Re: Re:
Scritto da: dubh 14/12/2004 15.31
pur non trovando il mercato cinese così deleterio
Spero che tu abia tempo e vogli di leggere ciò:
Sacrificati migliaia di operai in nome della politica estera. Alla fine vinceranno solo i poteri forti e le grandi industrie, omaggiate con commesse miliardarie
Una poltrona all’Onu in cambio del posto di lavoro
Non è pensabile che ad una così folta delegazione, qual è quella presente in Cina al seguito del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, “sfugga” il fatto che decine e decine di imprese del Nord stiano chiudendo i battenti a causa della concorrenza dei prodotti cinesi che altro non sono che copie identiche di quelli di casa nostra.
Si parla tanto nel nostro Paese dell’incapacità del governo di destinare fondi alla ricerca, senza la quale non c’è sviluppo. Ebbene, in Cina il problema è stato risolto copiando, male, le nostre merci ed esportandole in tutto il mondo, ovviamente Italia compresa. Quali le conseguenze?
Centinaia di operai delle nostre aziende di tutti i settori, dal tessile al manifatturiero, licenziati e mandati a casa perché la produzione non si vende.
L’ultima notizia in tal senso è quella secondo la quale dal primo gennaio chiuderà i battenti la De Longhi in Friuli.
Nel frattempo, milioni di pezzi di prodotti contraffatti, realizzati con il lavoro di operai pagati con stipendi di fame, senza alcuna garanzia e tutela, vengono immessi sui mercati attraverso “rotte commerciali” controllate dalla mafia cinese. Come se non bastasse, sono ormai decine di migliaia i cinesi che sfuggono dall’ultimo baluardo del comunismo rimasto al mondo ed emigrano altrove.
In tutto il Nord, dal Triveneto alla Liguria, sono ormai tantissimi i cinesi dediti, nel migliore dei casi, ad attività commerciali per le quali non pagano neppure un euro di tasse. Per non parlare poi delle conseguenze sui mercati immobiliari. I cinesi, potendo esercitare le loro attività in nero, realizzano enormi guadagni coi quali, tra l’altro, hanno completamente falsato il mercato dei box e degli scantinati. Questi locali, utilizzati come deposito delle loro mercanzie ma anche come civili abitazioni, vengono affittati, o sempre più spesso acquistati, a prezzi folli. Il risultato è che oggi per un cittadino onesto acquistare, o semplicemente prendere in affitto un garage, è cosa praticamente impossibile.
Ciò detto, c’è chi si scandalizza, o fa finta di scandalizzarsi, se il ministro delle Riforme Roberto Calderoli propone l’istituzione dei dazi per l’ingresso delle merci cinesi nel nostro Paese, a salvaguardia delle produzione locali delle piccole e medie imprese. Si dice infatti che, nell’era della globalizzazione, i dazi sarebbero fuori dal tempo e comunque privi di efficacia per il Paese che li adotta. Sarà, tuttavia resta il fatto che la Cina, sempre nell’era della globalizzazione, è l’unico Paese al mondo a sfruttare i vantaggi del liberismo e dello sviluppo economico, tipico delle democrazie occidentali, senza però pagarne i costi dal punto di vista sociale. In Cina, non esistono problemi quali il costo del lavoro o gli scioperi generali; né tanto meno ci sono patti di stabilità da rispettare che ingessano l’economia. Tutto viene risolto con la tirannia politica e sociale di un governo comunista che non riconosce ai propri concittadini né libertà di espressione né possibilità di emancipazione.
Il fatto che la Cina costituisca un potenziale mercato di oltre un miliardo di persone non può far dimenticare, né al governo né alla Confindustria, anch’essa rappresentata ai massimi livelli nella “missione” cinese, il rischio in atto: per favorire le esportazioni di poche grandi imprese si finirà col distruggere moltissime piccole e medie imprese.
Ecco perché si guarda con preoccupazione ai risultati di questo nefasto viaggio in Cina del Capo dello Stato e del suo seguito. Sarebbe stata la buona occasione per chiedere ai governanti cinesi il rispetto delle più elementari regole di democrazia, tanto nei rapporti commerciali coi Paesi della comunità internazionale quanto nel trattamento riservato alla propria cittadinanza, ma come al solito hanno prevalso altre ragioni di Stato. Purtroppo, però, quest’ultime, ancorché si trattasse di poter contare sull’aiuto di Pechino per la conquista di un posto nel Consiglio di sicurezza alle Nazioni Unite o di commesse miliardarie per poche e grandi industrie, non coincidono con quelle di migliaia di operai e artigiani i cui posti di lavoro sono a rischio. Le nostre piccole e medie aziende, infatti, mai e poi mai potranno essere concorrenziali con quelle che operano in un mercato senza regole e che non riconoscono ai loro operai nemmeno un minimo salariale.
«Cadute le quote, saremo invasi dalla Cina. A rischio imprese e posti di lavoro»
Calzaturifici travolti dal “ciclone asiatico”
MAURIZIO FUGATTI
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«Il primo gennaio 2005 cadranno le ultime quote sull’import europeo di calzature in pelle dalla Cina, e da quel momento l’industria calzaturiera italiana sarà esposta ad un cataclisma». Recita così, in estrema sintesi, un comunicato di mezza pagina a dir poco drammatico per le sorti della industria calzaturiera italiana apparso ieri su alcuni quotidiani nazionali, a firma dell’A.n.c.i., l’Associazione nazionale calzaturifici italiani.
L’Anci lancia l’allarme sulla prossima scadenza del primo gennaio, quando cadranno le ultime quote sull’import di scarpe cinesi e il mercato italiano sarà praticamente invaso da scarpe a basso prezzo provenienti dalla Cina, che causeranno il «cataclisma» per il settore calzaturiero italiano. Dal primo gennaio 2005, scrive l’Anci, «arriveranno decine di milioni di paia di scarpe in più e senza marchio di origine» su un settore, quello delle calzature in pelle italiane, che oggi «costituisce oltre i tre quarti della nostra produzione di calzature».
L’Anci punta il dito senza mezzi termini contro la Cina, e contro la concorrenza sleale che questo Paese fa nei confronti dei produttori europei. La Cina, scrive il comunicato, «sta attuando una concorrenza asimmetrica basata su: dumping valutario (la moneta cinese è legata artificialmente al dollaro e svalutata di oltre il 30% rispetto a due anni fa); dumping sociale (condizioni del lavoro molto distanti dagli standard occidentali e stipendi minimi legali che sono di poche decine di euro al mese); dumping ambientale (regole di tutela dell’ecosistema pressoché inesistenti)». In tempi brevi, dice l’Anci, contro queste pratiche di concorrenza sleale si può fare ben poco, in quanto a Bruxelles, che è la sede dove potrebbero essere prese decisioni in difesa delle produzioni europee, gli enti competenti sembrano essere poco interessati.
«Purtroppo - recita il comunicato - la burocrazia di Bruxelles, che risente delle divisioni tra Paesi e lobbies, frena e rallenta ogni provvedimento concreto a tutela dei produttori italiani ed europei, come la applicazione di regole paritetiche nel commercio internazionale e l’obbligatorietà dell’apposizione del marchio di origine sui prodotti importati». In questo modo, dopo la fine delle quote con la Cina, l’Anci decreta la morte della industria calzaturiera italiana, in quanto: «Molte aziende chiuderanno (non per loro demerito ma per la concorrenza sleale); molte persone perderanno i posti di lavoro; il Pil (Prodotto interno lordo) italiano sarà rallentato; ci saranno meno soldi negli investimenti e nei consumi». La fine delle quote, dice ancora l’Anci. sarà un «evento dannoso, non solo per le nostre calzature, ma anche per la economia e la società italiana». È un grido disperato quello “urlato” dall’Anci, che riflette senza ombre lo stato di crisi in cui è arrivata l’industria calzaturiera italiana a causa della concorrenza sleale della Cina. Un grido che arriva negli stessi giorni in cui il Presidente della Repubblica Ciampi e quello di Confidustria Montezemolo, si sono recati in visita nel Paese asiatico, a “magnificare” le potenzialità del mercato cinese per l’industria italiana.
Probabilmente, a sentire le parole dell’Anci, ai calzaturieri italiani al momento interessa ben poco del mercato cinese e dei “fantomatici” cinesi che acquistano i prodotti italiani, in quanto negli ultimi anni la Cina la hanno conosciuta solo sotto altri aspetti, come quelli della concorrenza sleale ed asimmetrica.
Aspetti che stanno oggi causando il «cataclisma» del settore calzaturiero italiano. A spiegare questo «cataclisma» sono i numeri stessi del settore. Secondo dati dell’Anci riferiti al 2003, in questo anno la produzione si è attestata a 303,4 milioni di paia (-9.5% rispetto al 2002), per un valore di 7.582 milioni di euro (-7.2%). Nello stesso anno si è riscontrata una erosione dei flussi di export realizzati dalle imprese italiane, che si sono ridotti del 7,7% circa in quantità e del 6,8% in valore. Complessivamente sono stati esportati 298 milioni di paia di calzature, mentre nel 2002 tale cifra ammontava a 322 milioni. Negli ultimi 25 anni le esportazioni italiane non erano mai scese a livelli così bassi. I principali mercati di sbocco hanno infatti tutti evidenziato segnali negativi: Germania -2,7% (in volume); Francia -2,6%; USA -16,3%; Regno Unito -13,3%. A crescere, e in maniera considerevole, nel corso del 2003 è stato invece l’import di scarpe. 269 milioni sono state le paia importate, con un incremento del 19,6% rispetto al 2002, per un valore di circa 2.432 milioni di euro (+8,4%), con un calo del prezzo medio del 9,3%. Questi dati confermano anche la crescita impetuosa dell’import dai paesi asiatici. La Cina ha incrementato del 49% il numero di paia importate che è stato pari a 100,3 milioni nel 2003, contro i 67,3 milioni del 2002; il Vietnam ha raggiunto invece quota 23 milioni di paia (+13,3%); l’Indonesia 6,7 milioni di paia (+8,4%); l’India 5,2 milioni di paia (+87,%).
Di fronte a queste cifre nei mesi scorsi l’Anci aveva ufficialmente richiesto la applicazione degli strumenti di salvaguardia provvisori nei confronti della Cina, previsti dall’Unione Europea. Tali strumenti permettono di adottare misure, come per esempio dazi di salvaguardia e quote, per difendere specifici settori dell’economia che possono entrare in grave crisi a causa della improvvisa apertura alla concorrenza cinese.
Ad oggi probabilmente tale richiesta giace su qualche tavolo di qualche burocrate europeo, mentre le imprese italiane sono alle prese con una crisi che si annuncia devastante. Talmente devastante da fare acquistare mezza pagina alla maggiore associazione rappresentativa di categoria, per scrivere un comunicato, dove il titolo principale così recita: «Mancano solo 20 giorni al “China-day”».