Roma Papale

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:21
Lettera undicesima
Una veglia - Le Congregazioni
Enrico ad Eugenio
Roma, Marzo 1847.


Mio caro Eugenio,

Ti promisi nell’ultima mia, che ti avrei dato il ragguaglio esatto della serata passata co’ miei amici nella casa di Monsignor C. Ti confesso che mi dispiace di averti fatta una tale promessa: dovrò raccontarti cose dalle quali certo non potrai trarne edificazione; ma pure lo farò, perchè a te, mio caro Eugenio, non voglio nascondere nulla. Bisogna però che ti prevenga di alcune cose. Monsignor C. è prelato, è anco Arcivescovo, ma in partibus (Nota 1 - Vescovi in Roma): eppoi essendo stato Nunzio non appartiene alla sfera ecclesiastica, ma alla diplomatica (Nota 2 - Prelati romani): quindi a lui sono lecite delle cose che non sarebbero lecite ad un prelato della carriera ecclesiastica; quindi la sua veglia, fu una veglia di un ex-diplomatico, ed aspirante a posti diplomatici, piuttostochè una veglia ecclesiastica. Le veglie ecclesiastiche sono tutt’altro (Nota 3 - Le veglie romane): ti dico questo acciò tu non abbia a credere che in tutte le case de’ preti e de’ prelati si faccia quello che ti dirò essersi fatto nella veglia d Monsignor C.

Ti dichiaro inoltre che io son cattolico, sinceramente cattolico: e sebbene le ragioni del pasquali, le rivelazioni di quel Parroco, e le cose che ho vedute mi turbino alquanto; pure sono attaccato alla mia Chiesa, la ritengo per l’unica vera, sebbene la confessi alquanto decaduta dalla primitiva sua purità, ed alquanto disonorata per alcuni abusi che vi si sono introdotti: ma gli abusi sono degli uomini, la dottrina è di Dio; e con un poco di riforma disciplinare tutto potrebbe essere accomodato (Nota 4 - Riforma religiosa). Dopo tali premesse, veniamo al fatto.

Andammo dunque tutti quattro, all’ora indicataci nell’invito, al palazzo ove abita Monsignor C. La scala era splendidamente illuminata a cera. Entrammo nella sala: una quantità di servi in livrea gallonata, annunziavano ad alta voce nelle anticamere i nuovi arrivati; i nomi de’ quali d’anticamera in anticamera erano ad alta voce ripetuti, inguisachè giungevano assai prima delle persone nella sala ove era il Prelato: e ciò affinchè il Prelato avesse potuto secondo la etichetta, uscire ad incontrare la persona annunziata se il suo grado lo esigesse. Passammo quattro anticamere, e giungemmo alla sala del ricevimento. Era una vastissima sala superbamente mobiliata, e tutta illuminata a cera.

Il Prelato fece un passo verso di noi, diede amichevolmente la mano ai due Inglesi, e fece un leggiero saluto col capo a me ed al Valdese; presentò poi i due Inglesi a varii Cardinali, Prelati, e nobili che erano là: io, povero abatucolo, mi ritirai in un angolo della sala col Signor Pasquali, e ti assicuro che era ben mortificato. Intanto di mano in mano continuavano a venire gl’invitati, i quali, dopo i convenevoli saluti, si formavano in gruppi nella vastissima sala, e si trattenevano in conversazione. Le signore erano sedute sui sofà che erano appoggiati alle ricche pareti tutte parate di damasco, ed alcune sopra i seggioloni: esse erano corteggiate da’ Cardinali e Prelati giovani, che si trattenevano in piedi attorno ad esse, mentre i mariti facevano conversazione coi Cardinali e Prelati vecchi.

Il Signor Pasquali, che osservava tutto con un sorriso sardonico, mi disse:

"Cosa ve ne sembra, Signor Abate, di questi successori degli Apostoli? Mi sapreste trovare una qualche analogia fra la casa di questo Arcivescovo e la casa di S. Pietro, ove il Signore entrò per sanargli la suocera?"

Io mi mordeva le labbra, ed ingoiava la pillola.

In un gruppo vicino a noi, due prelatini, tutti attillati e profumati (Nota 5 - Due prelati romani), facevano la corte ad una giovane signora; e dalle loro risa, dai loro gesti, e da qualche parola che, non ostante il rumore della conversazione generale, giungeva fino a noi, ci fu facile il conoscere che si trattava di una conversazione galante. Ci scostammo; ed il Valdese mi condusse con lui, e mi fece con bel garbo avvicinare ad altri gruppi. Dove si parlava di teatri, di cantatrici, di ballerine; dove si parlava di giuochi e di scommesse; dove si mormorava: infine la conversazione più edificante che intesi fu quella di tre vecchi preti i quali parlavano di politica.

Intanto si spalancarono le porte di un vicino salotto, illuminato parimente a cera con grande profusione. I Cardinali, Prelati, e preti si affrettarono ad offrire il braccio alle signore, ed esse, abituate a quella anomalia, si lasciarono da essi condurre nella sala. Una superba tavola imbandita di ogni delicatezza, era nel mezzo: pesci di ogni sorta apprestati con gusto squisito, confetture e frutta di ogni specie, senza neppure mancarvi l’ananasse del Perù, cuoprivano la tavola, e formavano quello che noi chiamiamo buffet, ed in Roma si chiama rinfresco. Camerieri in abito nero scalcavano e servivano le vivande fredde, le confetture, e la frutta; mentre altri passavano offrendo gelati e bibite, thè e vini, acciò ognuno si servisse secondo i suoi gusti. Le sole signore hanno il diritto di sedere nella camera del rinfresco, ed il cavaliere che la ha condotta, resta in piedi presso di lei a servirla. Quale orrore, vedere un prete, un Prelato, e qualche volta anche un Cardinale farla da damerino!

Ti confesso, caro Eugenio, che questo spettacolo mi ributtava; era quaresima, era un giorno di digiuno, eravamo in casa di un Arcivescovo, la maggior parte di coloro che erano là erano ecclesiastici, obbligati al digiuno; eppure si mangiava e si beveva allegramente (Nota 6 - Digiuno cardinalizio). È vero che erano tutti cibi di magro; ma quel lusso strabocchevole mi scandolezzava; anche i due Inglesi non ne furono punto edificati. Io era sul punto di andarmene; ma il signor Pasquali mi ritenne. "Anche a me, egli disse, è spiacevolissima questa veglia; anche io vi sono venuto e vi sto con dispiacere; ma bisogna veder tutto co’ propri occhi. Io ho accompagnato a Roma il signor Sweeteman, acciò conosca la Roma papale: ed egli tornando in Inghilterra, potrà dire ai fanatici ammiratori di Roma papale: ‘Io ho veduto tutto, e voi non avete veduto che quello che i preti vi han fatto vedere.’ "

Le signore erano in numero minore degli uomini; in conseguenza alcuni preti, che avevano ceduto il posto ai Prelati, non avevano dama da servire: essi, a quello che sembrava, amavano più della dama la bottiglia, quindi ve ne erano alcuni, che senza punto pensare nè alla quaresima nè al digiuno, mangiavano a piena bocca, e le bottiglie di sciampagna sparivano dinanzi a loro.

Due Prelati giovani facevano la corte ad una signora giovane; il Valdese aveva chiamato la mia attenzione su loro, ed io li guardava. Non so per qual cagione si accese querela fra di loro; uno di essi sembrò eccessivamente offeso dall’altro: i suoi occhi scintillavano per lo sdegno: si scambiarono delle parole, le quali in quel frastuono non potei comprendere, ma che mi sembrarono minaccie: uno di essi avendo in mano un trinciante, diede un colpo con esso al rivale, e lo ferì nella coscia. La signora mise fuori un grido e si alzò: tutta la conversazione fu turbata (Nota 7 - Querela prelatizia), e non so come sarebbe terminata la cosa se Monsignor C. il padrone della casa, ed altre persone autorevoli non si fossero poste in mezzo per pacificare i combattenti. Il prelato ferito fu condotto via, ed il Cardinal P., uomo di grande autorità, prese la parola, pregando tutta la società a non far parola di quel tristo incidente, assumendo la responsabilità egli stesso di far tacere i due Prelati e pacificarli.

Dopo questo incidente, si tornò tutti nella sala di conversazione: essa aveva subito una trasformazione; in vari punti della sala erano stati posti de’ tovalieri da giuoco con tutto l’occorrente. Le dame ed i giovani, Prelati e laici, passarono in un’altra sala, ove era il pianoforte e l’arpa, ed ove si cantava e suonava: i più vecchi si assisero ai tavolini ed incominciò il giuoco delle carte. Per noi forestieri che non siamo abituati a tali cose, era una cosa brutta il vedere i dignitari della Chiesa giuocare alle carte; ma qui in Roma non vi si fa scrupolo (Nota 8 - Il giuoco delle carte). Il signor Manson soffriva immensamente nel vedere tali cose, il signor Sweeteman ne era oltremodo scandolezzato, io ne era umiliato, ed il signor Pasquali con la sua calma ordinaria diceva al signor Manson: "Cosa ve ne pare dei vostri cari confratelli, i preti romani?" Poi diceva al sig. Sweeteman: "Siete maravigliato di questo? Ma ne vedrete delle più belle!" E, voltosi a me, diceva: "Signor Abate, ecco i vostri campioni, i successori degli Apostoli! Sono queste le occupazioni apostoliche?" Io era in un inferno.

Noi eravamo seduti sopra un canapè, alquanto distanti dai giuocatori. Monsignor C., che non giuocava, perchè come padrone di casa doveva attendere a tutta la conversazione, venne verso di noi, per non far parere che noi fossimo come intrusi, e tirando un seggiolone, si assise e, dirigendo la parola al signor Manson, "Io non son mai stato in Inghilterra, disse; si usano fra voi queste veglie piacevoli?" Il signor Manson rispose, che si usavano assai di frequente; ma che il modo era diverso, specialmente se erano date dai membri del clero, ovvero se molti uomini del clero vi erano invitati. "In quelle veglie, diceva, si prende il thè; dopo i convitati si intrattengono in conversazione che cade per lo più sopra soggetti religiosi; finalmente si legge un capitolo della Bibbia, si fanno delle osservazioni tendenti alla edificazione e si finisce la serata con una preghiera."

"Omnia tempus habent, ogni cosa al suo tempo, disse il Prelato; tempus flendi, et tempus ridendi: le veglie non sono nè per la Bibbia, nè per la preghiera: quando si vuole una predica si va in chiesa, non in una conversazione: io non posso approvare tali cose." A me dispiacque che Monsignore parlasse in quel modo; e mi avvidi che i due Inglesi ne furono scandolezzati.

Il signor Pasquali domandò allora al prelato, se tutte le veglie ecclesiastiche in Roma erano come quella. "Veramente questa, rispose il prelato, non è una veglia di ecclesiastici, nè una veglia di laici, è una qualche cosa di mezzo. Nelle veglie dei laici vi è ballo, e qui non vi è; nell veglie degli ecclesiastici non vi è quello che con vocabolo francese si chiama buffet, ma un semplice rinfresco; e poi si passa la serata ai tavolieri giuocando. Io ho voluto raunare un poco di tutto ad eccezione del ballo."

"Ma giuocare alle carte, disse il signor Sweeteman, crede che sia una cosa buona?

"È un divertimento innocente, rispose Monsignore: meglio è giocare alle carte che mormorare. Tutti i buoni preti di Roma passano le serate d’inverno a giuocare."

Intanto in un tavoliere si era levata una questione sopra un punto di giuoco, e Monsignore accorse per dare la sua decisione.

Quella serata fu per me una serata d’inferno. Era la prima volta che mi trovava a cotali veglie; ma feci proponimento che sarebbe stata anche l’ultima. Subito che potei cogliere la occasione opportuna, mi ritirai solo, per risparmiarmi le osservazioni del Valdese. Io sono convinto che tali disordini debbono essere imputati agli uomini, e non alla religione che essi rappresentano; ciononostante mi fa un male immenso, vedere uomini in dignità ecclesiastica, che dovrebbe essere di buon esempio, passare così le loro serate; e poi, dopo una notte, direi quasi, di crapula, la mattina dire tranquillamente la loro messa, come non fosse stato nulla, assidersi ne’ confessionali e sgridare coloro che si confessano di colpe tanto minori di quelle ch’essi hanno sulla coscienza. Questi pensieri mi tribolarono una parte della notte; e sai tu quale era il pensiero che dominava su tutti? Era il paragone che faceva della condotta del Valdese eretico, con quella di que’ Prelati. "Come? Mi dicea, questo Valdese, che non ha che il Vangelo nella sua bocca, le operazioni del quale sono tanto in armonia col Vangelo, questi sarà eternamente dannato, sarà eretico, sarà degno del nostro disprezzo e della nostra esecrazione; e quei Prelati saranno i veri Cristiani, i successori degli Apostoli, i nostri modelli!" Per togliermi dalla mente cotali pensieri, mi determinai di andare la mattina a trovare quel parroco di cui ti ho parlato nell’altra mia, sperando che egli forse avrebbe potuto darmi delle buone spiegazioni.

Andai difatti la mattina seguente dal parroco, fui introdotto nel suo appartamento, e trovai in esso i miei tre amici. Ciò mi disorientò alquanto; ma, poichè mi vi trovai, vi restai. Il parroco era seduto avanti un tavolo, ed aveva ai suoi lati, ritti in piè, due individui, che poi seppi uno essere il sagrestano, l’altro il beccamorti; e sembravano seriamente occupati sopra un gran libro manoscritto: vedendomi, mi domandò subito cosa volessi; ma i miei amici dissero che io era con loro, ed allora mi pregò di attendere un istante. Dopo poco tempo, il sagrestano prese il grosso libro ed uscì insieme col beccamorti (Nota 9 - Lo stato delle anime).

"Che cosa è che tanto vi occupa?" disse il signor Pasquali al Parroco.

"Come? E non sapete che la Pasqua si avvicina, e che sono occupatissimo nel fare lo stato delle anime?" Il signor Manson pregò il Parroco a spiegargli cosa fosse lo stato delle anime, che egli faceva.

"Lo stato delle anime, rispose il Parroco, è tutto quanto vi è di più noioso e nello stesso tempo di più interessante nell’ufficio di Parroco." I miei amici ed io, non pratico di tali cose, credevamo che fare lo stato della anime volesse dire fare lo stato morale della parrocchia; quindi lo pregammo di volere spiegarci bene in che esso consistesse.

Il Parroco allora ci fece vedere un gran libro, era lo stato delle anime dell’anno precedente, e ci disse che in Roma i parrochi nel tempo di quaresima debbono andare per tutte le case e prendere esatto registro di tutte le persone che vi dimorano, sia che vi abbiano fisso domicilio, sia che il loro domicilio sia precario, sieno del paese, sieno forestiere; che di cotali registri dovevano essere fatti due estratti l’uno dei quali si dava al Vicariato, l’altro alla polizia, e l’originale restava nell’archivio della parrocchia (Nota 10 - Archivio parrocchiale. - Matr imoni).

Io allora dissi ai miei amici, che sembravano attoniti a tale notizia, che quello stato d’anime si faceva affinchè il Parroco potesse conoscere coloro che soddisfano al precetto della comunione pasquale (Nota 11 - Precetto pasquale). Io credeva realmente che fosse così, ma quel parroco imprudente, sorridendo, disse: "A quello che vedo il signor Abate è troppo semplice. So che comunemente si dice così e si crede così; ma la cosa non istà a questo modo. Il signor abate col tempo apprenderà che noi abbiamo delle ragioni ufficiali e delle ragioni reali (Nota 12 - Tre dottrine): le prime le usiamo per combattere i Protestanti quando ci attaccano; ed essi, che non sanno ordinariamente di noi che quello che leggono nei libri, restano scornati; le seconde poi sono per noi: e siccome non voglio far misteri coi miei amici, e spero che il sig. Abate essendo con loro non mi comprometterà, così dirò la verità come essa è.

"Se si trattasse della soddisfazione del precetto pasquale, basterebbe registrare il nome, e tutt’al più l’età de’ nostri parrocchiani: ma osservate quante cose bisogna che ricerchiamo e che registriamo." E qui ci fece vedere il modulo, nel quale erano sopra ciascuno individuo registrate tutte le possibili particolarità.

"E per i Protestanti o Israeliti (Nota 13 - Jus gazagà e pretatico), che sono nella vostra parrocchia, come vi regolate?" disse il sig. Pasquali.

"Come per tutti gli altri, rispose il parroco, salvochè si mette nella casella delle osservazioni che sono Protestanti.

Per gli Israeliti non è il caso di parlarne; perchè essi non possono abitare fuori del ghetto. Dei Protestanti poi dobbiamo ogni anno darne una nota particolare al Vicariato, come dobbiamo dare una nota di tutti i preti e chierici."

"Sembra dunque, disse il Valdese, che i parrochi di Roma sieno una specie di commessi di polizia."

Non ci abbassate tanto, rispose il parroco; ne siamo piuttosto i direttori. La polizia dipende quasi interamente da noi; e, per darvene una prova, osservate." Così dicendo, tirò un cassetto della sua scrivania, e ne trasse un pacco di lettere che la polizia gli aveva dirette per avere informazioni sopra varie persone. "Vedete, soggiungeva, il Vicariato non azzarda mai di carcerare o di processare una persona (Nota 14 - Cosa è un precetto?) senza prima avere domandata e ricevuta la nostra informazione: la polizia poi, meno casi di alta importanza politica, o di evidente reità, non procede alla carcerazione senza il parere nostro."

"Allora ho fallato, disse il Valdese: non doveva chiamarvi commessi, ma piuttosto delatori."

Il parroco parve un poco offeso della risposta piccante del Valdese; e, levatosi da sedere, ci invitò a seguirlo per continuare la visita delle segreterie (* Vedi lettera 9: Le congregazioni ecclesiastiche ). "Suppongo, disse, che anche il signor Abate è dei nostri, e che verrà con noi." Io risposi che veramente non era quello l’oggetto della mia visita; ma che sarei andato volentieri con lui, e coi miei amici.

Uscimmo dunque, ed andammo verso la piazza di S. Carlo ai Cattinari. Nella vicina piazza di Branca, al palazzo Santa Croce, è posta la segreteria della congregazione del Concilio. Mentre entrammo nel palazzo, il parroco diceva a’ miei amici: "Questa congregazione fu istituita da Papa Pio IV, ed ha per ufficio d’interpretare i decreti del sacrosanto concilio di Trento: essa è composta di cardinali e di prelati; ed appartengono ad essa i più abili canonisti che sieno in Roma. Il famoso Benedetto XIV era stato segretario di questa congregazione; e prima di lui il grande canonista Prospero da Fagnano."

Entrammo nella segreteria. Vedemmo una vasta sala con una quantità di tavolini all’intorno, ed avanti ciascuno di essi era seduto un prete occupato a scrivere. Le pareti della sala erano coperte di scaffali pieni di carte: un movimento continuo di persone che andavano e venivano, dimostrava che molti erano gli affari che si spedivano in quella segreteria. Un prete, in fondo alla sala, distribuiva le grazie ed i rescritti, e ne riceveva il pagamento secondo la tassa. Traversammo questa prima sala, ed entrammo in un gabinetto, ove era Monsignor T., sostituto del segretario. Il parroco domandò a Monsignore il permesso di farci vedere l’archivio.

L’archivio è composto di più camere, piene da ogni lato di carte, che contengono i decreti e le interpretazioni date al concilio di Trento. "Ora, disse il signor Pasquali sorridendo, non mi maraviglio più che la Chiesa romana dica che la Bibbia è oscura; poiché essa ha trovato il modo di riempire tante camere con le interpretazioni date al suo concilio di Trento." Quindi avvicinandosi al vecchio prete archivista gli domandò se quelle erano tutte le decisioni emanate dalla santa Congregazione dacchè fu fondata. "Oh! Rispose il buon prete, queste non sono che una piccola parte: le altre sono nell’archivio generale al palazzo Salviati; e vi assicuro che ve ne sono tante da caricarne parecchi bastimenti. Ella non sa che ogni giorno si spediscono un centinaio di rescritti nella segreteria." "E per tutti si paga?" domandò il Pasquali. "Naturalmente, rispose il prete: i rescritti ordinari costano sedici paoli."

Uscimmo di là, ed andammo alla segreteria della Reverenda Fabbrica di S. Pietro. "Questa congregazione, ci diceva il parroco, fu istituita da papa Clemente VIII, per invigilare alla amministrazione della fabbrica di S. Pietro: ma siccome questa amministrazione non aveva nulla di spirituale, trattandosi della manutenzione di un fabbricato, così papa Clemente VIII anche per provvedere di fondi la fabbrica, le diede autorità di sorvegliare alla esecuzione di tutti i legati pii, non già perchè essi fossero scrupolosamente adempiuti; ma perchè nel caso di una mancanza qualunque, anche per dimenticanza o inavvedutezza, la reverenda Fabbrica entrasse immediatamente in possesso de’ fondi e li applicasse a sè stessa. A tale effetto essa è costituita anche in tribunale, con leggi da disgradarne i turchi (Nota 15 - Come agisce il tribunale della Rev. Fabbrica). Essa si occupa anche di assolvere i preti dall’obbligo di dire le messe per le quali già hanno ricevuto il pagamento, o come essi dicono la elemosina." Queste cose ci diceva quel parroco intorno a quella sacra congregazione, ed io non le credeva. Ma il diavolo ci fece entrare in quella segreteria in un momento in cui fummo testimoni di un fatto che ci scandolezzò davvero.

Trovammo nella segreteria un prete che quistionava ad alta voce con un altro prete impiegato della segreteria. L’oggetto sul quale la loro questione cadeva, era il seguente. Cotesto prete aveva da’ devoti espilato tanto denaro, equivalente al prezzo di cinquemila messe che si era assunto l’obbligo di dire (Nota 16 - Mercato di messe): il denaro lo aveva mangiato, e le messe non le aveva dette; e domandava alla segreteria della Fabbrica l’assoluzione dall’obbligo di dire quelle messe (Nota 17 - Messone). Il prete impiegato diceva che l’assoluzione la avrebbe ottenuta, ma che doveva fare il deposito a ragione di un baiocco per messa, secondo la tassa: senza aver prima depositato cinquanta scudi, non isperasse ottenere l’assoluzione. Il prete birbante (perdonami se lo chiamo così) pretendeva di avere una facilitazione, perchè il numero delle messe era vistoso e perchè diceva che non era la prima volta che ricorreva alla Reverenda Fabbrica per quelle assoluzioni; ma il prete impiegato restava duro.

Noi restammo di sasso per tale incidente: il parroco stesso ne fu dispiaciuto, e ci fe’ uscire dalla segreteria. Io me ne tornai in casa avvilito, ed in grande turbamento.

Ti dico la verità, mio caro Eugenio, non so come finirò.

Prego Dio che mi mantenga nella fede, ma sento che vacillo.

Prega anche tu per il tuo affezionatissimo
pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:22
Vescovi in Roma
Nota 1. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Il vescovato nella curia romana non è più considerato tanto come un ufficio, quanto come dignità: esso è considerato come una croce di un ordine cavalleresco. Il Concilio Lateranense V, sotto Leone X, stabilì i vescovi titolari, cioè vescovi senza Chiesa, che comunemente si chiamano vescovi in partibus, cioè vescovi col titolo di un paese posseduto dai Turchi o dagli idolatri. Ordinariamente sono tutti arcivescovi, ed anche patriarchi, e sono impiegati nelle missioni come vicari apostolici, ed allora sono eletti dalla Propaganda, e pubblicati dal papa nel prossimo concistoro: ovvero sono impiegati nella diplomazia, o sono segretarii delle principali congregazioni ecclesiastiche: o sono canonici delle patriarcali eletti vescovi non per altro che per cantare le messe. Vi sono anche in Roma de' patriarchi titolari, per avvilire, sembra, la Chiesa orientale; imperciocchè quando il papa funziona, il patriarca titolare di Costantinopoli e quello di Alessandria sono seduti sopra una panchetta allato del trono, ed uno di essi deve sostenere il libro aperto avanti al papa, e l'altro tenere in mano la candela per fargli lume.

Nella diplomazia è stabilito che i nunzi debbono essere arcivescovi: ed ognuno sa che i diplomatici non sono gli uomini i più spirituali. Quando dunque il papa ha bisogno di un nunzio, cerca un diplomatico, lo fa arcivescovo e lo manda. Io ho conosciuto in Roma un avvocato che era tutt'altro che buon cattolico; ma era diplomatico: oggi questo avvocato è arcivescovo e nunzio apostolico. È noto in Roma il fatto di un arcivescovo nunzio apostolico presso una corte di Europa, il quale sfidò a duello un altro diplomatico per gelosia di una ballerina. Oggi cotesto arcivescovo è cardinale.

Vi sono in Roma degli impieghi per i quali bisogna, non si sa perchè, essere vescovi: l'Elemosiniere, cioè colui che dispensa le elemosine del Papa, deve essere un vescovo in partibus: vescovo deve essere il sagrestano del Papa che ha la custodia del guardarobe pontificio. Così in Roma non vi sono mai meno di un quaranta vescovi, senza contare i cardinali che lo sono quasi tutti; eppure nel 1837, quando vi era il colera, non si trovava un vescovo che andasse a cresimare i bimbi colerosi negli ospedali; ed il papa, invece di andar lui, o di obbligare i vescovi ad andarvi, con la pianezza del suo potere, diede la facoltà ad un Capuccino, che era nell'ospedale di S. Spirito presso il Vaticano, di cresimare, sebbene non fosse che semplice prete.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:22
Prelati romani
Nota 2. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

I prelati della curia romana sono assai diversi dai prelati del Diritto canonico. Secondo il Diritto canonico, sono prelati i vescovi, gli abati, ed altri aventi cura d'anime e giurisdizione. Ma nella Curia romana la prelatura è un grado onorifico attaccato ad alcune cariche. I vescovi e gli arcivescovi sono anch'essi chiamati prelati, e si distinguono da alcuni segni. L'abito di città de' prelati è l'abito corto, ma hanno le calze di seta color violaceo ed il collare di seta dello stesso colore. I vescovi hanno di più l'anello e la croce pettorale d'oro, ma nascosta; perchè dove è il papa nessun vescovo può portare la croce scoperta: affine però che si conosca che essi portano la croce, mostrano un gran cordone di seta verde ed oro, al quale è appesa la croce che è chiusa negli abiti; ed il cordone è finito dietro le spalle da un fiocco di seta verde e d'oro.

Gli altri prelati sono divisi in più classi: ve ne sono di quelli che appartengono alla diplomazia, cioè i nunzi, gl'internunzi, i sostituti di Segreteria di Stato, ed altri. Ve ne sono di quelli che appartengono al ramo giudiziario, come l'Avvocato del Fisco, l'Avvocato de' poveri, il Procuratore generale del Fisco, i giudici de' tribunali superiori tanto civili che criminali; e fra questi ve ne possono essere, e ve ne sono anche de' vescovi. Finalmente i prelati appartenenti all'ordine amministrativo, come il Tesoriere, ossia ministro delle finanze, il Commissario della Camera, il Governatore di Roma, ed i governatori delle provincie chiamati Delegati.

I prelati non vescovi sono divisi in due distinte categorie, sebbene tutti abbiano il titolo di Monsignore: vi sono i prelati di mantelletta, ed i prelati di mantellone. I primi sono di un grado superiore ed inamovibili, gli altri sono di un grado inferiore, e la loro prelatura cessa alla morte del papa. I primi si distinguono per le calze violacee, ed un fiocco o violaceo, o rosso, o verde al cappello; i secondi non hanno il diritto che di portare il collare violaceo. Nelle funzioni però i prelati di mantelletta, sopra la loro sottana di seta violacea, portano il rocchetto, e sopra il rocchetto un mantellino nel quale sono praticati due fori per le braccia, e questo si chiama mantelletta. I secondi non hanno l'uso del rocchetto, ed invece della mantelletta hanno una sopravveste che gli scende fino a' piedi.

Per essere prelato anche di mantelletta non è necessario essere prete; anzi vi sono quattro cariche prelatizie che possono essere occupate da coniugati; e sono l'Avvocato fiscale, il Procuratore generale, l'Avvocato de' poveri, ed il Commissario della camera. Quando questi prelati sono ammogliati, possono convivere con la moglie, ma debbono sempre vestire l'abito ecclesiastico. Quando sono questi quattro prelati in funzione, non usano nè il rocchetto nè la mantelletta, ma un mantello mezzano che giunge fino ai polpacci e che si chiama mantellone.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:22
Le veglie romane
Nota 3. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Cosa sono le veglie degli ecclesiastici in Roma? Chi scrive le ha per molti anni frequentate ogni sera, e parla per fatto proprio. Non vi sono a propriamente parlare nè veglie particolari in dato giorno, e con invito per gli ecclesiastici, nè veglie nelle quali non vi sieno che ecclesiastici; ma vi sono parecchie case nelle quali gli ecclesiastici con de' bigotti si uniscono a veglia. Ogni sera il prete vuole la sua veglia; ogni prete ha le sue tre o quattro case nelle quali alternativamente va a passare la serata. Qui si parla dei preti buoni, dei preti edificanti; non di coloro che passano le loro serate in conversazioni che i preti stessi chiamano indecenti.

Vi è qualche canonico, qualche P. Reverendissimo di qualche convento, che apre ogni sera il suo salotto ai preti ed ai bigotti amici o presentati; ed in queste serate non si giuoca alle carte, ma si fa conversazione. La conversazione consiste in questo: ognuno procura di raccogliere nel giorno fatti e cronachette più o meno scandalose, ma sempre ridicole, per eccitare il buon umore nella conversazione: da tali racconti ne nasce ordinariamente la mormorazione. In altre case, e sono nel maggior numero, si tiene giuoco: ed allora le donne di casa, le mogli dei bigotti, le sorelle o nepoti de' preti, insieme co' vecchi, si riuniscono in una camera ed intorno ad una gran tavola giocano alla tombola. In un'altra camera sono i preti ai tavolieri a giocare o al tre sette o alla calabresella. Finita la serata che dura ordinariamente tre ore, si fanno i conti delle vincite e delle perdite, secondo le marche, si paga, e si va a casa.

In queste serate non vi è mai rinfresco, se non che nel giorno della festa del padrone di casa, o in qualche straordinaria circostanza. In esse passano le loro serate i preti più santi e più zelanti di Roma. I prelati poi, specialmente quelli della carriera diplomatica, giuridica, ed amministrativa, vanno a passare le loro serate nei saloni dell'aristocrazia, e quelle veglie non sono tanto innocenti.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:23
Riforma religiosa
Nota 4. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

La riforma religiosa della Chiesa romana è stata sempre il voto più ardente di tutti i buoni Italiani. Da Claudio vescovo di Torino fino ai nostri giorni, non si è predicato che la necessità di una riforma, e non si è mai ottenuto nulla. Da Dante e Petrarca scendiamo fino a Savonarola, non si trovano che desiderii di riforma religiosa. Il martirio di Savonarola non iscoraggiò i buoni Italiani dal tentarla; ma la inquisizione, rese inutili gli sforzi generosi. Abbattuta la inquisizione subentrò la indifferenza religiosa che paralizza ogni tentativo. Noi veramente non siamo per le mezze misure; ed una riforma disciplinare, lasciando in tutto il domma, come desidera il nostro abate ed i neocattolici, di cui abbiamo parlato i un'altra nota, sarebbe una mezza misura. Però noi ce ne rallegreremmo, non come di una cosa compiuta, ma come di un primo passo che incomincerebbe a mettere nelle mani del popolo il Vangelo.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:24
Due prelati romani
Nota 5. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Si fa qui allusione a due prelati che erano allora, per dirlo con un francesismo, i leoni delle dame romane. Di questi due prelati uno è caduto in disgrazia, per tutt'altro che per la sua galanteria; l'altro conserva, insieme colla galanteria, la grazia di Pio IX, ed è in posto cospicuo. Que' due prelati erano sempre insieme nelle loro imprese galanti. Avevano preso in affitto un giardino in luogo remoto (sui prati di Castel S. Angelo, verso porta Angelica) con casino; ed io ho saputo dal profumiere che fornì gli oggetti di toelette per quel giardino, che i prelati pagarono per essi la ingente somma di cinquecento scudi romani: doveva al certo essere magnificamente fornita. Essi, dopo le veglie che finiscono al più tardi alle undici, cambiavano abiti, ed andavano al giardino, e trovavano da' loro provveditori il casino fornito per finire allegramente la notte. Allo spuntare del giorno, e nell'inverno anche prima, andavano in casa, e si levavan da letto sempre dopo il mezzogiorno. Queste cose non erano misteri per nessuno; eppure nessuno de' superiori vi ha trovato nulla a ridire. Io conosceva uno di questi prelati intimamente, e potrei raccontare degli aneddoti assai brutti della sua vita. Una volta mi credei obbligato in coscienza di avvertirne il cardinal vicario, ma egli mi si strinse nelle spalle, e mi disse che non poteva far nulla. Poteva però far tutto quando si trattava di gente povera e senza protezione.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:24
Digiuno cardinalizio
Nota 6. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Uno de' rimproveri che i preti fanno ai Protestanti è quello di non osservare la quaresima ed i digiuni: è lo stesso rimprovero che i Farisei facevano ai discepoli di Gesù Cristo; anzi il Fariseo ipocrita faceva suo vanto di digiunare due volte alla settimana. I Cattolici romani dicono di digiunare; i loro giorni di digiuno sono scritti nel calendario; ma quale è la pratica del loro digiuno? Noi non andremo a cercare il digiuno cattolico romano nelle case e nella tavola di coloro che sono cattolici solo perchè son nati in quella religione; ma lo cercheremo alla tavola de' vescovi, de' prelati, e de' cardinali; cioè di quelle persone che col loro esempio autorizzano la dottrina che insegnano. Non entriamo dunque a discutere in quel laberinto di leggi e di quistioni teologiche sulla materia del digiuno; ma andiamo a vederne la pratica sulla tavola de' preti.

Entriamo dunque in un giorno di digiuno, non in una veglia, come quella che tanto scandolezzò il nostro abate, ma nella casa di un vescovo, o di un cardinale anche devoto. Alla mattina finita appena la messa, si presenta il cameriere con un vassoio sopra il quale vi è una fumante tazza di cioccolata; e la cioccolata in Roma (sia detto fra parentesi) si fa ben solida, e per nulla spumante: si chiama fra' preti cioccolata alla gesuita, quando messo il crostino nella tazza resta ritto come un palo ficcato in terra. Sua Eminenza prende de' biscottini, ovvero del pane abbrustolito caldo, e santamente ne intinge una buona dose e li mangia; allorchè è quasi satollo, prende un biscottino in mano e si arresta come calcolando se potrà mangiare ancor quello senza guastare il digiuno: il canonico segretario presente gli toglie lo scrupolo, dicendo che il crostino è piccino, e che è parvità di materia; e sua Eminenza cede. Poscia finge di non voler bere la succulenta limonata, e domanda invece dell'acqua; ma il canonico segretario toglie anche quello scrupolo coll'aforisma teologico liquida non frangunt, e con questo convince il già persuaso padrone, che senza scrupolo ingoia anche la limonata.

Giunge l'ora del desinare; sua Eminenza si asside al desco, il segretario dice il benedicte, e sua Eminenza incomicia a divertirsi coll'antipasto: esso è composto di acciughe, caviale, olive indolcite, ed altre bagatelle atte ad eccitare l'eminentissimo appetito. La minestra di magro è fatta ordinariamente col succo di varii pesci cotti, pestati, e premutane tutta la sostanza per farne brodo di magro: il resto del desinare è composto di altri quattro piatti almeno, de' migliori pesci, tramezzati con varii piatti di erbe. I cuochi de' cardinali sono i migliori cuochi di Roma, e le loro salse, i loro intingoli sono tali da eccitare, come si dice in Roma, anche l'appetito ad un morto. Quando sua Eminenza è obbligata di sciogliere i bottoni della sua sottana per dar luogo alla espansione della stomacale circonferenza, vengono le frutte, e la biscottineria per pasteggiare la bottiglia. Due ore almeno dura un tal desinare; poi si sorbisce il caffè accompagnato da confetture. È a memoria di tutti in Roma il fatto del cardinal Vidoni, celebre ghiottone, il quale uscendo un giorno da un magnifico desinare datogli dal conte Lavaggi, nel montare in carrozza, un povero lo richiedeva di una elemosina, dicendo che aveva fame: l'Eminentissimo epulone, eruttando una specie di sospiro, disse: "Beato te che hai fame, io per me crepo."

Sembrerebbe che questi due pasti potessero bastare per formare un buon digiuno; ma si mangia ancora un'altra volta nella così chiamata colazione della sera. In essa si mangiano de' pesci, delle erbe cotte, de' legumi, de' salumi, delle sardine di Nantes, delle frutte secche o fresche di ogni sorta; e così si digiuna da coloro che accusano noi di non digiunare.

Dirò cosa incredibile, ma vera: presso i PP. Gesuiti ed altri frati e monache, ne' giorni di digiuno, si mangia a desinare un piatto di più che negli altri giorni, unicamente perchè è giorno di digiuno. Eppoi hanno la sfrontatezza di accusare i Protestanti che non digiunano.

Quanto alla dottrina del digiuno, ecco cosa s'insegna. Nei giorni di digiuno non si possono mangiare nè carni, nè uovi, nè latticini, salvo nel caso che se ne abbia la dispensa dal papa. In quanto alla quantità non è permessa che l'unica commestione, cioè il solo desinare, che non deve neppure chiamarsi desinare, ma cena. Questa è la dottrina ufficiale, per conformare ufficialmente, per quanto è possibile, il digiuno cattolico col digiuno biblico e quello della primitiva Chiesa, quando nei giorni di digiuno non era permesso di mangiare se non alla sera. La dottrina teologica poi ammette la refeziuncula della sera chiamata colazione, ed una piccola refezione la mattina sia di caffè, sia di cioccolata con pane secondo la coscienza dell'individuo. Per la colazione della sera si ammettono generalmente otto oncie di cibo solido; ma nessuno va in tavola con la bilancia. Quale poi sia la dottrina pratica, basta vivere fra i preti, frati, e monache per vedere quale essa è.

Quando io era studente di teologia in Roma, pensava che lo scopo del digiuno essendo la mortificazione del corpo, non fosse lecito in giorno di digiuno mangiare cose ghiotte, come dolci, confetture ecc., pensava che in que' giorni si dovesse mangiar meno che negli altri. Esposi i miei dubbi al mio professore, il quale mi rispose con molta gravità, che finis legis non cadit sub lege: che chi voleva mangiar meno, ed astenersi da cose ghiotte, faceva bene; ma chi non lo faceva non trasgrediva la legge del digiuno.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:25
Querela prelatizia
Nota 7. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Il fatto de' due prelati, uno de' quali fu ferito dall'altro con un colpo di coltello, è fatto vero accaduto in Roma nel 1845; ma non fu in una veglia di Monsignor C., fu bensì in un desinare presso il principe S. Dei due prelati uno era romano, l'altro straniero. Il motivo della querela fu la gelosia, l'oggetto che la ispirava era la principessa. Il prelato romano fu il ferito: e siccome la ferita fu piuttosto grave, e non si potè nascondere, si disse che era stato aggredito da un assassino: ma quelli stessi che dicevano così, se la ridevano sotto i mustacchi. Il prelato ferito non era prete, e dopo che fu guarito abbandonò la prelatura e l'abito ecclesiastico ed ora è un onesto padre di famiglia: il prelato feritore era prete; andò per alcun tempo al suo paese; ma poi è tornato in Roma, ed ora è in un alto posto. I romani che erano allora nel caso di poter sapere le cose conoscono ambedue questi individui.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:25
Il giuoco delle carte
Nota 8. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Noi Italiani non abbiamo sul giuoco di carte quelle idee così rigorose che ne hanno i forestieri. Il giuoco delle carte noi lo stimiamo cattivo quando si giuoca a que' giochi di azzardo ne' quali si può perdere molto, e si eccitano le passioni; lo stimiamo cattivo quando si perde in esso molto tempo: ma quando si giuoca a quei giuochi ne' quali non vi è azzardo, non vi è eccitamento alle passioni, e che ha per iscopo una distrazione onesta; noi lo stimiamo un divertimento in se stesso innocente. Potremo errare; ma noi non vediamo una differenza essenziale fra il tresette, per esempio, ed il giuoco di dama o di scacchi, e non sappiamo comprendere perchè l'uno sia stimato innocente, e l'altro colpevole. Del resto noi siamo abituati così; in Roma i preti i più esemplari non si fanno scrupolo di passare al sera una o due ore al giuoco delle carte: si giuoca ordinariamente fra' preti, di un baiocco per partita, per attaccarvi un piccolo interesse, senza pericolo nè di rovinarsi, nè di eccitare le passioni. È vero che vi sono in Roma de' preti che giuocano a giuochi di azzardo; ma cotali giuochi sono stimati illeciti, e si fanno nascostamente.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:25
Lo Stato delle anime
Nota 9. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Il grosso libro di cui qui si parla è il libro chiamato lo stato delle anime. Ecco cosa è codesto libro. Ogni foglio è stampato a modula, ed il parroco ne riempie le caselle. Incomincia col nome della via o piazza che si rassegna; poi viene il numero civico della casa; poi il piano; siegue il numero progressivo delle famiglie, il numero progressivo degl'individui maschi, e quello delle femmine. Poi viene il nome e cognome dell'individuo, e per le donne maritate si aggiunge il cognome di famiglia alla quale appartenevano: la età, la patria, la condizione, cioè se nobile, quale sia il suo titolo, se non quale è la sua professione; poi lo stato, cioè se è maritato, celibe, vedovo, o chierico; poi se forestiere, bisogna registrare da quanto tempo dimora in Roma, da quanto tempo abita in parrocchia, in quale parrocchia abitava prima: per i giovani, registrare se sono cresimati, se hanno fatto la loro prima comunione; infine vi è una casella più grande per le osservazioni.

Al cominciare della quaresima, il parroco, accompagnato dal segrestano, incomincia il giro della parrocchia a tale scopo: e siccome sarebbe impossibile scrivere sopra ciascun individuo tante cose, così il parroco riscontra le persone, nota i cambiamenti che sono avvenuti nella famiglia: poi il sagrestano aiutato dal beccamorti, se è capace, rifà il nuovo stato d'anime sul vecchio, adattandovi i cambiamenti e le modificazioni fatte dal parroco.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:26
Archivio parrocchiale. – Matrimoni
Nota 10. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Il libro di stato d'anime sta tutto l'anno sulla tavola del parroco nella parrocchietta: è la carta topografica della parrocchia; ogni individuo che parte di casa deve avvisarne il parroco, ed allora quell'individuo, o quella famiglia è cancellata dallo stato d'anime: ogni individuo o famiglia che nel corso dell'anno va ad abitare nella parrocchia deve andarsi a far registrare dal parroco, e scriversi nello stato d'anime. Quel libro è consultato ogni momento, e specialmente quando la pulizia o altro tribunale domanda informazioni al parroco. Esso non va in archivio che alla Pasqua; quando cioè è fatto il nuovo libro.

E poichè abbiamo parlato di archivio, sarà bene dire cosa è un archivio parrocchiale. Esso è composto dei libri di battesimi, di matrimoni e di morte: esso contiene i libri di stati d'anime, e le licenze de' matrimoni. Oltre a ciò ogni parroco ha due libri segreti che deve tenere chiusi a chiave; cioè il libro delle ammonizioni canoniche, ed il libro de' matrimoni segreti. Spieghiamo un po' meglio queste cose.

I libri di battesimo contengono i registri di tutti i fanciulli battezzati, tutti in latino, secondo la formula del rituale romano; i libri di matrimonio contengono i matrimoni celebrati; oltre a ciò, debbono esattamente conservarsi in filze, le licenze di matrimonio: i libri de' morti contengono, sempre in latino, la data della morte e della sepoltura. Ogni partita è firmata dal parroco. Da questi libri si estraggono le fedi. Le particelle estratte da questi libri e firmate dal parroco fanno fede pubblica avanti qualunque tribunale. Esse sono pagate secondo la tassa, cioè per principi uno scudo, per prelati e nobili baiocchi cinquanta, per particolari baiocchi trenta, per i poveri baiocchi dieci. È da notare che in Roma per ogni minima cosa ci vuole la fede di battesimo; per cui l'archivio è una buona fonte di rendita per un parroco.

Mi si domanderà: "Cosa sono le licenze di matrimonio? Non ha il parroco autorità di celebrare i matrimoni? Ha egli bisogno di avere una licenza?" Ecco cosa è la licenza. Quando deve celebrarsi un matrimonio, i contraenti debbono presentarsi al parroco, e cominciare dall'estrarre le fedi di battesimo e di cresima: il parroco deve esaminarli sul catechismo, e trovatili istruiti, li manda alla cancelleria del Vicariato per fare gli atti preparatorii: fatti questi, il parroco fa le pubblicazioni per le quali è pagato secondo la tassa, ma mai meno di baiocchi trenta; fatte le pubblicazioni, quando la cancelleria ha finito gli atti spedisce la licenza, la quale non significa altro che gli atti sono in regola, la licenza però è ben pagata dai contraenti. Le licenze si conservano come controllo, e se ne fa menzione nella particella del matrimonio.

Il libro delle ammonizioni canoniche è quel libro di cui abbiamo parlato in un'altra nota, nel quale sono registrate le cattive donne della parrocchia; alle quali il parroco di tanto in tanto fa una buona sgridata, e la registra. Queste sgridate si chiamano ammonizioni canoniche, sebbene i canoni non ne parlino punto.

Il libro de' matrimoni segreti è quello nel quale si registrano i matrimoni che non sono stati celebrati con le formalità legali. I matrimoni segreti non sono rari in Roma, un foglio di famiglia per esempio se sposa una cantante, una ballerina, una giovane di bassa condizione, contro la volontà de' suoi parenti; il matrimonio sta, ma egli può sorffrirne nella eredità, allora si fa il matrimonio segreto; i coniugi vivono con cautela, ed il loro matrimonio è pubblicato dopo la morte de' genitori, o degli zii, i quali non avrebbero lasciata la loro eredità al nepote se lo avessero saputo maritato con persona che non era di loro aggradimento. Un vecchio signore s'innamora della serva; ma egli ha de' figli grandi, ha una parentela; se sposasse pubblicamente la serva, potrebbe avere delle noie; la sposa in segreto; e, dopo la sua morte, egli stesso pubblica nel suo testamento il matrimonio, con un buon lascito alla serva divenuta signora, a scapito de' figli.

Il libro de' matrimoni segreti è inaccessibile: neppure il parroco può estrarre da esso alcuna particella; solo può dire: "Consta dal libro de' matrimoni segreti conservati presso di me, che i signori N. N. sono coniugi legittimi," senza indicare nè la data del loro matrimonio, nè il come, nè il perchè è stato celebrato. Quel libro nè gli estratti autentici di esso non possono essere domandati da nessun tribunale, neppure dal tribunale del cardinal vicario; e, se fossero domandati, il parroco deve ricusarli. Il solo cardinal vicario ha il diritto di visitare quel libro per sua privata informazione.

Daremo or una breve spiegazione della pratica de' matrimoni in Roma. Abbiamo già detto come si fanno i matrimoni ordinari. Oltre quelli però ve ne sono degli altri, i quali sono validi come gli ordinari, sebbene privi di tutte le forme.

Primi sono i matrimoni chiamati clandestini. Essi accadono così. Il concilio di Trento ha dichiarato che per la validità del matrimonio non si ricerca che il consenso espresso dei due contraenti fatto alla presenza del parroco e di due testimoni. Il Manzoni ha spiegato bene questa dottrina, e così ci risparmiamo di ripeterla. In Roma non sono rari tali matrimoni; ed i parrochi sono sempre in guardia per non essere sorpresi: ma non sempre vi riescono. Il parroco di S. Maria del Popolo fu avvertito da una delle sue bigotte, che nella notte sarebbe stato chiamato per confessare un moribondo che non voleva confessarsi che a lui; ma che, andando a quella casa, invece del moribondo, avrebbe trovati due sposi e due testimoni. Il parroco, se chiamato personalmente da un moribondo, non poteva ricusare di andarvi; quindi egli fece quella notte restare in parrocchia il beccamorti; e, quando venne la chiamata, pose il suo ferraiuolo ed il suo cappello al beccamorti, e, così bene imbacuccato ed informato del fatto, lo mandò in sua vece. Appena entrato nella casa, si presentano i due sposi e recitano il solito formulario: "Questa è mia moglie: Questo è mio marito," credendo che quello fosse il parroco; ma il beccamorti sbacuccatosi disse: "Ed io sono il beccamorti, per servirvi:" e via a gambe.

Oltre i matrimoni clandestini, vi sono i matrimoni forzati, e questi ordinariamente si fanno fra i cancelli delle carceri. Un giovane è accusato di avere sedotta una giovane: egli nega; non vi sono testimonianze, ma semplici indizi: il giovane è incarcerato; il tribunale del vicariato pronuncia la sentenza; o sposi la giovane, o vada in galera; posto il giovane in quella alternativa, è raro che scelga la galera; il matrimonio si celebra al cancello delle carceri, il giovane dentro, la giovane ed il parroco fuori, ed i due sposi si dànno la mano a traverso dei ferri. Compita la cerimonia, il cancello si apre, ed il giovane è libero. Altre volte, quando si tratta di qualche giovane di buona famiglia, si usano maggiori riguardi. Ecco un fatto accaduto a me nel mio esercizio parrocchiale. Una giovane figlia di un chirurgo era stata sedotta da un giovane di buona famiglia Toscana. La giovane e la madre ricorsero a me; io non voleva mettere la cosa in criminale, anche per salvare l'onore alla fanciulla, ma voleva che si facesse un matrimonio segreto da pubblicarsi a suo tempo. Feci venire il giovane, il quale confessò la seduzione; ma disse che aveva volontà di sposare la giovane, e che a tale effetto le aveva rilasciata una obbligazione in iscritto: solo voleva andare in patria per vedere se poteva ottenere il consenso da' suoi parenti. Io avrei accondisceso alla cosa, solo che facesse prima di partire una promessa legale, ed in tutte le forme di sposare la giovane, dichiarandosi autore del frutto della seduzione, che maturava. Il giovane promise tutto; ma la giovane e la di lei madre non accondiscesero. Allora il giovane mi diede parola che la sera sarebbe venuto a sposare segretamente la giovane.

Però la sera non venne, e fatte le debite ricerche si seppe che era partito. Corsi alla pulizia, e seppi che aveva vidimato il suo passaporto per la Toscana. Furono subito dalla pulizia spediti quattro carabinieri in un legno in posta, ed il giovane fu raggiunto a Monterosi, e condotto a Roma. La mattina il governatore di Roma mi fece avvertire che il giovane era a mia disposizione; lo feci condurre in parrocchietta da due carabinieri vestiti in borghese, e gl'intimai o di sposare, o di essere immediatamente condotto alle carceri del vicariato, e sottoposto alla giurisdizione criminale di quel tribunale. Egli scelse il matrimonio, e sposò la giovane.

Un altro genere di matrimoni sono quelli che si fanno in articulo mortis. Succede non di rado che un vecchio vedovo, in punto di morte, è costretto dal parroco, sotto pena di eterna dannazione, a sposare la serva; non importa che ne soffrano gli eredi. Il matrimonio si fa al letto di morte, senza che nessuno della famiglia se ne avveda; i due testimoni sono il vice parroco ed il sagrestano: il pretesto per cui si allontana la famiglia è di dare la estrema unzione al moribondo; invece gli si dà il matrimonio. Quel matrimonio è registrato fra i matrimoni segreti; per cui non si può mai sapere nè quando, nè in quale circostanze sia stato celebrato. Dopo la morte del vecchio, la serva pubblica il suo matrimonio, ed acquista tutti i diritti della vedova.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:26
Precetto pasquale
Nota 11. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Il precetto di confessarsi e comunicarsi nella Pasqua, fu fatto, come è noto, nel Concilio Lateranense da papa Innocenzo III nel 1215. La pena dell'interdetto, cioè di non potere più entrare in chiesa, è fulminata in quel decreto contro i trasgressori. Vediamo in qual modo si eseguisce attualmente questo decreto.

Nei quindici giorni della Pasqua, cioè dalla domenica delle Palme alla domenica in Albis, il parroco amministra continuamente, ed in tutte le ore della mattina, la comunione a' suoi parrocchiani. Mentre il parroco pone in bocca al parrocchiano l'ostia, il sagrestano pone nelle sue mani un biglietto, che si chiama il biglietto pasquale. In questa circostanza si commettono delle frodi: per esempio, vi sono delle pinzochere che vanno a comunicarsi in que' giorni in diverse parrocchie per avere i biglietti, i quali poi vendono per cinque paoli, a coloro che non soddisfano al precetto, ma che vogliono evitare i gastighi de' trasgressori. Per evitare una tale frode, alcuni parrochi avevano adottato l'uso di fare in carta colorata i biglietti per le donne, ed in carta bianca quelli degli uomini, ma il cardinal vicario proibì questa distinzione.

Passato il tempo pasquale, il parroco fa di nuovo il giro della parrocchia con lo stato di anime; ritira i biglietti pasquali per riscontrare chi ha soddisfatto. Poi nelle domeniche susseguenti fa le tre ammonizioni canoniche, che consistono in questo. Dopo letto il Vangelo nella messa, si volge al popolo e dice: "Coloro che non hanno soddisfatto al precetto pasquale, si presentino, sotto pena d'incorrere nelle censure." Il giorno dopo la Pentecoste, ogni parroco manda al tribunale criminale del vicariato la nota di tutti coloro che non hanno soddisfatto al precetto. Ordinariamente in queste note non vi sono che nomi di povera gente; ma se si trova un parroco onesto il quale dia la nota esatta, e metta in essa tutti i trasgressori anche di qualità, allora è il vicariato che cancella que' nomi, e vi lasci solo i nomi de' poveri.

Dopo ciò, si fa a consegnare a ciascuno de' trasgressori per mani del cursore (usciere) una citazione stampata in latino, nella quale s'intima loro di andare al tribunale e dichiarare il perchè non hanno soddisfatto al precetto. Naturalmente que' poveri ignoranti ai quali è diretta quella citazione, non comprendendola, non ne fanno alcun caso. Se pur qualcuno va a presentarsi al parroco per soddisfare al precetto dopo avere avuta la citazione, il parroco non ha più facoltà di ammetterlo; ma bisogna che il trasgressore faccia una supplica al cardinal vicario, acciò dia al parroco le debite facoltà. Questa specie di durezza indispettisce.

Passati alcuni giorni, il parroco riceve la sentenza d'interdetto in latino, seguita dalla nota nominale di tutti quelli che lo hanno incorso. La sentenza è pubblicata dal parroco, insieme co' nomi, cognomi e professione di coloro contro cui è fatta; ed immediatamente è fortemente collata alla porta esteriore della chiesa, acciò tutti sieno conosciuti. Il giorno dopo, il cursore rimette a ciascuno di essi copia della sentenza stampata in latino. Il 25 Agosto poi si pubblica la nota generale di tutte le parrocchie, ed un gran quadro si affigge fuori la porta della chiesa di S. Bartolomeo, dove è un gran concorso di popolo.

Due o tre giorni dopo, sono tutti carcerati di nottetempo, e condotti alla così detta guardiola: che è una camera di deposito per coloro che sono imprigionati per ordine del cardinal vicario. La mattina dopo le otto sono condotti alle carceri criminali. Siccome quella processione di carcerati per quel motivo, eccitava la curiosità del popolo e le maldicenze: così negli ultimi anni di Gregorio XVI si conducevano alle carceri privatamente, e senza alcuna pubblicità. Ma il zelantissimo Pio IX, nel 1847 primo anno del suo liberale pontificato, volle si conducessero pubblicamente: ed io con tutta Roma fui testimonio di quell'ingiustificabile atto. Dopo le otto, uscirono dalla guardiola in via degli Uffici del Vicario, incatenati a due a due, circa ottanta di quegl'infelici: la processione era scortata da carabinieri, e così a passo lento furono condotti fino alle carceri in via Giulia, più di un miglio di strada, traversando le vie più popolate di Roma.

Nelle carceri sono tenuti al regime di pane nero ed acqua. Dopo alcuni giorni di carcere, sono condotti da' carabinieri alla così detta pia casa di Ponterotto, ove restano otto giorni forzati a fare gli esercizi spirituali, alla fine de' quali si devono confessare e comunicare, ed allora escono liberi. Così s'intende in Roma la religione!

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:26
Tre dottrine
Nota 12. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

La Chiesa romana ha per ogni suo domma, per ogni sua pratica, tre dottrine diverse: la dottrina ufficiale, la dottrina teologica, la dottrina pratica; questa è la trinità di ciascun domma romano; vale a dire delle tre se ne forma una, salvo a separarle quando giova separarle. Quando un grande teologo, come per esempio Bossuet, combatte contro i Protestanti, ed espone la dottrina della sua Chiesa, si limita alla dottrina ufficiale: ed i Protestanti ammiratori di Roma, nel leggere i libri di controversia scritti da quegli uomini che sono stati per molti anni nella Chiesa romana, e che hanno avuto la occasione di conoscerla profondamente, li accusano di esagerazione e di fanatismo; le corruzioni della Chiesa romana sono da essi tenute per abusi di uomini, non per dottrine della Chiesa. Per conoscere la Chiesa Romana, non basta aver letto un qualche libro di controversia; ma bisogna profondamente conoscere i loro libri ufficiali, il concilio di Trento, il catechismo romano, il rituale, il pontificale, il cerimoniale de' vescovi, il messale, il breviario, e le decisioni delle S. Congregazioni; bisogna avere bene studiati i libri di teologia de' sommi teologi, il diritto canonico, le bolle de' papi; bisogna finalmente conoscere bene Roma, e la sua curia, e le pratiche delle chiese, de' conventi, de' monasteri.

Per non dilungarci soverchiamente, ci asteniamo dal portare esempi: chi ne volesse può trovarli ne' nostri trattati di controversia, specialmente in quello sul purgatorio, e l'altro sulla messa.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:27
Jus gazagà e pretatico
Nota 13. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Non è permesso agli Israeliti in Roma di abitare fuori del ghetto, che è il luogo più malsano e più umido di Roma, ed è almeno una volta all'anno inondato dal Tevere. Però alcuni Ebrei hanno de' magazzini fuori del ghetto. Ora ecco cosa accade per que' magazzini.

Sisto V fece una legge per la quale costringeva gli Ebrei di Roma a vivere nel recinto del ghetto; ed affinchè i proprietari delle case del ghetto (gli Ebrei in Roma non possono possedere fondi) non profittassero della circostanza, vietò ai proprietari del ghetto di aumentare le pigioni. Questo privilegio è chiamato dagli Ebrei di Roma il jus gazagà. Se poi, per qualche caso particolare, un Ebreo dovesse occupare un locale fuori del ghetto, dovrebbe per quel locale pagare il pretatico al parroco; cioè il decimo della pigione che paga per quel locale; e ciò per la ragione seguente: se in quel luogo invece di un Ebreo vi abitasse un Cattolico, il parroco avrebbe i suoi incerti di battesimi, di matrimoni, di mortorii ec. L'Ebreo dunque doveva compensare il parroco per quelle perdite. Papa Leone XII ingrandì il ghetto, ed obbligò di nuovo tutti gli Ebrei che erano fuori a rientrarvi, così finì il pretatico. Però in piazza Navona vi è un macellaio ebreo, che vive nel ghetto, ma ha la sua botteguccia su quella piazza. Il parroco citò l'Ebreo avanti il tribunale del vicegerente per essere condannato a pagare il pretatico: per quanto l'avvocato dell'Ebreo dicesse che quella bottega non era abitata dall'Ebreo; che non era neppure abitabile, e che in conseguenza nè secondo la lettera, nè secondo lo spirito della legge, l'Ebreo era obbligato a quel pagamento; pure fu condannato a pagare.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:29
Cosa è un precetto?
Nota 14. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Il vicariato fa i processi in via economica, e giudica le cause senza la presenza del prevenuto; esso è ascoltato solamente dal giudice istruttore. Questo tribunale ha trovato il segreto di condannare anche alla galera le persone senza alcun delitto, eppure le condanna legalmente. Ecco qual è questo segreto. Una moglie gelosa, per esempio, non vuole che il suo marito frequenti una casa; manifesta i suoi sospetti, ingigantiti dalla gelosia, al parroco; questi ne informa il vicariato, il quale ingiunge a quell'uomo, senza dirgli il perchè, di non andare più in quella casa sotto pena di sei mesi o un anno di carcere o galera, secondo l'eminentissimo arbitrio. Questa ingiunzione si chiama precetto. Se infrange il precetto, non si verifica se vi andava a cattivo fine, o se vi ha commesso del male, ma incorre la pena del precetto, ed è legalmente condannato per infrazione di precetto. Ho citato questo esempio, ma i precettati sono molti, ora ad istanza delle mogli, ora de' mariti, ora de' parenti, ora sul semplice ricorso del parroco.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:29
Come agisce il tribunale della Rev. Fabbrica
Nota 15. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Ecco come agisce per privilegio santissimo il tribunale della Rev. Fabbrica. Quando esso sa o sospetta che un legato pio non si soddisfa regolarmente, ha il diritto d'impadronirsi de' fondi di quello, che sono in mano della famiglia. Per impossessarsi di un fondo di un particolare, vi vuole un giudizio, una sentenza irrevocabile. Il tribunale della Fabbrica si fa attore, e cita avanti a sè il preteso reo: egli è dunque nello stesso tempo attore e giudice nella causa propria. È impossibile che possa mai perdere la causa; tanto più che non vi è appello. Ma se la cosa fosse così evidente, che fosse impossibile anche alla coscienza de' prelati giudici di condannarlo nel merito; in ogni caso è condannato a pagare le spese della causa. Aveva dunque ragione il nostro parroco di dire che le leggi di quel tribunale sono tali da disgradarne i Turchi.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:30
Mercato di messe
Nota 16. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

In Roma si può dire che si faccia il vero mercato di messe. Citerò alcuni fatti principali. I Cappuccini per esempio: ogni individuo è obbligato a dire ogni giorno la messa per il convento; ma ha per sè tre giorni ogni settimana; e que' denari servono per il caffè ed altri minuti piaceri. Il P. guardiano prende le elemosine delle messe per il convento. Le rendite de' provinciali, e specialmente del procuratore generale che sta in Roma, consistono in messe. Ogni frate che vuole una qualche licenza, una qualche grazia, deve pagarla con un certo numero di messe secondo la tassa; ed il provinciale, procuratore generale, o generale, intascano le elemosine, ed il frate assume l'obbligo di coscienza di dire quelle messe. L'introito del procuratore generale de' Cappuccini, consistente in messe, supera i quattromila scudi romani all'anno. E cotal mercato è santo, e nessuno se ne fa il minimo scrupolo; il papa lo sa, e non vi trova nulla a ridire.

Un altro mercato di messe si fa nelle chiese cogli altari privilegiati di cui abbiamo parlato in un'altra nota; ed anche quello è autorizzato. Un altro mercato è quello de' preti chiamati di vettura, di cui pure abbiamo parlato. Ve ne è poi un altro, poco conosciuto, di cui parleremo.

I Romani crederebbero avvilirsi se si dassero alla coltivazione della terra: per cui i contadini vanno a Roma o dalle Marche, o dagli Abruzzi. I giorni di festa, que' poveri contadini stanno oziando per le piazze, e specialmente si uniscono alla Rotonda, alla Madonna de' Monti, a piazza Montanara, ed a Campo di Fiore. Que' contadini ignorantissimi, sono per lo più eccessivamente bigotti e superstiziosi. Si cacciano in mezzo a loro alcuni preti, ed alle volte anche semplici chierici, atteggiati a compunzione, e vendono loro modaglie, scapolari e cose simili, che dicono essere benedette dal papa; poi incominciano a parlare di purgatorio, e domandano denari per messe; e per meglio allettarli si offrono a dire la messa anche per un paolo, mentre i Cappuccini stessi non la dicono a meno di un paolo e mezzo. I contadini sono presi, ed il prete, o finto prete fa ogni festa la sua buona raccolta.

Un altro luogo di caccia alle messe è il confessionale. Il confessore deve essere in alcuni casi imbuonito con una buona messa. Io conosceva un certo canonico di S. Eustachio che riceveva tante messe nel confessionale, che quando ne usciva, il chierico doveva andare con la granata a raccogliere tutte le cartine ove erano involtati i denari delle messe che riceveva ogni mattina. Quando poi le diceva? Il fatto è ch'egli era andato in Roma dal suo paese col solo breviario sotto il braccio, ed io lo ho conosciuto abitare un magnifico palazzo che si era comperato.

pedrodiaz
00lunedì 28 febbraio 2011 18:30
Messone
Nota 17. alla lettera undicesima di Roma Papale 1882

Il popolo ha una idea assai vaga intorno al mercimonio delle messe; esso sa che quando si sono presi i denari per molte messe, si soddisfa a tutte con un messone; ma non ha che una idea confusa del messone: rendiamola dunque chiara.

Nella pratica di sagrestia vi sono tre specie di messe, cioè le perpetue, le avventizie, le manuali. Ogni sagrestia in Roma deve avere due libri uno per le messe perpetue, l'altro per le avventizie: le manuali non si scrivono. Le perpetue sono quelle che debbono celebrarsi in perpetuo in forza di un lascito: per esempio, un tale lascia la sua eredità o tutta o in parte ad una chiesa, ad un convento, coll'obbligo di dire in perpetuo tante messe al giorno, o all'anno in suffragio della sua anima. La chiesa s'impossessa della eredità, accetta la condizione ed allibra la partita delle messe; e queste sono le messe perpetue. Le messe avventizie sono quelle che si fanno celebrare in occasione di mortori, di funerali, di tridui, di feste ecc., ovvero che si portano alle sagrestie per qualunque occorrenza. Queste sono allibrate nel libro delle messe avventizie, ed ogni prete prende il denaro per la sua messa, e scrive sotto quella partita il suo nome aggiungendovi celebravi. Le messe manuali poi sono quelle che i devoti non portano alla sagrestia, ma dànno in mano al confessore od altro prete; e queste non si scrivono in libro alcuno.

Ora ecco cosa accade. Le messe avventizie hanno la precedenza perchè si riceve il denaro nell'atto; le messe manuali, sono spesso dimenticate; e se non lo sono, sono dette quando mancano le avventizie. Nelle chiese accreditate, ove non mancano mai le avventizie, le premanuali corrono grande pericolo.

Ma più grande pericolo corrono le messe perpetue: ed eccone la ragione. Da tanti secoli si fanno lasciti alle chiese ed ai conventi, e tutti coll'obbligo di messe perpetue; il numero di esse dunque aumenta ogni giorno. Il numero de' preti all'opposto è in ragione inversa dell'aumento delle messe: quindi ogni anno resta in ogni chiesa un numero significante di messe non dette. Per fare tacere il libertini, il papa ha stabilita una sacra congregazione chiamata della Visita apostolica, la quale ogni anno in Roma visita i libri di messe e non trovandole dette, si fa pagare a ragione di baiocchi quindici per ogni messa non detta, ed essa si assume l'obbligo di farle dire; e le dà difatti ai generali e procuratori generali de' Cappuccini, Francescani ec. Che ne fanno poi quel mercimonio di cui abbiamo parlato in un'altra nota. La chiesa ci guadagna; perchè essa non prende messe a meno di baiocchi venti, e ne paga 15; ma la maggior parte delle chiese, prima che i libri vadano alla visita, domandano la riduzione, o assoluzione, che volgarmente chiamasi il messone. La riduzione è per le messe perpetue; l'assoluzione, per le avventizie o manuali. La riduzione consiste nel ridurre a minor numero di messe gli obblighi assunti, e pe' quali si è preso il denaro; l'assoluzione, nell'essere assoluti dall'obbligo assunto di celebrare le messe, ritenendo però in buona coscienza il denaro.

L'assoluzione o riduzione, si domanda sempre al papa, ma per mezzo delle varie congregazioni, alle quali egli ha comunicato il suo potere illimitato. Gran cosa comoda pe' preti il potere illimitato del papa! Se essa è domandata da un vescovo, o da un superiore regolare, si va ordinariamente alla S. congregazione de' Vescovi e regolari, e con nove paoli si ottiene il rescritto. Si domanda per esempio che mille messe perpetue da dirsi ogni anno, sieno ridotte a cento; la S. congregazione rescrive favorevolmente; ma aggiunge di suo, per le novecento messe annue che riduce, una messa cantata, e questo si chiama il messone. Si domanda l'assoluzione di un numero di messe non dette, e la S. congregazione dichiara che saranno tutte soddisfatte con una messa cantata (messone).

Si racconta di papa Pio VI che domandato dal p. abate di S. Lorenzo fuori le mura, di cambiare in un messone 500 messe all'altare privilegiato, per le quali aveva intascato 500 scudi; il papa rispondesse che sarebbe andato egli stesso a dire il messone. Vi andò difatti; ma dopo la messa volle dal p. abate i 500 scudi.

Se poi si tratta di chiese non cattedrali, e non appartenenti a regolari; ovvero si tratti di messe manuali, allora bisogna ricorrere per l'assoluzione, o alla S. Penitenzieria, o alla Rev. Fabbrica. La S. Penitenzieria dà l'assoluzione gratis, ma con tali clausole che, appunto perchè sono giuste, non accomodano molto ai preti. Le clausole della Penitenzieria sono, primo, se le cose esposte sono interamente vere; secondo, se la povertà del petente è tale che non gli permetta assolutamente di soddisfare all'obbligo assunto; terzo, se non può soddisfare per intero, soddisfi in quella parte che gli è possibile; quarto, se in alcun tempo, anche remoto, della vita del petente egli si trovasse in grado di soddisfare o in tutto, o in parte, quell'assoluzione non gli vale, ed è obbligato a soddisfare. Queste clausole sono giustissime, e noi non oppositori per sistema, ne lodiamo la S. Penitenzieria. Però esse non tranquillizzano la coscienza di chi vuol mangiare l'altrui senza uno scrupolo al mondo. Si ricorre dunque alla Rev. Fabbrica. Il prete destinato a ricevere cotali suppliche, non le riceve senza il deposito preventivo di un baiocco per ogni messa della quale si domanda l'assoluzione: così diciannove baiocchi restano al prete, ed uno va a vantaggio della fabbrica di S. Pietro; e le messe?… Un libertino potrà dire che questo è un autorizzare i furti; ma si ricordi che il papa ha la pienezza del potere; e che se egli fa da' suoi prelati condannare alla galera un povero padre di famiglia che ha rubato qualche soldo per non veder morir di stento i suoi figli, lo fa come principe temporale; mentre quando assolve i preti, lo fa come principe ecclesiastico.

Quando poi si tratta dell'assoluzione di un numero assai grande di messe, si viene anche ad una composizione; ed è perciò che il nostro prete voleva mercanteggiare per ottenere un risparmio.

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