Tilia da AMORI di Carlo Dossi

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vanni-merlin
00mercoledì 14 giugno 2006 23:06

da AMORI di Carlo Dossi


SECONDO CIELO.

Tilia


Ancor prima che il nostro amore prenda un nome, amiamo. Vi ha una età, che in alcuno confòndesi colla infantile, in cui l'ànima, anelante di congiungersi ad altra e non trovando chi incontro le venga, dona parte di sè perfino ad oggetti della natura inorgànica, i quali, sotto il suo soffio, si fanno quasi sensìbili: non potendo raddoppiarsi, si divide. Adelàide Maraini, dalla mano che sculpendo pensa, ha espresso plasticamente questa età, questo sentimento, in un gruppo di marmo "la preghiera a Vènere." Una giovinetta sedicenne, in cui il succhio vitale pulsa in tutte le vene e ne inturgidisce le mammelle e le labbra, accorre, si aggrappa ad un'erma di arcàica divinità, tagliata a rette ed a spìgoli. Nulla più appassionato e carnale della fanciulla; nulla più indifferente e petrigno del simulacro che essa abbraccia: eppure, il masso, a contatto dell'amore, diventa amore, e assume le sembianze di Vènere. Col vuoto dinanzi a noi, senza scopi, il nostro desiderio si perderebbe negli spazi: un velo, un'ombra, un sogno, che esso trovi sul suo cammino, bàstano a trattenerne la dispersione e a rèndercelo come un'eco, come un riflesso.

Qual bimbo, e, più ancora, quale bambina non fùrono innamorati del loro fantoccio o della loro pupazza e non si coricàrono, non mangiàrono, non piànsero o sorriser con essi, tanto più appassionati e sollèciti intorno al loro balocco quanto esso men riproduceva il vero e però più lasciava alla fantasia libero campo di migliorarlo e quasi di crearlo? Già ti narrài - amica geniale - della regina di cuori, mia prima fiamma. Di sìmili amori, altri ebbi e non pochi, e benchè, per la lontananza degli anni e per gli occhi della memoria che vanno affievolèndosi, io oggi li scorga velati come da nebbia, distinguo ancora tra essi una marionetta in vaporosa veste di ballerina, stelleggiata di talco, che, piroettando, fisàvami col verniciato suo sguardo, acceso roteante fiammifero, e una salutatrice magoghetta cinese che sì graziosamente moveva la testolina dal lungo ago crinale... - cari amori di legno, di stoffa, di porcellana, che abitàrono, a tratti, il cuor mio e ne ingannàron la fame.

[Chi lo direbbe? Tra gli oggetti de' miei innamoramenti, c'è anche un orologio. Pur nella solitùdine ebbi istanti ancora più solitari. Anche il deserto contiene stese di maggiore desolazione, dove traccia non scorgi di carovana e di belve, orme ed ossa. Studente in una città, nella quale non conoscevo persona e non osavo conòscerne, passavo intere giornate senza uscire di càmera, senza staccarmi dal tàvolo. Per vedere qualcuno, per avere una parola altrùi dovevo farmi malato e mandare pel mèdico. Bisognoso allora di un cuore che al mio si accompagnasse nè decidèndosi esso a venire a mè dalla cappa del fumo o dal buco della serratura, lo trovài nell'orologio a pèndolo del caminetto, un orologio napoleònico dal vibrato tic-tac. E il monòtono monosillàbico bàttito prese tosto modulazioni di lingua. Era una voce che mi diceva continuamente quanto io bramava di udire "ti amo, ti amo". E da quell'ora non fui più solo.]

Così, pei mòbili grandi e piccoli, vissuti con mè o con i mièi genitori o coi padri, per quanto lontani, de' padri mièi, io ebbi ed ho profonde affezioni. Perocchè mi sembra che parte dell'anteriore mia vita e di quella di chi mi die' sangue e nome, sia in essi materialmente indugiata. Quel pìccolo crocifisso, incrostato di madreperla incisa, che posa sul mio scrittojo, io non lo posso, nella mia mente, distaccar dalle mani, anch'esse in croce e perlacee, di Anna Camilla, mònaca bionda e da trecent'anni mia zia, consùntasi giovanìssima tra gli incendi divini e i rimorsi della castità: quel ventaglio dalle stecche d'avorio dorato e dalla pittura di rosei grassocci amorini messi all'asta fra dame in guardinfante e cicisbèi in parrucca, mi svèntola ancora in viso le risate mondane e il profumo di muschio e peccato della incipriata quadrisàvola mia, Matilde: quel fazzoletto dagli stemmi tarmati, mi sembra, quando lo spiego, evaporare acri làgrime delle infinite piovute dai negri ed alteri occhi di mia trisàvola Marìa Lucìa, piangente il fulvo marito trafitto sull'ucciso cavallo ne' campi di Slesia, la corazza lucente ai raggi, invano pietosi, della luna.

E quando libo in quel càlice cristallino di Boemia, intagliato a cacce di irsuti cinghiali e di più ìspidi cacciatori, sento come avvicinarsi e congiùngersi alle mie le labbra di mia bisnonna, la tonda e butirosa Marìa Rosalìa, ed è un bacio attraverso un sècolo: quando guardo quella machinosa poltrona di damasco verde smontato, la veggo ancora occupata dalla addormentata mia nonna nella sua veste eternamente nera - la buona nonna Luigia, sì bella pure in vecchiaja, sorridente nel sonno, ringiovanita nei sogni. Che più? io m'imàgino, a volte, seduto su' no sgabellino a' suòi piedi ed ascolto, insaziato, lei che novella della rivoluzione francese e batto le mani di gioja, udendo della sua fuga, entro una gerla, dal monastero e da Parigi; e singhiozzo al racconto della mano della sua compagna Isolina, mano bianchìssima, inanellata di gemme, recisa e gettata dalla repubblicana bordaglia tra le spaventate educande. Un passo più innanzi sulla via delle allucinazioni, e rièccomi cullato dalla canterellante mia mamma in quella cuna di giunchi che attende inutilmente un mio bimbo.

Oh letti in cui tanti parenti mièi sono nati e son morti, tàvoli che li riuniste a banchetti di festa, sedie che li stringeste a commemorazioni di duolo, scrittòi che ne componeste le ire, specchi che ne rifletteste gli aspetti, io vi amo, e benchè tarlati e fessi e cadenti, vi amerò sempre. Vecchi servi fedeli di casa mia, partècipi delle gioje nostre e dei nostri dolori, non vi metterò mai - state certi - alla porta.

Ma, tra i mòbili, i libri èbbero sempre le mie predilezioni. Nè quì parlo dell'ànimo di ciascuno di essi, ma della sola esterna lor forma. Amài i libri ancor prima che li sapessi lèggere e mi ricordo della commozione riverenziale con cui li guardavo allineati nelle vaste biblioteche - reggimenti d'ingegno pronti a muòver battaglia alla ignoranza, colla differenza, rispetto agli altri soldati, che mostràvano il dorso prima del combattimento, non dopo. E oggi pure, in cui lo studio mi ha quasi al punto tornato donde partìi cioè alla tàbula rasa, apro talvolta la mia minùscola librerìa e li percorro con li occhi, disopra le rilegature. Parmi di avere dinanzi una folla di amici - amici che non tradìscono. E io li palpo carezzevolmente sul dorso come generosi destrieri e li bacio anche, e, sedèndomi, qualche volta, sullo sporto della librerìa, appoggio la mia testa contr'essi e lì rimango beato, come sulla spalla di una donna cara, quasi assorbendo - feconda pioggia - il lor genio, quasi sentendo il mio ferro, al contatto della loro magnete, farsi magnete.

Senonchè, un'altra e più possente voce d'amore a sè mi lusinga e m'attràe. È la voce della terra, la gran genitrice degli uòmini e degli Dei, come la dìssero i nostri antichi; la grande amante, come io, in aggiunta, la chiamerèi.

L'uomo non capitò sulla terra, come Cristòforo Colombo nelle Indie occidentali, quasi venuto d'altro pianeta e in atto di glorioso predone; ma si trovò, lentamente, dalla medèsima terra formato e modificato; prende quindi da essa le ragioni della sua esistenza, il movente de' suòi sentimenti, gli indirizzi delle sue azioni, cosicchè l'uomo, di faccia alla terra, si dovrebbe chiamare, non un conquistatore ma un conquistato. Dirò meglio però: l'uomo e la terra, come Filèmone e Bàuci sotto un ùnico tetto, si comàndano e sèrvono reciprocamente e sempre corre tra loro uno scambio, non di materia soltanto, ma di pensieri e d'affetti, sue vibrazioni. Montesquieu ha fondato su ciò la sua teorìa del clima e Buckle la sua teorìa geogràfica, ed è pure per ciò che nell'uomo e specialmente in colùi, nel quale il sentimento originario non è affievolito o distratto, si sommove, si risveglia, in presenza di questo o di quel brano di paesaggio, un fondo d'insospettate memorie, un senso, quasi dirèbbesi, di parentela preumana.

Oh quali rapimenti d'amore ci sopraccòlgono sulla spiaggia, al chiaro di luna, quando il mare ruòtolasi e striscia a pie' nostri, come tappeto di diamanti e di perle che copra movèntisi forme di donne! quali pugnaci entusiasmi ci assàlgono sotto un cielo in tempesta, mentre il mare sferza - negro toro furioso - la coda sua, contro lo scoglio che ci sorregge, sibilando, muggendo tormentosamente, come il cuor nostro! E olìmpici orgogli ci salìrono, quale fumo d'incenso, alla fronte, quando, in cima di un monte, non ad altro vassallo, e in una ebbrezza di puro àere, guardammo in giù le bassure del mondo e la miseria degli uòmini, e tenerezze improvvise ci rattènnero il passo e c'inumidìrono il ciglio presso lembi di terra verdi e riposti, nei quali avremmo sì volentieri giaciuto sovra le zolle ùmide e intatte, o, più, ancora, sott'esse.

Nè la sovrana natura ci dòmina solo con gli ampli suòi abbracciamenti ma anche con i più tenui sorrisi e le più fuggèvoli occhiate. L'agucchiatrice che sul davanzale del solitario abbaino, donde non vede che tègole e gatti, coltiva pochi vasi di fiori, sente per essi qualche cosa di più di un'affezione botànica: il prigioniero che avverte l'arrampicarsi di un filo di èdera verso la sbarra della muta sua cella, ne segue con trepidanza la faticosa ascesa ostinata e lo attende, non come ramicello di pianta, ma qual vivo èssere che venga a recargli i conforti dell'amicizia e l'odore della libertà.

Ed io pure, per l'umanità verde, sentìi, tra non poche amicizie, una vera passione. Nel giardino della mia nonna, sorgeva - ùnico àlbero - una Tilia grandìflora. A mè piccino, sembrava immensa, fors'anche perchè il giardino era mìnimo (un prato come una sala) che essa tutto copriva della sua ombra. Nella frondeggiante chioma convenìvan dì e notte i pàsseri del vicinato ai loro pettegolezzi e ai lor sposalizi, e, quando fioriva, vi aliàvano àurei sciami di api. Sotto di lei io portavo, nella buona stagione, dozzine di libri, e disteso sull'erba, appoggiavo contro il liscio e molle suo tronco - dalla corteccia cara agli amori e alle lèttere - il capo, come Amleto sul grembo di Ofelia. Pispigliàvano i pàsseri sovra di mè e si baciucchiàvano, rombàvan le api, di miele gràvide, tra le radici celesti; un olezzo intensìssimo si spandeva d'intorno e dal ligneo tronco quasi emanava una respirazione. E allora aprivo i mièi libri, ed essa, la buona pianta, li leggeva con mè.

Senonchè, dopo la verde e la rossa, veniva la gialla stagione. Le cuoriformi barbate foglie della mia pianta cominciàvano ad ingiallire, ad accartocciarsi, a cadere. Oh quale provavo dolore, veggèndola, l'amata mia, obbligata a svestirsi, proprio quando la nonna indossava a mè il primo giubboncino di lana! qual mi stringeva timore che non avesse più a rinfogliarsi! come assistevo con pena, dietro i vetri delle nostre calde stanzette, al fioccar della neve che facèa incanutire anzi tempo e piegare que' spogli rami imploranti il sole! Imàgina dunque con quanta ansietà, al rintepidirsi dell'aria, io spiassi lo sgelo del verde sangue della mia Tilia, e come gioissi scoprendo il suo primo germoglio!

Ma, una primavera, la vaga pianta restò assopita nel risveglio dell'anno. Tutto già rinverdiva e metteva fiore intorno a lei. Essa sola continuava a protèndere nudi rami e, già sì presta a saldare le sue ferite, mostrava ora nel mòrbido legno piaghe irrimarginàbili. Si consultò il giardiniere di una villa vicina. Come una mèdica celebrità, chiamata al letto di un morto, il giardiniere pronunciò solennemente quella sentenza che chiunque, salvo un amante, avrebbe anticipata. Tuttavìa, per contentare mia nonna, o piuttosto i gonfi occhi del suo nipotino, egli si arrese a tentare una amputazione senza risparmio e senza speranza. Pòvera Tilia! Decapitata, con due moncherini scheltriti per aria, rimase lì in mezzo al prato, in sùpplice atto, come il San Jèmolo della Legenda àurea. Ma invano! Anche lo stormo de' neri pàsseri l'avèa abbandonata, e già la nonna e la cuoca confabulàvano collo spaccalegna. Io solo, ne' mièi affetti ostinato, giravo, coll'inaffiatojo, intorno alla insensìbile pianta e le versavo continuamente al piede aqua e làgrime, e sospiravo aspettando che la sua vita e l'amore, mercè mia, rigermogliàsser per mè.


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