Wagner, inventare è come ucciderlo

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martee1964
00giovedì 15 gennaio 2009 09:06

l dialogo tra Chéreau e Barenboim sulla rappresentazione del "Tristano"
ALBERTO MATTIOLI
Si sa che i grandi artisti si esprimono molto meglio facendo ciò che sanno più che raccontandolo. Tuttavia, Dialoghi su musica e teatro - Tristano e Isotta, libro-conversazione fra Daniel Barenboim e Patrice Chéreau (a cura di Gastón Fournier-Facio, Feltrinelli, 195 pagg., 18 euro) è l’occasione di penetrare nell’officina di due grandi ri-creatori di oggi, mentre discutono progettando il Tristano di Wagner che ha inaugurato la stagione 2007-8 della Scala, ed è stato il miglior spettacolo visto lì da almeno vent’anni. Quando Chéreau ammette di non essere riuscito a «finire» il duetto d’amore del secondo atto (che del resto dura quaranta minuti nei quali non succede assolutamente nulla, se non l’estasi di Tristano e Isotta e di chi li ascolta), si ha l’impressione di spiare «in diretta» la nascita della sua regia. Che, peraltro, è tuttora «in progress»: dal 5 febbraio questo Tristan tornerà alla Scala e Chéreau lo sta già completamente ripensando e rimontando.

Naturalmente, il libro è pieno di stimoli che meriterebbero, ognuno, una riflessione a parte. Per esempio, l’analisi del Preludio e dei suoi problemi esecutivi fatta da Barenboim è affascinante. E Chéreau coglie con grande finezza il côté «religioso» (benché ovviamente non confessionale) del Tristan: non nel senso proposto da Denis de Rougemont nel suo L’amour et l’Occident (quest’opera come ennesimo riaffiorare nella cultura occidentale dell’eresia gnostica), ma proprio per l’ispirazione di Wagner. Chéreau cita Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, ma è Wagner stesso che definisce il Tristan un’«Handlung», non un’«Oper»: un’«azione» nel senso dell’«auto sacramental» spagnolo. E sappiamo che la «morte» di Isotta, che morte non è (anche perché non c’è alcuna ragione fisica perché Isotta debba morire), fu ispirata a Wagner dalla celebre Assunta del Tiziano in Santa Maria Gloriosa dei Frari.

Si potrebbe continuare per pagine. Ma c’è un aspetto che rende questo libro attualissimo in un momento in cui, perfino in Italia, la discussione sulla regia d’opera è molto vivace. Chéreau, inaspettatamente, ma con il pieno consenso di Barenboim, rifiuta il concetto stesso d’«interpretazione»: «Certo, non si comincia da un’elaborazione concettuale, non si analizza il testo per arrivare a una concezione. Del resto io stesso non ho una concezione». E ancora: «Spesso la parola interpretazione è pericolosa [...]. Prima di qualsiasi tentativo di interpretazione - parola che peraltro mi sono ben guardato dall’utilizzare - ho semplicemente cercato di riflettere, di arare il testo. Tutto veniva di conseguenza, nel vero senso della parola [...]. Posso immaginare di giungere all’interpretazione, ma non parto da essa». Insomma, è il rifiuto del «Konzept» su cui si basano oggi molti registi d’opera, specie quelli tedeschi. E, in effetti, il Tristan di Chéreau era singolarmente «classico», a parte i cappotti genere minimalchic che oggi possono scandalizzare al massimo Sgarbi o il critico del Corriere. La potenza innovatrice e a tratti sconvolgente di quel Tristan era realizzata con mezzi affatto tradizionali: la qualità della recitazione, il gioco di luci, i movimenti scenici. Un Tristan, insomma, che scommetteva (vincendo) sulle virtù, anche drammaturgiche, del testo. Per dirla ancora con Chéreau, «la questione non è mai quella di avere o non avere idee. Il problema è sapere esattamente che cosa racconta il testo e come idee molto concrete possano incarnarne il contenuto».

Ora, questo è sorprendente perché chi parla è il regista che, nel ‘76, per l’Anello del Nibelungo del centenario, realizzò a Bayreuth una regia, la più importante dal Dopoguerra, tutta basata sulla necessità di «démasquer» Wagner, di fare vedere ciò che si cela dietro il velo del mito. È Chéreau all’origine di tutti gli dei-Buddenbrook, i Nibelheim-Ruhr, i Siegfried-bamboccioni poi infinite volte riproposti. Per carità, Chéreau non rinnega nulla né, evidentemente, il Tristan è il Ring: tuttavia, un certo effetto le sue parole lo fanno, dopo che tre decenni sono stati impegnati a sezionare Wagner, a mostrare in scena tutte gli infiniti intrecci storici, filosofici, filologici, economici, letterari, drammaturgici che celano le sue opere, a dare insomma un’«interpretazione» di un messaggio che però è forse solo quell’«eterno sproloquiare», e su tutto, di cui lo accusava Thomas Mann.

Dopo aver smontato il giocattolo per vedere com’era fatto dentro, oggi appare forte la voglia di rimettere insieme i cocci e ripredere a giocarci, credendoci. Ma le strade per arrivarci sono molte. Tanto che nel 2008, annata buonissima per Wagner, ci sono state altre due produzioni che hanno cercato di uscire dall’impasse in maniera personalissima e innovativa. Per Stefan Herheim, a Bayreuth, Parsifal diventava l’autobiografia della nazione, protagonista un Parsifal-Germania che nasce dopo Sedan, attraversa il Secondo e il Terzo Reich (il regno di Klingsor!) e approda infine al miracolo del Venerdì Santo di un Paese democratico e riconciliato con un Passato finalmente passato. Mentre Claus Guth, a Zurigo, legge Tristan come proiezione biografica dello stesso Wagner, in interni borghesi ottocenteschi dove si strugge un’Isotta-Mathilde Wesendonck e la tragedia si consuma sul tavolo da pranzo, simbolo appunto dell’ordine borghese. Come dire: la riflessione di Chéreau è intrigante ma non definitiva. E il gioco eccitante di far parlare all’oggi i capolavori di ieri continua.

Autore: Barenboim Daniel e Chéreau Patrice
Titolo: Dialoghi su musica e teatro - Tristano e Isotta
Edizioni: Feltrinelli
Pagine: 195
Prezzo: 18 euro
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