Senza Tetto

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MaryDG
00sabato 13 settembre 2008 07:03
Disabile e senza tetto lui, incita lei...Condivisione e aiuto nell'estremo disagio
Senza Tetto

Era un pomeriggio autunnale con un cielo cupo e plumbeo che avvolgeva tutto. Le prime gocce d’acqua cominciarono a cadere, dapprima lente poi sempre più insistentemente. L’acqua, fittissima, avvolgeva i tetti dei palazzi e i loro comignoli già fumanti per un freddo sopraggiunto così in aspettato. Le mura delle case e degli edifici sembravano sputare acqua, tanto ne cadeva e tanta n’era impossibile far scorrere via.

Acqua sulle insegne, sulle vetrine dei negozi, acqua che schizzava dalle pozzanghere, e che infradiciava i passanti.
Chi si stringeva il bavero dell’impermeabile, chi tentava di domare l’ombrello, tutti passavano veloce vicino al grande edificio della Stazione Centrale. La stazione dei treni: classica e imponente davanti, povera e desolata lungo le fiancate dell’edificio stile neoclassico, fino al ‘deposito vecchio dei bagagli ormai in disuso. Un corridoio lungo e semibuio, pieno d’anfratti e rientranze, la volta, inesistente, sembrava facesse scrosciare ancor di più l’acqua piovana.

Quel posto aveva preso il nome de ‘Il Covo dei Barboni. Lo affollavano, soprattutto d’inverno: barboni, diseredati, tossicodipendenti, extracomunitari. Tutti avvolti nei loro poveri indumenti, con i loro cartoni, ormai inservibili sotto quel diluvio.
Pradhalf se n’andava in giro con un gran telo plastificato, trovato chissà in quale cassonetto, che gli era utilissimo in giornate come quella.
Quel nomignolo glielo avevano dato gli altri barboni del Covo la prima volta che lo avevano visto, forse più di dieci anni prima. Era un tipo molto pratico ed ingegnoso, s’industriava con tutto; e così vollero chiamarlo: Prad, da pratico. Qualsiasi altro aggettivo finiva col cozzare con la sua menomazione fisica, in quanto lui ero solo half, era mezzo uomo. I suoi monconi di cosce quasi non si vedevano, quando se ne stava rannicchiato per terra vicino alla sua sedia a rotelle.
In quel pomeriggio piovoso aveva ancorato il telo plastificato su dei chiodi in un anfratto e lì, se ne stava al riparo vicino alla sua fedele carrozzina, entrambi all’asciutto.

La gente continuava a passare velocemente oltre l’angolo, da quello stesso angolo veniva verso il Covo una figura indistinta, bardata di nero dalla testa alle caviglie. Si diresse verso il luogo più asciutto che riuscì a scorgere: quello riparato dal telo plastificato di Pradhalf. Anche lui l’aveva vista e aveva cominciato ad osservarla man mano che si avvicinava.
Era una ragazza; aveva il viso rigato dalla pioggia, i capelli corvini bagnati attaccati alle guance, l’aspetto smagrito, stanco come se non mangiasse da giorni. Procedeva con passo malfermo, si accostò all’anfratto reso asciutto dal telo di Pradhalf, sembrava indecisa, poi si chinò e gli chiese:
«Mi fai posto?»
Era intirizzita e non riusciva a smettere di tremare.
Pradhalf puntò i pugni per terra e si spostò giusto quel po’ per farle spazio.
La ragazza si accovacciò alla meglio in quell’angusto spazio che da lontano le era sembrato più largo, ma almeno adesso era all’asciutto. Cominciò a fissare Pradhalf poi fece una piccola smorfia, quando il suo sguardo cadde oltre la cintola dei pantaloni dell’uomo poi ebbe ancora la forza di chiedere:
«Come ti chiami?»
«Pradhalf» Sbottò l’uomo con un grugnito.
La ragazza non disse nulla, continuava a tremare intirizzita.
Passarono le ore e scese inesorabile la sera, la temperatura si era ulteriormente abbassata e l’acqua continuava a venir giù a secchiate.
«Pradhalf…ho tanto freddo. A…aiutami…»
La ragazza si era accasciata sulla spalla del suo compagno di sventura e non disse altro.
«Avanti su! Tirati su! Svegliati!»
La ragazza non rispondeva. Pradhalf le toccò le mani che erano gelide come il marmo. Provò a distenderla in quel poco spazio all’asciutto che era rimasto e le allungò le gambe.
Tirò via le mani da sotto le gambe della ragazza: c’era del sangue. Altro sangue cominciava a vedersi per terra. La ragazza aveva un’emorragia. Con impeto Pradhalf si arrampicò sulla sua carrozzina, staccò il telo plastificato dalla parete e con esso cercò di avvolgere la ragazza al meglio che poteva.
Si frugò nella tasca: poche monete per fare una telefonata, lì vicino un telefono.
Compose il numero e all’altro capo una voce: «Pronto?»
«Sono io. Avevi detto che potevo chiamarti solo in caso di vita o di morte. Manda un’ambulanza al Covo dei Barboni».
L’ambulanza fu lì in poco tempo e gli infermieri caricarono la ragazza.
«Fatemi venire con voi…Tiratemi su!» Strillò agli infermieri che lo caricarono sull’ambulanza con tutta la carrozzina, anche se era contro il regolamento.
«Che cosa è successo?» Gli chiesero durante il tragitto.
«Ha cominciato a perder sangue, non so altro.»
Gli infermieri chiamarono la centrale operativa
«Serve del sangue, molte sacche, emorragia in atto.»
Cominciarono ad infonderle liquidi e derivati ematici.

Arrivarono in ospedale in pochi minuti. La barella con la ragazza scomparve nell’area d’emergenza.
Pradhalf rimase ad aspettare: ‘La sala d’aspetto di un ospedale era sempre più calda della strada ’ pensava tra se.
Attese delle ore prima che qualcuno si decidesse a dirgli qualcosa circa la ragazza. Poi un medico del Triage lo avvicinò e gli chiese
«Senta. Ha accompagnato lei la ragazza dell’emorragia?
«Si»
«Il suo nome?»
«Pradhalf»
«E poi…?»
«E...basta»
«Il nome della ragazza?»
«Non so nulla di lei. L’ho conosciuta qualche ora fa. Mi si era accovacciata vicino all’asciutto, era intirizzita, tremava; si era appoggiata su di me, credevo che dormisse, ma non sono riuscito a svegliarla. L’ho distesa e ho visto il sangue poi sono corso a chiamare l’ambulanza.»
«Le ha salvato la vita» Continuò il dottore «Qualche ora più tardi e sarebbe morta»
«Come sta adesso? Cosa ha avuto?»
«E’ incinta, ha avuto un’emorragia, ma non ha perso il bambino. Adesso deve riprendersi, la terremo qui qualche giorno. Ci ha fornito i suoi dati, abbiamo controllato: sono falsi. E’ maggiorenne ed ha il diritto all’anonimato. Vuol provare a parlarle lei?»
«Posso vederla?»
«Vada pure. Sala numero 3; laggiù infondo»

Quel dottore così disponibile gli aveva indicato la stanza. Pradhalf seguì con lo sguardo l’indicazione e prima che il medico andasse via fece in tempo a dirgli: «Grazie»
Percorse il corridoio spingendo lentamente la sua carrozzina. Arrivò alla camera, esitò, poi entrò sempre più lentamente e silenziosamente. Si avvicinò al letto.
La ragazza dormiva. Aveva paura di svegliarla anche perché non avrebbe saputo cosa dire. Spesso i barboni morivano a causa dei rigori del freddo ma nessuno se ne preoccupava.
Cominciò ad osservarla: aveva le mani candide, le unghie curate e pulite; non puzzava assolutamente, anzi sembrava che emanasse un odore gradevole. Era giovanissima nonostante il viso molto pallido e sciupato che la invecchiava.
Evidentemente non era una barbona, non ne aveva l’aspetto e chissà come era finita per strada. Era incinta, ed era sola senza un posto dove andare. Pradhalf sentiva che qualcosa li accomunava e per quello aveva avuto l’istinto di aiutarla.
Si avvicinò ancor di più al letto e le toccò la mano candida. Poi la ritrasse quasi istintivamente poiché lui era lurido: le mani annerite, callose, sporche. Nella sua condizione fungevano anche da piedi e necessarie per i suoi spostamenti. I suoi vestiti erano logori e bisunti. Il maglione pesante glielo avevano regalato i volontari; i pantaloni se li era tagliati da se, da un vecchio paio che aveva trovato in un cassonetto. Non si lavava da settimane, alle volte le monete più che per andare nei bagni della stazione li utilizzava per comprare qualcosa da mettere sotto i denti, non sempre la gente era così pietosa da regalargli un panino. Distolse lo sguardo da se e ritornò a guardare la ragazza che si stava svegliando.
Infatti aprì gli occhi e cominciò a guardare l’uomo in carrozzina vicino al letto, realizzò che era lo stesso uomo che l’ aveva fatta riparare in quell’anfratto e che i medici le avevano detto averle salvato la vita. Provò a rivolgersi allo sconosciuto, esitando
« I medici mi hanno detto che…»
Pradhalf si portò il dito indice sopra le labbra, non voleva che si affaticasse ma provò a chiederle qualcosa
«Come ti chiami?»
«Manuela.»
«Adesso riposa, è tardi. Ti passo a salutare domani»
«No ti prego rimani, sto meglio» E gli sorrise. Lui ricambiò il sorriso, poi si fece serio:
«Perché te ne vai in giro nella tua situazione?»
«Sono scappata di casa, i miei non volevano lasciarmi tenere il bambino»
«Non lo aiuterai a venire al mondo se continui a stare sotto i ponti, non è vita…»
«Tu ci stai…» La ragazza indicò istintivamente la carrozzina
«Ci sono abituato, ho la pellaccia dura; ma non è vita per te, né per un bambino che deve nascere. I medici ti terranno in ospedale fin tanto che non ti riprenderai. Approfittane, mangia più che puoi, fatti un bel bagno, acquista energia. Fuori è dura.»
Si era sorpreso di se stesso, non faceva un discorso così articolato da mesi. La ragazza invece sembrava non averlo sentito, sembrava preoccupata per il suo soccorritore ed infatti gli chiese
«Pradhalf, e…tu?»
«Ti verrò a trovare»

Pradhalf girò la carrozzina ed uscì dalla stanza di degenza. Guardò fuori, oltre le vetrate dell’ospedale, era già quasi l’alba. Arrivò nella sala d’aspetto del grande Pronto Soccorso e vide davanti a se una figura familiare che gli andava incontro.
Un prete sulla quarantina che gli si rivolse preoccupato:
«Alex! Pensavo che ti fosse successo qualcosa!»
«Per tua somma sfortuna, no» gli rispose serafico Pradhaf, girando le ruote della sua carrozzina e voltando le spalle al prete.
«Quanto astio nelle tue parole! L’hai scelta tu questa di vita. Non dare la colpa a me dei tuoi guai! Non puoi biasimarmi se umanamente non riesco ad accettare il fatto che mio fratello, il fratello di Monsignor Muratori sia un diseredato che vive per la strada, come un cane randagio… »
«Avresti potuto rimanere nei tuoi alloggi della Curia, senza bisogno di scomodarti a quest’ora della notte, non ho bisogno della tua pietà»
«Non intendo sopportare altro! Soprattutto adesso che ho parlato con i medici e mi hanno detto che la tua amichetta aspetta un bambino! Hai intenzione di metter su famiglia al Covo dei diseredati? Come hai potuto?»
«Non sono il padre del bambino, brutto figlio di puttana! Come avrei potuto? Guardami! Come avrei potuto…?»
Pradhalf girò le ruote della sua carrozzina e si scostò dal fratello che gli stava dicendo:
«Non mi stupirei se lo avessi fatto. Hai sempre fatto tutto tu, …malgrado tutto»
Pradhalf era già quasi fuori dell’ospedale e il fratello lo raggiunse.
«Aspetta, non abbiamo finito. Cosa hai intenzione di fare con la tua amichetta?»
“La smetti di dire ‘amichetta' con quel tono dispregiativo? Quando imparerai ad avere rispetto per le persone?» Pradhalf adesso urlava furiosamente contro il fratello. Poi cercò di calmarsi, tornò indietro gli si avvicinò e cercò di spiegargli:
«Non mi credi vero? L’ho conosciuta oggi pomeriggio. Si era riparata in un anfratto con me. Poi è stata male e ti ho chiamato per l’ambulanza.»
«Va bene ti credo. Alex ascolta: perché non ti decidi a prenderti cura di te ed offri un’opportunità anche alla ragazza? Prendi la cascina dei nostri genitori, incassa l’assegno che lo stato ti passa per la tua invalidità. Prendi due pecore e quattro galline: avrete latte ed uova per voi e per il bambino che nascerà. Quella ragazza ed il bambino non hanno speranza tra i cartoni lo capisci?»
Pradhalf non disse nulla, se ne stava lì, pensava. Monsignore l’aveva studiata bene: faceva leva sui sentimenti per quella ragazza madre ed intanto cercava di convincerlo a ritornare alla civiltà facendogli abbandonare la strada. Chissà per chi lo faceva, per la ragazza, per lui oppure per il suo Ego? Suo fratello gli aveva posato una mano sulla spalla, era quello il massimo gesto d’affetto che riusciva a manifestare. Si congedò dicendogli:
«Alex. Disapprovo la tua vita ma tieni i soldi per un taxi. Quando la ragazza sarà in grado di lasciare l’ospedale deciderete cosa fare. Ci sono anche delle monete, per un’altra telefonata, solo in caso di vita o di morte…di chiunque sia. Addio»
«Addio Don»
«Alex sono sempre tuo fratello…»

Passarono i giorni, e Manuela si riprendeva poco a poco. Alex – Pradhalf l’andava a trovare più volte al giorno e approfittava dell’ospedale per fare la doccia; rubava di tanto in tanto un camice pulito e lo utilizzava come maglietta, il personale spesso chiudeva un occhio e, anche quando avanzava qualcosa dal vitto, c’era sempre qualcosa per quel senza tetto.
Spesso i due si ritrovavano nel giardino dell’ospedale a parlare della loro vita e di come erano diventati dei diseredati, senza casa, senza nulla.
Manuela era più loquace, Alex meno, ma avevano delle caratteristiche comune: la semplicità, la franchezza.
In uno di quei gironi di degenza ospedaliera Manuela disse a Pradhalf: «Mi dimettono domani…»
«Me lo sentivo, hai ripreso energie e si vede.»
«Fine delle docce e dei pasti caldi gratis…» disse ridendo Manuela per smorzare la tensione, ma aveva già paura di cosa avrebbe fatto di nuovo per strada.
«Cosa hai intenzione di fare? Perché non ritorni dalla tua famiglia? Il padre del bambino?»
«Ho ventidue anni, ho fatto sesso con un bellissimo sconosciuto in una discoteca e non so neppure il suo nome. Prendevo la pillola, ma qualcosa è andato storto. I miei non ne vogliono sapere di me. Voglio tenere il bambino e voglio farcela da sola»
«Sei un’incosciente! Per cavartela da sola devi trovare un lavoro, un tetto sopra la testa, solo così puoi sperare di farcela. Se non ci fossi stato io quella sera, saresti morta dissanguata nel retro di una stazione! Peggio di un cane randagio. I medici ti hanno detto che può succedere di nuovo, hai bisogno di riposo, di un posto caldo per passare l’inverno…»
«Non so dove andare…»
«Ci sono le case-famiglia, per le ragazze come te…» E si sforzò di sorriderle.
La ragazza era seria invece «Ci sono gli istituti per i disabili come te, tu ci andresti?»
Alex non rispose. Era per quello che stava per strada, non voleva la pietà di nessuno, non desiderava essere assistito ne compatito. Gli piaceva disporre della sua libertà. Esitò a rispondere a Manuela poi si decise:
« Ho da farti una proposta, so che ti sembrerà pazzesca ma credimi può essere una buona soluzione, per entrambi»
«Ti ascolto»
«Ho un casolare in campagna, è piccolo con poche stanze, la cucina con un gran camino, sul retro la stalla per piccoli animali, potremmo stare all’asciutto almeno fino alla nascita del bambino, poi…deciderai cosa fare…»
«Ma ci scopriranno subito…!»
«No! Il casolare è mio! Ho dei soldi da parte che lo Stato continua a passarmi per la mia invalidità. Potremmo comprare latte e vestitini per il tuo bambino.»
«Pradhalf io…» Manuela non sapeva cosa rispondere, ma l’idea di avere tetto sopra la testa, una casa vera in cui stare le fece inumidire gli occhi dalla contentezza.
«Mi chiamo Alex…» E le sorrise. Tacitamente si erano accordati.

La mattina dopo Manuela fu dimessa e con Alex prese un taxi. Il tassista aprì lo sportello nel tentativo di aiutare Alex, che in un balzo invece fu subito dentro e nel mentre gli diceva:
«Aiuti la ragazza, la carrozzina la metta nel bagagliaio»
I due conversarono a lungo durante il tragitto. «In Ospedale è venuto a trovarmi un prete, mi ha fatto tante domande; chi era?»
«Mio fratello Gustavo»
«Il casolare è suo?»
«E’ nostro, ce lo hanno lasciato i nostri genitori»
«Non andate d’accordo?»
Gli occhi di Alex si velarono, e cominciò a raccontarle «Da bambini giocavamo per strada a pallone, io rincorsi il pallone e finì sotto una camion. Per mesi rimasi tra la vita e la morte, le gambe malridotte, dovettero amputarmele. Gustavo crebbe con i sensi di colpa, poi decise di entrare in seminario.
Detestavo la gente bigotta che frequentava: persone dal pietismo facile, incapaci di vedere al di là dei loro occhi; per me era una situazione insostenibile, così me ne andai di casa.
Avevo provato ad andare in una casa in affito, ma con i soldi non ci arrivavo a fine mese, non riuscivo più a pagare le bollette, a comprarmi qualcosa da mangiare. Poi finii per strada.
Dapprima cominciai a vagabondare senza meta, la gente poi cominciò a farmi l’elemosina, anche se io non la chiedevo, fu così che mi ritrovai al Covo dei Barboni.
Gustavo faceva carriera presso le gerarchie ecclesiastiche, spinto da un’ambizione fortissima, mentre lui ascendeva cominciava a detestarmi in modo esponenziale. I suoi sensi di colpa di gioventù si trasformarono in astio, disprezzo, rancore. Io sono convinto che si sia rovinato la vita; ne sarebbe bastata solo una, la mia» Alex si portò le mani sui monconi poi cominciò a guardare fuori del finestrino e come in una visione liberatoria, vide il casolare….
Il taxi li lasciò davanti il grande portone d’ingresso.

La prima nebbia autunnale avvolgeva come una coltre una ragazza pallidissima e smagrita e un uomo in carrozzina che si avviavano verso il grande portone del casolare.
Entrarono in una grande stanza con un camino, c’erano pochi mobili: un divano, un tavolo con delle sedie, il ballatoio per l’acqua. Altre due porte conducevano al bagno ed ad una grande camera da letto. Sul retro c’era il fienile, con la legna per ardere rimasta li accatasta da anni e il recinto per i piccoli animali da riempire. L’aia e un trattore con rimorchio nel cortile.
Alex si guardò intorno poi disse pensieroso:
«Prendi questa» ed estrasse da una sacca posta dietro la carrozzina una coperta. Poi continuò:
«Vai a riposare. Io cercherò di accendere il fuoco: ho visto la legna di là. Per oggi Manuela dovremo accontentarci di the bollente e biscotti…li ho presi in ospedale. Adesso va; mettiti a letto.»
Intanto Alex andò a prendere la legna da ardere. Dapprima cercò un’asse abbastanza larga da poggiare sopra i monconi e da ancorare ai braccioli della carrozzina. Su quell’asse avrebbe messo tutta la legna necessaria per accendere e tenere vivo il fuoco per la notte. Prese anche delle foglie secche, della paglia, l’accendino, invece, lo teneva sempre con se. Giunto davanti al camino, lasciò cadere la legna per terra, scese dalla carrozzina e sistemò le foglie secche e la paglia per ardere dentro il camino, poi con pazienza accese il fuoco. Aspettò un po’ fintanto che anche la legna più grossa fu intaccata dal fuoco, poi con l’aiuto delle braccia si riportò sulla carrozzina.
In una dispensa vicino al tavolo trovò anche delle pentole. Fece scorrere l’acqua nel ballatoio, dapprima color creta poi via sempre più pulita. Ne mise a bollire un po’ sul camino. Trovò anche delle tazze ed un vassoio, poi portò tutto con se nella camera dove dormiva la ragazza.
Manuela dormiva un sonno profondo, lui sistemò con cura le tazze con il the e i biscotti sul comodino e attese che si svegliasse.
Alex guardava la ragazza dai tratti delicati, pallida e con le mani lisce. Era solo una povera ragazza abbandonata dalla sua famiglia che voleva a tutti i costi tenere il suo bambino frutto dell’amore di una notte. Aveva già preso la sua decisione: si sarebbe occupato di lei e sarebbero rimasti in quel casolare fino alla nascita il bambino; in seguito avrebbe valutato che indirizzo dare alla sua esistenza. La ragazza finalmente si svegliò e mangiarono con avidità quel pasto troppo magro ma caldo.

I mesi trascorrevano ed i due avevano trovato il modo di arrangiarsi. Manuela non era stata più male. Alex la costringeva a lunghe ore di riposo e non le lasciava fare nulla nel casolare. Nel fienile allevava le galline e due capre; alle volte prendevano il trattore che Alex era riuscito a adattare con i comandi manuali e la Domenica andavano insieme al vicino paese per una passeggiata. Alex aveva ancorato un carrello agricolo al trattore e quando riscuoteva la sua pensione andavano a far spese. Adesso entrambi erano curati, puliti e ben in ordine.
Manuela restava spesso in casa a riposare su di una sedia a dondolo che Alex le aveva riparato. Alex invece di solito usciva con il trattore.

Una mattina bussò alla porta del casolare un insolito ospite.
«Buongiorno signorina»
«Buongiorno. Alex non è in casa padre Gustavo»
«Sì mia cara, ho aspettato che andasse via con il trattore»
«Non abbiamo nulla da dirci Padre»
«Non sia ostile signorina. Vorrei solo fare quattro chiacchiere con lei»
La ragazza scostò l’uscio e fece entrare il sacerdote.
«Ho un dubbio che mi porto dietro dall’ultimo nostro incontro in ospedale» – Il prete fece una pausa e poi continuò – «Il bambino è figlio di Alex? Vede perché altrimenti non mi spiegherei questo cambiamento repentino della vita di mio fratello…»
Manuela lo guardava disgustata. «Perché non lo lascia in pace? Crede che sia una vita facile per lui?» Si asciugò frettolosamente una lacrima che aveva iniziato a rigarle il volto, poi riprese:
«Le confesso che ho desiderato spesso che fosse lui il padre del mio bambino. Purtroppo non lo è. Lei non riesce ad immaginare neppure lontanamente come Alex si prende cura di me, di noi…pur nella sua condizione»
«Capisco. Lei ha un grande merito signorina. Nella sua sfortuna di ragazza madre ha strappato alla strada un barbone disabile.»
«Quanto disprezzo nelle sue parole»
«Si sbaglia, io voglio molto bene ad Alex»
«E’ uno strano modo di dimostrarlo»
«Per finire, le lascio il numero di telefono dell’istituto che accoglie ragazze madri, nel caso dopo il parto non dovesse farcela da sola.»
«Non sono mai stata da sola in tutti questi mesi padre, e non lo sarò neppure durante e dopo il parto. E adesso la saluto.»

Manuela guardava dalla finestra il sacerdote che si allontanava con la sua lunga auto scura, poi da lontano sentì il rumore familiare del trattore di Alex e si precipitò sulla soglia ad attenderlo.
L’uomo, prima di scendere dal trattore buttava giù la carrozzina e poi con mosse ben calcolate vi finiva sopra. Manuela lo guardava con una nuova luce negli occhi.
Finalmente Alex vicino alla ragazza disse: «Oggi arrivano i tecnici del telefono. Adesso ci serve la linea telefonica in casa. Il bambino potrebbe nascere da un giorno all’altro…;Ti senti bene Manuela?»
La ragazza si avvicinò alla carrozzina e tese le sue braccia verso il viso di Alex. L’uomo posò delicatamente il capo sulla grossa pancia; poi disse incredulo: «Calcia! E anche forte! Sembra sia impaziente di venire fuori.» E le sorrise.

Una notte, dopo tre settimane dalla visita del prete, Manuela cominciò a star male e a lamentarsi.
«Alex ti prego corri…ho cominciato ad avere le contrazioni» L’uomo balzò dal divano, dove abitualmente dormiva. Si precipitò dalla ragazza e cercò di tranquillizzarla: «Stai calma, adesso chiamo l’ambulanza»
Il pomeriggio del giorno seguente Manuela era già in camera di degenza. Delle piccole margherite le solleticavano il naso.
«Grazie Alex, sono bellissime»
«Come le mie donnine, piccole e delicate»
«L’hai già vista?»
Alex era felice, puntò i gomiti sui braccioli e si drizzò sulla schiena poi disse quasi soddisfatto: «Me l’hanno fatto prendere in braccio. Stavo sudando, non ne avevo mai tenuto uno prima d’ora. E’ una bambina bellissima, piccina e ti somiglia molto. Mi hanno chiesto il nome, spetta a te»
Manuela sicura e decisa, guardandolo negli occhi disse «Alessandra» L’uomo rimase senza parole, era sorpreso e la sua felicità si stava trasformando in commozione.
Poi Manuela continuò: «Mi piacerebbe che le dessi il tuo cognome» Alex se ne stava li, per attimi rimase senza parole, nella sua mente un vortice di pensieri. Poi disse quasi tra se:
«Un figlio è una grande responsabilità. Non potrò mai più tornare a dormire per strada»
Manuela si sporse in avanti fino a stringere fra se le callose mani dell’uomo e con gli occhi lucidi di commozione disse decisa: «Potremo continuare a vivere nel casolare, insieme»
Alex allontanò le sue mani dalla presa di Manuela, girò le ruote e andò verso la finestra, e guardando fuori disse:
«Una donna sceglie il proprio compagno affinché lui la possa proteggere, difendere, sostenere. Pensi che io possa fare tutto questo per te e la bambina?»
«Lo hai già fatto» Gli rispose Manuela con un nodo alla gola.

Passò un anno dalla nascita della bambina. Alex e Manuela erano rimasti nel casolare, poiché avevano deciso di allevare insieme la bambina.
Una sera la bambina si era addormentata più presto del solito nella graziosa culla di legno che Alex aveva intagliato per lei. Alex invece sin dal primo giorno aveva dormito sul divano, un giaciglio molto comodo rispetto al pavimento della stazione. Manuela invece aveva continuato a dormire sul grande letto matrimoniale dell’unica camera da letto del casolare. Quella sera Manuela si era da poco distesa sul suo letto ed Alex l’aveva raggiunta in camera.
«Vieni qua sul letto a tenermi compagnia» L’uomo guardava la mano della ragazza che carezzava il cuscino e che lo invitava a prendere posto. Si sporse in avanti lasciando indietro la carrozzina. La ragazza lo guardava avvicinarsi, mentre si aiutava con le braccia e adesso ne osservava le caratteristiche: la camicia pulita, i capelli in ordine e la barba rasata. Non aveva più l’aspetto da barbone dal giorno che erano giunti al casolare.
«Quanti anni hai Alex» le chiese inaspettatamente la ragazza. «Quarantatrè il prossimo mese»
«Ti farò un dolce e ci metterò su le candeline…» E fece per carezzargli il viso
L’uomo scostò il volto come per respingere il delicato gesto. E le disse: «Sono poco abituato alle attenzioni di una donna»
«Ti senti a disagio, con me?» e nel chiederlo si accostò a lui. Gli spinse indietro le spalle per farlo distendere sul letto, iniziò a sbottonargli la camicia ed a carezzargli il petto poco villoso.
Alex respirò profondamente, qualcosa nelle sue sensazioni si stava risvegliando. Manuela gli sfilò via la camicia e stava per sbottonargli i pantaloni, ma l’uomo le bloccò la mano imbarazzato:
«Ti prego…lascia, faccio io», ma non si tolse i pantaloni. Invece le tolse la camicetta e le sfilò la gonna. La ragazza rimase con il solo intimo indosso. Il seno, ancora rigonfio di latte, le saltava sul petto ad ogni respiro, mentre i battiti del suo cuore acceleravano sempre di più. Alex le stava insinuando la mano tra i seni e Manuela si sfilò via il reggiseno. L’uomo aveva posato la testa sul suo seno e si accorse che la ragazza aveva il cuore in tumulto
«Ti sta scoppiando il cuore in petto…»
«Non fermarti, va tutto bene.»
Alex le carezzava la pancia, le sfiorava il Monte di venere, poi le disse quasi avendo timore di se stesso:
«Sei così bella, non hai paura?» «Cosa dovrebbe farmi paura?
«Adesso toglierò i pantaloni e mi vedrai…»
“Ti ho sempre visto Alex. Pensi che dopo tutto quello che abbiamo passato io non riesca ad andare oltre…oltre l’amputazione?»
«Desideravo una conferma»
«Che sciocco…» e gli sfilò lentamente i pantaloni. Poi gli si distese sopra. Alex la strinse a se con le sue braccia forzute. Poi lei continuò sussurrando: «Sei un uomo molto affascinante, in questi mesi alle volte ti ho desiderato anche se con moltissimo timore, ma adesso non ho paura.»
Continuarono per ore a godere dei loro corpi e alla fine si addormentarono. All’alba il pianto della piccola li svegliò. Lo specchio, che sovrastava la cassettiera di fronte al letto, rifletteva due corpi distesi, coperti fino al torace; intrecciavano le dita delle loro mani, in una stretta invidiabile.
Erano una bella coppia.


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