Re: (con un po' di ritardo... ma avevo i miei olivi!)
Scritto da: Nausica17 07/03/2004 11.06
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In riva al mare
Eran le sei del pomeriggio, un giorno
chiaro festivo. Dietro al faro, in quelle
parti ove s'ode beatamente il suono
d'una squilla, la voce d'un fanciullo
che gioca in pace intorno alle carcasse
di vecchie navi, presso all'ampio mare
solo seduto; io giunsi, se non erro,
a un culmine del mio dolore umano.
Tra i sassi che prendevo per lanciare
nell'onda (ed una galleggiante trave
era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto,
un bel coccio marrone, un tempo gaia
utile forma nella cucinetta,
con le finestre aperte al sole e al verde
della collina. E fino a questo un uomo
può assomigliarsi, angosciosamente.
Passò una barca con la vela gialla,
che di giallo tingeva il mare sotto;
e il silenzio era estremo. Io della morte
non desiderio provai, ma vergogna
di non averla ancora unica eletta,
d'amare più di lei io qualche cosa
che sulla superficie della terra
si muove, e illude col soave viso.
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Vorrei fare solo una piccola precisazione, sullo spunto di alcuni commenti suscitati dalla lettura della precedente poesia di Saba. Mi preme molto sottolineare che l'argomento di questa sezione del forum "Commentiamo poeti famosi" comprende ogni tipo di commento, vale a dire le sensazioni che una poesia ha suscitato, le immagini a cui l'associamo, i nostri gusti personali ("mi piace", "non mi piace"), così come un'analisi stilistica del testo o quant'altro. Dunque invito tutti i lettori a sentirsi completamente liberi nel postare i loro commenti e le loro impressioni, senza preoccupazione e imbarazzo alcuno (non ce n'è motivo ).
ciao a tutti
Nausica
IN RIVA AL MARE (Canzoniere del ’21)
Eran le sei del pomeriggio, un giorno
chiaro festivo. Dietro al Faro, in quelle
parti ove s'ode beatamente il suono
d'una squilla, la voce d'un fanciullo
giocante in pace intorno alle carcasse
di vecchie navi, presso all'ampio mare
solo seduto; io giunsi, se non erro,
al culmine del mio dolore umano.
Tra i sassi che prendevo per scagliare
nell'onda (ed una galleggiante trave
era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto,
un bel coccio marrone, un tempo gaia
utile forma nella cucinetta,
con le finestre aperte al sole e al verde
della campagna, e che da me s’aveva
l’ultimo moto. E fino a questo un uomo
può assomigliarsi, angosciosamente.
Passò una barca con la vela gialla,
che di giallo tingeva il mare sotto;
e il silenzio era estremo. Io della morte
non desiderio provai, ma il rimorso
di non averla ancora unica eletta,
d'amare più di lei io qualchecosa
che sulla superficie della terra
si muove, e illude col soave viso.
Cerco di capire perché questa poesia di Saba non mi piaccia… Dissonanze, esagerazioni, immagini poco credibili, una simbologia che mi pare sprecata, qualche grossolanità, l’abborracciatura complessiva del linguaggio: cosa esattamente?… Il linguaggio di questo poeta – dico – così poco liceale, così poco letterario; o almeno malavvezzo alla cultura colta del tempo (basti pensare al D’Annunzio). Soprattutto, penso al suo atteggiamento spirituale: che riesco a desumere da codesto suo frangente circostanziato ‘in riva al mare’, che descrive fra l’oracolo e l’epigrafe; il quale mi sembra di persona incazzata e vinta, volubile, istericoide, radicale e vile… Sì, un po’ introspettiva, ma al minimo. E plateale al massimo, come lo sono i comici di grado inferiore e le soubrette che battono i teatri di periferia (tutta gente sana e rispettabile – intendiamoci) che finiscono col farti dolere le mascelle.
Ma vado con ordine qui… (Perché vorrei veramente capire il disagio che ha finito col crearmi internamente questa poesia.)
L’attacco mi sembra ridicolo: alle sei del pomeriggio! E non dici neppure così, Saba, ma “Eran le sei del pomeriggio…” a far cadere per forza il primo accento del verso sulla quarta sillaba. L’effetto è tuttavia come di un ‘ei fu siccome’ di manzoniana memoria, strombettato carduccianamente e finito a gambe all’aria in una sottospecie di lamento lorchiano. Viene voglia di chiederti: hai visto veramente bene l’orologio?… sei certo che non fossero le sei meno dodici? Il dettaglio da casalinga indaffarata che sta attenta ai rintocchi va poeticamente o trattato come metafora (nel “Lamento di Ignazio” la ripetizione delle ‘cinque della sera’ è la campana che suona a morto) o senz’altro omesso ché ci si fa più bella figura.
“Dietro al faro…”: Saba, mettiamoci d’accordo. Un faro sta in faccia al mare – è il mare il suo grande punto di riferimento: tra lui e il mare – cioè – ci può essere un po’ di sabbia e qualche macigno, tutt’al più. Ed io, con la mia nave, ci passo davanti, al faro! Dietro il faro c’è solitamente altra sabbia e molto cemento (anche se siamo all’inizio del secolo scorso), il porto se del caso e più lontano ancora la città. Ora proprio in quello spazio interno, dal faro, prima di giungere al porto eventuale, ci si può trovare in abbandono di anni anche un rottame di “naviglio” – parola che ti suggerisco – e più facilmente di barcone o di chiatta… (Ma rottame di nave addirittura, anzi di navi assai/più d’una, no, Saba: e che?, c’è addossato al faro un intero deposito di navi in disarmo, dio mio!) Per cui navi a parte, ritornando al discorso, se io lì intorno – poniamo – me ne sto a lanciar sassi in acqua per i cavoli miei, vuol dire che sto davanti al faro e non dietro al faro.
Ma la cosa che mi urta in questi primi tuoi, Saba, è il ragazzino che giuoca da solo senza corredo d’altri ragazzini (li hai visti mai giocare insieme, tu, i bambini?). Metafora di cosa?… la solitudine del giuoco del ragazzino – vuoi dire – che prelude alla solitudine del dolore dell’uomo? Tu chiamalo pure ‘fanciullo giocante’, ma se io ne vedessi uno aggirarsi sulla carcassa d’un barcone di sera e in riva al mare (figuriamoci nell’immensità cimiteriale di cotanto deposito di navi!) la sentirei, quella figuretta, in tutta la sua improbabilità teatrale, evocativa, misterica… Come a tirarmela fuori da un quadro di De Chirico. (Fra l’altro me lo fai star seduto il tuo fanciullo giocante sulle carcasse delle navi… – ma va!)
L’immagine di te che scagli i sassi sull’acqua poi (sorvolo sul bersaglio puerile e forzato del travotto, anzi della travotta – altra metafora? – che galleggia) è patetica… Patetica, in primo luogo, perché sproporzionata al dolore che dici di vivere. E patetica perché è di per sé divertita/curiosa, dinamica/forzuta, giovanilistica/spensierata (penserei, ecco, che lo faccia se mai il fanciullo che dici, ma non tu in quello stato). Oltre tutto – altra annotazione di fondo – mi sembra che tu stia, per come ti racconti, non tanto al culmine del dolore, ma soltanto all’inizio: perché reagisci, sbraiti e tiri sassi stupidamente al mare. Ma chi tocca veramente il culmine del dolore sperimenta – penso – il silenzio tragico della maschera immobile che guarda…. Giacché se mai guardi il mare, lo fa/lo vede come lo vedrebbero gli occhi d’una perla dentro l’ostrica: nero, annullato, nullificato (vorrei dire, ad inventarmi una parola che mi suona, ‘nullico’).
Ed eccoci al coccio… Va bene, ammettiamolo: fra le mani che grufolano per terra in cerca di sassi, ti capita un coccetto di qualche cosa che ti si presta ad un paragone, ad una metafora, ad una analogia (io ho il culto dell’analogia). Anche se mi sembra che tu la fai un po’ brodosa (tanto che alcuni tuoi esegeti hanno pensato/potrebbero seguitare a pensare che il coccio è di un oggetto proprio che ti è appartenuto!). Addirittura, nella prima edizione del tuo Canzoniere, del ’21, ci aggiungi giustiziere e teleologico “e che da me s’aveva | l’ultimo moto” (dico il coccio, lanciandolo in acqua, eh!… e che comunque elimini nella trascrizione del ’65 perché solo vuoi dare alla tua una distribuzione di tre ottave – tutto qui).
E arrivo in ultimo alla tua ‘barca gialla’ assai naïf. Qui non ho molto da dirti se non che riguardi il mero verseggiare elegante e ordinato in endecasillabi… Io ti propongo, Saba, la mia trascrizione, a seguire… In cui rendo la tua visione meno realistica e più trasognata, come conviene – ad esempio – alla metafora della Morte, che si vuole nell’immaginario nostro noiosamente giallognolo/pallida. Inoltre, il tuo stato d’animo è più credibile (ripristinando, fra l’altro, in luogo di ‘vergogna’ del ’65 zeppo di risentimento il ‘rimorso’ del ’21 meno sdegnato). Infine ti rendo più comprensibile, a noi mortali, il tuo pensiero – mi sembra… (Ma certo penso fra me quanto ti meritassi iroso e geloso com’eri quel giorno in quella tua riva quel ‘soave viso’.)
DAVANTI AL VECCHIO FARO (trascrizione di Euro Roscini)
(Quel giorno d’ore… «Quali?» Tutte!) – un giorno
chiaro, di festa, appresso al faro, in quello
spazio in cui cogli lieto/lieve il suono
d’una sirena… E voci di fanciulli
giocare intorno a una carcassa di
naviglio: chi corre/chi resta, o chi
più in là sta ritto al mare. Lì – ricordo –
vi giunsi al culmine del mio dolore.
Scagliando sassi per dispetto all’onda.
(Forse mirando a un legno galleggiante?)
Quand’ecco vidi un coccio e me lo presi…
Di ciotola o boccale – un tempo gaia
e utile forma, forse in cucina,
magari aperta la finestra al sole,
sulla campagna… E lo scagliai anch’esso.
E pensai: fino a questo io rassomiglio?
Passò una barca con la vela gialla
che il mare intorno mi sembrò tingesse.
Silenzio estremo… Ebbi della morte
– che non volevo – sorta di rimorso
per non averla eletta unica diva.
Ma continuare a amare – più di lei –
altra diva… Che mi si muove intorno
e m’illude soave col suo viso.