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A rischio della vita,
di Giovanni Testori
Sull'atroce morte di Pasolini s'è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte dl un'unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare "diversi".
Allora, quando Il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel "qualcuno" che ci illuda, fosse pure per un solo momento, dl poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l'inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l'altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere dl fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s'abbia neppure il tempo per fare dì questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita.
Del resto, chi potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell'angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d'intendere.
Si parte; e non si sa dove s'arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l'incontro, l'illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s'è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l'unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella "nientità" della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s'allungano; più difficile si rende la possibilità che quell'incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la "via crucis" della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, dl quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?
Il mio inferno,
di Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini si lasciò sfuggire per la prima volta l'accenno a un manoscritto che voleva riproporre i primi canti dell'Inferno dantesco, una sua Divina Mimesis, nella sala della Balla al Castello Sforzesco di Milano durante il festival dell'"Unità" del 1974 in un dibattito sui giovani. Nel gennaio dell'anno dopo, Pasolini sciolse il suo contratto con la Garzanti e passò all'Einaudi con cui pubblicò La nuova gioventù e Il padre selvaggio (apparso recentemente nei "SuperCoralli"). La divina Mimesis, che egli considerava a tutti gli effetti un libro compiuto, una specie di modello di rilettura dei classici su cui tornare magari in un secondo momento, uscirà a fine novembre nella collana "Einaudi Letteratura". Qui pubblichiamo, come anticipazione, il VII Canto: Pasolini-Dante, accompagnato da Pasolini-Virgilio, incontra una particolare specie dl peccatori: conformisti, piccolo-borghesi, uomini di cultura...
Prefazione. Dice Pasolini nella prefazione: "Do alle stampe oggi queste pagine come un "documento", ma anche per fare dispetto ai miei "nemici": infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all'inferno. Iconografia ingiallita: queste pagine vogliono avere la logica, meglio che di una illustrazione, di una, peraltro assai leggibile, 'poesia visiva'". P.P. Pasolini.
VII Cantica. Un cartello indicatore, nuovo di zecca, col paletto tinto di acrilico blu e il riquadro di rosso, portava la scritta alquanto deprimente: "Opera incremento pene infernali (Oipi) zona troppo continenti, o riduttivi, settore 1. Conformismo".
"In questa zona", mi disse la mia guida, vergognosamente, come sempre, per il terrore di decadere ai volgari dati di fatto, cosa che inceppava in lui la lingua e gliela sbriciolava nella gola, "in questa zona non vedrà pene, in senso figurativo, come dire... I conformisti piccolo-borghesi hanno compiuto anche, e insieme, peccati più atroci che quello di essere conformisti... Cioè: il conformismo fu la base necessaria dei loro peccati, l'indispensabile premessa. Per conformismo ci furono, ad esempio, dei religiosi praticanti, dei benpensanti del tutto dediti al lavoro e alla famiglia che finirono col farsi fare le fodere delle poltrone con la pelle degli ebrei gassati...". Quasi esausto per questa battuta, a suo modo conformista, cioè priva dell'impeto della novità scandalosa - prodotto diretto di una cultura, quella della resistenza, che egli sapeva bene trovarsi ormai in uno stato di piena istituzionalità - egli tacque per un po', e, aggrottato e colmo di pena, estrasse dal taschino dei calzoni un tubetto di optalidon e ne inghiottì una pillola. "Coloro che qui sono condannati, sotto questi cartelli", spiegò ancora, "non furono dei piccolo-borghesi se non per nascita, per definizione sociale eccetera. In realtà essi avevano, come si dice, gli strumenti necessari per conoscere il loro 'peccato', sapevano cioè come non essere conformisti. E invece lo furono". Camminammo per quella bella strada, alta sulla palude: le ringhiere di metallo bianco, i ponticelli svelti sulla belletta, e massicciate di cemento su cui, sotto, premeva folta e invincibile un'erba selvatica piena di ortiche. "In questo luogo", aggiunse laconicamente la guida, "la sola pena è esserci".
Una sbarra simile a quella dei passaggi a livello delle strade ferrate, o dei confini tra Stato e Stato, era abbassata, sulla strada, con le sue strisce bianche e rosse, appena dipinte, ancora odorose di vernice. Dietro la sbarra, la strada si allargava, diventava un immenso piazzale di asfalto, di quelli che si stendono davanti agli stadi o alle grandi piscine, per il posteggio di migliaia e migliaia di automobili: ma nelle ore in cui non c'è partita ed è il crepuscolo e, col crepuscolo il vuoto... Nient'altro se non l'asfalto e l'immensità, empiti dalla malinconia del sole che si ritira, e colpisce quasi accecante le cose vicine, mentre quelle lontane sfumano in un chiarore spettrale che le rende vaghe e senza limiti.
Accanto alla sbarra abbassata, c'era una costruzione di cemento, abbastanza sobria ed elegante: dietro, verso la distesa della palude, c'era perfino la parvenza di un giardino, all'inglese, sia pur triste come tutte le cose statali. Davanti a questa costruzione - ufficio di dogana e caserma - c'erano le demonie. Sì: in tutta quella nuova zona, come abbiamo visto a cura dell'Oipi, si stavano infatti sperimentando nuovi reparti di polizia infernale femminile. Evidentemente la mitezza dei peccatori di quel settore giustificava tale esperimento: si trattava per lo più di uomini di cultura, abituati a starsene zitti nei momenti di pericolo, e a parlare, soltanto a parlare, nei momenti di relativa tranquillità. Le demonie, come tutti i novizi, si prendevano il loro incarico molto a cuore. I loro occhi erano carichi di una luce nera e nemica, ancora peggiore dl quella dei demoni maschi. Il terrore di essere impari al compito le rendeva evidentemente feroci. Ci odiarono subito per l'eccezione a cui le costringemmo: cioè ad alzare le sbarre per far passare due estranei. Aprirono, e noi entrammo nel piazzale, parcheggio sconfinato senza una macchina, perduto nella penombra.
Quivi era radunata una grande folla di gente, tutta insieme. Fra la grande folla che, sparsa e divisa, nelle lunghe sere in cui tardano ad accendersi le luci, si ritrova, appunto, nei piazzali, nei parchi, sotto i castani estivi dei lungofiumi, nelle terrazze degli attici tra piante grasse, nelle distese dei tavoli dei bar all'aperto davanti ai chioschi dei quartieri ricchi. Oppure negli interni - già raccolti nell'aria della cena o dell'immediato dopocena - con le finestre ancora spalancate sul buio del crepuscolo appena sceso e minacciosamente dolce.
Come venuta appunto da tutti quei luoghi - dalle capitali, Roma, o Londra, o Parigi, o dalle grandi città di provincia - tutta quella gente era accalcata insieme, nell'ombra indistinta, sussurrando.
"Oh, Pasolini!", sentii chiamarmi, come per l'appunto ci si chiama tra la folla di un cocktail con gentilezza speciale. Quel bel "Oh, Pasolini" era molto dolce. Ma proprio autenticamente dolce. Non era nel settore degli ipocriti che mi trovavo. Si trattava di un gruppo di donne. No, di signore. Le guardai col mio sguardo miope, che, per la timidezza, si fece annoiato, o restio, o, in qualche modo, non riconoscendo, irriconoscente. "Tutta questa gente", disse il maestro, "ha peccato contro la grandezza del mondo quasi per istinto. La riduzione di tutto è avvenuta in loro per una specie di difesa... Ah", sospirò, "non erano in grado di raccontarsi la grande affabulazione... di fare gli orlandi e i donchisciotti", e sorrise, fiaccato ancora una volta dalla sua generosa incapacità a usare una lingua corrente, "e così, furono vas di riduzione..." Gli si tese la bocca nel sorriso da discorso da caffè, povero maestro mio, impavido, nell'assunzione a un livello di grande cultura e di grande passione, della banalità. E continuò, per pura gentilezza, per disinteressato amore della conoscenza: "È un peccato nato con la piccola borghesia, dopo la grande industrializzazione, dopo la conquista delle colonie. Prima, la gente piccola era piccola: non voleva esserlo. Insomma... tutta questa gente, per paura della grandezza, è istintivamente mancata di religione. Riduzione, spirito di riduzione, è mancanza di religione: questo è il grande peccato dell' epoca dell'odio. E infatti in nessun'altra parte dell'inferno vedrà tanta gente. Le masse, amico mio!, che hanno eletto a religione il non voler averne, senza saperlo".
Arrivò la demonia con la birra. Nemica, la pose sul tavolo, con lo scontrino, e se ne andò. "Avrai notato il grande numero delle donne... Eh, per forza. In loro la riduzione, come si dice, è antica come la specie: esse difendono la razza, oltre a sé, poverine. Ed è perciò che in esse il conformismo ha sempre una certa grandezza. È, in fondo, la loro religione. Ma i maschi!", e gli occhi gli si riempirono di una malinconia simile allo spasimo di un dolore fisico: era ben nota la facilità con cui gli si stringeva il cuore, e ora evidentemente il destino di quei maschi, che erano riusciti a portarsi nella tomba, intatta, la loro piccolezza di borghesi... di vas di riduzione... lo sconvolgeva.
"Beh, ciò che in tutto questo mi stringe il cuore è il pensiero di quanto odio è costata loro la salvaguardia della loro meschinità. Quelli che ha visto si sono limitati alla difesa di essa. Ma mai in tutta la storia si videro peccati così orrendi come quelli commessi dalla borghesia in questo secolo per difendere il proprio diritto a odiare la grandezza. Penso a Buchenwald e a Dachau, a Auschwitz e a Mauthausen". E ancora una volta la sua autentica indignazione era come stinta e umiliata dall'invecchiamento subito col trascorrere degli anni. Ma c'era. È con essa, in essa, ogni possibile vera poesia.
Così stemmo a lungo in silenzio, persi dalla commozione che dà la ripetizione - in speciali circostanze o in speciali stati d'animo - di qualche vecchia verità ancora buona. Era difficile interrompere la comunione che si era stabilita fra noi nell'indignazione, mite e conoscitiva: qualsiasi parola aggiunta sarebbe stata di inutile contorno...
Ma bisogna sempre interrompere tutti gli incanti anche quelli della mitezza e della conoscenza, i più sacri dell'uomo. Bisogna fare come faceva il Cristo dei vangeli che, appena stabilito un incanto - la pausa contemplativa dopo una parola che poteva essere senza fine interrogata e pensata in silenzio - ne stabiliva subito un altro, che non dava pace, quasi con crudeltà.
"Dopo questo Motel, comincia una parte a sé della zona dei riduttivi, un settore separato, come vedrà. Vi incontreremo, è vero, ancora dei riduttivi - o troppo continenti - ma in loro l'errore ha trovato una spiegazione e una coscienza: si è elevato in qualche modo alla dignità di religione. È tuttavia una religione degradata, perché, come le sarà facile capire, ha dovuto dare grandezza a una parte della realtà soltanto a patto di sacrificarne un'altra... Ma andiamo...".
Con fervore - con i suoi gesti di sportivo angosciato - si alzò, lasciò alle spalle il Motel, si avviò per la grande strada, coi suoi paracarri, la sua siepe centrale, i suoi marciapiedi, le sue linee divisorie ora unite ora tratteggiate, le sue piazzole d'emergenza, i suoi ponti eleganti sui sordidi, decrepiti canali di fango.
Ma man mano che ci avvicinavamo al confine, con la sua sbarra e la sua costruzione poliziesca, l'aria si faceva sempre più buia. Come una notte che scendesse all'improvviso, con la rapidità di un temporale. Tutto fu ingoiato dal buio. E si fece appena in tempo a vedere il cartello indicatore: il solito Oipi, seguito stavolta dalla scritta: "settore autonomo raziocinanti: irrazionali e razionali".
Le sbarre le sollevarono nel buio più fitto, al lume di sinistre pile, le demonie chiuse nel loro feroce silenzio di novizie: e ci lasciammo alle spalle il dardeggiare di quei lumi.
Camminavamo ormai, nel buio più fitto.
L'altra sfumatura del peccato della normalità (o della continenza), dopo quella del conformismo, è quella della volgarità. L'accezione di questa parola va forse precisata prima di entrare nel nuovo settore, appunto dei volgari, dietro le sbarre abbassate, con le diavole scontente, dagli occhi obliqui. La volgarità è il momento di pieno rigoglio del conformismo... L'ambiente che si parò davanti ai nostri occhi non era molto diverso da quello che avevamo lasciato. Nel regno delle ombre è naturalmente più difficile cogliere le differenze che ci sono tra Roma e Milano. Ma il verde della campagna e il grigiore del cielo erano quelli del Nord. Dietro la folla. che composta e decente, un po' provinciale, alzava, cosparso di qualche riso, il suo brusio, si sentiva la grande fossa contadina del Po in magra. In un ambiente simile, a Roma, per esempio in un ricevimento in Quirinale, con la luce sfacciata del pomeriggio che entra dai finestroni, c'è sempre qualcosa di un po' sporco e levantino per cui il cuore può stringersi. Qui no. Un conformista a Roma, in Quirinale, può anche mostrare, volente o nolente, i suoi punti deboli e le sue miserie... può mostrare, come un lebbroso, le sue piaghe, la sua povera immoralità purulenta, e può perciò suscitare un sorriso o un sospiro di pietà. Invece i volgari del Nord sono morali. Ciò che è repellente in essi è proprio tutto ciò che di lecito e consentito include il loro moralismo di solida tradizione.
L'altra vittima ha diciassette anni,
di Cristina Mariotti
Diciassette anni e quattro mesi. Nato al Prenestino, vissuto al Collatino, educato al Tiburtino; era l'incarnazione di quel modello di degradazione giovanile, "criminaloide" e cinica tante volte teorizzata e illustrata da Pasolini nei suoi più recenti interventi. Pino Pelosi era "buono come il pane", dicono di lui i suoi amici. Figlio di un commesso e di una curatissima e giovanile "colf" a ore, non aveva mai avuto altri messaggi pedagogici che qualche pedata e ripetute scariche di ceffoni. Poi tanta libertà. I suoi manuali formativi: Tex, i fumetti neri, le avventure di guerra. I film li preferiva con tanti cannoni, assalti di trincee e un sottofondo sonoro di mitragliatrici crepitanti e aerei in picchiata. Se fosse nato in America, diceva, avrebbe fatto il sottufficiale dei "marines". Esperienze di lavoro poche e tutte fallimentari. (Come garzone di fornaio non era andato bene, tentava di fregare il cliente e il padrone; come aiuto carrozziere era un inetto: si pestava le dita invece di martellare le lamiere; come operaio era un disastro: aveva provocato una mezza catastrofe giocando con una gru che non doveva neanche sfiorare). Si era messo sulla strada a quindici anni e a diciassette aveva già imparato molte cose: a rubare una macchina e a saperla rivendere e a battere il marciapiede con i "schiacciabozzi" che si piazzano la sera al Circo Massimo, alla stazione Termini e al Lungotevere delle Navi in attesa di clienti generosi e discreti. Pino Pelosi non era ancora un professionista smaliziato. In fondo era troppo intriso di cultura rozzamente maschilista per essere un buon "prostituto": pensava troppo ai duri e ai cow-boy, ai tenenti Rogers e alla "squadriglia dei temerari" per dimenticare i tabù. Si dava ma non si concedeva, non era un eclettico, un "montone-culattone". Al suo "onore" ci teneva. Ha detto al magistrato e agli investigatori, nel corso della sua confessione fiume: "Voleva invertire le parti. Ho detto di no. Lui mi ha colpito urlandomi porco. Io porco. E lui che era? Allora non ci ho visto più e mi sono messo a colpire con tutta la forza che avevo". Sapeva che il suo cliente era Pasolini? Il ragazzo ha risposto di sì. "E certo, altrimenti perché ci sarei andato?".
E ogni giorno ci ammazzano a decine,
di Angelo Pezzana
Angelo Pezzana ha scritto a nome di tutti i militanti e le militanti del "Fuori" (Fronte unitario omosessuali rivoluzionari) presenti al congresso radicale, questo intervento.
La morte orrenda di Pier Paolo Pasolini ci riporta ancora una volta al discorso della violenza che ogni giorno viene commessa nei confronti degli omosessuali. Ogni giorno vengono assassinati, aggrediti, "suicidati" decine e decine di omosessuali, dal nome sconosciuto e che finiscono perciò solo nella cronaca nera. Noi omosessuali infatti siamo sempre stati solo "cronaca nera". Il nostro ambiente è "torbido", "squallido", e se qualcuno di noi ci rimette la pelle, beh, è un finocchio di meno. Nessuno si è mai posto il problema del perché gli omosessuali vadano a battere nei gabinetti delle stazioni, nelle ultime file di certi cinema, nei parchi o nei boschi. Nessuno ha mai detto che ci hanno "costretti", che dobbiamo vivere in modo così drammatico la nostra sessualità perché la società eterosessuale e maschile in cui viviamo non ci ha mai concesso altri spazi. Noi siamo quelli di cui è meglio non parlare, a meno di non essere ammazzati violentemente, noi siamo solo quello che l'immagine pubblica corrente, un'immagine mistificata e manipolata da "tutti" i mezzi d'informazione, vuole che siamo. Questa volta è toccato ad un omosessuale famoso, e dalle pagine interne di cronaca nera l'omosessualità è passata alle prime pagine di tutti i giornali. Non come dibattito ed informazione seria, politica, ma solo perché è stato ammazzato un omosessuale conosciuto da tutti. Noi vogliamo commemorare diversamente Pier Paolo, ci vergogneremmo profondamente se lo facessimo in altro modo. Chi parlerà, chi scriverà di Pier Paolo Pasolini omosessuale? Chi dirà che è morto come muoiono migliaia di omosessuali? Noi siamo profondamente stufi di tutte queste mostruosità. Noi riteniamo responsabili della morte di Pasolini, al di là del criminale che lo ha ucciso, tutti i cittadini che continuano a bearsi della loro ignoranza del problema, o a considerarsi tranquilli solo perché si sentono a posto in quanto "democratici". Consideriamo responsabili del massacro di Pasolini gli artefici di tutta quella cultura psicanalitica e psichiatrica che ci raffigura come dei malati e contribuisce così a rafforzare il ghetto in cui ci hanno rinchiuso, consideriamo criminale Ignazio Majore, antifemminista ed antiomosessuale che dalle colonne di "Paese Sera" ha scritto giudizi vergognosi su Pasolini e sull'omosessualità. Consideriamo criminali tutti quei mezzi d'informazione che non hanno ancora capito il dramma spaventoso e fatto di oppressione in cui vivono gli omosessuali. In questo modo pensiamo debba essere ricordato Pier Paolo Pasolini, con un senso di amore e rispetto verso la sua memoria e verso il ricordo di tutte le migliaia di omosessuali sconosciuti, torturati, massacrati, uccisi come lui.
[Modificato da CorContritumQuasiCinis 14/10/2005 18.26]