S'avanza uno strano liberal

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Arvedui
00lunedì 20 agosto 2007 00:40
Ho trovato questo interessante articolo (dell'anno scorso) lo reputo molto interessante in quanto spiega in maniera chiara ed esauriente come si sta modificando l'appartenenza politica degli stati del "west" americano (da repubblicani a democratici) ed è un esempio lampante della flessibilità del liberalismo, capace di evolversi e di adattarsi a nuove condizioni.

S'avanza uno strano liberal

Billings (Montana). Nel selvaggio West degli Stati Uniti sta nascendo un nuovo Partito democratico, distante una per una tutte le duemila miglia che lo separano geograficamente e politicamente dall’élite culturale di New York, Washington e Boston. Questa nuova sinistra delle praterie e delle montagne rocciose è diversissima anche dal radicalismo della west coast, anzi per certi versi è il suo opposto ideologico. E’ una specie di popu-libertarismo, una miscela di retorica populista contro l’establishment e di spirito libertario della Frontiera. “Sono un populista”, ha detto orgogliosamente il governatore del Montana Brian Schweitzer, considerato a destra e a sinistra come il leader di questa nuova ala che, nella battaglia per il controllo del Partito democratico, si va ad aggiungere a quella dei “blue dogs”, cioè i democratici conservatori del sud e del midwest che martedì faranno guadagnare seggi al partito. Oggi i Democrats sono guidati dall’ala liberal del partito, Howard Dean al Comitato nazionale e Nancy Pelosi alla Camera, e da quella centrista, i Clinton, ma il loro peso nel paese si assottiglia ogni giorno di più malgrado (o forse a causa) il sostegno di televisioni, giornali e di Hollywood. L’altra sera, in California, Bill Clinton ha rivendicato il fatto che i democratici oggi sono il partito che interpreta meglio i valori conservatori dell’America.
L’ala liberal controlla la grande macchina dei finanziamenti elettorali, assieme e spesso in concorrenza con i centristi clintoniani raggruppati intorno all’ex presidente, a Hillary, al Democratic Leadership Council e a un paio di centri studi come la Brookings Institution e il Center for American Progress. Negli ultimi quattordici anni il partito democratico si è diviso tra queste due anime. Quando ha vinto l’ala centrista, i democratici si sono ripresi la Casa Bianca, quando ha prevalso il filone più di sinistra e più vicino all’establishment di Washington, come con Al Gore e John Kerry, sono stati invece sconfitti dai repubblicani.
Ora la battaglia per la leadership del partito si è allargata, appunto, ai “blue dogs”, conservatori sulle questioni sociali e fiscali, sull’immigrazione e sulla sicurezza nazionale. Nel prossimo Congresso saranno molti di più, perché il partito li ha piazzati nei collegi chiave, quelli in cui con la candidatura di un liberal di sinistra non sarebbero mai riusciti a strappare il seggio agli avversari. Su questi temi, al Congresso, i “blue dogs” potrebbero votare più con Bush che con la leadership democratica. C’è anche la possibile discesa in campo di Barack Obama a scombinare le carte della già preannunciata battaglia del 2008 tra il candidato liberal, Al Gore, e quello centrista, Hillary Clinton. Obama fa della mediazione tra i partiti il suo marchio di fabbrica, proprio come Joe Lieberman, il senatore del Connecticut fatto fuori alle primarie di agosto dall’ala liberal e ora avviato a una trionfale rielezione al Senato, ma da indipendente e contro il candidato pacifista scelto dal partito. C’è anche un’opposizione di sinistra all’establishment democratico, nel 2004 intercettata da Dean e oggi indecisa se seguire l’ex governatore del Vermont o se puntare i suoi blog sul vento libertario e populista proveniente dall’Interior West.
(segue dalla prima pagina) Il popu-libertarismo del West è un fenomeno politico reale, probabilmente il più interessante, certamente il meno esplorato dai giornali americani (quelli italiani, invece, sono ancora alle cartoline da Camelot dei Kennedy). Eppure basta consultare gli almanacchi politici, o farsi un giro da queste parti, per accorgersi di che cosa sta accadendo nel cosiddetto “occidente interno” che dal Montana va giù fino al New Mexico, passando per l’Iowa, il Wyoming e il Colorado. Negli ultimi anni queste zone sono state bastioni del Partito repubblicano, ora non lo sono più perché si sta sgretolando l’antica coalizione conservatrice fondata sull’alleanza tra la destra religiosa e i libertari, ovvero la cosiddetta Right Nation lanciata nel 1964 da Barry Goldwater, portata al successo negli anni Ottanta da Ronald Reagan e tenuta in piedi da George Bush. In realtà l’ideatore della fusione tra tradizionalisti e libertari è Frank Meyer, un ex comunista diventato editorialista della prima rivista conservatrice d’America, The National Review. Negli anni della Guerra fredda, Meyer ha spiegato che fede, tradizione e libertà sono elementi complementari e destinati a unirsi, allora, contro il comune nemico comunista.
La tesi era questa: sia gli uomini di fede sia gli amanti della libertà sono minacciati allo stesso modo dai senzadio illiberali di Mosca. Sul piano interno, inoltre, la fusione tra queste due anime politiche, solo apparentemente diverse, garantisce una difesa contro l’ingerenza e l’intervento dello stato nella sfera religiosa e in quella privata. Sconfitto il comunismo, è rimasto soltanto il fronte interno a cementare questa strana alleanza, ma le politiche di Bush hanno cominciato a disilludere l’ala libertaria. Uno dei libri più belli apparsi di recente sul movimento conservatore, “The Elephant in the Room – The evangelicals, libertarians and the battle to control the republican party”, spiega che oggi i libertari americani non sono delusi dai repubblicani soltanto per la crociata contro il vizio e per il tentativo di regolamentazione federale dei valori, ma anche per l’eccessiva spesa pubblica, per gli interventi militari ed economici all’estero e per le leggi di sicurezza nazionale che, sia pure in modo impercettibile, hanno limitato le enormi libertà individuali americane.
Il voto libertario è quantificabile nel 15 per cento dell’elettorato americano, secondo una ricerca del Cato Institute, poco meno di quello dei liberal e dei conservatori. L’editorialista del New York Times, John Tierney, ha scritto che gli elettori libertari tendono a essere ignorati dagli strateghi politici, anche perché non sono facili da etichettare o da organizzare: “Non si radunano in chiese né in sale sindacali, non si mettono insieme per promuovere un programma politico, molti di loro nemmeno si definiscono libertari, anche se lo sono per il loro liberalismo sociale e il loro conservatorismo economico: vogliono che lo stato stia fuori dalle loro stanze da letto così come dal loro portafogli”. Queste intrusioni federali sono molto sentite negli stati del West. La gente del Montana, per esempio, ha l’atteggiamento di chi vuole essere lasciata in pace dallo stato. Il suo Congresso si riunisce una volta ogni due anni e per soli 90 giorni, ma i montanans preferirebbero che si riunisse una volta ogni 90 anni e per soli due giorni. Non avrebbero voluto imporre un limite di velocità sulle autostrade, ma quando una Corte federale lo ha imposto, gli organi locali l’hanno fissato a 75 miglia all’ora, invece che a 55, prevedendo sanzioni irrisorie in caso di violazione. Il diritto alla caccia e alla pesca è stato inserito nella Costituzione con un referendum, e i candidati libertari hanno sempre avuto risultati migliori che altrove. Nel 1992, per esempio, il miliardario Ross Perot ha preso il 27 per cento, otto punti in più del suo risultato nazionale. Alle elezioni di martedì, accanto al repubblicano Conrad Burns e al suo sfidante democratico Jon Tester, c’è anche un candidato libertario, Stan Jones, uno strano tipo con la faccia di colore blu perché, nel 1999, convinto che il bug del millennio avrebbe causato una carenza di antibiotici, ha ingerito dosi di argento colloidale. In un ambiente così si è improvvisamente aperta un’opportunità per i democratici, che hanno cominciato a moderare le loro posizioni, soprattutto sulla libertà di possedere armi e poi sulle tasse. Sono contrari all’aborto, ma reputano che la scelta debba essere lasciata alla sfera individuale pure se non ne fanno una campagna per i diritti civili. Sono protezionisti sull’economia, e la diffidenza sull’Iraq non è pacifista, ma di tipo populista (meglio spendere per gli ospedali in America).
Se si prende la mappa degli Stati Uniti, quella famosa con gli stati a maggioranza democratica confinati sulle due coste e in mezzo soltanto stati conservatori, si nota una novità che martedì potrebbe diventare un fatto politico ancora più rilevante. Oggi, sul fronte occidentale della Right Nation, c’è un lungo ponte di governatori e di senatori democratici che congiunge il Canada con il Messico. Il popolo radicale di Internet, radunato intorno al blog Daily Kos, è stato il primo a intercettare questo fenomeno, quest’estate ha tenuto la sua convention in Nevada e ora invoca la nascita di una corrente libertaria nel Partito democratico. Il professor Thomas Schaller ha scritto “Whistling past Dixie”, un manuale di consigli populisti ai democratici per vincere le elezioni facendo a meno del sud e puntando tutto sul West. Il partito ha fatto due cose in questa direzione: ha anticipato il caucus del Nevada, inserendolo tra quello dell’Iowa e le primarie del New Hampshire, e ha scelto Denver, in Colorado, come sede della Convention del 2008. La frontiera west potrebbe far vincere ai liberal le elezioni, a cominciare da quelle di martedì, ma se ci riuscisse cambierebbe radicalmente il Partito democratico che conosciamo.
-Giona-
00sabato 25 agosto 2007 15:27
Ci vorrebbe anche in Italia gente come questa! Peccato che poi si ritroverebbe ricattata dall'estrema sinistra... [SM=x751534]
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