Schoenborn, i vescovi austriaci e l'agenda progressista.

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S_Daniele
00martedì 18 maggio 2010 12:19

Schoenborn, i vescovi austriaci e l'agenda progressista.

Riportiamo di seguito un articolo di Rodari. Vi sembrerà di Zizola, invece è di Rodari. Che da alcune settimane è divenuto il corifeo del cardinal Schoenborn-pensiero, ossia delle sbandate filoprogressiste dell'ondivago arcivescovo di Vienna che si ammanta, perché gli fa comodo, del suo rapporto personale stretto con Benedetto XVI, ma che in realtà sostiene posizioni chiaramente incompatibili col cattolicesimo. Lo stesso giochetto che in Italia, nel suo piccolo, tenta l'arcivescovo Forte, il quale dai giornalisti a lui vicini si fa sempre spacciare per 'amico e vicino al Papa'.
Schoenborn e la manciata di altri vescovi della moribonda chiesa austriaca si sono riuniti lo scorso fine settimana a Mariazell e dal loro brain storming che cosa han distillato? Ma naturalmente, che "occorre aprire un dibattito, da amplificare nella Chiesa di tutto il mondo, per superare il celibato dei preti e consentire l'ordinazione di uomini sposati", e che occorre anche "parlare del ruolo delle donne" (vedi qui). Due riforme che hanno funzionato e funzionano benissimo, ad esempio tra i luterani o gli anglicani...
Ma se i vescovi austriaci giocano a chi la spara più grossa pensando - a torto - di arginare la corsa alla cancellazione dai registri fiscali ecclesiastici (nei paesi germanici basta farsi radiare da quei registri per risparmiare una cospicua tassa destinata alla chiesa, e questo ferisce i vescovi in ciò che han di più sacro), sinceramente comprendiamo poco perché Rodari, che una volta esprimeva idee tradizionali, se non tradizionaliste, collezioni ora una serie di articoli in cui, affettando una solo apparente imparzialità, in realtà fa promozione e pubblicità al porporato austriaco e alle sue posizioni alla Wir sind Kirche. Verificate nell'articolo che segue, ad esempio, come parlando dell'arcivescovo Weakland venga omesso di quest'ultimo il dato biografico più significativo: aver usato i fondi diocesani per pagare i ricatti del suo amante e avere di recente rivendicato orgogliosamente la propria omosessualità. Guardate poi gli ultimi post del blog di Rodari: vi si parla continuamente del cardinale viennese, oppure - che è la stessa cosa - male di Sodano, destinatario di un attacco frontale di Schoenborn nei giorni scorsi. Da quando il nostro giovane vaticanista si è scottato col caso Boffo (insistendo che dietro c'era la mano di Bertone, tanto che dovette intervenire il Papa a difendere il suo Segretario di Stato), si direbbe che cerchi altre strade...


L’area liberal, o se si vuole progressista, sta ai margini della chiesa. Ha pochi colloqui con le gerarchie. Anche se, a onor del vero, cardinali o vescovi a cui rifarsi e riferirsi ne ha, ma questi faticano ad ammetterlo esplicitamente. E’ oggi una frangia un po’ borderline, la cui agenda di riforme nelle scorse ore è stata messa al centro del dibattito ecclesiale grazie alla manovra del porporato boemo a capo della chiesa di Vienna, Christoph Schönborn. Il cardinale ha elencato molti dei punti sui quali la chiesa, a suo dire, dovrebbe ripensarsi e rinnovarsi: l’organizzazione del potere al proprio interno ma anche quei problemi che hanno a che fare più direttamente con la quotidiana vita di fede. E cioè l’abolizione dell’obbligo del celibato per i preti e quindi l’ammissione al sacerdozio dei laici sposati, donne comprese. Una nuova visione sulle coppie omosessuali stabili. La piena accettazione dei divorziati risposati (con le rispettive nuove famiglie). Temi sui quali più volte Benedetto XVI ha espresso pareri contrari e forse definitivi. E con lui il Vaticano.

“Che sia stato Schönborn a riportare certe tematiche all’attenzione di tutti non è un caso” racconta Vittorio Bellavite, leader della sezione italiana del movimento Noi siamo chiesa. “Il nostro movimento, infatti, è nato dalle ceneri del caso di Hans Hermann Groër, il predecessore di Schönborn a Vienna. Fu a seguito delle accuse di pedofilia contro Groër che a Innsbruck e a Vienna alcuni cattolici vollero reagire e stilare il celebre ‘Appello dal popolo di Dio’. Appunto un’agenda per le gerarchie della chiesa fatta di punti precisi. Un’agenda che ritengo Schönborn condivida. Altrimenti non si spiegherebbe perché, pochi giorni fa, l’arcivescovo di Vienna abbia tenuto una celebrazione penitenziale in cattedrale e al suo fianco abbia voluto Hans Peter Hurka e Martha Heizer, i leader del nostro movimento in Austria. La celebrazione era in diretta televisiva. Il gesto di Schönborn è stato un segnale voluto”.

Dal 1995 a oggi l’Appello è stato firmato da oltre due milioni e mezzo di persone. Inizialmente ci fu l’appoggio anche di molti vescovi austriaci. Poi i presuli vennero richiamati all’ordine dal Vaticano, e ritirarono l’adesione. Da quel giorno, con le gerarchie, almeno in forma ufficiale, nessun contatto. Dice Bellavite: “Un’eccezione è stata l’incontro del 2007 con il cardinale Angelo Bagnasco. Il presidente della Cei ci ha ascoltato ma ci ha anche detto che la strada della chiesa resta un’altra rispetto alla nostra”.

L’Austria è sempre stata un terreno fecondo per un episcopato conciliare con le istanze del mondo. E per questo motivo è stato più volte ripreso da Benedetto XVI. Eppure, ancora oggi, è in Austria che un certo leitmotiv va avanti. Pochi giorni fa è stato Paul Iby, vescovo di Eisenstadt nel Burgenland, a dirsi pubblicamente non solo per l’abolizione del celibato ma anche per l’apertura del sacerdozio alle donne. Dice: “Per i preti sarebbe sicuramente un sollievo se l’obbligo del celibato venisse revocato”. E ancora: “Roma è troppo timorosa, così non si va avanti”.

L’ala progressista chiede cose precise: il superamento della separazione strutturale tra chierici e laici per una corresponsabilità nella chiesa; un aperto confronto sulla sacra scrittura per raggiungere la piena partecipazione delle donne ai ministeri ecclesiali; la possibilità per le singole comunità di celebrare l’eucaristia e animare la propria fede in una pluralità non delimitata da regole e canoni storicamente condizionati; i preti devono essere lasciati liberi di aderire al celibato o meno; i divorziati devono poter accedere all’eucaristia; nel campo della regolazione delle nascite ci deve essere libertà di coscienza; ogni discriminazione nei confronti delle persone omosessuali deve essere superata. Dice il teologo Vito Mancuso: “In generale la partita è chiara. Si tratta di tornare alla leggerezza di fondo che caratterizzava Gesù e le prime comunità cristiane. Si tratta di tornare all’unico principio veramente non negoziabile per la chiesa: l’amore di Dio e per il mondo. Non c’è da avere paura, non c’è da temere nulla. C’è solo da ritrovarsi e dialogare. A mio avviso, l’indizione di un Concilio Vaticano III è quanto mai indispensabile. Il Vaticano II non basta più”.

Il celibato dei preti è un nodo sul quale ciclicamente i progressisti tornano a dire la loro. E quest’anno, in concomitanza con l’anno sacerdotale, l’attacco è stranamente più veemente. Sostengono che il celibato non abbia un fondamento teologico e sussista semplicemente in virtù di una legge canonica entrata in vigore col Concilio di Trento. Mentre il Papa e la maggioranza dei vescovi dicono altro, che abbia radici nel Vangelo, sostanzialmente nella scelta di Cristo dei dodici. Don Paolo Farinella, prete ligure che non ha mai nascosto un acerrimo antagonismo nei confronti delle gerarchie e di Roma, cita il cardinale Martini il quale “ha sempre detto che il celibato non è un obbligo”. Perché? “E’ semplice: i preti si scelgono tra coloro che preventivamente dichiarano di essere portati al celibato. Quindi il celibato è una condizione previa al sacerdozio ma non è collegata teologicamente con esso. Tant’è che nelle chiese orientali esistono i preti sposati. E adesso ne arrivano nella chiesa cattolica anche dalle comunità anglicane”. Secondo don Farinella tutto si gioca nella lettura che si fa del Vaticano II: “C’è poco da fare. Ratzinger con l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità ha svuotato di ogni contenuto il Concilio. Mentre invece il Vaticano II, al contrario di quanto sostiene il Papa, è del tutto incompatibile con i pontificati precedenti. Tutti i pontificati, da Gregorio XVI a Pio X, sono incompatibili col Concilio. Del resto Pio XII sosteneva che la chiesa deve tenere aperte le sue porte e il mondo deve entrarvi dentro. Che piaccia o no il Concilio ha detto l’opposto: la chiesa sta nel mondo. La visione del passato è morta”.

Tantissimi fedeli vivono situazioni familiari non facili. I divorziati risposati sono sempre più numerosi. Lo disse anche Ratzinger dialogando con Peter Seewald: “Non v’è dubbio che questo sia un grave problema per la nostra società in cui aumenta sempre più il numero dei matrimoni che si rompono”. Ma disse anche: “Occorre riconoscere che la sofferenza e la rinuncia all’eucaristia possono essere un qualcosa di positivo, con cui dobbiamo trovare un nuovo rapporto. Si può partecipare alla messa, all’eucaristia in modo significativo e fruttuoso senza che ogni volta si vada a fare la comunione”. Mentre l’ala liberal incalza portando altri contenuti: il Vaticano II ha sostenuto che il fine del matrimonio è l’amore dei due coniugi. Il Concilio di Trento ha invece detto che il fine del matrimonio è la procreazione. Occorre scegliere da che parte stare: con Trento o con il Vaticano II? Dice ancora don Farinella: “Se si sta col Vaticano II si supera una concezione preindustriale e contadina del matrimonio e si ammette che il matrimonio è altro. E’ amore. E l’amore può non essere sempre perfetto e può rinascere in altri luoghi. Del resto non capisco: ai divorziati risposati non si concede l’eucaristia, mentre invece i preti in stato di peccato mortale possono celebrarla. Mi sembra un enorme controsenso”.

Filippo Di Giacomo, canonista ed editorialista, esce dai casi singoli per guardare il problema in modo più ampio. Ha assistito da spettatore allo “schiaffo” di Schönborn alla curia romana. Dice: “E’ il segno che oggi c’è una chiesa di base che non ne può più di cardinali e vescovi ottantenni che decidono tutto e pensano soltanto alla carriera. Eppure i nodi toccati da Schönborn sono già stati oggetto di studio e di stesura di documenti in Vaticano. Da tempo dentro le mura leonine c’è chi ne parla. Magari il dibattito è a fari spenti, ma comunque c’è. Basterebbe riprendere le ipotesi di riforme già vagliate. Tra queste la riforma del processo matrimoniale. Il cardinale Mario Francesco Pompedda, oggi scomparso, aveva proposto una riforma che permetteva di abbreviare i tempi dei processi di annullamento ma poi non se ne fece nulla”.

I temi sono sempre gli stessi, da anni: il celibato dei preti, la dottrina circa i divorziati risposati, e poi l’ipotesi dell’ordinazione femminile. Il Vaticano su questo punto monitora ogni movimento e punisce. Per la Santa Sede non si tratta di chiusura preconcetta, ma di corretta interpretazione del dettato evangelico. Due sono le contromisure che il Vaticano ha preso negli ultimi anni. La prima è un decreto emesso dalla Congregazione per la dottrina della fede “circa il delitto di tentata ordinazione sacra di una donna”. La seconda è l’interdetto spiccato da Raymond Leo Burke, quando ancora era arcivescovo di Saint Louis, contro una suora della sua diocesi, Louise Lears, colpevole di aver assistito e dato sostegno all’ordinazione al sacerdozio di due donne.

Nella chiesa cattolica, una spinta all’ordinazione femminile venne soprattutto dopo la pubblicazione della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Ordinatio Sacerdotalis” del 1994. Quaranta vescovi degli Stati Uniti scrissero su Origins, la rivista della Conferenza episcopale, un articolo dove lamentavano che il testo di Wojtyla era stato emanato “senza alcuna previa discussione e consultazione”, quando invece riguardava una materia “che molti cattolici ritengono bisognosa di studi più approfonditi”. I quaranta chiedevano che le conferenze episcopali rispondessero colpo su colpo “ai testi di varia natura che vengono da Roma”, a cominciare da quello sull’ammissione delle donne al sacerdozio. Il principale promotore del documento era l’allora arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, già presidente dei benedettini confederati di tutto il mondo e star dei liberal americani, ora protagonista del caso Murphy-New York Times con le accuse di omesso controllo a Ratzinger e Bertone (al tempo del Sant’Uffizio).

Forse è soltanto una coincidenza. Ma molti osservatori qualche anno dopo annotarono stupiti come la chiamata alla rivolta di Weakland fosse stata messa in campo per la prima volta in Austria: ancora la terra di Groër e poi di Schönborn, la terra dove Noi siamo chiesa agisce con maggiore presa. Il primo vero atto di rottura, infatti, avvenne nel 2002 sul fiume Danubio, non lontano da Passau, al confine tra Austria e Germania. Lì, su un battello, un vescovo scismatico argentino, Romulo Braschi, ordinò al sacerdozio sette donne, le prime del movimento denominato Roman Catholic Womenpriests, che conta oggi diverse decine di ordinate prevalentemente degli Stati Uniti e del Canada, tra le quali quattro donne vescovo. Il 10 luglio 2002 il Vaticano reagì alle ordinazioni del Danubio con un decreto di scomunica.

Da Roma si teme che il numero delle donne ordinate cresca. E che vi sia qualche infedele: Patricia Fresen, l’ex suora che è una dei quattro vescovi del Roman Catholic Womenpriests, afferma d’essere stata ordinata all’episcopato nel 2005 da tre vescovi di cui tiene segreti i nomi.

Fonte:
blog di Rodari

Messainlatino

Ps. Proprio ieri il signor Rodari mi ha chiesto l'amicizia su FB ^_^
S_Daniele
00giovedì 20 maggio 2010 11:18

Una replica di Rodari

Dal blog di Rodari, riportiamo la sua risposta al nostro post di stamani, per un giusto riguardo e per diffondere la sua replica. I nostri lettori sanno quale alta opinione abbiamo espresso sempre su di lui: nell'elenco dei link, per il suo sito c'è questo commento: "Un giovane vaticanista il cui blog merita visite frequenti per l’alto livello dei post, le informazioni che fornisce, i commenti acuti e analitici ai fatti di Chiesa. E un’ottima opinione della Messa gregoriana e un’ispirazione religiosa assolutamente ortodossa. Che cosa di meglio?". Se lo critichiamo, è proprio perché teniamo a lui. E, passando al merito della questione, ovvio che nessuno voglia impedirgli di parlare dell'agenda progressista, e pure 'senza acredine'. Ma resta l'impressione che il suo modo di affrontare il tema sia, più che imparziale, come minimo indulgente. Per essere onesti, ci piace molto di più come ne ha parlato oggi, ad es., Galeazzi (che non è un tradizionalista) in un articolo sulla Stampa, in cui pur riportando i fatti, e nient'altro che i fatti, ricorda com'è la situazione di questi vescovi austriaci che voglion dare lezioni alla cattolicità: "La Chiesa austriaca è un’istituzione duramente provata da una serie di abusi liturgici (come il «Corpus Domini» infilzato e issato in processione) e irregolarità disciplinari. Più volte il Papa ha richiamato all’ordine i vescovi indicando «l’urgenza dell’approfondimento della fede e della fedeltà integrale al Concilio». Un declino tra calo di vocazioni e di fedeli, forte polarizzazione interna conservatori-progressisti, crescente sentimento antiromano. E una raffica di scandali nelle diocesi: dai parroci concubini ai mancati provvedimenti contro la fronda dei sacerdoti che hanno rivendicato la convivenza con una compagna". Ricordare questi fatti (fatti, non commenti), non ci sembra 'acredine'.
Ma lasciamo parlare Rodari:



Non sono diventato “il corifeo del cardinal Schönborn-pensiero, ossia delle sbandate filoprogressiste dell’ondivago arcivescovo di Vienna” come il bel sito messainlatino.it dice in questo post: “Schönborn, i vescovi austriaci e l’agenda progressista“.
E nemmeno, come dice ancora il sito qui sopra, “cerco altre strade” da quando mi sono “scottato col caso Boffo (insistendo che dietro c’era la mano di Bertone, tanto che dovette intervenire il Papa a difendere il suo Segretario di Stato)”. Anche perché, sia detto per inciso, il caso Boffo non mi ha per nulla scottato, anzi…
E’ che Schönborn ha detto delle cose. Ha stilato di fatto un’agenda progressista per la chiesa. Ed essendo io un giornalista questa agenda dovevo in qualche modo descriverla. Se poi l’ho fatto senza acredine – tanto che i “conservatori” ci sono rimasti male – tanto meglio.
Comunque, non è soltanto che Schönborn ha detto delle cose grosse. E’ queste cose – qui sta il problema – continua a dirle.
Leggete questo lancio dell’Ansa di oggi:
L’arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn, ha detto di capire ”le preoccupazioni” del vescovo del Burgenland Paul Iby, che nei giorni scorsi si era detto per una revoca del celibato obbligatorio per i preti. ”Le preoccupazioni sollevate dal vescovo Iby sono le preoccupazioni di tutti noi”, ha dichiarato Schönborn a una conferenza stampa, sottolineando però che ciò non vuol dire, tuttavia, che si debba necessariamente condividere le soluzioni prospettate. Le parole dell’arcivescovo, riportate dall’agenzia cattolica Kathpress, sono state pronunciate a una conferenza stampa in chiusura di un congresso delle comunita’ parrocchiali svoltosi lo scorso fine settimana a Mariazell. Schönborn, che conosce bene e da lunga data Joseph Ratzinger, e’ considerato piuttosto vicino al Papa. Iby aveva detto che la revoca del celibato obbligatorio per i sacerdoti sarebbe sicuramente una cosa positiva, e che la chiesa cattolica dovrebbe anche riflettere, in una prospettiva più lunga, anche sull’ipotesi di aprire il sacerdozio alle donne. Temi, questi, finora tabu’ nel dibattito nelle comunità cattoliche. “Sono felice di vivere in una chiesa dove esiste libertà di espressione e di opinione’”, ha detto Schönborn, anche se ”non necessariamente” – ha aggiunto – condivido tutti gliapprocci”.

Messainlatino
S_Daniele
00sabato 22 maggio 2010 06:55
L’agenda dei controriformisti (I parte). Dopo lo “schiaffo di Vienna” ecco i critici del progressismo e la loro idea della chiesa

di Paolo Rodari

Lo “schiaffo di Vienna” non è stato senza conseguenze.
Dentro la chiesa cattolica ha creato un forte imbarazzo vedere un cardinale considerato ratzingeriano attaccare un uomo dell’establishment dell’era Wojtyla: è stato Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ad accusare apertamente il decano del collegio cardinalizio, il cardinale Angelo Sodano, di aver insabbiato quindici anni fa, quando era segretario di stato vaticano, il “caso Hans Hermann Groër”, ex arcivescovo a Vienna accusato di aver abusato sessualmente di minori. E molto ha fatto parlare la richiesta di Schönborn di una riforma dell’organizzazione del potere della curia romana.
E’ questa la porta di accesso per altre richieste da tempo presenti nell’agenda dei cattolici cosiddetti “del dissenso”: rivedere l’obbligo del celibato per il clero, più considerazione per le coppie omosessuali stabili, concedere il sacerdozio ordinato alle donne, la messa in campo di una nuova morale sessuale e, non ultima, l’idea di riformare la dottrina sui divorziati risposati. Per loro, due giorni fa, Schönborn ha creato una commissione diocesana incaricata di studiare il nodo dell’esclusione dai sacramenti.
Contro queste richieste la linea di resistenza della chiesa e delle sue gerarchie è imponente. E giustificata, stando al magistero: “Sono richieste ridicole” dice un porporato della curia romana che chiede di restare anonimo.
“Come ridicoli, mi si passi il termine, sono quei vescovi che danno spago a queste richieste. Non esiste una chiesa che resiste e una chiesa che contro questa resistenza combatte. Esiste un’unica chiesa, quella della dottrina cattolica che è sì sempre nuova, sempre pronta a seguire le intuizioni dello Spirito, ma non è mai riformabile daccapo. Esistono una chiesa del pre Concilio e una del post Concilio? No. E’ sempre la stessa chiesa, non si tratta di due chiese distinte. Seppure, occorre dirlo, in quest’unica chiesa ci sono stati dei traditori: i corifei dell’ermeneutica della discontinuità del Vaticano II, della rottura, del Concilio il cui spirito supera il Concilio stesso e si allinea alle aspettative del mondo. ‘Geist in Welt’, ‘Spirito nel mondo’, è non a caso il titolo di un importante libro scritto non da Joseph Ratzinger, bensì da Karl Rahner. A Schönborn, comunque, vorrei chiedere una cosa. Guardati intorno: che fine sta facendo la chiesa nella tua Austria? Dove portano le false dottrine dei ‘Noi siamo chiesa’? E poi, cosa significa collegialità? Agire di testa propria accusando un proprio confratello e arrivando di fatto a mettere in cattiva luce anche il Papa oppure significa l’esatto contrario?”.
L’argomento è spinoso e molto sentito. Nel giugno del 2008 memorabile fu in proposito un’omelia del cardinale Camillo Ruini. In occasione del venticinquesimo del suo episcopato, davanti a una basilica di San Giovanni in Laterano gremita per quello che di fatto fu il suo ultimo intervento da vicario del Papa per la diocesi di Roma, disse queste parole: “Essere a fianco del Papa nell’annuncio e testimonianza della fede, specialmente quando questi sono scomodi e richiedono coraggio, è in realtà il compito di ogni vescovo, un aspetto essenziale della collegialità episcopale. Mi permetto di dire che se tutto il corpo episcopale fosse stato forte ed esplicito sotto questo profilo, varie difficoltà, nella chiesa, sarebbero state meno gravi e che anche per il futuro questa può essere una via efficace per ridimensionarle e superarle”. Quanto sono attuali queste parole? Parecchio, a leggere gli eventi dell’oggi. Vecchie ruggini su come negli anni passati sono stati gestiti i casi di pedofilia nel clero sembrano aver logorato, e infine, spaccato, il collegio cardinalizio. E arrivano a colpire anche il Papa. Ieri, ad esempio, il quotidiano australiano The Age ha scritto che nel 2004 l’allora cardinale Ratzinger scrisse una lunga prefazione a un libro di un teologo australiano nonostante questi fosse posto sotto restrizioni disciplinari per “cattiva condotta sessuale”.
Vittorio Messori dice che “Ratzinger si è sempre opposto a un certo tipo di collegialità”. Anche perché, “chi vuole una riorganizzazione del potere della curia in chiave democratica dimentica Carl Schmitt. Fu il giurista e filosofo politico tedesco a dire che la chiesa non è soltanto democrazia. E’ anche monarchia e aristocrazia. E’ una monarchia assoluta perché il Papa è legibus solutus. Può modificare ogni cosa tranne ovviamente intervenire sul Credo e sulla dottrina. E’ aristocrazia perché esiste il collegio dei vescovi, oltre che il collegio dei cardinali. I vescovi, oltre a collaborare tra di loro, sono in qualche misura dei re all’interno delle rispettive diocesi. E poi, certo, è anche democrazia nel senso che chiunque può entrarvi tramite il battesimo. E, come dimostrano gli ultimi conclavi, anche coloro che provengono dalle famiglie più umili possono accedere al papato. Queste tre caratteristiche sono la dimostrazione che nella chiesa vige la legge dell’et-et. Che però ha un significato preciso. Ognuno ha il suo ruolo. Il Papa è il Papa e non lo si può sostituire con ideologie solidariste o collettiviste. Il Papa esercita il suo primato nella chiesa nella quale esistono compiti diversi per vocazioni differenti”. Già, eppure una chiesa di stampo progressista sembra non voler cedere sul tema della collegialità. Dice ancora Messori: “A queste persone dico due cose. Primo: la loro continua nostalgia di una chiesa primitiva è semplicemente un archeologismo ingiustificato. Vogliono fare un salto all’indietro di venti secoli (altro che un semplice ritorno al pre Concilio) senza tuttavia ammettere che ai tempi di san Paolo la chiesa versava in condizioni tutt’altro che facili ed edificanti: tutti erano contro tutti. Era una chiesa piena di eresie, di gelosie e correnti diverse. Una chiesa oggi purtroppo mitizzata da certa gente. Seconda considerazione: Ratzinger in ‘Rapporto sulle fede’ (1984, libro-intervista con Vittorio Messori, ndr) fu chiaro quando disse, e la cosa gli costò veementi attacchi, che le conferenze episcopali sono strumenti pratici. E dunque non hanno alcun fondamento teologico. Quindi, di che collegialità parliamo? Di una collegialità che conceda più potere a queste strutture intermedie? Siamo nel campo della fantascienza, teologicamente parlando”.
Più collegialità era uno degli slogan maggiormente gettonati nel pre conclave del 2005. Il cardinale Carlo Maria Martini ne parlava apertamente. Così Avvenire riferì nel 2003 di un suo intervento a un incontro dell’Associazione dei teologi italiani svoltasi ad Anagni: “Nel futuro Martini vede una chiesa che proceda nella direzione ‘della sinodalità e della collegialità’, anche ‘nelle relazioni tra le sue diverse componenti’. Sarà necessario attuare tutti i livelli di sinodalità possibile, ‘fino a un eventuale Concilio’. Martini fa una pausa. ‘Per quanto questo termine, Concilio, possa far paura’. Già, ma un Concilio per giungere a che cosa? ‘Dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito verso forme (ecclesiali, ndr) che esprimano la forza del Vangelo’. E qui si ferma”.
Massimo Introvigne, direttore del Centro studi sulle nuove religioni, non commenta le parole di Martini ma ricorda un dato sociologico: “Quando si parla di collegialità non si può non ricordare che di troppa collegialità sono morte diverse comunità protestanti. Dalla comunione anglicana ai battisti fino ai metodisti, dove si vota anche su temi delicati quali l’aborto o le nozze gay, sono tanti gli esempi di spaccature insanabili. Invece crescono le comunità dove la leadership è unica e chiara. Penso ai mormoni dove chi guida è una sorta di profeta che ha addirittura il diritto di cambiare la sacra scrittura. Penso ai testimoni di Geova dove il corpo collettivo, di cui si sa pochissimo, ha un potere assoluto sui dodici milioni di membri. Per quanto riguarda le comunità anglicane non bisogna dimenticare una cosa: molti di coloro che chiedono di tornare sotto Roma lo fanno proprio in reazione a una conduzione troppo collegiale e democratica delle rispettive comunità. Richard John Neuhaus, ad esempio, su quella che era la sua rivista, First Things, parlò più volte di questo argomento”.
A leggere a ritroso questi cinque anni di pontificato di Benedetto XVI si nota una caratteristica che occorre annotare: il Papa si è sempre dimostrato disponibile a parlare della collegialità. “Certo” dice il vaticanista Sandro Magister, “occorre capire bene di quale collegialità si tratti. Ma senz’altro la sua disponibilità a parlarne è totale. Ratzinger non mi sembra disposto a cedere il passo a una collegialità che metta in discussione il primato di Pietro o che dia maggiore peso alle conferenze episcopali. Mi sembra, al contrario, che la collegialità che ha in mente sia quella che tiene ben distinti e definiti i ruoli all’interno della chiesa e che valorizza il dialogo tra il Papa e i singoli vescovi”.
L’adesione del Papa alla riflessione sulla collegialità ha portato molti frutti, specialmente col mondo ortodosso. Frutti che si possono leggere dai tanti segnali che le due parti si stanno mandando. Tra ieri e oggi, ad esempio, non solo sono arrivate le dichiarazioni del Metropolita di Mosca Hilarion: “Un incontro tra il capo della Chiesa cattolica e il Patriarca russo ortodosso penso sia ora possibile”, ma c’è anche un concerto che Kirill I ha voluto offrire a Benedetto XVI. Dice Magister: “Sono segnali importanti. Oggi il rapporto della chiesa cattolica con l’ortodossia è fortissimo. Gli ortodossi hanno una struttura sinodale e insieme hanno una visione che comprende il ruolo primaziale del vescovo di Roma. Anche Ratzinger non mi sembra abbia preclusioni rispetto alla sinodalità ma, nello stesso tempo, ha un senso di forte realismo. Sa, cioè, che un sistema collegiale senza il primato di Pietro non è possibile per la chiesa. Non si riuscirebbe più a governare e a prendere alcuna iniziativa. Sarebbe un disastro”.
Dunque una collegialità nel segno del primato petrino, quella di Benedetto XVI. Una collegialità testimoniata dal Papa fin nelle prime ore del suo pontificato. Non a caso, nel suo stemma, Ratzinger ha inserito la mitria episcopale. La cosa ha un significato preciso: testimonia l’appartenenza del Papa al collegio episcopale come suo capo. Appunto una corretta esegesi della dottrina della collegialità. Un’esegesi confermata anche da un secondo gesto: la presenza, sempre nello stemma, del pallio. Sin dal VI secolo i Pontefici concedono il pallio anche agli arcivescovi metropoliti come segno della comune cura pastorale. Con l’aggiunta del pallio nel suo stemma il Papa ricorda questa cura pastorale che lo accomuna a tutti i vescovi. E, dunque, conferma ciò che di Ratzinger in molti sanno: egli considera la dottrina sulla collegialità uno dei contributi più importanti del Vaticano II. E la cosa resta un caposaldo di tutta la sua ecclesiologia.

Pubblicato sul Foglio giovedì 20 maggio 2010

© Copyright Il Foglio, 20 maggio 2010 consultabile online anche
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