Roma papale

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:10
lettera diciannovesima

Lettera Diciannovesima

Diplomazia

Enrico ad Eugenio

Roma, Maggio 1849.

Mio caro Eugenio,

Eccomi di nuovo coi miei cari amici; eccomi al colmo delle mia felicità: ora posso dire che si è verificata in me, in tutta l’estensione della parola, la divisa della nostra cara Ginevra, post tenebras lux. Dopo tanti travagli, il mio avvenire è ridente; dopo tante afflizioni, sono nella più grande consolazione.

Ti ho promesso raccontarti la prigionia e la liberazione del mio buon amico Sig. Pasquali, amerei meglio che la sentissi dalla sua bocca; ma ciò essendo per ora impossibile, mi proverò dirti alla meglio ed in breve tutto quello che dai miei amici ho saputo sulla sua prigionia e la sua liberazione.

Non appena i miei amici ebbero sospetto che mi fosse accaduta qualche cosa, non vedendomi da qualche giorno, andarono nel convento ove era la mia abitazione, e si diressero verso la mia camera. Era appunto nel momento nel quale gli ufficiali della Inquisizione facevano l’ inventario delle mie carte e dei miei libri. Un birro dell’ inquisizione faceva la guardia fuori della porta della mia stanza per impedire a chiunque di avvicinarsi. I miei amici seppero da qualcuno dei frati che io era nelle prigioni dell’ inquisizione, e che nella mia camera si faceva la perquisizione. Il sig. Pasquali voleva entrare ad ogni costo per sapere le mie notizie, ma non gli fu permesso: anzi il superiore del convento obbligò i miei tre amici ad andarsene, e li rimproverò di essere essi stati la cagione del mio imprigionamento e della mia rovina.

I miei amici andarono immediatamente dal Console svizzero pregandolo di reclamarmi diplomaticamente come cittadino della libera Elvezia. Il Console svizzero è un uomo eccellente: mostrò gran dispiacere della disgrazia toccatami; disse che avrebbe fatto quanto era in suo potere, ma che prevedeva che tutto sarebbe stato inutile; che i suoi uffici si limitavano alla preghiera, non potendo minacciare; e che la Corte di Roma non si persuade nè di preghiere, nè di ragioni, e che solo il timore può qualche cosa su lei.

I miei amici allora fecero tutti gli sforzi possibili per giungere a penetrare nella mia prigione, e vedere così cosa avessero potuto fare in mio vantaggio; ma i loro, sforzi furono inutili, non fu loro possibile nè di vedermi, nè di farmi giungere una loro lettera.

Ecco come accadde l’ imprigionamento del Pasquali. Il S. Uffizio lo voleva nelle sue unghie, ma non voleva che si sapesse, per non mettere il campo a rumore. Il sig. Pasquali, sebbene italiano di nascita, pure, essendo stato tant’ anni in Inghilterra, aveva ottenuta la cittadinanza inglese, ed il Governo inglese non soffre che i suoi sudditi sieno carcerati dall’ inquisizione; bisognava dunque arrestarlo con inganno, e senza che nessuno se ne avvedesse; ed ecco come l’ Inquisizione giunse ad ottenere il suo scopo.

Un giorno sull’ imbrunire della sera, il Sig. Pasquali passeggiava solo per una via alquanto remota, come ve ne sono tante in Roma. Un uomo assai ben vestito, e con tutta l’ aria di gentiluomo, lo salutò, e facendosegli al lato gli disse essere egli grande amico del Console svizzero, presso il quale lo aveva veduto entrare; soggiunse che il Console gli aveva confidato il fatto del mio imprigionamento, e che egli, per la premura che avea di rendersi servizievole ai forestieri, avea fatto in modo che gli faceva sperare quasi certo un abboccamento con me; che egli era molto amico del Padre Commissario dell’ Inquisizione, e che nel caso che un abboccamento con me non fosse stato possibile, lo avrebbe fatto parlare col Padre Commissario al quale mi avrebbe potuto raccomandare, e dal quale avrebbe potuto avere certe notizie di me.

Il buon Pasquali cadde nel laccio, credè a quel preteso gentiluomo, e gli domandò quando si sarebber potute verificare quelle cose. “Anche ora, se volete, rispose l’ incognito; anzi questa è l’ora nella quale il Padre Commissario è meno occupato.” Andarono dunque al palazzo dell’ Inquisizione, l’incognito entrò nell’ appartamento del Padre Commissario, pregò il Pasquali di restare in anticamera per un momento fino a che il P. Commissario fosse prevenuto. Dopo un momento difatti uscì un servo dall’ appartamento e introdusse il Pasquali. Quando ebbe passate alcune camere, il servo gli disse, che il P. Commissario gli permetteva di vedere il prigioniero, ma solo per un quarto d’ora, e poi sarebbe passato da lui ove l’ incognito amico lo aspettava. Il Pasquali seguiva il servo contentissimo; questi si fermò davanti ad una prigione, l’aprì, invitò il Pasquali ad entrare dicendogli che egli lo avrebbe aspettato di fuori; ma, appena entrò, tirò a sè la porta, e con uno scroscio di risa richiuse il chiavistello. Così il Pasquali fu messo in prigione, e pochi momenti dopo fu fatto a lui quello che fu fatto a me, cioè il verbale di arresto, e la perquisizione sulla persona. Ebbe un bel protestare, le sue proteste furono accolte con risa di scherno (Nota 1 - Carcerazioni per tradimento).

Intanto il Sig. Sweeteman ed il Sig. Manson, che non vedevano ritornare a casa il Pasquali, erano in grande agitazione. Passate alcune ore, andarono alla polizia, e la polizia promise, che nel giorno dopo si sarebbe occupata di cercare il Pasquali, ma che non prometteva di trovarlo (Nota 2 - La polizia papale); il giorno dopo vi tornarono, e non vi era nessuna notizia. Andarono dal Console inglese, il quale sospettò una qualche aggressione (Nota 3 - Aggressioni sotto pretesto di carità), e scrisse immediatamente alla Segreteria di Stato, perché ordinasse alla polizia di far tutte le ricerche possibili onde ritrovare il Pasquali. Intanto però passavano le settimane senza che si sapesse nulla.

Un giorno si presenta al Sig. Manson un uomo vestito signorilmente (e forse quello stesso che avea carcerato il sig. Pasquali) (Nota 4 - Segreto del S. Uffizio come si mantiene), e gli disse che egli avea notizie del sig. Pasquali e notizie certissime, che egli poteva indicare un mezzo sicuro per averlo libero, e che lo avrebbe indicato a due condizioni: la prima, una promessa solenne di assoluto segreto; la seconda, un regalo da convenirsi. Il sig. Manson promise il segreto, e per il regalo si convenne che sarebbero stati dati cento scudi, quando la relazione fosse stata trovata esattamente vera. Colui si contentò e svelò al sig. Manson il come era stato carcerato il Pasquali, e disse quello che dovea farsi onde liberarlo.

Intanto il sig. Pasquali era stato esaminato nel S. Uffizio; il suo esame però fu fatto con la solennità che si conviene ad un dogmatizzante (Nota 5 - Esami pubblici, o solenni). Egli non fu esaminato come me dal secondo compagno in privato; fu condotto nella camera del giudizio, ov’ erano il P. Commissario, Monsignor Assessore, il Fiscale, i due Padri compagni del Commissario, due Consultori, il capo Notaio ed un Notaio sostituto.

Monsignore Assessore ordinò al Pasquali di giurare, il Pasquali rispose: “Il Signore insegna di non giurare in nessuna maniera, ed io non giurerò; io sono solito, per la grazia di Dio, di non mentire giammai, e di non giurare giammai.” Gli fu domandato a qual setta religiosa appartenesse: il sig. Pasquali rispose con le parole di S. Paolo: “Io servo all’Iddio de’ miei padri, secondo la professione che voi chiamate setta, e credo a tutto quello che è scritto nella Parola di Dio; in una parola, io sono Cristiano, e non appartengo a setta alcuna.” “Però, continuò l’ Assessore, voi appartenete ad una setta separata dalla Chiesa di Gesù Cristo.” “Domando perdono, rispose il Valdese, io appartengo alla Chiesa di Gesù Cristo, e non ad una setta; anzi, per la misericordia di Dio, appartengo ad una Chiesa che fin dai tempi apostolici esiste, e che conserva tuttora la dottrina, apostolica” (Nota 6 - Antichità de' Valdesi ).

Allora uno dei due Consultori domandò la parola, ed incominciò ad entrare in discussione col Pasquali. Il Pasquali a questo punto era pieno di una gioia inesprimibile, perchè gli si dava l’ occasione di testimoniare del Vangelo, in una riunione dei suoi più grandi nemici. “S. Paolo dice, incominciò il Consultore, che la sola Chiesa cattolica apostolica romana è la colonna e il firmamento della verità” (Nota 7 - La Chiesa colonna e sostegno della verità). “Reverendo Padre, interruppe Pasquali, S. Paolo non parlava della Chiesa romana in quel passo, ma parlava della Chiesa di Gesù Cristo: vi dirò io quando S. Paolo parlava della Chiesa romana. Egli ne parlava nel cap. XX degli Atti apostolici, quando diceva: “Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi dei lupi rapaci che non risparmieranno la greggia, e che d’ infra voi stessi sorgeranno degli uomini che proporranno cose perverse;” ecco quando S. Paolo parlava di voi. Ma ne parlava più chiaramente nel capo IV della sua prima lettera a Timoteo, quando diceva: “Lo Spirito dice espressamente, che negli ultimi tempi alcuni apostateranno dalla fede, attendendo a spiriti seduttori, ed a dottrine diaboliche d’uomini che proporranno cose false per ipocrisia, cauterizzati nella propria coscienza.”

Volea il Pasquali citare altri passi su quel proposito, ma fu interrotto dal Presidente, il quale gli disse che dovea limitarsi a rispondere semplicemente alle interrogazioni. Gli fu dunque domandato: “Cosa pensate voi del Papa?” “Io penso, rispose, che egli è quell’uomo di cui parla S. Paolo nel c. II della seconda lettera ai Tessalonicesi” (Nota 8 - Il capo II della seconda ai Tessalonicesi). Un grido di orrore scoppiò unanime dalla bocca di quegli uomini, ed il Presidente alzandosi disse: “È un eretico ostinato, non abbiam bisogno di altre prove.” Tutti si alzarono e ad un cenno del Presidente il Pasquali fu ricondotto nella prigione, e forse eravamo tutti e due destinati ad essere gittati in uno di quei forni di cui ti ho parlato, se Dio non provvedeva alla nostra salvezza.

Mentre accadevano queste cose nel Sant’ Uffizio, il signor Manson non perdeva il suo tempo, egli era andato insieme col sig. Sweeteman dal Console inglese, e gli avean raccontato ciò che egli avea saputo dall’incognito, cioè, che il Sig. Pasquali era nelle prigioni del S. Uffizio, dalle quali non sarebbe mai più uscito, e gli manifestò il consiglio che l’ incognito gli avea dato per liberarlo. Il consiglio era questo, che il Console inglese domandasse immediatamente un’ udienza al papa, e gli parlasse con grande risolutezza, come se parlasse per ordine del suo Governo, e domandasse risolutamente la immediata liberazione del Pasquali, che non cedesse in nulla, e sopratutto che non accordasse tempo, perché altrimenti tutto era perduto. “Assicuratevi, avea detto l’ incognito, che la poca esperienza del papa, il suo naturale timoroso ed indeciso, il timore che in questi momenti inspira alla Curia romana Lord Palmerston, faran sì che il papa accondiscenderà alle domande del Console, forse mettendo per condizione l’ esilio del Pasquali. Sopratutto però, avea detto l’ incognito, che il Console parli di questo solo col papa, e procuri, per quanto è possibile, di non uscire dall’ udienza senza avere ottenuta per iscritto la liberazione del Pasquali.”

Il Console aggradi il consiglio, ed indossata immediatamente l’uniforme, andò al Quirinale (Nota 9 - Palazzi apostolici), entrò nelle anticamere con aria molto preoccupata, come se dovesse parlare al papa di affari interessantissimi; andò diritto dal maestro di camera, e con la stessa aria di preoccupazione domandò una sollecita udienza. Fu quasi subito ammesso alla presenza del papa, e seppe così ben fare, che il papa concepì timore di tirarsi addosso il corruccio dell’ Inghilterra. Il Console fece conoscere che il Pasquali era suddito inglese, e che l’ Inghilterra non avrebbe potuto soffrire in pace di vedere un suo cittadino nelle carceri dell’ Inquisizione, mentre in Inghilterra i Cattolici godono intera libertà. Fece conoscere al papa che se il Pasquali era immediatamente liberato, la cosa non avrebbe avuto alcun seguito; ma se non lo fosse stato, egli Console avrebbe dovuto immediatamente scrivere al suo Governo, ed allora l’ affare si sarebbe trattato diplomaticamente, e la riuscita non sarebbe al certo stata vantaggiosa al Governo pontificio. Il papa si spaventò, e promise che avrebbe liberato il Pasquali; ma il Console gli fece osservare che quella promessa, sebbene valevolissima, pure non lo dispensava dal dovere scrivere immediatamente al suo Governo, e perciò pregava il papa a volere realizzare subito quella promessa, degnandosi di scrivere di propria mano un ordine per la immediata liberazione del Pasquali.

“Vostra Santità, egli diceva, non deve dipendere da nessuno in questa cosa, è un affare puramente religioso, ed i Ministri non vi hanno che far nulla.” Il papa allora scrisse se l’ ordine di liberazione e lo consegnò al Console, il quale a tutta corsa andò al S. Uffizio, presentò l’ordine, e volle che immediatamente gli si consegnasse il Pasquali.

Era un’ ora dopo il mezzogiorno quando i due miei amici videro giungere alla loro casa il Console col Sig. Pasquali, il quale dopo un mese di prigione era così consunto e deteriorato in salute, che sarebbe stato difficile il riconoscerlo. Il Console gli ordinò di mangiare qualche cosa, ed intanto egli fece preparare i loro passaporti per Malta, li fece partire nello stesso giorno, temendo che il papa, ripensando a quello che avea fatto, avesse potuto, sotto un altro pretesto, far di nuovo imprigionare il Pasquali (Nota 10 - Buonafede della polizia). Essi pagarono allora i cento scudi all’ incognito delatore, raccomandarono me al Console il quale non potè far nulla, non essendo io suddito inglese, e partirono per Napoli, ove presero l’imbarco per Malta.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:10
Carcerazioni per tradimento
Nota 1. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Le carcerazioni per tradimento sono cosa assai comune in Roma ed in tutti i governi dispotici. Quando una persona di qualche interesse deve essere carcerata, si usa quasi sempre il tradimento: alle volte è un amico che ingannato egli stesso conduce l’amico nelle mani dei gendarmi; alle volte si è chiamati alla polizia per qualche cosa insignificante in apparenza, ed invece di parlarvi di quella cosa vi trovate arrestati. Il signor Pasquali era suddito inglese, ed era chiaro che una carcerazione eseguita regolarmente non poteva restare occulta; era chiaro che il Console inglese avrebbe fatto tutti i passi necessari in favore del suo connazionale, e ne avrebbe ottenuta la immediata scarcerazione. Ma Roma volea vendicarsi, avea quindi bisogno che la carcerazione del Pasquali fosse un mistero, ed è per ciò che usò il tradimento.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:11
La polizia papale
Nota 2. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

La polizia romana è la migliore di tutte le polizie sotto un aspetto, ma sotto l’ aspetto della moralità (se moralità vi può essere in un officio di polizia) è la più infame di tutte. La polizia romana ha sotto di sè tutti i così detti precettati. Cosa sono i precettati? Sono ladri, i quali, dopo essere usciti dalla galera, hanno il precetto dalla polizia, di non uscire di casa la notte. Questi precettati vivono nell’ ozio, perché, dopo usciti dalla galera per ladri, nessuno li vuole nè in casa nè in bottega; il loro numero in Roma è dai cinque ai seimila: tutta questa gente vivono di furti; la polizia li conosce tutti e li lascia fare, perché vi ha il suo tornaconto. Il capo della polizia era il famoso colonnello Filippo Nardoni, ladro anch’ esso.

Ecco come il Nardoni incominciò la sua carriera. Da ragazzo fu messo come apprendista presso un negoziante d’ Ancona, certo Sig, Spallazzi; il giovane apprendista Nardoni un giorno ruppe un cassetto dello scrittoio, credendo di trovarvi molto danaro, ma non vi trovò che diciannove scudi. Ciò accadeva nel tempo del governo francese; scoperto il furto, il Nardoni fu condannato alla berlina sulla piazza di Ancona, a cinque anni di galera, al bollo che doveva farglisi sulla spalla destra con ferro rovente, ed alla sorveglianza di polizia per tutto il tempo della sua vita. Subì la pena della berlina, andò in galera; ma ottenne la grazia del bollo a cagione della sua tenera età e mal ferma salute.

Tornato il governo dei preti, Nardoni fu liberato dalla prigione e fu ascritto nel corpo dei carabinieri pontifici: di mano in mano giunse al grado di colonnello e capo dello spionaggio; come colonnello avea lo stipendio di ottanta scudi al mese, e quaranta scudi avea come capo dello spionaggio. Per i furti e per i delitti comuni, le sue spie erano i precettati, i quali erano da lui pagati non a stipendio fisso, ma secondo la importanza delle delazioni. Quindi accadeva spesso che, per farsi onore, Nardoni immaginava un qualche delitto, un qualche furto eclatante, comunicava il suo progetto a qualcuno dei precettati suoi fidi, e questi seduceva dei compagni per commettere il delitto, ed avvertiva Nardoni del giorno e dell’ ora nella quale dovea commettersi. Allora Nardoni appostava i suoi uomini, e sorprendeva i ladri sul fatto; il delatore qualche giorno dopo era rimandato libero dal giudice istruttore, gli altri subivano la galera, e Nardoni si faceva onore come d’uomo avveduto, e riceveva buona mancia da colui che era stato preservato dal furto. Un’ altra ragione per cui i precettati sono così ben veduti dalla polizia è questa. Accade qualche volta un qualche furto a danno di qualche forestiere di riguardo, l’ ambasciatore di quella potenza domanda soddisfazione alla polizia; allora Nardoni chiamava a sè i capi dei precettati, che sono capi di compagnie organizzate di ladri, e gl’ imponeva nel termine di poche ore di consegnare alla polizia l’oggetto derubato. La polizia allora restituiva l’ oggetto al forestiere, il quale non sapendo il mistero, faceva mille elogi dell’avvedutezza della polizia romana.

Servono ancora i precettati a commettere dei furti, o politici o diplomatici, per conto del governo. Ecco un fatto su questo proposito. Mentre era segretario di Stato il cardinale Lambruschini, fu mandato in Roma da Luigi Filippo un diplomatico con una missione straordinaria. Il cardinale Lambruschini desiderava sapere, prima di ricevere quel diplomatico, quali fossero le istruzioni che avea ricevute dal suo governo. Il diplomatico domandò udienza al cardinale, e l’ ottenne per il giorno seguente. Lambruschini mandò a chiamare Nardoni e gli disse, che nella serata voleva assolutamente il portafogli di quel diplomatico, ma che lo voleva in modo che egli non si avvedesse che gli fosse stato nè tolto, nè aperto.

Nardoni non si sgomentò punto a quest’ ordine, e chiamato a sè uno dei nobili romani, che per mantenere un certo lusso servono la polizia, gli disse che avesse pensato a fare nella sera, con qualche pretesto, uscire il diplomatico, e tenerlo fuori della locanda almeno per due ore. Il pretesto fu subito trovato; il diplomatico fu invitato al teatro, e, mentre era fuori, Nardoni fece rubare il suo portafogli, lo portò al cardinale Lambruschini, e con appositi ordigni, di cui era ben fornito, lo aprì; il cardinale lesse le istruzioni, il portafogli fu richiuso e rimesso al suo posto; il cardinale ebbe tempo di sventare i progetti del diplomatico, dando gli opportuni ordini preventivi. Questa operazione non costò al governo che quaranta scudi.

Nella polizia romana vi è un’ altra iniquità, o a meglio dire un ladroneggio organizzato. Quando si sorprendono oggetti derubati di oro o di argento, il giudice istruttore li ha in consegna durante il processo: nel descrivere questi oggetti se sono di argento, egli li descrive come oggetti di metallo bianco, per la ragione, egli dice, che egli non è obbligato a conoscere il valore dei metalli; se sono d’oro, li descrive come oggetti di metallo giallo. Intanto quegli oggetti vanno dall’orefice, che io potrei nominare, il quale prende il modello, e fa quei medesimi oggetti in falso; i buoni sono venduti, metà a profitto dell’ orefice, metà a profitto del processante. Quando il derubato è chiamato a riconoscere i suoi oggetti dice che non sono i suoi, perchè i suoi eran buoni, e quelli sono falsi. Non essendo stati riconosciuti gli oggetti, ed essendo essi di nessun valore, il ladro non è condannato, ed il vero ladro riceve i ringraziamenti del derubato.

La grande occupazione della polizia romana non è di prevenire i delitti o di scoprirli dopo che sono commessi, ma di sapere chi sono i liberali, e quali discorsi essi facciano. A tale effetto, la polizia manda ogni giorno uno dei suoi alla posta, quando giungono i corrieri, ad aprire e leggere tutte le lettere sulle quali essa può avere il più piccolo sospetto. Insieme all’impiegato di polizia vanno due artisti per aprire e richiudere le lettere in modo che non appaia sieno state aperte. In questo modo agisce la moralissima polizia del S. Padre.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:11
Aggressioni sotto pretesto di carità
Nota 3. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Le aggressioni in Roma sono frequenti, e si fanno anche in pieno giorno nelle strade le più frequentate; ma non è di queste aggressioni di cui sospettava il console inglese.

Vi è un altro genere di aggressioni meno frequenti invero, ma più terribili, e sono le aggressioni sotto pretesto di carità. Se si vuole aggredire un prete, un bigotto, quando si sa che hanno denari, gli si presenta una fanciullina piangendo: il bravo uomo domanda cosa ha che piange, e la fanciulla racconta una storiella del padre o della madre gravemente inferma e bisognosa di aiuti e di consolazioni, il buon uomo si muove a compassione e dà un’ elemosina: allora la storiella è ripetuta agli altri, fino a che si trova qualcuno che, credendosi più furbo, vuol vedere da sè il malato o l’ ammalata: la ragazza lo conduce in una qualche rimessa disabitata, che ve ne sono tante in Roma, là vede una povera donna coricata in terra su poca paglia; mentre si muove a compassione, vengono fuori due uomini robusti e lo derubano di tutto; se fa resistenza o grida, è ucciso. Questa è l’ aggressione di cui temeva il console inglese.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:11
Segreto del S. Uffizio come si mantiene
Nota 4. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Tutti gli impiegati del S. Uffizio, anche gli infimi, debbono fare un giuramento solenne di non rivelare cosa alcuna, nè direttamente nè indirettamente, di quello che possa appartenere al S. Uffizio. Questo giuramento però non è sempre scrupolosamente osservato, perchè gli impiegati del S. Uffizio non sono, generalmente parlando, gli uomini i più scrupolosi del mondo. È vero che la violazione del giuramento è punita severamente; ma, quando si può essere certi di non essere compromessi, e quando vi è una buona mancia, non è certo la coscienza che impedirà a quegli uomini di violare il giuramento. Non è dunque strano che lo stesso individuo che carcerò il Pasquali nella maniera che abbiam veduto, sia poi andato egli stesso, per guadagnare la vistosa mancia di cento scudi, ad avvertire gli Inglesi, dai quali poteva esser certo di non essere tradito. I segreti del S. Uffizio poi sono noti a tante persone che è quasi impossibile che non si trovi fra esse qualcuno che li riveli, sia per malizia, sia per imprudenza. Fra gli impiegati del S. Uffizio non vi è segreto alcuno, possono tutti parlare fra loro delle cose del S. Uffizio. Ora gli impiegati sono molti, oltre gli impiegati superiori. Monsignore assessore, il fiscale, tutti i consultori hanno ciascuno un uditore che li aiuta a studiare le cause; vi sono inoltre una quantità di sostituti notai, una quantità di copisti: per cui il segreto è sparso in un bel numero di persone, e con un poco di danaro non è difficile scoprire quello che si vuole.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:11
Esami pubblici, o solenni
Nota 5. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

L’ inquisizione di Spagna, sebbene crudelissima, pure qualche volta usava giudicare pubblicamente gli eretici; ma nelle memorie dell’ inquisizione romana non troviamo che un sol caso nel quale un eretico fosse stato giudicato pubblicamente: ciò accadde ai tempi e per ordine di papa Giulio III, nella persona di Giovanni Mollio, il quale, essendo stato frate e professore nell’ università di Bologna, aveva abbracciato il Vangelo, e ne era divenuto zelante predicatore. Giulio III lo fece carcerare, e condotto in Roma, volle che fosse giudicato pubblicamente e con tutta solennità. Non sarà discaro ai nostri lettori se daremo una breve descrizione di quell’ unico solenne giudizio pubblico fatto dall’ inquisizione romana.

Questo giudizio fu fatto il 5 settembre 1553. L’ inquisizione allora risiedeva nel convento dei frati Domenicani alla Minerva. Una sala immensa, che può contenere un migliaio di persone, fu il luogo destinato per quel solenne giudizio. In fondo della sala, in faccia alla porta d’ ingresso, eravi il trono del papa, ma solo per la forma, perchè egli non fu presente a quel giudizio, però vi dovea essere il suo trono essendo egli il presidente dell’ inquisizione. Ai due lati del trono sopra a tre gradini erano posti i banchi per i dodici cardinali inquisitori, coperti di damasco violaceo. Vicino ai cardinali che sono a destra del trono era assiso sopra uno sgabello monsignor assessore; e vicino ai cardinali che sono a sinistra era assiso sopra un eguale sgabello il reverendissimo P. commissario: così era piena tutta la facciata di fondo della sala. Dal lato destro vi era un banco sul quale sedevano i consultori, e dal lato sinistro sull’ altro banco sedevano i qualificatori. Dinanzi ai gradini del trono vi era una tavola coperta di panno nero, sopra la quale eravi un crocifisso pur esso nero, ed un cartone sul quale sono stampati i primi quattordici versetti dell’ Evangelo di S. Giovanni; dinanzi alla tavola ad una certa distanza vi era lo sgabello rustico ove dovea sedere l’ accusato: ai due lati di esso vi erano le panche per i sostituti notai ed altri impiegati del S. Uffizio; il quadrato è chiuso da due gran banchi sui quali vanno a sedere i testimoni; dietro ad essi sono i soldati dell’ inquisizione; poi vi è una balaustra per impedire al pubblico di appressarsi troppo. Delle gallerie praticate intorno alla sala erano destinate per l’ aristocrazia; il popolo occupava il resto della sala.

La sala era piena qualche ora prima che cominciasse il giudizio. All’ora del giudizio si sente un canto lugubre nel corridoio che mette alla sala: erano le vittime che si avvicinavano precedute dai frati con lo stendardo dell’ inquisizione inalberato che cantavano in tuono sommesso il Miserere. Gli accusati venivano due per due, avendo ciascuno una candela di cera gialla accesa nelle mani; erano accompagnati dai frati e dai carcerieri, che per non essere conosciuti erano coperti di un sacco nero con un cappuccio sulla faccia ove erano due fori per lasciar libera la vista; gli accusati andarono a prender posto dietro la panca dei consultori e dei qualificatori.

Dopo le vittime entravano processionalmente i giudici, prima i qualificatori, poi i consultori, poi l’ assessore e il commissario, finalmente i dodici cardinali inquisitori, non in abito rosso, ma in abito violaceo che è l’ abito di lutto. Giunti al loro posto, tutti si misero in ginocchio, ed il cardinale decano lesse una preghiera in latino: dopo la preghiera incominciò immediatamente il giudizio.

Non vi è memoria nella storia della inquisizione romana che vi sieno stati altri giudizi pubblici, nè prima nè poi, per cui non possiamo dire quale fosse la pratica di tali giudizi: diremo soltanto ciò che accadde in questo. Questo giudizio dovea essere non altro che un colpo di scena, per provare al pubblico che tutto quello che si diceva sui rigori dell’inquisizione erano favole; che l’ inquisizione usava rigore soltanto con gli ostinati, ma si mostrava clementissima sopra gli erranti che riconoscevano il proprio errore. Gli accusati in quel giudizio erano tutti preparati a domandare perdono e fare la pubblica abiura. Uno dei notai chiamava ad un per uno gli accusati: colui che era chiamato andava a sedersi nello sgabello preparato: allora il notaio leggeva a voce alta i delitti di cui era accusato, e che si dicevano evidentemente provati in processo. Il padre commissario diceva all’ accusato che gli era permesso difendersi. Allora l’ accusato implorava la misericordia del S. tribunale, e si diceva pronto ad abiurare i suoi errori. Il cardinale decano che faceva le veci di presidente ordinava allora che l’ accusato fosse sciolto, e gli uomini mascherati lo scioglievano, gli toglievano di mano la candela ed era messo da un lato.

La farsa passò in tal modo fino al penultimo degli accusati che era Giovanni Mollio. Costui desiderava rendere solenne e pubblica testimonianza all’ Evangelio, e perciò quando nei giorni antecedenti gli era stato detto se nel pubblico giudizio avrebbe ritrattati i suoi errori disse di sì usando una restrinzione mentale; egli intendeva che avrebbe ritrattati gli errori della Chiesa romana, e non quelli che gli erano dal S. Uffizio imputati. Se il S. Uffizio avesse compresa la furberia di Mollio, non lo avrebbe fatto comparire in quel giudizio. Il fatto sta che Mollio vi comparve, ed essendo seduto sul suo sgabello, il notaio lesse l’ accusa di Luterano, lesse i capi principali della dottrina insegnata da lui e conchiuse che era convinto di Luteranismo. Quando il padre commissario gli disse di difendersi, Mollio si levò, e, gettando lungi da sè la candela gialla, incominciò la sua vera difesa: disse che egli era Luterano come lo era stato S. Paolo, che egli non era Cattolico romano, perché la Chiesa cattolica avea abbandonato il Cristianesimo dell’Evangelio, ed incominciò con passi della Bibbia a dimostrare la verità della dottrina evangelica da lui insegnata, e la falsità delle dottrine della Chiesa romana.

A tale inaspettato discorso, i cardinali impallidirono, gli spettatori erano in un tale silenzio di ammirazione, che nella vastissima sala si sarebbe sentito il ronzare di una mosca. Conchiuse la sua difesa, con queste parole: ‘‘Quanto a voi, cardinali, vescovi, e prelati, se io fossi persuaso che avete ricevuto da Dio il potere che vi attribuite, o se foste nel posto che siete per le vostre virtù e non per la vostra ambizione, non avrei nulla a ridire contro di voi: ma siccome vedo e so, che voi avete dichiarata la guerra al Vangelo ed alla virtù, così non posso risparmiarvi, e sono dalla mia coscienza obbligato a dirvi che il vostro potere non viene da Dio, ma dal diavolo. Se il vostro potere fosse apostolico, come volete far credere, la vostra vita e la vostra dottrina sarebbero conformi a quelle degli Apostoli. Ma voi siete assetati del sangue dei santi, e non potete essere i successori degli Apostoli, voi perseguitate Cristo e l’opera sua, voi tiranneggiate le coscienze. Pronunciate pure la vostra sentenza su di me, ma io fin da questo momento ne appello al tribunale di Gesù Cristo, e là vi aspetto, là ove le vostre mitre, i vostri pastorali, la vostra porpora, non imporranno punto a quel Giudice.”

Il popolo romano ama più che qualunque altro popolo gli atti coraggiosi; ed un grido spontaneo di approvazione risuonò per tutta la sala, la rabbia dei cardinali fu al colmo, e Mollio fu portato via per una porta segreta.

L’ultimo che restava da esaminare era un tal Tisserando di Perugia, il quale avendo intesa la confessione di Mollio volle imitarlo, e disse che faceva sue le parole di Mollio. Fu anch’ egli portato via per la porta segreta. Allora il cardinale decano pronunciò l’ assoluzione dalle censure sopra coloro che aveano abiurato, e pronunciò su di loro la sentenza di perpetua prigionia. Mollio ed il compagno pochi giorni dopo furono condotti sulla piazza di Campo di Fiore, ed essendogli stata forata la lingua con un ferro rovente prima di uscire dalla prigione acciò non potessero parlare al popolo, furono bruciati vivi.

Questo è l’ unico esempio di un giudizio pubblico che siasi fatto nell’inquisizione di Roma, il giudizio solenne fatto al signor Pasquali si usa fare anche ora, nei casi di eretici dogmatizzanti.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:12
Antichità de' Valdesi
Nota 6. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Il signor Pasquali, come Valdese, ritiene l’opinione generalmente ritenuta dai Valdesi, che essi di scendono in retta linea dagli Apostoli. Quest’ opinione può essere teologicamente vera, ma storicamente la crediamo falsa. È teologicamente vera, in quanto che i Valdesi hanno le stesse dottrine che hanno insegnate gli apostoli, ma in questo caso, l’ apostolicità della Chiesa non è un privilegio esclusivo dei Valdesi: ma essa appartiene a tutte le Chiese cristiane che non hanno altro fondamento che Gesù Cristo e la Bibbia, che è il fondamento posto dagli Apostoli.

Però storicamente parlando i Valdesi non sono più antichi del XII secolo, e discendono da Pietro Valdo da Lione: tal’ è l’ opinione dei più recenti storici e dei migliori critici. Ciò però non toglie nessun pregio alla Chiesa valdese, imperciocchè essa non siegue le dottrine inventate da Valdo, ma le dottrine insegnate dagli Apostoli e registrate nella Bibbia.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:12
La Chiesa colonna e sostegno della verità
Nota 7. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

I teologi romani si fanno assai forti su questo passo citato contro il Pasquali, che, cioè, ‘‘la Chiesa dell’ Iddio vivente è colonna, e sostegno della verità" (1 Tim III, 15). Con questo passo, pretendono provare che la verità è stata consegnata alla Chiesa romana, e che fuori di essa è impossibile trovarla, vogliono provare l’infallibilità della Chiesa romana, e l’ obbligo in tutti e per tutti di accettare le sue decisioni, come infallibilmente vere. Ma in primo luogo osserviamo, che in quel passo non si parla punto di Chiesa romana, in conseguenza cade tutta la loro interpretazione. Teodoreto spiegando quel passo dice così: “L’ Apostolo chiama in tal modo l’assemblea di coloro che han creduto:

essi sono la colonna e l’appoggio della verità, perchè sono fondati sulla pietra, e vi dimorano stabili, e pubblicano la verità della dottrina per le loro azioni.” Quand’anche dunque S. Paolo in quel passo parlasse della Chiesa, non sarebbe mai la Chiesa romana, e non stabilirebbe la sua infallibilità.

Però non è certo che in quel passo si parli della Chiesa. In molti esemplari greci del Nuovo Testamento, dopo quelle parole la Chiesa di Dio vivente, vi è un punto, ed allora la costruzione di quel periodo è tutta cambiata, allora bisognerebbe tradurre così i versetti 15 e 16: “Affinchè, se io tardo, tu sappi come si conviene conversare nella Chiesa di Dio, che è la Chiesa dell’ Iddio vivente. Il mistero della pietà colonna e sostegno della verità, è senza veruna contradizione grande, Dio manifestato in carne ec.” Nel caso che si ammetesse questa costruzione autorizzata da antichissimi codici, cosa ne avverrebbe? S. Paolo avrebbe detto che la manifestazione di Dio in carne è la colonna e il sostegno della verità, lo che è verissimo.

Ma riteniamo pure l’ortografia comune del testo ricevuto. La Chiesa è la colonna e il sostegno della verità: che ne viene da ciò? La colonna e il sostegno appoggiano e sostengono la volta, ma non la creano; così la Chiesa, come una colonna che non piega e non cede, deve sostenere la verità, ma non farla. Qual’ è la verità della quale la Chiesa è colonna e sostegno? È la verità che salva, la verità sola necessaria, la dottrina di Cristo Salvatore dei peccatori. Quindi quella sola Chiesa che ritiene la verità tale quale essa è in Cristo, come essa ci è rivelata dalla Bibbia, quella sola Chiesa è colonna e sostegno della verità. È chiaro dunque che alla Chiesa romana non appartiene questo titolo: essa brucia la Bibbia, scomunica chi la legge, e si è fatta colonna e sostegno delle sue tradizioni, e dei decreti dei suoi papi, i quali non sono quella verità di cui parla San Paolo.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:12
Il capo II della seconda ai Tessalonicesi
Nota 8. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Il Valdese cita contro la Chiesa romana il cap. II della seconda epistola di S. Paolo ai Tessalonicesi. Quel capitolo è uno dei più interessanti capitoli del Nuovo Testamento, specialmente per quello che riguarda la controversia. È necessario dunque darne una breve e chiara spiegazione, per quei lettori che non fossero versati in tali materie.

I Cristiani di Tessalonica erano perseguitati per la loro fede (I Tessal. I, 6), erano perseguitati dai loro compatriotti (1 Tess. II, 14), alcuni di essi erano morti e S. Paolo li consola sui fratelli morti nella certezza che all’ avvenimento del Signore risusciteranno e si uniranno a loro viventi (1 Tessal. IV, 14 -17). I Tessalonicesi da quelle parole di s. Paolo argomentarono che la venuta del Signore fosse da S. Paolo predetta come se dovesse avvenire a momenti. Perciò S. Paolo, nella seconda lettera al cap. II li previene contro questo errore, e nei due primi versetti li scongiura a non lasciarsi ingannare sotto qualunque pretesto, sulla prossimità di quell’ avvenimento. Continua poi nel versetto terzo a dirgli che il Signore non verrà se prima non si sarà manifestata l’ apostasia e l’ uomo del peccato.

Qual’ è quest’ apostasia? S. Paolo, come tutti gli altri scrittori del Nuovo Testamento, parlava secondo l’ analogia biblica: l’ apostasia dunque di cui parla è quella predetta da Daniele specialmente nel cap. VII, vers. 24, 25, e quella che egli predice nel cap. IV della prima lettera a Timoteo. L’ uomo del peccato, di cui parla S. Paolo, era conosciuto dai Tessalonicesi, altrimenti non avrebbe potuto parlarne loro con l’ articolo indicativo, l’ uomo; era dunque l’uomo del peccato, secondo le Scritture. Quell’ uomo dunque era la quarta bestia di Daniele (Dan. VII, 6, 7, 23 - 25), quell’ uomo dunque del peccato non è soltanto un individuo, ma è anche un potere, un sistema.

Quell’ uomo del peccato si chiama ancora il Figliuolo della perdizione. Questa maniera di parlare biblica equivale ad un superlativo, inguisachè figliuol di perdizione vuol dire uomo irreparabilmente perduto. Noi troviamo nella Bibbia due individui indicati con questo epiteto: Giuda il quale esteriormente passava per Apostolo del Signore, ma in realtà era l’ uomo più scellerato che esistesse; e l’ uomo di cui parla qui S. Paolo, il quale pure esteriormente sembrerà un Apostolo, un santo, anzi si chiamerà l’uomo apostolico per eccellenza, ma dallo Spirito Santo è chiamato il figliuol della perdizione.

Sembra dunque chiaro che l’uomo di cui parla qui S. Paolo, sia che si consideri come un sistema, sia che voglia considerarsi come un individuo, è un sistema religioso, è un individuo religioso per eccellenza, almeno apparentemente: sia dunque che si consideri come Anticristo individuo che dovrà venire alla fin dei giorni, o come Anticristo sistema, che cominciò fin dai tempi apostolici, sempre quest’ uomo, o questo sistema, sarà un uomo od un sistema evidentemente religioso: primo, perchè produrrà l’ apostasia, la quale è una rivolta contro Dio, e non può operarsi se non che da colui che comanda dispoticamente sulla religione; secondo, perchè è chiamato l’ uomo del peccato, che quanto dire il fabbricatore di peccati per sè e per altri; la quale qualifica non può appartenere che ad un uomo o ad un sistema che abbia a pretesto la religione, per condurre gli uomini al male ed all’ apostasia; terzo, perchè quest’epiteto del figliuol di perdizione, essendo stato dato da Gesù Cristo a Giuda apostolo prevaricatore, indica che colui, che da S. Paolo è chiamato con lo stesso nome, debba essere simile a Giuda. Così dicono quei Protestanti i quali interpretano il cap. II della lettera ai Tessalonicesi, come se quell’ uomo di peccato fosse il papa di Roma. Noi non vogliamo entrare a decidere questa controversia, ma la riportiamo storicamente.

Con questa medesima esegesi, spiegano il verso 4 applicandolo sempre allo stesso personaggio. Quell’ uomo del peccato è chiamato nel verso 4 l’ avversario: e qui credono che S. Paolo parli di quello stesso personaggio di cui parla il profeta Daniele, cap. VI, vers. 36, 37, il quale unirebbe all’ impero spirituale il regno temporale: quell’ uomo, secondo Daniele, non sarebbe frenato da nessuna legge, perchè ogni legge sarebbe inferiore a lui, quindi egli non ha altra legge che la sua volontà. Anche in questo carattere i Protestanti riconoscono il papa di Roma, il quale non è frenato da nessuna legge civile o canonica, ma le sue leggi sono fatte, come egli dice, di moto proprio e con la sua pienezza di potere, che è quella che dice Daniele di quell’ uomo che fa ciò che gli piace. Daniele continua e dice, che quel re s’ innalzerà e si magnificherà sopra ogni Dio: ed anche qui i Protestanti vedono il papa di Roma, il quale si fa chiamare Santissimo Signor nostro, e si pone a sedere sopra l’ altare di Dio per farsi adorare. Continua Daniele e dice che quell’uomo profferirà cose strane contro l’ Iddio degli iddii; ed anche qui i Protestanti credono riconoscere il papa di Roma quando annulla i Comandamenti di Dio per le sue tradizioni. Dice Daniele di quell’ uomo che non si curerà di amore di donne: ed anche qui i Protestanti vi vedono il papa, il quale proibisce ai suoi preti il santo e legittimo amore della propria donna, sotto pena di sacrilegio.

Nel verso 4, S. Paolo dice, che quell’ avversario s’ innalza sopra chiunque è chiamato Dio o divinità. I Protestanti scrivendo questo passo ragionano presso a poco in questo modo: Non è detto che quell’ avversario si innalza sopra a Dio, ma sopra a chiunque è chiamato Dio; ora nella Bibbia sono chiamati Dii e Signori i magistrati e le autorità costituite, ed il papa s’innalza e si dice superiore a tutte le autorità costituite della terra.

È detto ancora in quel verso 4, che colui siede nel tempio di Dio come Dio, mostrando sè stesso e dicendo che egli è Dio. Alcuni fra i Protestanti moderni credono che il tempio di Dio sia il tempio di Gerusalemme, e non la chiesa di S. Pietro di Roma, ove il papa siede sull’ altare como Dio. Altri Protestanti però rispondono che è vero che S. Pietro di Roma non è il tempio di Dio, ma che S. Paolo in questo passo non parla nè di S. Pietro di Roma nè del tempio di Gerusalemme. Il tempio di Gerusalemme, dicono che nel Nuovo Testamento non è mai chiamato il tempio di Dio; ma tempio di Dio nel Nuovo Testamento è la Chiesa di Gesù Cristo, e citano I Cor. III, 16, 17; 2 Cor. VI, 16; 1 Tim. III, 15. Dicono che la parola siede non deve essere intesa nel senso materiale, ma nel senso di regnare; e, per applicare questo senso al papa, essi dicono che il regno papale si chiama Santa Sede.

Abbiamo riportata brevissimamente l’interpretazione che dànno i Protestanti a questo passo per spiegare le parole dette dal Pasquale ai suoi giudici, e l’abbiamo riportata storicamente, lasciando ai nostri lettori il pensiero di giudicare se l’interpretazione dei Protestanti è giusta o no.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:13
Palazzi apostolici
Nota 9. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Il papa ha attualmente in Roma due magnifici palazzi: il palazzo del Quirinale, ove abita ordinariamente nell’ estate, ed il palazzo Vaticano, ove abita nell’ inverno. Avea prima anche il palazzo di S. Marco, e quello del Laterano; ma il palazzo di S. Marco, chiamato oggi palazzo di Venezia, appartiene all’ Austria; il palazzo Lateranense è ridotto a museo.

Il palazzo Quirinale è fabbricato sulla sommità del magnifico monte Quirinale: la vastissima piazza nella quale è fabbricato, è una delle più belle di Roma, sia per il punto di vista che si gode in essa, sia per l’aria balsamica che vi si respira, sia per i palazzi e gli oggetti d’ arte di cui è adorna.

Il palazzo pontificio del Quirinale fu incominciato da Gregorio XIII neI 1574, coll’ architettura di Flamminio Ponsio, fu seguitato e compiuto da altri pontefici, ed il lavoro fu diretto dai migliori architetti, fra i quali il Fontana ed il Bernini. Il magnifico cortile di quel palazzo e lungo quattrocentoquarantadue palmi, largo duecentoquaranta; da tre lati è circondato da un magnifico e larghissimo portico: il quarto lato, ossia il fondo del cortile, è decorato d’una facciata d’ordine ionico, terminata da un orologio sotto cui è un’ immagine della Madonna in mosaico. I superbi appartamenti, le sale, le cappelle sono ricchissime di oggetti d’ arte i più preziosi, e forniti della più bella mobilia. Il giardino di questo palazzo ha più di un miglio di grandezza, ed è ornato di statue, di fontane, di viali ombrosi, e ricco dei più belli fiori e delle più deliziose frutta. Nel mezzo di questo giardino vi è un elegante casino adorno di bellissime pitture e di ricca mobilia, ove il papa, nel dopo pranzo, dà udienza alle signore. Bisogna sapere che le signore non sono ammesse alle udienze ordinarie nel palazzo, ma quando vogliono avere un colloquio col papa, egli le riceve in quel casino, che con nome inglese è chiamato coffee-house.

Il palazzo Vaticano è molto più antico, molto più grande e molto più magnifico del palazzo Quirinale. La tradizione porta che il primo palazzo Vaticano fosse fabbricato da Costantino per l’ abitazione dei papi. Certo è però che ai tempi di Carlo Magno già esisteva. Il palazzo moderno però ebbe principio da Giulio II, il quale chiamò a Roma i migliori artisti, fra i quali Raffaello, per contribuire tutti all’ ornamento di quel palazzo.

Leone X poi, per la fabbrica del palazzo, dell’ annessa chiesa e magnifica piazza, pubblicò la vendita delle famose indulgenze per tutto il mondo, vendita che fu la causa occasionale della riforma religiosa di Lutero. Tutti i papi fino al presente, han contribuito ad accrescere e ad abbellire codesto palazzo, che non ha altro emulo nel mondo che il palazzo degli antichi Cesari.

Questo immenso edificio ha la circonferenza di palmi ottocentonovemilasecento, vale a dire occupa ventiquattro rubbia di terreno, misura romana. Le due magnifiche cappelle Sistina e Paolina, che abbiamo descritte in un’ altra nota, fan parte di questo palazzo. Il museo, la biblioteca, la pinacoteca, contengono tesori senza prezzo ed in numero sterminato.

Diremo due parole della biblioteca. Essa è la più ricca del mondo, sia per i codici manoscritti, sia per i rarissimi libri che contiene. L’ erezione della biblioteca attuale appartiene a Sisto V, ma tutti i papi posteriori l’ hanno accresciuta.

Nella prima sala vi sono gli scrittori delle diverse lingue, cioè due per la lingua latina, due per la greca, uno per l’ebraica, ed uno per l’araba e siriaca; in essa sala sono i ritratti di tutti i cardinali bibliotecari.

Siegue la vastissima sala, che è il corpo principale di tutta la biblioteca, essa è lunga palmi trecentodiciasette, e larga sessanta nove, e divisa da sei pilastri in due navate, ed è decorata di pregiatissime pitture; sopra il cornicione, che gira intorno alla medesima sala, sono rappresentate le principali azioni di Sisto V; sotto il medesimo cornicione, nella navata sinistra sono dipinte le più celebri antiche biblioteche; sopra le quattro faccie dei pilastri di mezzo sono rappresentati gl’ inventori dei caratteri di varie lingue; sul muro della navata destra sono dipinti i concili generali. Questa sala contiene quarantasei grandi armadi ornati di bellissime miniature, i quali armadi contengono la rarissima collezione dei codici. Sopra gli armadi è disposta una ricchissima collezione di vasi etruschi.

Dopo questa sala, vi sono due lunghissime corsie divise in molte stanze ripiene di armadi, nei quali si conservano altri manoscritti appartenenti già alle biblioteche dell’ elettore palatino, dei duchi di Urbino, della regina Cristina, della casa Capponi, e della casa Ottoboni, riunite tutte alla biblioteca vaticana. Queste due corsie unite misurano la lunghezza di quattrocento passi.

Nella terza stanza vi sono due statue antichissime sedenti: una rappresenta Aristide da Smirne, l’altra S. Ippolito vescovo di Porto, nella cui sedia è scolpito l’ antichissimo calendario pasquale.

La quarta stanza contiene una raccolta di antichità cristiane e bassirilievi incassati nel muro. Vi sono in essa stanza otto armadi di radica di noce, nei quali si conservano molti monumenti di antichità sacra, cioè vetri, croci, vasi sacri, dittici ec.

Siegue la ricchissima sala dei papiri, ove sono conservate le antiche scritture fatte sopra a papiro egiziano. Questa sala è ornata di marmi sopraffini, di pitture di gran pregio, e di altri oggetti preziosissimi. Siegue una lunga galleria nella quale dentro scaffali decorati di dorature e cristalli si conservano i libri stampati. Finalmente vi è la camera del medagliere.

Il giardino del palazzo Vaticano è di una magnificenza e di un lusso veramente asiatico: casini adornati delle più pregevoli pitture, statue, colonne, oggetti di antichità, formano la parte preziosa dei giardini vaticani. La parte dilettevole consiste nei fiori più rari distribuiti con ammirabile arte, nelle frutta le più prelibate, in giuochi di acqua magnifici, e viali e boschetti e fontane e laghi che ti ricordano la descrizione poetica e fantastica del giardino di Armida. Tali sono i palazzi che servono di abitazione al successore del pescatore di Galilea, che per la sua povertà domanda oggi l’obolo della carità a tutto il mondo cattolico romano.

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:13
Buonafede della polizia
Nota 10. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Il console inglese è detto nel testo che fece partir subito il Pasquali, temendo che il papa lo facesse carcerare di nuovo, sotto qualche altro pretesto. Questa precauzione del console potrà sembrare esagerata a chi non conosce Roma; ma chi conosce la maniera di agire di quel governo sa bene che ad esso non mancano mai pretesti per carcerare, condannare alle galere, ed anche alla morte, uomini innocenti. Non bisogna però credere che il governo romano condanni gli innocenti sapendoli innocenti, ma egli si fa una ragione per assicurare la sua coscienza: ed ecco come accade. Un tale, per esempio, per occulta delazione è accusato di un delitto e carcerato, si fa il processo, e non si può provare nulla; l’ accusatore sarà un cardinale, un prete, una persona affezionata al governo, allora egli non può sbagliare, lo sbaglio è nei giudici processanti che non han saputo accumular prove per dimostrar vera l’ accusa. I giudici nello Stato romano possono condannare un individuo sulla loro semplice convinzione morale. La convinzione morale consiste in questo. Quando il giudice si è fitto in capo, che quel tale debba esser reo, a dispetto della mancanza di prove e delle prove in contrario, egli può, per la sua convinzione morale, condannare l’ accusato, sebbene dal processo resulti innocente; ed una tale condanna nelle leggi pontificie è legale, ed il giudice è tranquillo nella sua coscienza. Per questa convinzione morale è stato condannato alle galere il Fausti, e cinquanta per cento almeno degli accusati politici sono stati per questa convinzione morale condannati alla morte, alla galera, all’ esilio.

Ma per tornare ai pretesti della polizia, citeremo un solo fatto fra i mille che potremmo citare.

Il signor Filippo Paradisi, a noi ben cognito, avea avuta molta parte nelle rivoluzioni di Roma nel 1848. Nel 1849 si ritirò in Francia; ma vecchio, di mal ferma salute, desiderava ritornare nel seno della sua famiglia, e respirare la sua aria nativa. Fece atto di sommissione, e domandò al governo papale il permesso di tornare in Roma. L’ ottenne facilmente; ma, siccome egli era uomo legale e pratico delle furberie della polizia romana, volle prendere tutte le precauzioni per assicurarsi della validità del permesso ottenuto. Dopo ciò, andò in Roma, ma appena giunto fu arrestato e gettato in prigione. Come accadde una simile cosa?

Il Paradisi non ricordò che alcuni anni prima, cioè nel 1847, il duca Torlonia gli aveva intentato un processo di libello, per un articolo di giornale scritto dal Paradisi, nel quale il Torlonia era trattato da ladro. Quel processo non aveva avuto seguito a cagione delle rivoluzioni, e il Paradisi non vi pensava più, credendo che l’ azione del Torlonia fosse perenta, o almeno dimenticata. La polizia papale però vi pensò, e prima di dare il permesso di tornare al Paradisi, fece che il Torlonia promettesse di riprendere il suo processo. Così il Paradisi al suo ritorno fu carcerato non per conto del governo, ma per conto del Torlonia; fu processato e condannato a cinque anni di galera, nella quale il povero Paradisi morì. Ecco con qual buona fede agisce il paterno governo pontificio!

pedrodiaz
00domenica 12 febbraio 2012 18:14
Missionari di Terra Santa
Nota 11. alla lettera diciannovesima di Roma Papale 1882

Questo fatto mi è stato raccontato nel 1848 da due frati Francescani missionari di Terra Santa, che ne erano stati testimoni di vista. Mi nominarono il frate che fu precipitato dalla scala, ma ho dimenticato il suo nome.

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