accettarla. (Ehi, cane, calma! Hai detto “diritto”? Ti si deve richiamare di nuovo all’ordine! Sorvoliamo sul fatto che un cane parli, ma che addirittura si metta a parlare, anzi farfugliare sui diritti, embè…. questa proprio no! Sei pregato almeno di non straparlare.) O.K., cercherò di stare al mio posto e di non urtare la sensibilità di nessuno, d’ora in poi, ma non garantisco nulla…. Nel periodo in cui facevo il vagabondo incallito, conobbi purtroppo anche l’esperienza della prigione per cani: mi ci ritrovai vagolando vagolando, chissà dov’ero finito, suppongo ben lontano da casa, perché non riuscivo più ad orizzontarmi, o per lo meno non ne ebbi il tempo, perché all’improvviso fui prelevato (a tradimento!), caricato su un mezzo meccanico e scaricato lì. Non durò a lungo, per mia fortuna, ma, appena lì dentro, dietro le sbarre, fui nuovamente sommerso da un’ondata di terrore: quello di aver perduto di nuovo il dono più prezioso per me, la libertà; davvero impossibile evadere di lì! Ero talmente ansioso e preoccupato per me stesso da restare quasi indifferente alle proteste rabbiose e disperate dei miei compagni di sventura; io aspettavo ansiosamente il mio umano, sapevo che sarebbe venuto a liberarmi, invece, con mio enorme stupore, venne a liberarmi la mia prima umana, la proprietaria del famigerato terrazzo al quinto piano: ebbene, fui felicissimo di rivederla, non so perché fosse venuta proprio lei a prelevarmi ma sentivo che non mi avrebbe riportato a casa sua, bensì presso la mia nuova casa. Per questo, appena la vidi, fui colto da un irrefrenabile accesso di gioia ed euforia tali che mi venne da farle “le feste”, quelle che i cani fanno normalmente e che io invece non facevo mai (per mia indole, usavo altri modi per manifestare il piacere di vedere un amico umano: molto più distaccato e contenuto). Mentre me ne andavo con lei, mi accompagnava un sottofondo di voci canine, a metà tra l’iroso e il lamentoso, continuavo a sentirle ma ne ero appena cosciente, tanto ero felice e sollevato di andarmene di lì. Non volevo farmi domande anche sul senso di quel posto, tanto non avrei saputo darmi la risposta. Tanto non avrei mai saputo perché tutti quei cani si trovassero raggruppati proprio lì, rinchiusi e se prima o poi ne sarebbero usciti. Una cosa solo era certa: non vi si erano recati spontaneamente. Come era accaduto a me. Tornando a casa, fui accolto dalle commosse esternazioni di sollievo della mia vicina di giardino: quando arrivai si trovava proprio in giardino, sembrava che mi stesse aspettando con preoccupazione (mancavo da casa da un po’ di giorni) e mi venne incontro per coccolarmi con molta tenerezza, anche con commozione, direi. A lei mi affidò temporaneamente la “prima” umana, perché il capobranco in quel momento non c’era. Questa fu un’altra avventura, non certo piacevole ma dall’esito favorevole, per mia buona sorte. “Mia” buona sorte, appunto, perché degli altri non seppi più nulla…. e avevamo convissuto, anche se forzatamente, per qualche giorno. E anche comunicato tra di noi, sia pure confusamente…. ognuno di noi era troppo preoccupato causa il timore di non uscire più di lì per essere in vena di chiacchierare e raccontare agli altri, con ordine, la propria storia. Ma non volevo pensarci più. Più indietro ho detto che molti umani non mi sopportavano per i più svariati motivi (motivi tutti loro!), ma è pur vero che ne avevo intorno un buon numero che mi coccolavano e mi vezzeggiavano tutti. Quando c’ero, naturalmente. Insomma, avevo una piccola schiera di ammiratori.
ciuteina
00lunedì 24 novembre 2008 11:13
Ah, ho messo un commento in coda al capitolo precedente.
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