Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
S_Daniele
00lunedì 23 novembre 2009 20:03


Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Don Giuseppe Quadrio
prete all'altare e laico tra gli uomini


di Enrico dal Covolo

Chi legge le lettere del servo di Dio don Giuseppe Quadrio avverte con facilità che un tema scorre in filigrana lungo tutto l'epistolario, fino a ricorrere con particolare insistenza nel periodo della sua malattia (1960-1963):  è il discorso sull'identità e missione del sacerdote.

Il risultato più interessante è che - senza averne l'intenzione, e senza neanche accorgersene - don Quadrio dipinge uno splendido autoritratto sacerdotale. Infatti, secondo la testimonianza concorde di chi l'ha conosciuto, "le cose che diceva e scriveva" sul sacerdozio "erano "sue":  quello che diceva era la sua vita!"; ed egli era "sempre, dovunque, con tutti prete", proprio come raccomandava con insistenza ai sacerdoti suoi amici.

Ripercorrendo alcuni passi delle lettere di don Quadrio è possibile illustrarne l'alta concezione del ministero presbiterale:  nello stesso tempo affiorerà quell'autoritratto - non voluto e non previsto - che don Quadrio stesso ha lasciato scrivendo del sacerdozio.

Anzitutto, don Quadrio è consapevole che il prete - come attestato nella Lettera agli Ebrei - è "uno preso fra gli uomini". L'umanità è per lui una componente essenziale del sacerdozio. Purtroppo - così egli si rammarica con gli ex-allievi del 1960 nel terzo anniversario della loro ordinazione - "ci può essere un sacerdozio disincarnato, in cui il divino non è riuscito ad assumere una vera e completa umanità. Abbiamo allora dei preti che non sono uomini autentici, ma larve di umanità; dei "marziani" piovuti dal cielo, disumani ed estranei, incapaci di capire e di farsi capire dagli uomini del proprio tempo e del proprio ambiente. Dimenticano che Cristo, per salvare gli uomini, "discese, si incarnò, si fece uomo", "volle diventare in tutto simile a loro, fuorché nel peccato". Se siamo il ponte fra gli uomini e Dio, bisogna che la testata del ponte sia solidamente poggiata sulla sponda dell'umanità, accessibile per tutti quelli per cui fu costruito".

Agli stessi sacerdoti don Quadrio aveva scritto un anno prima:  "Il Verbo si è fatto vero e perfetto uomo, per essere Salvatore. Anche il vostro sacerdozio non salverà alcuno, se non attraverso questa genuina incarnazione. Gli uomini, che vi avvicinano o che vi fuggono, sono tutti indistintamente affamati di bontà, di comprensione, di solidarietà, di amore:  muoiono del bisogno di Cristo, senza saperlo. A ciascuno di voi essi rivolgono una preghiera disperata:  "Vogliamo vedere Gesù!" (Giovanni, 12, 21). Non deludete l'attesa della povera gente. Sappiate capire, sentire, cercare, compatire, scusare, amare. Non temete:  tutti aspettano soltanto questo! Prima che con i dotti discorsi, predicate il Vangelo con la bontà semplice, accogliente, con l'amicizia serena, con l'interessamento cordiale, con l'aiuto disinteressato, adottando il metodo dell'evangelizzazione "feriale", capillare, dell'un per uno, a tu per tu. Entrate attraverso la finestra dell'uomo, per uscire attraverso la porta di Dio. Gettate a ognuno il ponte dell'amicizia, per farci passare sopra la luce e la grazia di Cristo".

Al nipote Valerio, che s'incamminava per la via del sacerdozio, confida:  "Sei presente ogni giorno nella mia messa e nelle mie preghiere, perché sono troppo interessato alla tua formazione sacerdotale. Non sai infatti quanto mi stia a cuore la maturazione definitiva del tuo carattere in quelle virtù umane e naturali che ti renderanno un uomo autentico, completo, conquistatore. Queste virtù umane sono generalmente molto modeste e dimesse, ma basilari:  la sincerità, la lealtà, l'amabilità, l'accondiscendenza, la generosità, la padronanza assoluta di sé, l'alacrità nell'azione, la calma imperturbabile nei contrattempi, la fiducia incrollabile, la costanza nei propositi, la forza di volontà che sa volere con chiarezza e pacata irremovibilità".

Qualche anno più tardi scriverà ancora allo stesso Valerio:  "Penso che noi sacerdoti dovremmo saper gettare verso tutti il ponte di un'amabile, cortese, calda e serena personalità, generosa e semplice, ricca di umanità e di comprensione, accogliente e servizievole. Solo su queste arcate potrà correre il Vangelo e la grazia!".

Insomma, il ricco corredo di doti umane, che si svela pagina dopo pagina nell'epistolario, fa di don Quadrio il testimone vivente di ciò che egli stesso va consigliando ai suoi sacerdoti.

A questa luce si possono considerare alcuni tratti caratteristici delle lettere, come l'attenzione fedele ad alcune ricorrenze - onomastici, anniversari, auguri, condoglianze - la capacità di esprimere riconoscenza - per esempio a don Magni e a don Castano - la sapiente alternanza tra l'uso del "lei" e l'uso del "tu", la fantasia nell'attenzione alle persone - si veda una letterina scherzosa scritta a Gesù Bambino nel Natale 1961:  cercando d'imitare la grafia larga e incerta d'un bambino, e costellando la pagina di tipici errori infantili, don Quadrio formula una simpaticissima preghiera per suor Maria Ignazia, una suora dell'ospedale "tanto brava, che corre sempre e mi fa la pappa tuti i ciorni".

Nella persona del sacerdote si attua un misterioso incontro di salvezza tra l'umano e il divino. A questo riguardo don Quadrio ammonisce i suoi amici a guardarsi da "un sacerdozio mondanizzato, in cui l'umano ha diluito o soffocato il divino". E aggiunge:  "Abbiamo allora lo spettacolo lacrimevole di preti che saranno forse buoni professori e organizzatori, ma non sono più gli "uomini di Dio", né viventi epifanie di Cristo. Sono come certe chiese trasformate in musei profani. C'è un termometro infallibile per misurare la consistenza del proprio sacerdozio:  la preghiera. È la prima ed essenziale occupazione di un prete, anche se è direttore, consigliere, prefetto o incaricato dell'oratorio. Tutto il resto sarà importante, ma viene dopo. Diversamente siamo un ponte a cui è crollata l'ultima arcata:  quella che tocca Dio".

Proprio qui si radica la sollecitudine costante di don Quadrio per la "dimensione contemplativa" del sacerdote. È significativo che dei famosi "cinque consigli" a un prete novello, i primi tre riguardino - nell'ordine rispettivo - la messa ("celebra ogni giorno la tua messa come se fosse la prima, l'ultima, l'unica della tua vita. Un Sacerdote che ogni giorno celebra santamente la sua messa, non commetterà mai delle sciocchezze"), il breviario ("ordinariamente è il primo a essere massacrato dal prete tiepido. Sii certo che col tuo breviario puoi cambiare il mondo, più che con le dotte tue conferenze o lezioni") e la confessione ("ricordati che, nei pericoli immancabili della tua vita sacerdotale, la tua salvezza sarà l'avere un uomo che sappia tutto di te, che con mano ferma possa guidarti, e sostenerti con cuore paterno").

Si tratta in sostanza dei medesimi consigli che due anni prima don Quadrio aveva dato a don Tironi:  "Prepari accuratamente - gli scriveva - viva intensamente e prolunghi nella giornata la sua messa (...) Tutta la sua giornata diventi una messa. Viva, ami e gusti il suo breviario. Non dimentichi che con esso lei impersona tutta la Chiesa e prolunga Cristo orante. Sia fedele alla confessione settimanale e all'esame quotidiano".

Ai "carissimi amici" del iv corso di teologia, che saranno ordinati sacerdoti l'11 febbraio 1961, scrive:  "Non temete:  la preghiera può tutto! Un prete che prega bene non farà mai delle sciocchezze". A don Bin raccomanda:  "Si offra e si abbandoni a Cristo senza riserve. Non tema:  è Lui che fa. Si innamori della sua messa:  là è il segreto di tutto!".

Al nipote Valerio:  "Preghiamo insieme:  meditando, amando e gustando gli inesauribili tesori del nostro breviario. Amare e godere questo nostro divino ufficio, che ci colloca ogni giorno nel cuore della Chiesa, sul vertice del mondo, a tu per tu con la miseria umana e con la Maestà divina, come mediatori tra Dio e il mondo".

Allo stesso Valerio, qualche settimana dopo, chiede:  "A proposito di Vangelo, non ti sembra sacrilega la nostra ignoranza e trascuratezza verso di esso? Un prete dovrebbe far voto di leggerne almeno una pagina ogni giorno. Insieme all'Eucaristia, non c'è nulla di più santificante e nutriente che il Verbo di Dio incarnato nel suo Vangelo". E a don Melesi:  "Suo primo dovere è pregare. Il resto viene dopo".

Secondo don Quadrio, infine, le due componenti del sacerdozio - quella umana e quella divina, che abbiamo fin qui delineate - non possono rimanere semplicemente giustapposte, ma devono trovare nel prete una sintesi profonda e armonica.

In una lettera del 3 gennaio 1963 scrive:  "Ci può essere anche la deformazione di un sacerdozio lacerato, in cui il divino e l'umano coesistono senza armonizzarsi. Preti all'altare, ma laici sulla cattedra, in cortile, tra gli uomini. Sono un ponte dalle due testate estreme intatte:  manca l'arcata centrale che dovrebbe congiungerle. Vero e autentico prete è colui in cui l'uomo è tutto e sempre e solo sacerdote, pur rimanendo uomo perfetto, senza esclusione di campi e di settori. L'uomo e il prete devono coestendersi e coincidersi perfettamente in una sintesi armonica (...) Anche le occasioni più profane devono essere animate da una coscienza sacerdotale acuta e senza eclissi".

In altri termini, il sacerdote è chiamato a essere l'incarnazione di Cristo - vero uomo e vero Dio - in mezzo alla gente a cui è mandato. Agli stessi destinatari, i preti ordinati nel 1960, don Quadrio aveva scritto un anno prima:  "Siate sempre, dovunque e con tutti un'incarnazione vivente e sensibile della bontà misericordiosa di Gesù (...) Siate realmente e praticamente il Christus hodie del vostro ambiente; un Cristo autentico, in cui il divino e l'umano sono integri e armoniosamente uniti. Il divino e l'eterno, che è nel vostro sacerdozio, si incarni (senza diluirsi) in una umanità ricca e completa come quella di Gesù, la quale abbia lo stile, il volto e la sensibilità del vostro ambiente e del vostro tempo".

A don Crespi confida:  "Penso spesso a lei, cioè al "Cristo di Cuorgné". Deve essere per i suoi confratelli e bimbi il sacramento vivo e visibile della bontà di Gesù". A don Palumbieri raccomanda:  "Sia davvero il "Cristo" dei suoi ragazzi!". La stessa cosa aveva scritto a don Melesi:  "Caro Luigi, non ti spaventi il pensiero che devi essere il Cristo di Arese, il Cristo buono, paziente, crocifisso, agonizzante, morto e risorto dei tuoi ragazzi". A don Martinelli ripete:  "Non la atterrisca il pensiero che lei deve essere il Cristo di Torre Annunziata:  il Gesù buono, amabile, paziente, coraggioso, crocifisso, agonizzante, abbandonato, morto e risorto dei suoi ragazzi".

Negli ultimi anni di vita, segnati dalla malattia e dalla sofferenza, don Quadrio afferra esistenzialmente che l'umano e il divino del sacerdote giungono a fondersi in pienezza solo nel sacrificio della croce, suprema epifania del Figlio dell'uomo e del Figlio di Dio.

Allora, nella prima domenica di Passione del 1962, scrive al nipote:  "Dovrei finalmente convincermi sul serio che un prete deve santificare la propria sofferenza e quella degli altri. Non è soffrire che importa, ma soffrire come Lui. Anche il tuo sacerdozio, Valerio, è un mistero di croce e di sangue (...) La Croce è veramente la spes unica del nostro sacerdozio:  non faremo nulla, se non mediante la Croce. Auguro a te e a me, Valerio, di saper comprendere e vivere il mistero della Croce, e di saper fare del nostro sacerdozio una croce vivente, a cui appendere la nostra vita per la salvezza delle anime". Solo così il prete - uomo preso fra gli uomini, e per loro consacrato nelle cose di Dio - può diventare "sacramento evidente della passione e morte" di Gesù. È questo il ritratto più vivo e veritiero di don Quadrio, quello che egli stesso non sapeva di dipingere mentre parlava ai suoi amici del sacro mistero dell'ordine presbiterale. Davvero "le cose che diceva e scriveva" sul sacerdozio "erano "sue":  quello che diceva era la sua vita!".

Nella sua vita egli è stato un "sacramento tangibile della bontà" del Signore, e nel tragico epilogo degli ultimi anni il "sacramento evidente" della passione e della morte di Cristo per la salvezza del mondo.


(©L'Osservatore Romano - 23-24 novembre 2009)
S_Daniele
00mercoledì 2 dicembre 2009 09:25
Le iniziative organizzate dalla Congregazione per il Clero

Un Anno per i sacerdoti e non solo


di Marta Lago

Unisce necessità e riconoscimento. L'Anno sacerdotale chiede infatti il rigoroso rinnovamento interiore di tutto il clero mondiale; ma rappresenta anche l'abbraccio e la gratitudine corale del Papa e della Chiesa per la fedeltà e la sofferenza di tanti preti di fronte alle incomprensioni e alle difficoltà che possono incontrare.
Un Anno che già raccoglie dei frutti e continua a prepararne di nuovi, come ha descritto lo scorso venerdì, in un incontro-colloquio con un gruppo di giornalisti, il segretario della Congregazione per il Clero, l'arcivescovo Mauro Piacenza. Con realismo e speranza, in un periodo storico non precisamente generoso con i sacerdoti. E anche a dispetto del peso che hanno, attraverso l'amplificazione dei media, figure sacerdotali "che in genere sono quelle del dissenso". Mentre i mezzi d'informazione - afferma il presule - generalmente hanno scarsa attenzione per le figure "del grande consenso, della grande comunione, che sono quelle della quasi totalità dei preti che fanno il loro dovere".
L'arcivescovo apre le porte del dicastero e manifesta la sua preoccupazione per la cultura attuale che tende a omologare il sacerdote e ad appiattirlo il più possibile allo spirito del mondo, il quale elude la solidità del riferimento morale e preferisce il soggettivismo. "C'è continuamente bisogno di remare contro nel senso evangelico del termine; facendo anche guerre, ma "guerre di santità". La muscolatura interiore di un prete - preghiera, vita interiore e motivazione profonde - deve essere in un cero senso da Rambo se vuole resistere lui e se vuole che la sua azione pastorale sia incisiva". La Congregazione per il Clero moltiplica gli sforzi per promuovere questo rinnovamento interiore - "non una rivoluzione" - che permetta di ridare entusiasmo di fronte a tante nuove sfide. Riannodandosi a quel convincimento espresso da Paolo vi, secondo il quale il mondo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri. "Ciò che insegna il sacerdote - osserva monsignor Piacenza - acquista valore attraverso la propria testimonianza; è così che diventa credibile. E per essere credibile il prete deve essere profondamente credente".
L'Anno sacerdotale parla a tutta la comunità di fedeli, non soltanto ai sacerdoti. A questi spetta una pastorale, come "arte della comunicazione della salvezza e della grazia di Dio", che risponda alle necessità del presente, aiutando i laici a instillare forza morale nelle realtà terrene. Il fatto è che le grandi sfide del mondo contemporaneo chiamano in causa direttamente i laici, non i "preti politicanti, i preti che fanno comizi o i preti "star". Ognuno faccia il suo. E il sacerdote che fa il prete fino in fondo è il primo agente di promozione" dell'evangelizzazione nella società. "Questa è la grande sinfonia della comunione cattolica", sottolinea il presule.
Per questo il sacerdote è "dono" e "segno", non soltanto per la Chiesa, ma anche per la società civile, che può vedere in lui un riferimento utile "di pacificazione, di comprensione, di misericordia, di umanizzazione". Com'è d'aiuto, per lo stesso sacerdote e per gli altri, il segno esteriore della sua identità presbiteriale, che "in alcuni ambienti serve per essere insultati, ma anche per essere cercati". Un'identità che bisogna saper comprendere e apprendere, e che si definisce attraverso la configurazione a Cristo. È la ragione dell'obbedienza, del celibato, della povertà. Perché "il Buon pastore non riserva niente per sé. E il sacerdote, nonostante tutti i suoi difetti umani, è stato eletto da Cristo, non si è autoproposto"; egli deve essere "sempre il megafono del buon Dio che parla al suo popolo; il canale attraverso il quale circoli l'acqua in modo puro e arrivi così la salvezza che è Gesù Cristo".
Un modello eminente di questa formazione è il curato di Ars, che domina un anno al termine del quale il Papa lo proclamerà patrono di tutti i sacerdoti del mondo. Figura straordinaria perché, semplicemente, egli agì sempre come sacerdote. "Fece soltanto questo, e niente di meno che questo!", afferma l'arcivescovo Piacenza. San Giovanni Maria Vianney "si realizzò" nell'eucarestia e nella confessione, donandosi totalmente alla sua parrocchia, nella quale non si poteva dire che inizialmente ci fosse molto amore per Dio. Fu la sua missione a trasmetterlo, in mezzo al "vento del deserto sahariano" del secolarismo; la stessa difficoltà che oggi sperimenta la Chiesa. Ma il curato d'Ars "trasformò tutto attraverso la sua santificazione". È un forte richiamo e anche una grande consolazione per il sacerdote del XXI secolo, oberato di compiti. Già lo sottolineò il concilio Vaticano ii - spiega monsignor Piacenza - in linea con la tradizione che risplende nel curato di Ars:  la chiamata a santificarsi non malgrado il ministero, ma attraverso lo stesso ministero sacerdotale. "La buona volontà, l'impegno, e lasciarsi guidare dal Divino Maestro" plasmò la cattedra d'insegnamento del curato di Ars, la cui pastorale fu eccezionale perché la apprese "amando il Signore, lasciandosi amare da Lui e non ponendo ostacoli all'azione dello Spirito Santo". Una lezione d'attualità, prosegue il segretario della Congregazione per il Clero:  "Un santo è sempre un grande pastore", che "rivolge la sua preoccupazione a tutti" facendo il suo "apostolato incisivo".
Questi elementi delineano l'anima dell'Anno sacerdotale e l'urgenza di comunicarlo adeguatamente. Sono, inoltre, il motore delle iniziative del dicastero per il Clero. Per questo esso ha innanzitutto raccomandato nei cinque continenti l'adorazione eucaristica, possibilmente perpetua, per la santificazione dei sacerdoti. "La rispondenza è veramente al di sopra di quello che si penserebbe", conferma monsignor Piacenza. Inoltre, sull'esempio di santa Teresa de Lisieux, è stata proposta una forma di "maternità spirituale" per fare sì che i laici si uniscano agli sforzi e alle difficoltà apostoliche dei sacerdoti e per sensibilizzare i fedeli ad accogliere i propri pastori, veri padri d'ogni comunità. In rete con tutte le diocesi del mondo, la congregazione vaticana diffonde, attraverso internet (www.clerus.org e www.annussacerdotalis.org) lettere mensili del prefetto, il cardinale Cláudio Hummes, e dell'arcivescovo Piacenza, insieme a materiale di studio, di riflessione e a comunicazioni. Tra i documenti frutto dell'Anno sacerdotale c'è la prossima pubblicazione - sempre a cura del dicastero - di un vademecum per la confessione e la direzione spirituale.
A marzo si celebrerà - specialmente per i vescovi, primi formatori dei sacerdoti, e formatori in genere - il congresso teologico "Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote" sugli aspetti umani, spirituali, teologici e pastorali che configurano la vita sacerdotale.
L'Anno sarà chiuso il prossimo 11 giugno, con la tre-giorni dell'Incontro internazionale dei sacerdoti. Porte spalancate  anche a seminaristi, diaconi permanenti, religiosi e religiose e fedeli laici. Un appuntamento mondiale che, con l'appoggio tecnico-logistico dell'Opera romana pellegrinaggi (www.josp.com) si svolgerà nella basilica di San Paolo fuori le Mura - per sottolineare il dinamismo evangelizzatore e la conversione personale dell'apostolo delle Genti - e nella basilica di Santa Maria Maggiore - come un cenacolo per invocare lo Spirito Santo con Maria. E trovando spazio, tra l'altro, per la confessione, messaggio tangibile dell'importanza di questo sacramento per gli stessi sacerdoti e della necessaria disponibilità di sacerdoti per il suo esercizio. Alla vigilia - ha annunciato ancora l'arcivescovo Piacenza - piazza San Pietro ospiterà una veglia alla presenza di Benedetto XVI:  orazione, colloquio, canto e festa lasceranno spazio a esperienze di prima mano che non ometteranno le persecuzioni per causa della fede e il "martirio della coerenza" che subiscono non pochi sacerdoti. La solennità del Sacro Cuore di Gesù si celebrerà ugualmente "con Pietro, in comunione ecclesiale" nella basilica vaticana, con l'eucarestia presieduta dal Papa. E la conclusione dell'Anno sacerdotale segnerà anche il punto di partenza del rinnovato impegno universale della vocazione sacerdotale.


(©L'Osservatore Romano - 2 dicembre 2009 )
S_Daniele
00venerdì 11 dicembre 2009 07:35



Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Rolando Rivi e il sangue versato sulla talare


di Alfonso M. A. Bruno

In Emilia, nella chiesetta di Visignolo di Baiso, sulle prime alture dell'Appennino, in un grande quadro con il crocifisso attorniato di santi, si nota la presenza di un seminarista con la veste e il cappello da prete. Lo fece dipingere circa trent'anni fa il parroco, convinto che quel giovane aspirante al sacerdozio, prima o poi, sarebbe stato riconosciuto santo. Si tratta di Rolando Rivi, una delle numerose vittime che nell'immediato dopoguerra, a pochi chilometri da quel luogo, caddero a causa della furia omicida di alcuni gruppi armati della resistenza. La terra emiliana, infatti, fu particolarmente irrorata dal sangue di preti e seminaristi che in quel periodo furono vittime d'una persecuzione in odio a Cristo e alla Chiesa.
 
Rolando Rivi nacque a San Valentino di Reggio Emilia il 7 gennaio 1931 da agricoltori umili e ricchi di fede. I parroci, don Luigi Jemmi prima e don Olinto Marzocchini poi, ebbero il merito di formare generazioni di parrocchiani. Il loro apostolato era alimentato da una ricca vita interiore trasparente e percettibile anche agli occhi di un bambino. Rolando infatti era affascinato dal suo parroco don Olinto:  "Che bello - pensava - diventare come lui! Celebrare la messa con Gesù tra le mani, portare le anime a Gesù". Così, appena undicenne entrò nel seminario diocesano di Marola. Era ai primi d'ottobre del 1942. Quello stesso giorno, come allora si usava, il ragazzo vestì con gioia l'abito talare. Il rettore monsignor Luigi Bronzoni, prete colto, autorevole e paterno, insegnava più con la vita che con le parole. All'approssimarsi del periodo estivo, spiegava che in vacanza i seminaristi avrebbero dovuto non solo guardarsi dalle occasioni di peccato, ma ancora di più distinguersi dagli altri nella preghiera e nel servizio in parrocchia, nello studio e nella purezza, nelle opere buone e nella dedizione al Signore. "Anche in vacanza - aveva raccomandato - il seminarista porta sempre l'abito talare, segno della nostra appartenenza a Gesù".

Rolando così anche nei giorni di vacanza dei caldi mesi estivi portava con orgoglio la veste nera con il colletto bianco. La veste non creava per lui una barriera umana o sociale nelle relazioni con gli altri né tantomeno un impedimento allo svolgimento d'ogni attività, anche ricreativa. Il seminarista Rolando Rivi era sempre un trascinatore. Testimonia un compagno di seminario, ora sacerdote e parroco, don Vezzosi:  "Rolando era vivace e svelto in tutti i giochi:  a pallone, a pallavolo. Campione della classe, della camerata. Attentissimo a scuola, studioso esemplare, innamoratissimo di Gesù. Tutto in lui era superlativo. Si stava volentieri con lui; contagiava gioia e ottimismo".

La sua vita, tuttavia, non fu solo gaiezza e spensieratezza. Alle sue vicende familiari e personali faceva da sfondo la guerra nella quale gli morirono tre zii. E altre sorprese spiacevoli si profilavano all'orizzonte. Nel settembre 1944 il seminario fu occupato da un centinaio di soldati nazisti. I seminaristi dovettero tornare a casa.

In famiglia, Rolando continuò a sentirsi seminarista. La sua gioia erano la messa quotidiana con la comunione, la meditazione, la visita pomeridiana a Gesù eucaristico, il rosario alla Madonna. Il luogo prediletto era sempre la casa parrocchiale. Oltre allo sport, altra sua grande passione era la musica. Quando poteva posare le mani sulla tastiera dell'harmonium, quasi si estasiava a suonare. E ai bambini, ai cuginetti, anche solo di cinque o sei anni insegnava a servire la messa e giocava con i più piccoli per diffondere serenità anche nei giorni più tristi.

La vita a San Valentino trascorse abbastanza tranquilla fino all'estate del 1944. Poi iniziarono le scorribande. Si ebbero ruberie, razzie, fatti spiacevoli e violenze anche contro i sacerdoti. Diventava, infatti, sempre più forte l'odio contro i preti che operavano per la pacificazione degli animi e denunciavano le violenze, da qualunque parte venissero compiute. Rolando sperimentò questo clima.
A San Valentino fu preso di mira il parroco don Olindo Marzocchini. Una mattina d'estate si venne a sapere che durante la notte precedente l'avevano aggredito e umiliato. Gli avevano portato via tutto, comprese le scarpe che aveva ai piedi. Durante la messa, celebrata dopo la brutale aggressione, don Olinto si sentì male:  Rolando e l'altro chierichetto che servivano all'altare capirono che qualcosa di grave era successo. Quando Rolando lo seppe chiaramente, pianse come per un'offesa fatta al proprio padre. Ma non disse parole di odio.

Don Olinto Marzocchini intanto fu fatto riparare in luogo più sicuro. Per assicurare il servizio sacerdotale arrivò in paese un giovane prete venticinquenne:  don Alberto Camellini. Ancora oggi racconta:  "Si viveva un'atmosfera di paura e di tensione. Per conoscere luoghi e parrocchiani mi facevo accompagnare nelle visite da alcuni seminaristi tra cui Rolando Rivi". Il seminarista ne profittò per spiegargli i suoi progetti per l'avvenire - "Sarò prete e missionario". Tutti vedevano passare per la strada il giovane seminarista, tutti conoscevano il suo stile di vita. E i genitori gli dicevano:  "Togliti la veste nera. Non portarla per ora". Ma Rolando rispondeva:  "Ma perché, che male faccio a portarla? Non ho motivo di togliermela. Io studio da prete e la veste è segno che io sono di Gesù".

Rolando intuiva cosa significasse prepararsi al sacerdozio in quel clima, ma non si scoraggiò, né si chiuse in casa. Aveva solo quattordici anni, poco più di un bambino, ma mai si era mimetizzato né aveva nascosto la sua chiara identità d'aspirante appassionato al sacerdozio. In maniera istintiva era consapevole che la mimetizzazione mortifica la pastorale che si avvale di segni e di simboli, ma anche di gesti concreti. Racconta monsignor Giuseppe Mora:  "Spesso in paese scoppiavano dispute alle quali era più conveniente tacere. Capitò che in una discussione alcuni attaccarono ingiustamente la Chiesa e l'attività dei sacerdoti. Rolando difese a fronte alta Gesù, il Papa, la Chiesa e i sacerdoti, senza paura alcuna".

Il 10 aprile 1945, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto è già in chiesa. Esce contento perché ha già ricevuto l'eucarestia. Non sa ancora che sarà per lui il viatico. Torna a casa, libri sottobraccio va al boschetto a studiare. Indossa come sempre la talare. A mezzogiorno, non vedendolo rientrare, i genitori lo cercano. Tra i libri trovano un biglietto:  "Non cercatelo, viene un momento con noi".

I partigiani lo hanno portato alla loro base sull'Appennino Emiliano. Lo spogliano della veste talare. Lo insultano, lo percuotono con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti un ragazzino coperto di lividi, piangente. Per tre giorni Rolando rimane nelle mani di quegli uomini. Una valanga di bestemmie contro Cristo, insulti contro la Chiesa e il sacerdozio, di scherni volgari si abbatte su di lui. Quindi, l'orrore della flagellazione sul suo corpo di ragazzo. Rolando piange e geme. Qualcuno si commuove e propone di lasciarlo andare perché è soltanto un ragazzo e non c'è motivo o pretesto per ucciderlo. Ma altri si rifiutano:  "Taci o farai anche tu la stessa fine". Prevale l'odio al prete, all'abito che lo rappresenta. Decidono di ucciderlo:  "Avremo domani un prete in meno!".

Scende la sera ormai, lo portano sanguinante in un bosco presso Piane di Monchio (Modena). Davanti alla fossa già scavata Rolando comprende tutto. Singhiozza, implora d'essere risparmiato. Gli viene risposto con un calcio. Allora dice:  "Voglio pregare per la mia mamma e per il mio papà".

S'inginocchia sull'orlo della fossa e prega per sé, per i suoi cari, forse per i suoi stessi uccisori. Due scariche di rivoltella lo rotolano a terra nel suo sangue. Un ultimo pensiero, un ultimo palpito del cuore per Gesù, perdutamente amato... poi la fine. Gli assassini lo coprono con poche palate di terra e di foglie secche. La veste da prete diventa un pallone da calciare, poi sarà appesa come "trofeo da guerra" sotto il porticato d'una casa vicina.
Era il 13 aprile 1945. Rolando aveva quattordici anni e tre mesi. Con la vita, la parola e perfino il suo sangue aveva proclamato:  "Quanto ho di più caro al mondo è Cristo".



(©L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2009)
S_Daniele
00domenica 13 dicembre 2009 11:32
La preghiera, motore della Missione

di padre Piero Gheddo*


ROMA, giovedì, 10 dicembre 2009 (ZENIT.org).-

In un viaggio in Malesia ho visitato il convento delle Carmelitane di Kuching, capitale dello stato federato di Sarawak nel Borneo malese, con una ventina di sorelle, tra cui due anziane spagnole che avevano fondato il convento mezzo secolo fa.

Mi hanno ammesso nei loro ambienti, abbiamo pregato e chiacchierato. Un pomeriggio che mi ha commosso: anche in una Chiesa giovanissima come quella del Borneo malese nascono vocazioni claustrali. Da circa trent’anni visito i conventi di clausura in Italia (mando tutti i miei libri in omaggio ai 550 conventi!), questa amicizia e queste visite mi rinnovano spiritualmente.

Nel Borneo malese ci sono molte conversioni, pochi preti e poche suore: nel 1972 un prete ogni 3.000 cattolici (con i missionari inglesi di Mill Hill), oggi uno ogni 8.000, con una media di 400-500 battesimi di adulti l’anno per parrocchia (Serian, diocesi di Kuching, ne ha più di 500). Chiedo al vicario generale di Kuching, mons. Sepang, se il convento di claustrali è conosciuto e apprezzato in diocesi. “Certo – risponde - questo è il motore della nostra Chiesa. Non solo, ma il convento di Kuching ha già prodotto una seconda presenza contemplativa nel Borneo malese, a Kota Kinabalu” nello stato federale di Sabah, il cui vescovo ha invitato il Pime, che vi è già stato nel 1800!

Perché “il motore”? “Perché - diceva mons. Sebang - la loro stessa presenza ricorda sempre a tutti, anche a noi preti, che l’opera della Chiesa si sostiene con la preghiera, l’amore a Cristo, l’aiuto di Dio: non è opera di uomini, ma presenza di Dio tra gli uomini”. Nella semplicità di quel convento di clausura a Kuching, chiacchierando con le giovani sorelle, ho capito tante cose sulla preghiera. Guarda un po’, mi son detto, qui Gesù Cristo è arrivato meno di un secolo fa, i bisogni di questo popolo sono immensi, la stessa crescita dei cristiani richiederebbe tutto il personale apostolico disponibile: eppure i vescovi promuovono la fondazione di conventi di clausura!

Il nostro tempo ci porta lontani da questa logica e tutti ne siamo influenzati. Oggi miriamo all’efficienza, al fare, al produrre, all’attivismo frenetico; non siamo più abituati al silenzio, alla preghiera contemplativa. Che pena mi fanno i giovani (o non giovani) che vanno per la strada con l’auricolare all’orecchio e la radiolina in tasca, per sentire musica; o quelli che scrivono e studiano con la radio accesa…. Il nostro tempo ci porta a questo. Occorre reagire, andare contro-corrente, darci spazi di silenzio, di preghiera, di meditazione. Anche solo per tornare ad essere più uomini e non macchine in perpetuo movimento, in perenne attività. Dio si incontra solo nel silenzio.

Io scrivo queste cose e ci credo, ma poi se guardo alla mia vita, penso che anche per noi preti è tremendamente difficile realizzare la “dimensione contemplativa”; anche se preghiamo il giusto (Messa, Breviario, Rosario, meditazione, visita al SS. durante la giornata, ecc.), siamo anche noi figli del nostro tempo, distratti, dispersi in mille occupazioni ed emergenze. Padre Giuseppe Piazza, segretario del nostro superiore generale, mons. Aristide Pirovano (fondatore della diocesi di Macapà in Amazzonia brasiliana e superiore dal 1965 al 1977), mi raccontava che quando c’era un problema grave, difficile, angoscioso, Pirovano gli diceva: “Vieni che andiamo in chiesa a pregare”. Aveva un’attenzione molto forte al “motore” di tutto.

Come facciamo, oggi, a trasmettere alla nostra gente questa impostazione dell’esistenza cristiana? Certo, quelli che pregano sono molto più numerosi di quanto noi possiamo pensare. Molti anni fa, un mattino di domenica dovevo predicare una giornata missionaria parrocchiale a Camogli (Genova), ma quando sono arrivato la porta della chiesa era ancora chiusa. Sul molo vicino un pescatore era da poco tornato dalla pesca notturna e stava lavorando. Mi sono seduto e ho chiesto notizie di com’era andata la pesca. Quell’uomo rude mi ha fatto un discorso imprevisto: tutta la notte ho pregato, Dio mi ha aiutato; il mio è un lavoro pesante, ma la preghiera mi aiuta molto. Sono rimasto colpito. Quest’uomo, mi son detto, trasmette naturalmente il suo amore alla preghiera. Come si fa a trasmettere, e questo vale per tutti i cristiani, genitori e preti in particolare, se uno non ama e non sperimenta?

-----------

* Padre Piero Gheddo, già direttore di “Mondo e Missione” e di Italia Missionaria, è il fondatore di AsiaNews. Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente. Dal 1994 è direttore dell’Ufficio storico del Pime e postulatore di varie cause di canonizzazione. Insegna nel seminario pre-teologico del Pime a Roma. E’ autore di oltre 70 libri. L’ultimo pubblicato è un libro intervista condotto da Roberto Beretta dal titolo “Ho tanta fiducia” (Editrice San Paolo).
S_Daniele
00giovedì 17 dicembre 2009 07:10



Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Totus tuus

A Cristo attraverso Maria


di François-Marie Léthel
Prelato segretario
della Pontificia Accademia di Teologia


Il motto Totus tuus, che riassume tutta la spiritualità cristocentrica e mariana di san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716), è stato il filo conduttore di tutta la vita del servo di Dio Giovanni Paolo II. Il santo francese e il suo grande discepolo polacco sono due esempi luminosi della stessa santità sacerdotale, d'una vita interamente vissuta nell'amore di Gesù e dei fratelli sotto la guida materna di Maria. Totus tuus! Due parole che sono una preghiera indirizzata a Gesù per mezzo di Maria e nel suo Cuore Immacolato. È un atto d'amore come dono totale di sé. Nello stesso senso anche santa Teresa di Lisieux definisce l'amore:  "Amare è dare tutto e dare se stesso".

Luigi Maria di Montfort e Teresa di Lisieux sono infatti come due fari di santità che hanno illuminato in modo particolare il pontificato di Giovanni Paolo II, nella grande prospettiva del concilio Vaticano ii tracciata dalla Lumen gentium. Le loro opere principali - il Trattato della vera devozione alla santa Vergine di Luigi Maria, e la Storia di un'anima di Teresa - sono dei testi dottrinali di massima importanza e perfettamente convergenti per illuminare la via della santità per tutti, come via dell'amore vissuta con Maria. La dottrina di Teresa viene espressa nel racconto della sua vita, mentre quella del Montfort è espressa in un trattato. Ma tutti e due, alla fine dei loro scritti, invitano il lettore a darsi totalmente e per sempre a Gesù nell'amore dello Spirito Santo, attraverso le mani e il cuore di Maria. Con Maria e in Maria, ogni battezzato può veramente "vivere d'amore" nel quotidiano e realizzare la sua vocazione alla santità nel dono totale di sé e per sempre. La totalità e radicalità di tale dono viene espressa attraverso due forti simboli biblici:  "Olocausto all'Amore" (Teresa), "Schiavitù d'Amore" (Luigi Maria), in riferimento al sacrificio di Gesù, "Olocausto" della nuova alleanza di colui che ha preso per noi "la condizione di schiavo" fino alla morte sulla croce.

Nella vita di Karol Wojtyla, questo Totus tuus è diventato come il respiro della sua anima, il battito del suo cuore a partire dal 1940 quando ha scoperto, all'età di venti anni, il Trattato del Montfort. Molte volte, Giovanni Paolo II racconterà tutto questo. Lo ha fatto in modo speciale, nel 1996, al momento del suo 50° anniversario di sacerdozio nel libro Dono e mistero. Secondo la sua testimonianza, è un laico, Jan Tyranowski - adesso servo di Dio - che gli aveva fatto conoscere il Trattato del Montfort e le Opere di san Giovanni della Croce, aprendolo alla più profonda vita spirituale, negli anni durissimi dell'occupazione nazista in Polonia. Il giovane Karol doveva lavorare come operaio in una fabbrica, scoprendo progressivamente nello stesso periodo la sua vocazione al sacerdozio. Parlando di questo periodo, Giovanni Paolo II insisteva sul "filo mariano" che aveva guidato tutta la sua vita fin dall'infanzia, nella sua famiglia, nella sua parrocchia, nella devozione carmelitana allo scapolare e la devozione salesiana a Maria ausiliatrice. La scoperta del Trattato - ricorda lo stesso Papa polacco - l'aiutò a fare un passo decisivo nel suo cammino mariano, superando una certa crisi:  "Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in discussione il mio culto per Maria ritenendo che esso, dilatandosi eccessivamente, finisse per compromettere la supremazia del culto dovuto a Cristo. Mi venne allora in aiuto il libro di san Luigi Maria Grignion de Montfort che porta il titolo di Trattato della vera devozione alla santa Vergine. In esso trovai la risposta alle mie perplessità. Sì, Maria ci avvicina a Cristo, ci conduce a Lui, a condizione che si viva il suo mistero in Cristo (...). L'autore è un teologo di classe. Il suo pensiero mariologico è radicato nel mistero trinitario e nella verità dell'Incarnazione del Verbo di Dio (...). Ecco spiegata la provenienza del Totus tuus. L'espressione deriva da san Luigi Maria Grignion de Montfort. È l'abbreviazione della forma più completa dell'affidamento alla Madre di Dio che suona così:  Totus tuus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio te in mea omnia. Praebe mihi cor tuum, Maria" (Dono e mistero, pp. 38-39).

Queste parole in latino, continuamente pregate e ricopiate da Karol Wojtyla sulle prime pagine dei suoi manoscritti, si trovano alla fine del Trattato del Montfort, quando il santo invita il fedele a vivere la comunione eucaristica con Maria e in Maria. Bisogna sottolineare che questo Totus tuus diventa per sempre, dal 1940 al 2005, come la linea direttrice di tutta la vita di Karol Wojtyla, come seminarista e sacerdote, e poi come Vescovo e Papa. Quando, nel 1958, è nominato da Pio xii vescovo ausiliare di Cracovia, sceglie già il Totus tuus come motto episcopale, insieme allo stemma che simboleggia Cristo redentore e Maria accanto a lui, lo stesso che conserverà come Papa. E soprattutto lo vivrà fino alla fine, nelle grandi sofferenze degli ultimi mesi. Dopo la tracheotomia, non potendo più parlare, scriverà ultimamente le parole Totus tuus. Sappiamo anche dalle persone più vicine a lui che leggeva ogni giorno un passo del Trattato.

Nei suoi scritti, Giovanni Paolo II ha fatto spesso riferimento a san Luigi Maria, come per esempio nella Redemptoris mater (n. 48). Ma, in modo particolare, verso la fine del suo pontificato, ci ha lasciato una bellissima sintesi della sua dottrina interpretata alla luce del concilio Vaticano ii, nella sua Lettera ai religiosi e alle religiose delle famiglie monfortane dell'8 dicembre 2003. È forse il testo più illuminante per capire il significato teologico profondo del Totus tuus e dello stemma episcopale.

All'inizio della Lettera (n. 1), Giovanni Paolo II racconta di nuovo la sua scoperta personale, con riferimento al suo libro Dono e mistero. Citando poi il Trattato, egli insiste sulla principale caratteristica della sua dottrina:  "La vera devozione mariana è cristocentrica". Il fondamento di questa dottrina è evidentemente il Vangelo. Ed è proprio a partire dal testo di san Giovanni che viene spiegato lo stemma e il motto Totus tuus:  "La Chiesa, fin dalle sue origini, e specialmente nei momenti più difficili, ha contemplato con particolare intensità uno degli avvenimenti della Passione di Gesù Cristo riferito da san Giovanni"Stavano presso la croce di Gesù sua Madre, la sorella di sua Madre, Maria di Cleofa, e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la Madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla Madre:  Donna, ecco il tuo figlio! Poi disse al discepolo:  Ecco la tua Madre! E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa" (Giovanni, 19, 25-27). Lungo la sua storia, il Popolo di Dio ha sperimentato questo dono fatto da Gesù crocifisso:  il dono di sua Madre. Maria Santissima è veramente Madre nostra, che ci accompagna nel nostro pellegrinaggio di fede, speranza e carità verso l'unione sempre più intensa con Cristo, unico salvatore e mediatore della salvezza (cfr. Lumen gentium, 60 e 62). Com'è noto, nel mio stemma episcopale, che è l'illustrazione simbolica del testo evangelico appena citato, il motto Totus tuus è ispirato alla dottrina di san Luigi Maria Grignion de Montfort (cfr. Dono e mistero, pp. 38-39; Rosarium Virginis Mariae, 15). Queste due parole esprimono l'appartenenza totale a Gesù per mezzo di Maria:  "Totus tuus ego sum, et omnia mea tua sunt", scrive san Luigi Maria".

È alla fine del Trattato che si trovano le parole in latino, citate sopra, continuamente ricopiate da Karol Wojtyla, sacerdote, vescovo e Papa. Luigi Maria insegna a vivere la santa comunione con Maria. Si tratta di rinnovare la consacrazione del battesimo nelle mani di Maria per ricevere con lei il Corpo di Gesù:  "Rinnoverai la tua consacrazione, dicendo:  Totus tuus ego sum, et omnia mea tua sunt. Io sono tutto tuo, mia cara Signora, con tutto ciò che mi appartiene. Pregherai questa buona Madre di prestarti il suo cuore, per accogliervi il Figlio suo con le sue stesse disposizioni (...)Le chiederai il suo cuore con queste tenere parole:  Accipio te in mea omnia, praebe mihi cor tuum, o Maria [Ti prendo per ogni mio bene, dammi il tuo cuore, o Maria!]" (Trattato della vera devozione alla santa Vergine, 266).
Queste parole sono indirizzate al fedele per la sua piena partecipazione all'eucaristia. Ma hanno evidentemente un valore particolare per il sacerdote che celebra la messa. Luigi Maria lo dice, sempre alla fine del Trattato, invitando a rinnovare questa consacrazione mariana "prima di celebrare o di partecipare alla santa messa, alla comunione".

Le parole:  Accipio te in mea omnia ("Ti prendo come ogni mio bene") sono l'appropriazione personale del testo del Vangelo:  Accepit eam discipulus in sua ("Il discepolo la prese con sé", Giovanni, 19, 27). Maria è un dono che il discepolo riceve continuamente da Gesù stesso, e che accoglie nel dono di sé espresso dalle parole Totus tuus ego sum ("Io sono tutto tuo").
Ma questo dono di Maria viene sempre da Gesù e porta sempre a Gesù. È il senso della domanda Praebe mihi cor tuum, Maria ("dammi il tuo Cuore, o Maria"). Non si tratta principalmente di amare Maria, ma piuttosto di amare Gesù con il cuore di Maria. La vera devozione a Maria è cristocentrica. Il discepolo che riceve da Gesù stesso il dono di Maria mediante il dono totale di se stesso, entra per mezzo di lei nel mistero dell'Alleanza, nella profondità dell'ammirabile scambio tra Dio e l'uomo in Cristo Gesù. "Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio", dicevano i Padri della Chiesa. Il Figlio di Dio è disceso dal Cielo e s'è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno verginale di Maria, per farci salire con lui nel seno del Padre. Maria occupa lo stesso posto nel movimento "discendente" dell'incarnazione e nel movimento "ascendente" della nostra divinizzazione. Come la Somma teologica di san Tommaso d'Aquino anche il Trattato del Montfort è interamente articolato secondo questa dinamica di exitus et reditus, cioè di andata e ritorno tra Dio e l'uomo in Cristo Gesù.

La "perfetta devozione a Maria" insegnata da san Luigi Maria consiste essenzialmente nel dono totale di sé espresso nel Totus tuus, integrando tutte le buone pratiche di devozione, specialmente il rosario. Ma nel più profondo è "pratica interiore", vita interiore, un cammino di vita spirituale profonda che deve portare alla santità. Non c'è dubbio che Giovanni Paolo II abbia vissuto questa spiritualità mariana al livello più alto dell'unione trasformante con Cristo. La domanda Praebe mihi cor tuum, o Maria è stata esaudita. Lo stesso Luigi Maria, che ha la meravigliosa esperienza di questa "identificazione mistica con Maria" spera che la sua dottrina porterà molti frutti nei secoli successivi della Chiesa.

Presentando gli "effetti meravigliosi" (Trattato della vera devozione alla santa Vergine, 213-225) di questa "perfetta devozione", Luigi Maria ci mostra come la persona che vive pienamente il Totus tuus cammina con Maria sulla via dell'umiltà evangelica, che è via di amore di fede e di speranza. Alla fine della sua Lettera ai religiosi e religiose delle famiglie monfortane, Giovanni Paolo II sintetizza questo insegnamento del Trattato sempre alla luce della Lumen gentium. La santità alla quale tutti sono chiamati non è altro che la perfezione della carità. In questa vita sulla terra, l'umiltà è la più grande caratteristica della carità. "È proprio dell'amore abbassarsi", scriveva Teresa di Lisieux all'inizio della sua Storia di un'anima. È lo stesso amore di Dio che in Gesù si fa piccolo e povero dal presepio alla croce. Ed è il significato profondo della "schiavitù d'amore".

Il punto finale della Lumen gentium era la contemplazione di "Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il pellegrinante Popolo di Dio" (n. 68-69). In questa luce finisce anche la Lettera alla famiglia monfortana di Giovanni Paolo II, citando le ultime righe della Lumen Gentium e riassumendo la dottrina del Montfort sulla speranza vissuta con Maria, difendendolo in particolare contro l'accusa ingiusta di "millenarismo". E si ricorda come, nell'antifona Salve Regina, la Chiesa chiama la Madre di Dio "Speranza nostra".
In tutte le difficoltà della vita sacerdotale, Maria è e sarà sempre l'ancora della speranza, una speranza sicura per il futuro della Chiesa e per la salvezza del mondo. Così anche Papa Benedetto XVI, che ha fortemente voluto questo Anno sacerdotale, ha presentato Maria alla fine della sua enciclica Spe salvi come la "Stella della Speranza" (n. 49-50).



(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2009)
S_Daniele
00martedì 5 gennaio 2010 06:21


Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Da cristiani nei moderni areopaghi


di Mario Pangallo

Non è facile trovare un criterio unitario di lettura dell'odierna situazione culturale, vista la diversità di culture, di filosofie, di correnti di pensiero sociale e politico, di costumi. E questa difficoltà potrebbe far nascere l'idea che la cultura sia così pluralistica e frammentata, da rendere impossibile un discorso veritativo universale.
Non si può negare, tuttavia, che le filosofie del XX secolo abbiano avuto un ruolo importante nell'evidenziare i limiti insuperabili e in molti casi anche le contraddizioni delle filosofie ottocentesche, al punto che è ormai invalso l'uso di parlare di "naufragio delle ideologie". Inoltre, va ascritto a merito di quel secolo l'aver saputo valorizzare le categorie moderne di "soggetto", di "coscienza", di "storicità", all'interno di una sensibilità culturale attenta ai problemi dell'esistenza umana e all'eterno tema della libertà dell'uomo di fronte al male e all'assoluto, liberandosi dai pregiudizi e dai dogmi delle filosofie sistematiche del secolo precedente. Non pochi sono soddisfatti dell'opera di demolizione teoretica operata nel XX secolo nei confronti della "modernità", e parlano dell'epoca presente come di un'epoca "post-moderna". Altri, invece, ritengono che siamo ancora nella piena modernità, giunta alle sue logiche conclusioni. Altri ancora, soprattutto in ambito religioso, ritengono che il vuoto d'ideali lasciato dal crollo delle ideologie possa essere colmato dalla ripresa del sentimento religioso e in questo senso vedono nell'epoca presente un'opportunità unica sotto il profilo culturale.

Tutte queste posizioni presentano aspetti di verità. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il fatto che, in conseguenza delle illusioni prodotte dalle ideologie immanentiste, si sono creati rilevanti ostacoli culturali nella società odierna, ostacoli che si oppongono a un'efficace evangelizzazione, e che fortemente persistono, nonostante siano tramontati i sistemi teorici che li hanno generati.
Bisogna poi notare che nella stessa cultura teologica, e quindi nella stessa formazione dei preti e degli operatori pastorali, si sono prodotti sia gli effetti positivi sia gli effetti negativi della mentalità secolarizzata moderna. Attuare una "nuova evangelizzazione" significa allora non soltanto evangelizzare la cultura contemporanea, ma anche purificare la cultura cattolica, e quella teologica in modo particolare, da certi equivoci tuttora persistenti, valorizzando adeguatamente gli ambiti di apostolato culturale che la società offre ai cristiani.

Giovanni Paolo II, nell'enciclica Fides et ratio, considera, a modo di esempio, i "pericoli" che si nascondono "in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente diffuse". In primo luogo menziona l'"eclettismo":  questa forma di pensiero è certamente sempre esistita nella storia della filosofia, ma oggi presenta delle caratteristiche particolari, perché non si tratta d'una scuola filosofica o del modo di procedere di un singolo pensatore, ma di un vago atteggiamento culturale che intende valorizzare diverse idee e suggestioni provenienti da tante filosofie e culture, "senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica né al loro inserimento storico" (Fides et ratio, n. 86).

Oggi l'evangelizzatore deve fare i conti non solo e non tanto con l'ateo o con l'indifferente:  un'epoca di vuoto ideologico non può che far diminuire questo genere di persone, come dimostra la generale ripresa dell'interesse religioso; oggi bisogna piuttosto fare i conti con la confusione d'idee e di orizzonti culturali, a cui indirettamente contribuisce la mondializzazione dell'economia, per cui tutto va bene, tutto è assimilabile a tutto, ogni idea e ogni comportamento è compatibile con altri, perfino con l'esatto opposto, visto che il principio di non contraddizione, almeno nella prassi, sembra essere obliato. Si preferiscono allora espressioni vaghe e imprecise, non compromettenti dal punto di vista teoretico, per esprimere le proprie posizioni, in modo da rendersi graditi a tutti. E il più delle volte non si tratta d'un atteggiamento studiato per convenienza, ma d'una conseguenza della difficoltà sempre più crescente nella cultura odierna a ragionare e ad argomentare. In questo quadro culturale, filosofia e teologia rischiano di ridursi a belle chiacchierate, in cui un termine vale l'altro, purché sia capace di evocare sentimenti buoni e sia in grado di affascinare o d'abbagliare il pubblico, come accadeva nella peggiore sofistica.

Che il pericolo sia reale anche nella nostra teologia lo dimostra la preoccupata affermazione che troviamo nel già citato n. 86 della Fides et ratio:  "Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile anche nell'abuso retorico dei termini filosofici a cui a volte qualche teologo si abbandona. Una simile strumentalizzazione non serve alla ricerca della verità e non educa la ragione ad argomentare in maniera seria e scientifica".
Se si trascurano queste due finalità del pensiero - ricercare la verità ed educare a ragionare con argomentazioni - si giungerà a porre alla base della validità di un sistema filosofico o teologico l'opzione della volontà del singolo o del gruppo, oppure la funzionalità del sistema in ordine al soddisfacimento di bisogni soggettivi. Ma se l'elaborazione teologica è fondata sull'opzione della volontà, allora essa tende a trasformarsi in ideologia religiosa, ovvero in un sistema che non è in grado d'accettare il confronto e di reggere a una critica. Viene meno così tutta l'apologetica, che invece oggi, in un mondo multi-culturale, andrebbe ripresa, appunto "in maniera seria e scientifica". Conseguentemente la produzione teologica rischia di assecondare sempre più i gusti del momento e le esigenze di fruizione facile e immediata e sempre meno le esigenze d'una formazione culturale e spirituale organica ed approfondita, radicata nei classici del pensiero e della spiritualità cristiana. Si rischia, in sostanza, di cadere nella logica dell'industria culturale.

Non è una questione che riguarda soltanto la teologia accademica:  si tratta di un atteggiamento che coinvolge anche la predicazione e l'apostolato, sebbene in una forma più divulgativa. Pensiamo per esempio all'uso e all'abuso del termine "esperienza" nel linguaggio teologico, omiletico e catechetico:  lo si usa continuamente, talora senza rendersi conto che si tratta di un termine dal significato complesso, che andrebbe usato con cautela ed a ragion veduta. Per non parlare di espressioni come "incontro con Dio" o "esperienza di Dio", che sono talmente impegnative da lasciare perplessi quando si sentono usare nei contesti più impensati e senza un minimo di cautela e di chiarezza teologico-spirituale.
Non minore perplessità suscita il "biblicismo" di certi teologi e di certi pastori d'anime, come pure di operatori pastorali laici, che da una parte disprezzano la filosofia, dall'altra poi usano, consapevolmente o meno, metodi d'interpretazione della Scrittura legati inscindibilmente a ben precise dottrine filosofiche (cfr. Fides et ratio, n. 55).

Ancor più problematica per le prospettive della "nuova evangelizzazione" è l'eredità lasciata dal XX secolo al terzo millennio di un diffuso "pragmatismo":  si tratta di un fenomeno culturale che ha le sue radici nella cultura del XIX secolo, ma che soltanto nel Novecento, per complessi fattori storico-culturali, è esploso in modo rilevante. L'enciclica Fides et ratio, definisce il pragmatismo come "l'atteggiamento mentale che è proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi etici" (n. 89).

Ora è chiaro che nessuna filosofia seria degli ultimi due secoli risponde a una tale descrizione:  il testo dell'enciclica, infatti, coglie il pragmatismo nei suoi esiti culturali concreti, cioè nel diffuso relativismo epistemologico ed etico che esso ha prodotto. Ma le radici di questo atteggiamento, e dei suoi risvolti utilitaristici, si trovano in una sempre maggiore esaltazione della prassi a scapito della teoresi, che s'è affermata soprattutto a partire dagli inizi dell'Ottocento. Basta passare in rassegna le principali correnti del pensiero moderno per rendersene conto:  il primato della ragion pratica sulla ragion pura nel kantismo; il primato dell'azione sul pensiero speculativo nel romanticismo (dal detto di Goethe:  "In principio era l'Azione" al primato dell'Io pratico sull'Io teoretico secondo Fichte); la filosofia come riflessione sulla prassi rivoluzionaria, dal marxismo al neo-marxismo (la "filosofia della prassi" di Gramsci); il primato della volontà e dell'azione in certe forme di spiritualismo di fine Ottocento e nel modernismo; il pragmatismo americano; il "vitalismo" irrazionalista di Nietzsche e di altri; l'attualismo storicista e idealista; l'utilitarismo neo-liberista.

È necessario precisare che qui non si intende condannare in blocco o mettere insieme, in maniera approssimativa e superficiale, filosofie molto complesse e molto diverse tra di loro, né tantomeno s'intende analizzarne le proposte sistematiche:  l'intento è quello di mostrare che questa singolare convergenza di filosofie così diverse tra di loro nell'affermazione della superiorità della prassi sulla teoresi ha contribuito in modo rilevante a creare una mentalità incline a porsi prima la domanda "a che serve?" della domanda "che cos'è?", incline, cioè, a ridurre il conoscere al "fare":  conoscere per agire, agire per usufruire. Si tratta certamente di una semplificazione del problema, ma credo descriva l'atteggiamento generale, indotto da un clima sempre meno propenso alla riflessione razionale teoreticamente strutturata sui problemi e sulle soluzioni adottate. L'umanità trova in tal modo una sua unità, ma a partire dai bisogni più che dai valori.

L'unificazione culturale dell'umanità nel nome dei comuni bisogni di benessere è essenziale per la mondializzazione dell'economia e per le esigenze del mercato, e non è per se stessa una cosa cattiva:  può però diventare un pericolo per la dignità dell'uomo se comporta strutturalmente e in maniera programmata un'unificazione della coscienza su valori "minimali", fondati su un utilitarismo sociale banale e insensibile al confronto con i problemi e con le esigenze dello spirito.
Se ciò avvenisse, avremmo una massificazione dell'opinione pubblica dietro un apparente pluralismo e un controllo capillare dei movimenti di opinione tramite i mezzi di comunicazione sociale gestiti a seconda dell'utilità.

Una delle conseguenze più rilevanti del diffuso pragmatismo si è prodotta nell'ambito della cultura e dell'istruzione impartita negli studi pre-universitari ai giovani:  problema da non sottovalutare e trascurare in ordine a una "nuova evangelizzazione". Infatti, una caratteristica dello sviluppo dell'istruzione scolastica è la tendenza a ridimensionare la cultura umanistica e filosofica a vantaggio di altre discipline. Con il rischio d'abituare i giovani a analizzare i problemi e a valutare i messaggi che ricevono in modo superficiale e appiattito sui luoghi comuni dell'"industria culturale". Basti pensare ai luoghi comuni relativi all'"oscurantismo medievale" o al contrasto tra fede e scienza nel Rinascimento:  concetti non recepiti dalla letteratura specializzata, ma ben presenti nella divulgazione e nell'immaginario collettivo, che finisce inevitabilmente col formarsi idee approssimative, se non sbagliate, delle questioni. Ma quel che è più preoccupante è l'oblio a cui rischia di essere destinata la cultura umanistico-cristiana qualora i giovani venissero un giorno educati nella convinzione che lo studio della storia "praticamente" ha valore solo a partire dall'Ottocento, o che lo studio della filosofia prima di Cartesio, se non prima di Hegel, è "praticamente" inutile.

Si spera che queste prospettive anti-culturali non si realizzino, ma occorre vigilare, sia come educatori sia come cristiani, perché, se è vero che il cristianesimo non s'identifica con nessuna cultura in particolare, è anche vero che per duemila anni il cristianesimo ha generato cultura:  dimenticare questo cammino significa ridurre il cristianesimo a una delle tante offerte religiose presenti nel supermercato dello spirito.
Per i sacerdoti e per gli operatori pastorali sarà sempre più importante evangelizzare coinvolgendo attivamente le strutture culturalmente più rilevanti del Paese in cui si lavora. Se si tratta di un Paese a tradizione cristiana sarebbe davvero fecondo l'apostolato nelle scuole e attraverso le scuole o altri istituti di formazione:  certo, rimane essenziale e primario il riferimento alla parrocchia; ma non bisogna dimenticare che i "lontani" ci sono vicini nella scuola, nel mondo del lavoro, negli istituti di formazione professionale, nelle istituzioni culturali, da quelle più prestigiose a quelle più popolari. Non è un caso che ogni campagna di scristianizzazione abbia sempre colpito il settore educativo, tentando di confinare l'azione pastorale nell'ambito esclusivamente liturgico e devozionale.

Nei Paesi non tradizionalmente cristiani l'evangelizzazione della cultura è ancora più difficile, perché c'è il pericolo che il cristianesimo sia percepito come la religione della cultura dell'Occidente. Lo sforzo d'inculturazione della fede è un compito arduo, su cui la Chiesa negli ultimi anni ha molto riflettuto, stimolata dalla sollecitudine pastorale dei Pontefici.

La situazione culturale odierna è complessa, problematica, include elementi manifestamente incompatibili con il messaggio cristiano:  ma sarebbe superficiale ricavarne un quadro fosco, pessimista. Pur nei suoi aspetti negativi, la cultura offre oggi nuove opportunità alla "nuova evangelizzazione" e alla missione, che nel passato erano impensabili. Ci sono seri pericoli che minacciano la dignità dell'uomo nell'epoca presente:  ma quale epoca è priva d'insidie, d'errori, d'ingiustizie? Evidentemente quanto più s'evolve una situazione culturale tanto più diventa complessa; e perciò s'aprono opportunità favorevoli sempre più grandi per il messaggio cristiano, ma anche, all'opposto, si rendono sempre più sofisticate le strategie ostili al Vangelo. Il cammino dell'evangelizzazione s'è sempre intrecciato con il cammino dell'anti-evangelizzazione, in ogni epoca e in ogni cultura:  al progresso nella diffusione del Vangelo s'oppone da sempre, in modo quasi proporzionale, un progresso nell'opposizione al Vangelo. Pertanto occorre affrontare le difficoltà senza paura di soccombere, con grande fiducia in Dio e con grande carità pastorale, la carità di Cristo, che è amore per i nemici.

La via è quella del dialogo tra l'annuncio della fede e la cultura di un popolo. È la direzione auspicata dall'enciclica Redemptoris missio, in cui i cristiani sono esortati a collocarsi negli "areopaghi" moderni, come san Paolo, al centro della cultura dei popoli, usando linguaggi adatti e comprensibili per la cultura a cui ci si rivolge (cfr. Redemptoris missio n. 37c). Viene citata in questo senso una famosa espressione della Evangelii nuntiandi di Paolo VI:  "La rottura fra il Vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca" (n. 20).
In questo senso un terreno di confronto tra la "nuova evangelizzazione" e i moderni areopaghi è la ragionevolezza e la credibilità del cristianesimo. Certamente chi non ha fede non può capire adeguatamente i misteri del cristianesimo; è importante che il dialogo inizi a partire da argomentazioni non immediatamente teologiche, ma da argomentazioni apologetiche, le quali, pur non avendo valore di dimostrazioni incontrovertibili, possano condurre l'interlocutore verso il riconoscimento delle verità rivelate, perlomeno come proposte ragionevoli e, anche di più, plausibili.

Questo complesso e articolato lavoro d'avvicinamento alla cultura, attraverso l'umiltà e la pazienza d'un dialogo quasi "socratico", nulla toglie al momento kerygmatico propriamente detto, che va al centro dell'evento cristiano e chiama a conversione il cuore dell'uomo. Si tratta d'un momento propedeutico, grazie al quale la cultura è preparata a ricevere il messaggio evangelico come la verità di Dio e la verità dell'uomo, che ogni grande cultura ricerca dentro di sé. In tal modo veramente il Vangelo non solo rivela Dio all'uomo, ma anche l'uomo all'uomo, portando a ogni cultura il messaggio liberante di Gesù Cristo.


(©L'Osservatore Romano - 4-5 gennaio 2010)

S_Daniele
00giovedì 28 gennaio 2010 19:26
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Claret de la Touche e la santità dei preti


di Piergiorgio Debernardi

Vescovo di Pinerolo

Negli ultimi due secoli numerose sono state le persone che hanno ricevuto dal Signore la missione di offrire la loro vita per la santificazione del clero. Tra queste, particolarmente esemplare è la venerabile madre Luisa Margherita Claret de la Touche, monaca della Visitazione. Ella nacque a Saint-Germain-en-Lay (Francia) il 15 marzo 1868 in una famiglia borghese e benestante. Attratta dalla vita contemplativa, entrò nel monastero della Visitazione di Romans, nella diocesi di Valence, il 20 novembre 1890.

Il 1902 è l'anno in cui il Signore rivelò a madre Luisa Margherita ciò che doveva dire ai sacerdoti e ciò che doveva realizzare per la loro santificazione. Il Signore stava prendendo possesso totale della sua vita, del suo corpo e del suo spirito. La forza dell'amore si manifestava anche sensibilmente in forti palpitazioni del cuore, tanto che le sembrava che questo si staccasse per unirsi a quello di Cristo. Provava dolori ai piedi, alle mani e al fianco destro, come già era avvenuto altre volte. Il Signore la univa a sé, ancora più strettamente.
 Il 5 giugno 1902, vigilia della festa del Sacro Cuore, è la data che segna l'affidamento a madre Luisa Margherita di una particolare missione da compiere nella Chiesa nei confronti dei sacerdoti. Essa deve ricordare loro le insondabili ricchezze dell'amore del cuore di Cristo, continuando la missione già iniziata con le rivelazioni a Margherita Maria Alacoque.
Madre Luisa Margherita sentì per diversi giorni la voce che le affidava questo compito. Il 6 giugno, festa del Sacro Cuore, scrive:  "Ieri mi trovavo dinanzi al santissimo sacramento; soffrivo ed ero in quello stato d'animo stanco e doloroso nel quale mi trovavo già da qualche settimana, quando Gesù si fece sentire alla mia anima. Lo adoravo, dolcemente consolata della sua presenza e mentre lo pregavo per il nostro piccolo noviziato, gli chiedevo qualche anima da formare per Lui. Allora mi rispose:  "Ti darò delle anime di uomini". Profondamente sorpresa da queste parole di cui non comprendevo il senso, me ne stavo silenziosa cercando di spiegarmele. E Gesù riprese:  "Ti darò delle anime di sacerdoti. Tu sei colei che s'immolerà per il mio clero. Voglio darti istruzioni durante questa ottava, scrivi tutto ciò che ti dirò"".

Il racconto prosegue con la successiva rivelazione:  ""Il prete è un essere talmente investito di Cristo da diventare quasi un Dio; ma è anche un uomo, e bisogna che lo sia. Bisogna che senta le debolezze, le lotte, i dolori, le tentazioni, i timori, le rivolte dell'uomo; deve fare l'esperienza della propria miseria per poter essere misericordioso; ed è anche necessario che sia forte, puro, santo per poter santificare. Per amare, il mio prete deve avere il cuore grande, tenero, ardente, forte. Quanto deve amare il prete! Deve amare me, suo Maestro, fratello, amico, consolatore, come io ho amato lui; e io l'ho amato fino a confondere la mia vita con la sua, fino a rendermi obbediente alla sua parola. Deve amare la mia Sposa, che è la sua Sposa, la santa Chiesa, e di quale amore! Un amore appassionato e geloso, geloso della sua gloria, della sua purezza, della sua unità, della sua fecondità. Infine, deve amare le anime come suoi figli. Quale padre ha tanti figli da amare quanto il prete?"".

Il 7 giugno una nuova rivelazione:  ""Il cuore del mio sacerdote deve essere una fiamma ardente che riscalda e che purifica. Se il mio prete conoscesse i tesori d'amore che il mio Cuore racchiude per lui! Venga al mio Cuore, vi attinga, si riempia d'amore fino a traboccarne spandendolo sul mondo! Margherita Maria ha mostrato il mio Cuore al mondo; tu mostralo ai miei sacerdoti, attirali tutti al mio Cuore"".
Il 10 giugno:  "Dopo la comunione ho detto a Gesù:  "Mio Salvatore, quando la nostra beata sorella ha mostrato il tuo divin Cuore al mondo, i sacerdoti lo hanno visto; non basta forse?". Gesù mi ha risposto:  "Adesso voglio fare a loro una speciale manifestazione". Poi mi ha fatto vedere che vi è un'opera da compiere:  riscaldare il mondo con l'amore e per quest'opera vuole servirsi dei suoi sacerdoti. E, con un'espressione così toccante e tenera che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi, mi ha detto:  "Ho bisogno di loro per compiere la mia opera!". Perché possano spandere l'amore, essi debbono esserne ricolmi ed è nel Cuore di Gesù che debbono attingerlo".

Il 13 giugno:  "Questa mattina, riflettendo fra me, pensavo che si potrebbe forse fare un ramo speciale della Guardia d'Onore per i sacerdoti. Gesù mi ha detto:  "No". Mi ha fatto capire che non vuole che i suoi sacerdoti siano soltanto degli adoratori del suo Cuore; Egli vuole formare una milizia che combatta per il trionfo del suo amore. Quelli che faranno parte di questa milizia del cuore di Cristo, s'impegneranno fra l'altro a predicare l'Amore Infinito e la Misericordia, a essere uniti fra di loro per il bene, con un cuor solo e un'anima sola, senza mai frapporsi vicendevolmente ostacoli nelle loro opere".
Nella vita di madre Luisa Margherita tutto è cominciato con questi messaggi che cadono nel momento in cui la Chiesa è scossa dalle teorie moderniste, che giungono in alcuni casi a demolire le stesse verità della fede. In effetti, pur nella semplicità del linguaggio, suor Luisa Margherita portava alla Chiesa un richiamo forte a leggere la storia come opera dell'Amore e un invito specifico ai sacerdoti a rendere visibile l'amore e la misericordia che Dio ha per il mondo.

Nell'ottobre 1902, durante il tempo di meditazione coltivò alcune riflessioni "sulle virtù sacerdotali di Cristo". Ebbe l'ispirazione di annotare questi pensieri. Chiese il permesso alla superiora, che glielo accordò:  "La Madre mi disse di scrivere ed io lo faccio. Se quanto scrivo non servirà a nulla, non ci sarà che da metterlo al fuoco, sarà presto fatto. Ma non è ancora finito. Ho già avuto due volte la tentazione di bruciarlo. Non l'ho fatto, temo di disobbedirle". È questo il primo accenno agli scritti che formeranno il libro Il Sacro Cuore e il Sacerdozio. Il libro incoraggia a realizzare il ministero sacerdotale come un "compito d'amore". Infatti, attraverso la carità pastorale, il sacerdote imita Cristo nella sua donazione e, immergendosi nella storia della sua gente, l'educa ai valori evangelici, soprattutto al comandamento dell'amore e all'impegno della solidarietà.
Quando il libro fu stampato, pochissime persone conoscevano il nome dell'autore. Si credeva che fosse stato scritto dal direttore spirituale del monastero, padre Alfredo Charrier - a lui giungevano da varie parti messaggi di congratulazione - e madre Luisa Margherita, con molta umiltà, mantenne sempre a questo riguardo uno scrupoloso silenzio. Era il messaggio contenuto che a lei interessava, non la sua persona.

Nel dicembre 1903 la superiora diede l'incarico a madre Luisa Margherita di scrivere una lettera a padre Charrier per porgergli gli auguri per il nuovo anno. Essa ubbidì, ma chiese anche l'autorizzazione di potervi accludere un foglietto su cui era scritta una preghiera:  "O Gesù, Pontefice eterno, divino Sacrificatore, tu che, in uno slancio incomparabile d'amore per gli uomini tuoi fratelli, hai fatto sgorgare dal tuo Sacro Cuore il sacerdozio cristiano, degnati di continuare a versare nei tuoi sacerdoti le onde vivificanti dell'Amore Infinito. Vivi in essi, trasformali in te, rendili per mezzo della tua grazia gli strumenti delle tue misericordie; opera in essi e per essi fa' che, dopo essersi rivestiti di te, per mezzo della fedele imitazione delle tue adorabili virtù, essi facciano in tuo nome e per la forza del tuo Spirito, le opere che hai compiuto tu stesso per la salvezza del mondo. O divin Redentore delle anime, vedi quanto è grande la moltitudine di quelli che dormono ancora nelle tenebre dell'errore; conta il numero di quelle pecorelle infedeli che camminano sull'orlo del precipizio; considera la folla dei poveri, degli affamati, degli ignoranti e dei deboli che gemono nell'abbandono. Ritorna a noi per mezzo dei tuoi sacerdoti; vivi o buon Gesù in essi, opera per essi e passa di nuovo in mezzo al mondo insegnando, perdonando, consolando, sacrificando, riannodando i sacri vincoli dell'amore fra il cuore di Dio e il cuore dell'uomo. Amen".

Questa preghiera ebbe in breve tempo una diffusione straordinaria. Lo stesso padre Charrier e le varie Visitazioni si impegnarono a diffonderla in molte nazioni. Dal 1905 sino a oggi la preghiera fu continuamente stampata e diffusa nel mondo. È stata tradotta in ventidue lingue. Un vero record di universalità. Un'umilissima origine e un'amplissima diffusione.
Ma che cos'è quest'Opera - che poi prenderà le forme dell'"Alleanza sacerdotale" - di cui madre Luisa Margherita riceve le prime indicazioni e di cui in seguito parlerà tante volte nei suoi scritti? È innanzitutto un'Opera che il Signore stesso realizza attraverso il ministero dei sacerdoti:  "Ho bisogno di loro per compiere la mia Opera!".

Dunque, prima ancora che un'opera fatta con mezzi umani è uno sguardo sul progetto di salvezza che Dio ha sul mondo. Solo in un secondo momento l'Opera è intesa come risposta di amore del sacerdote nello sforzo di riprodurre in sé l'immagine di Cristo e compiere ciò che lui ha detto e ha fatto. Quando parla della parte organizzativa, madre Luisa Margherita la presenta come espressione del suo modo di sentire e di vedere il problema, senza mai assolutizzare quanto propone:  è l'aspetto più debole e più soggetto al mutare dei tempi. Mentre invece insiste su ciò che a lei pare fondamentale:  l'Opera si realizza diffondendo, con la predicazione e le attività, la conoscenza dell'Amore Infinito e la Misericordia. Vi è, poi, un invito pressante rivolto ai sacerdoti perché cerchino e trovino modi e forme per incontrarsi tra di loro. L'Opera, infatti, ha questa finalità:  incoraggiarli e sostenerli nel cammino di santità, aiutandoli a "unirsi tra di loro", ad "agire con uno stesso spirito" e a "potenziare l'azione per mezzo dell'unione". I sacerdoti incontrandosi s'impegnano nello studio della persona di Cristo, cercano di conformare la propria vita alle sue virtù sacerdotali e tendono a realizzare una autentica fraternità. Il ritrovarsi insieme è, dunque, non soltanto finalizzato alla preghiera, ma all'"unione e cooperazione nelle opere", cioè lavorare uniti attorno a un progetto pastorale, pensato insieme e realizzato comunitariamente. È perciò d'attualità la raccomandazione che la suora fa ai sacerdoti "ad aiutarsi reciprocamente, senza mai ostacolarsi a vicenda"; a "essere uniti tra loro per il bene, formando un cuor solo e un'anima sola, senza mai frapporsi vicendevolmente degli ostacoli nelle loro opere".

Mai come in questi ultimi decenni troviamo nel Magistero tanta insistenza perché si valorizzino all'interno del presbiterio gli incontri di preghiera, di studio e di programmazione pastorale, come momenti e mezzi privilegiati di formazione permanente. Meraviglia quindi che una suora, molto tempo prima, abbia indicato sentieri e percorsi non ancora aperti.

Il concilio Vaticano ii, nella Presbyterorum Ordinis, ha ribadito con forza questa esigenza:  "L'unione tra i presbiteri e i vescovi è particolarmente necessaria ai nostri giorni. Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza mai unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri sotto la guida del vescovo". Questa unità è richiesta dalla legge della reciprocità dell'amore:  i sacerdoti riconoscano nel vescovo il loro padre; il vescovo consideri i suoi sacerdoti come figli e amici. Realizzare l'unità è il fine dell'Opera. Qui comprendiamo quanto sia riduttivo equiparare l'Opera a un'associazione, sia pure ampia e diffusa nel mondo. Compito fondamentale dell'Opera è, dunque, aiutare i sacerdoti a crescere nella comunione e nell'unità. Tante pagine del Diario di madre Luisa Margherita possono essere lette, oggi, come profezia di quanto è maturato nella Chiesa dopo il Concilio. Nell'esortazione apostolica Pastores dabo vobis c'è questa sottolineatura:  "La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell'Ordine". È un'autorevole conferma ai messaggi ricevuti da madre Luisa Margherita sulla vita e sul ministero dei sacerdoti.



(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2010)
S_Daniele
00giovedì 4 febbraio 2010 19:28
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Come una sentinella del mattino


di Luis Garza Medina
Vicario generale dei legionari di Cristo

L'Anno sacerdotale che Benedetto XVI ha convocato per i sacerdoti, in commemorazione del 150° anniversario della morte del santo Curato d'Ars, offre l'occasione propizia per domandarsi che cosa sia il sacerdote, come si ponga di fronte alle grandi sfide che l'umanità affronta e quale ruolo giochi nel dramma dell'uomo moderno. Come diceva Giovanni Paolo ii all'inizio del suo pontificato:  "Questo è un tempo meraviglioso per essere prete". Il sacerdote, animato dalla consapevolezza che Cristo è l'unico salvatore dell'uomo e che lui è stato costituito per mezzo del sacramento dell'ordine ministro della redenzione, è chiamato a vivere, nel mondo d'oggi e in mezzo alle sfide che questo presenta per il Vangelo di Cristo, con fiducia e santa audacia. Queste sfide si possono trasformare in un progetto di vita per i sacerdoti che vogliono realizzare la missione di Cristo nella Chiesa di questo nuovo millennio.

Il sacerdote deve essere un uomo di Dio. In quanto sacerdote ha il sigillo del sacramento. Di conseguenza, la sua volontà e le sue facoltà devono essere imbevute dei sentimenti di Cristo (cfr. Filippesi, 2, 5). Se non è saldo in Dio, sarà spazzato via dall'uragano della secolarizzazione. Deve quindi essere uomo di preghiera, uomo che ascolta e medita la Parola per attaccarsi amorevolmente a ciò che Dio vuole da lui; deve celebrare i sacramenti con il fervore e l'unzione propria delle cose sacre di cui si occupa, sapendo che per essere un uomo di Dio deve fare un particolare sforzo e resistere alla vertigine della costante e accelerata attività cui sottopone il mondo moderno.
Deve anche collaborare con la grazia divina perché la sua vita quotidiana rifletta la santità che trasmette con i sacramenti. I sacramenti sono efficaci ex opere a Christo operato, però è evidente che Dio elargisce la sua grazia con più abbondanza attraverso quei sacerdoti che con maggiore pienezza si sono configurati con suo Figlio, sommo ed eterno sacerdote della nuova alleanza.

 Il sacerdote è un uomo profondamente consapevole che la salvezza viene da Dio e perciò non può concepire che la soluzione del problema dell'uomo stia nei mezzi umani o in lui come persona umana, per quanto preparato e carismatico possa essere. Comprende che deve unire la sua azione e le parole a una profonda vita eucaristica - sia nella celebrazione che nell'adorazione - che rende lui stesso, in un certo senso, eucaristico:  cioè, qualcuno che si fa vittima e oblazione, come sacerdote, per servire Cristo nella missione di salvare le anime. La sua presenza tra gli uomini, suoi fratelli, deve essere quella d'una sentinella del mattino, un annunciatore delle cose dell'aldilà, un continuo promemoria di Dio per le anime, che incarna l'amore di Dio in questo mondo. L'uomo di Dio è l'unico che può dare senso all'uomo e alle società d'oggi poiché fa possibile l'incontro con il Dio amore. Si racconta una bellissima storia del curato d'Ars che è ricordata anche da una statua:  quando san Giovanni Maria Vianney andò per la prima volta ad Ars, si perse lungo la strada. Chiese a un giovane pastore di guidarlo e questi lo portò fino al villaggio. Il prete gli disse:  "Tu mi hai mostrato la strada per Ars, adesso io ti mostrerò la strada per il Cielo".

Essere uomo di Dio non è incompatibile con l'avere i piedi per terra. Il sacerdote è una persona che non perde la propria oggettività né il realismo. Sa, da un lato, che l'umanità deve sottomettere il cosmo e dominarlo, però dall'altro che ciò cui l'uomo anela definitivamente si trova solo in cielo, meta definitiva e obiettivo del nostro peregrinare su questa terra. Non è la scienza che salva l'uomo, ma Cristo. Il sacerdote non può cedere all'orizzontalismo o al naturalismo, perché smetterebbe d'essere necessario per il mondo e si confonderebbe con un lavoratore o un agente sociale. Non deve mai cadere preda della visione ridotta del suo sacerdozio, per cui questo non sarebbe altro che un servizio o una funzione. Il sacerdote è servitore di Cristo per essere, a partire da Lui, per mezzo di Lui e con Lui, servitore degli uomini.

Nella formazione dell'uomo di Dio gioca un ruolo molto particolare la devozione alla Vergine Maria, come madre, modello di virtù e, soprattutto, come protettrice celeste. La sua relazione con i sacerdoti, ministri di Cristo, deriva dalla relazione tra la divina maternità di Maria e il sacerdozio di Cristo. I sacerdoti sono suoi figli prediletti e nel cuore del sacerdote deve risuonare il consiglio di san Bernardo:  "Nei pericoli, nell'angoscia, nell'incertezza, invoca Maria. Che il suo nome mai abbandoni le tue labbra e il tuo cuore. E per ottenere il sostegno della sua preghiera, non cessare d'imitare l'esempio della sua vita. Seguendola, non ti smarrirai; pregandola, non conoscerai la disperazione, pensando a Lei, non ti sbaglierai. Se Ella ti sostiene, non affonderai; se Ella ti protegge, non avrai timore di nulla; sotto la sua guida non temere la fatica; con la sua protezione raggiungerai il porto".

Il sacerdote, proprio perché è rivolto all'eternità e perché aiuta gli uomini nel loro cammino verso il cielo, deve costruire la carità, poiché è la carità la virtù che in qualche modo anticipa il cielo qui sulla terra.
La carità è innanzitutto carità verso Dio ed è la virtù che concede al sacerdote d'essere un uomo di Dio. Da questa carità scaturisce la carità verso gli altri che ha diversi aspetti. Il primo, quello più fondamentale, è mettere sempre al centro d'ogni azione, d'ogni pensiero e parola, il bene della persona che abbiamo di fronte. Non fa bene alla Chiesa, che alcuni sacerdoti si preoccupino più delle strutture che delle persone con cui hanno a che fare quotidianamente. Ricordo che madre Teresa di Calcutta, una volta, quando le fecero notare che lei non cercava una soluzione per le strutture che provocavano le ingiustizie, chiarì che c'erano già molti che cercavano di migliorarle, mentre lei cercava di far sì che ogni persona tra i più poveri dei poveri fosse curata secondo la sua dignità di figlio di Dio.

Il sacerdote che cerca il bene della persona, cerca di non ridurla a un numero o a una statistica. Non è che le statistiche siano cattive, anzi credo che offrano un aiuto alle sfide pastorali che la Chiesa affronta, però non si possono ridurre le persone a semplici numeri.
Costruire la carità richiede anche di costruire la comunione. La Chiesa è comunione, è, con le parole di san Cipriano, "un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Lo stesso sacerdozio ha una "radicale forma comunitaria" e non può essere esercitato se non nella comunione. La prima dimensione di questa comunione è la comunione gerarchica, la comunione con il Santo Padre, centro visibile dell'unità nella Chiesa, e con il proprio vescovo, pastore della Chiesa particolare.

Il sacerdote è costruttore di comunione all'interno del presbiterio diocesano. Tutti i sacerdoti di una Chiesa particolare partecipano all'unico sacerdozio di Cristo pastore. E quest'unione sacramentale deve tradursi in relazioni interpersonali piene di carità e di reciproco aiuto. Il sacerdote è chiamato anche ad accogliere con gratitudine e a condurre verso la comunione i diversi carismi presenti nella sua parrocchia o nella diocesi. Il suo cuore sarà aperto alle diverse forme di vita consacrata e ai nuovi movimenti approvati dall'autorità competente. Sono doni dello Spirito per la Chiesa e devono essere accolti senza pregiudizi. In essi molti fedeli trovano cammini specifici di santità cristiana e forme concrete per partecipare all'azione evangelizzatrice della Chiesa.

Il sacerdote costruisce la comunione con tutto il popolo di Dio e non concepisce la Chiesa in forma dialettica, come opposizione tra il ministero ordinato e il sacerdozio battesimale che è proprio di tutti i fedeli. Una delle figure consacrate dal Concilio per rappresentare la Chiesa fu quella del popolo di Dio. In questo popolo che è anche Corpo di Cristo, tutti abbiamo la stessa dignità di figli di Dio e uniti camminiamo verso la meta definitiva, il cielo. E la differenza essenziale, non semplicemente graduale, tra il mistero ordinato e la funzione dei laici non solo non rompe l'unità, ma l'arricchisce.

Nella predicazione e nella vita di Cristo, era palese l'attenzione che egli prestava ai più poveri. L'attenzione per il più bisognoso è qualcosa che deve formare la priorità pastorale del sacerdote. Aiutare a risolvere le necessità delle persone è proprio del cristiano, e molto più del sacerdote. Oggi alla necessità di beni materiali si sono aggiunte molte altre necessità che sono diventate pressanti:  la solitudine della vecchiaia, la depressione e l'abbandono di tante persone nelle grandi città, le diverse assuefazioni molte volte sfruttate da organizzazioni o individui con affanno di lucro, l'infanzia lasciata al suo destino senza alimentazione e senza educazione.

Il sacerdote sta laddove c'è più bisogno di consolazione e di annuncio dei beni eterni, dove stanno i più indifesi. Il sacerdote è colui che porta speranza con la sua parola e con la sua azione perché quelle situazioni di miseria siano alleviate. Nonostante tanto avanzamento tecnologico non sempre le persone hanno la possibilità di ricevere i vantaggi di questo sviluppo e si trovano sole e abbandonate.
Il sacerdote ha anche, in certa misura, responsabilità nella promozione di società giuste. Non compete al sacerdote lavorare nelle strutture politiche, sindacali, economiche; non è chiamato a essere costruttore della città terrena, però nemmeno può dimenticare il mondo in cui vive. Egli può e deve cooperare alla promozione d'una società più giusta e conforme alla volontà di Dio mediante la predicazione dei valori evangelici e la formazione delle coscienze. Questo è il suo apporto specifico. Non è escluso che lui segnali le situazioni ingiuste, però l'amore per i suoi fratelli richiede di andare oltre, più alla radice:  riuscire a cambiare i cuori di coloro che provocano tali situazioni. Non cerca di contrapporre, ma d'unire e ottenere che all'interno di queste situazioni ci sia reciproca comprensione e perdono e responsabilità effettiva di chi può migliorare le cose. Solo così si può costruire una nuova società, poiché, senza cambiare i cuori, i rancori sarebbero un peso che manterrebbe le persone ancorate al passato, senza speranza e sempre preda della violenza distruttrice.

Infine, nella costruzione della carità, il sacerdote deve fare sempre la carità nella verità. Farebbe un pessimo servizio come pastore di anime se per un malinteso concetto di carità abbandonasse la verità. Alle anime bisogna dire la verità, scoprire per esse il suo valore e aiutarle ad amarla; bisogna mostrare tutta la verità che Dio ha rivelato nel Vangelo di Cristo e che il magistero della Chiesa trasmette. Non si può ridurre o cambiare la verità per "fare un bene pastorale". In ogni caso, si può applicare la legge della gradualità, però mai tergiversare sulla verità. Benedetto XVI ribadisce nella sua enciclica Caritas in veritate:  "Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità.

Il sacerdote è un pastore d'anime, che accudisce le sue pecore ed è disposto a dare la vita per loro. Non è da sottovalutare il valore di questa donazione, di questa passione che deve ardere nel cuore d'ogni sacerdote. Lui è come Cristo, che offre la sua vita per loro, ed è mosso dal suo stesso amore per loro. Però oltre a questa donazione che si fa realtà giorno dopo giorno, istruisce le anime con la sana dottrina cattolica. Insegna loro la fede attraverso un'adeguata catechesi, con tutti i mezzi possibili, perché il popolo di Dio ha urgente necessità di conoscere la fede per non lasciarsi trascinare da altre idee pseudoreligiose. Però soprattutto il sacerdote deve essere guida e pastore dei suoi fratelli con uno stile di vita virtuoso, alimentato dalla preghiera e dal contatto con l'eucaristia.

L'attenzione per le anime si concretizza soprattutto nell'amministrare il sacramento della riconciliazione. Il sacerdote è sempre a disposizione dei fedeli per ascoltare le loro confessioni. È lì, nella solitudine del confessionale, che si vive la battaglia più decisiva per l'anima del mondo. È lì che la grazia di Dio tocca profondamente le persone per mezzo dell'umanità del sacerdote.



(©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2010)
S_Daniele
00venerdì 19 febbraio 2010 18:39
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Francesco d'Assisi modello d'amore eucaristico


di Stefano Maria Manelli

Francesco d'Assisi - racconta il suo primo biografo, Tommaso da Celano - "ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il sacramento del Corpo del Signore". E "riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare almeno una messa al giorno, se il tempo lo permetteva. Si comunicava spesso e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri". Un giorno, poi, volle mandare i frati per il mondo "con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro". E voleva anche che si dimostrasse grande rispetto alle mani del sacerdote, perché a esse è stato conferito il divino potere di consacrare questo sacramento. "Se mi capitasse - diceva spesso - d'incontrare insieme un santo che viene dal cielo e un sacerdote poverello, saluterei prima il prete e correrei a baciargli le mani. Direi infatti:  "Ohi! Aspetta, san Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo di vita e possiedono un potere sovrumano!"".

In questa pagina è riassunto tutto il senso della vita eucaristica di san Francesco. Non manca proprio nulla:  la messa, la comunione, l'adorazione, il decoro dell'altare e delle chiese, la venerazione per i sacerdoti. In tutto questo Francesco è maestro e modello per i sacerdoti, come per semplici fedeli.
 E tra i suoi figli spirituali non mancheranno figure mirabili di serafini dell'eucaristia come Antonio di Padova e Bonaventura che hanno scritto pagine di sublime dottrina; come Pasquale Baylon, diventato protettore dei congressi eucaristici; come Giuseppe da Copertino che si levava in volo estatico verso gli ostensori e i tabernacoli; come Pio da Pietrelcina che per più ore di giorno e di notte sostava in preghiera presso l'altare eucaristico.
La messa era per Francesco un mistero di grazia così sublime che nella lettera al capitolo generale e a tutti i frati scrisse queste esclamazioni di fuoco:  "L'umanità trepidi, l'universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull'altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo figlio di Dio vivo". La cosa che sconvolge il santo d'Assisi è l'amore di Gesù spinto fino a un'umiltà inconcepibile:  "O ammirabile altezza, o degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell'universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane!".

Per questo egli considerava grave mancanza di amore l'assenza alla messa quotidiana. Per questo egli non solo partecipava almeno a una messa, ma quand'era infermo, per quanto era possibile, si faceva celebrare la messa in cella, o almeno si faceva leggere la pagina del Vangelo del giorno.
Per la santa comunione, Francesco insegna come riceverla:  "Si comunicava spesso - dice il Celano - e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri". Basti pensare che subito dopo la comunione "il più delle volte veniva rapito in estasi". E il Celano ci svela l'animo di Francesco scrivendo che "quando riceveva l'Agnello immolato, immolava lo spirito in quel fuoco, che ardeva sempre sull'altare del suo cuore".

Francesco si preparava alla santa comunione con una premura attentissima:  non solo la sua vita santa, ricca di eroismi quotidiani, ma anche la confessione sacramentale doveva preparare ogni volta la sua anima a ricevere Gesù eucaristico con il massimo candore di grazia. A quei tempi non più di tre volte alla settimana poteva comunicarsi:  ebbene, tre volte alla settimana Francesco si confessava. Quando si ama, si vuol compiacere la persona amata donandole tutto ciò che possa farla gioire. L'anima purificata dal sacramento della confessione diventa una dimora piena di candore e di profumo per Gesù ostia immacolata. Francesco non solo lo sapeva e lo faceva, ma lo raccomandava a tutti con fervore veramente serafico. Rivolgendosi ai fedeli Francesco scrisse che Gesù "vuole che tutti siamo salvi per Lui, e che lo si riceva con cuore puro e corpo casto. Ma pochi sono coloro che lo vogliono ricevere... ". E rivolgendosi ai reggitori dei popoli:  "Vi consiglio, signori miei, di mettere da parte ogni cura e preoccupazione e di ricevere devotamente la comunione del Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo".

Quando si ama, inoltre, si guarda con occhi d'amore non solo la persona amata, ma anche tutto ciò che la riguarda. In tal senso Francesco coltivò a tensione altissima d'amore sia l'adorazione all'eucaristia, sia la venerazione per tutto ciò che riguarda l'eucaristia, ossia le chiese e i sacerdoti.
La passione d'amore per l'adorazione eucaristica fu cosi ardente in Francesco, che non furono poche le notti intere da lui trascorse ai piedi del tabernacolo. E se talvolta il sonno lo prendeva, si appisolava per un poco sui gradini dell'altare, e poi riprendeva instancabile e fervente.

Per Francesco la fede nell'eucaristia fa tutt'uno con la fede nella Santissima Trinità e nel Verbo incarnato. E così voleva che fosse per tutti. Perciò scriveva con vigore e calore:  "Il Figlio, in quanto Dio come il Padre, non differisce in qualche cosa dal Padre e dallo Spirito Santo. E allora tutti coloro che si fermarono alla sola umanità del Signore Gesù Cristo e non videro e non credettero nello Spirito di Dio, che egli era vero Figlio di Dio, furono condannati; similmente adesso tutti coloro che vedono il sacramento del corpo di Cristo, il quale viene sacrificato sull'altare mediante le parole del Signore, però per il ministero del Sacerdote, sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo Spirito di Dio che esso è veramente il Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati". E poco oltre continua la sua ammonizione con un efficace paragone:  "Come ai santi apostoli apparve in vera carne, così ora si mostra a noi nel pane consacrato; e come essi con lo  sguardo  fisico  vedevano solo la sua  carne  ma, contemplandolo con gli occhi della  fede, credevano che egli era Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, vediamo e fermamente crediamo che il suo Santissimo Corpo e Sangue sono vivi e veri".
Questa fede e questo amore arriveranno al punto di fargli esclamare più volte che "dell'altissimo Figlio di Dio nient'altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il Santissimo Corpo e il Sangue suo (...) E questi Santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi".

L'amore all'eucaristia è inseparabile all'amore alla casa del Signore. Non si può amare Gesù e trascurare la sua dimora. Anche in questo Francesco ha lasciato una lezione stupenda per ardore e concretezza. Personalmente egli si preoccupava della pulizia delle chiese, dei calici e delle pissidi, delle tovaglie e delle ostie, dei vasi di fiori e delle lampade.
Esortava i ministri dell'altare a essere ferventi e fedeli nel circondare il Santissimo Sacramento d'ogni decoro e riverenza. Rivolgendosi ai custodi afferma:  "Vi prego, più che se lo facessi per me stesso, perché quando conviene e lo vedrete necessario, supplichiate umilmente i sacerdoti perché venerino sopra ogni cosa il Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo (...) I calici, i corporali, gli ornamenti degli altari e tutto ciò che riguarda il Sacrificio devono essere preziosi. E se il Santissimo Corpo del Signore sarà collocato in modo miserevole in qualche luogo, secondo il precetto della Chiesa, sia posto da essi in un luogo prezioso e sia custodito e sia portato con grande venerazione e nel dovuto modo sia dato agli altri (...) E quando è consacrato dal sacerdote sull'altare ed è portato in qualche parte, tutti, in ginocchio, rendano lode, gloria e onore al Signore Dio vivo e vero".

Quando arrivava in un paese, dopo aver predicato al popolo, di solito radunava a parte il clero e parlava di questi problemi con ardore appassionato, ricorrendo perfino alla minaccia delle pene eterne:  "Non si muove a pietà il nostro animo - esclamava - sapendo che il Signore, così buono, si mette nelle nostre mani e noi possiamo toccarlo e riceverlo? O ignoriamo che cadremo nelle sue mani? Emendiamoci decisamente, dunque, di queste e di altre cose, e dovunque si trovasse il Santissimo Corpo del Signore nostro Gesù Cristo riposto e lasciato indegnamente, rimoviamolo da quel luogo e riponiamolo e racchiudiamolo in un luogo prezioso".
Più concretamente ancora, Francesco stesso andando a predicare per città e villaggi "portava una scopa per pulire le chiese", come riferisce la Leggenda perugina, perché "molto soffriva nell'entrare in una chiesa e vederla sporca", e ciò lo spingeva a raccomandare ai sacerdoti "di avere la massima cura nel mantenere pulite le chiese, gli altari e tutta la suppellettile che serve per la celebrazione dei divini misteri".

Se a questo aggiungiamo che Francesco faceva preparare da Chiara i corporali da donare alle chiese povere e che egli stesso a volte preparava i vasi di fiori per l'altare, possiamo farci un'idea più completa del suo fervore eucaristico.
Che cosa dire, infine, della venerazione di Francesco per i sacerdoti? Basti tornare alle parole del suo testamento:  "Il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della Santa Chiesa romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere a essi e non voglio in loro considerare il peccato, perché in essi io vedo il Figlio di Dio".

Agli stessi sacerdoti egli dice con amore:  "Badate alla vostra dignità, frati sacerdoti, e siate santi perché Egli è Santo. E come il Signore Dio onorò voi sopra tutti gli uomini, per questo mistero, così voi più di ogni altro uomo amate, riverite, onorate Lui". È davvero ineffabile la dignità di colui che "impersona Cristo" ed è chiamato a essere ovunque "presenza di Cristo" e a pensare, parlare e operare in tutto "come Cristo".
Per questo Francesco si preoccupa che i sacerdoti possano sempre "celebrare la messa puri e ripieni di purezza, compiano con riverenza il vero sacrificio del Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, con intenzione santa e monda". Abbiano sempre, essi, la massima devozione e il massimo candore dell'anima, con la perfetta obbedienza a tutte le norme della Chiesa e con tutta la delicatezza nel portarlo fra le mani e nel distribuirlo agli altri, facendo così stupire perfino gli angeli che li assistono.

Francesco non si stanca di raccomandare ai sacerdoti soprattutto l'umiltà, riferendo l'esempio di Gesù stesso il quale "ogni giorno si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine:  ogni giorno, infatti, egli stesso viene a noi in apparenza umile, ogni giorno discende dal seno del Padre sull'altare nelle mani del sacerdote".
E le mani del sacerdote dovrebbero essere pure come quelle della Madonna, raccomanda il serafico padre, esprimendosi con queste parole sublimi:  "Ascoltate, fratelli miei. Se la Beata Vergine è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo grembo (...) quanto deve essere santo, giusto e degno colui che tocca con le sue mani, riceve nel cuore e con la bocca e offre agli altri, perché ne mangino, Lui non già morituro, ma in eterno vivente e glorificato, sul quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo".


(©L'Osservatore Romano - 20 febbraio 2010)
S_Daniele
00domenica 28 febbraio 2010 11:21
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

La fede della mamma


di Eliana Versace

"Non so perché, quando leggo una biografia (di Leonardo, di Goethe o di santa Teresa d'Avila) mi chiedo sempre una cosa:  chi era la loro madre, che persona era, che parole diceva, quanto erano profondi i suoi silenzi?". Così, si esprimeva Jean Guitton nell'introdurre i suoi Dialoghi con Paolo vi, conversazioni e ricordi dal tratto confidenziale, raccolti dal filosofo francese nel corso degli anni e pubblicati nel 1967.

A margine di un convegno di studi organizzato a Modena per ricordare la figura di Ermanno Gorrieri, alcuni noti storici italiani hanno espresso una considerazione analoga a quella confidata da Guitton, sollecitando di conseguenza gli studiosi a non trascurare ma anzi, al contrario, ad approfondire nei loro studi biografici il rapporto che lega gli uomini di fede alle proprie madri. Partendo da un assunto condivisibile e ben motivato, si asseriva infatti che la fede, nel corso dei secoli è stata trasmessa quasi sempre per via femminile, dunque è proprio in quello speciale e primario legame che si stabilisce tra ogni uomo e sua madre, che andrebbero rintracciati i germogli della più intima spiritualità di ciascuno.

Una tale ricerca, che può avere una utile e felice valenza storiografica nel ricostruire le vicende biografiche dei personaggi pubblici, assume un significato più profondo e quasi imprescindibile se si vuole indagare il sorgere e maturare d'una vocazione religiosa. In questo Anno sacerdotale, indetto da Benedetto XVI nella memoria del curato d'Ars, numerosi testi, articoli e libri hanno riproposto appunto l'umile figura del parroco francese. Alla luce delle precedenti osservazioni potremmo allora chiederci:  in che contesto familiare è maturata la sua fede? E, ancora - andando più a fondo per cercare di rispondere a quelle domande che restano solitamente inevase nelle biografie tradizionali - chi era la madre del curato d'Ars?

 Giovanni Maria Vianney ci parla indirettamente di lei quando, rivolgendosi ai suoi parrocchiani constatava - con le consuete parole semplici che hanno reso grande il suo ministero - come "la virtù passa dal cuore della madre nel cuore dei figli". Di sua madre, Maria Beluse, moglie del campagnolo Matteo Vianney, sappiamo poco. L'abate Alfred Monnin, principale biografo del curato d'Ars, nei suoi scritti ci ha lasciato un'immagine altamente simbolica di questa donna sconosciuta presentandocela - con un evidente intento pedagogico - accostata al marito in un audace paragone con santa Elisabetta, la madre del Battista. Scriveva Monnin che, "come Zaccaria ed Elisabetta", i coniugi Vianney, "due giusti davanti al Signore", camminavano fedelmente e senza macchia nelle sue vie. Così che dei patriarchi avevano avuto la benedizione e, in dieci anni, il Cielo aveva dato loro una corona di sei figliuoli".
In Italia venne intitolato alla signora Vianney il capitolo di un volumetto, Madri di Santi, ormai quasi introvabile, pubblicato esattamente ottant'anni fa dall'Unione delle donne cattoliche italiane e scritto, con uno stile devozionale  e  una  prosa  edificante dal chiaro fine didascalico, da Albina Henrion.

Tra i ritratti delle donne che avevano guidato i figli alla fede, accompagnandoli verso una vocazione religiosa che sarebbe stata infine glorificata dalla santità, oltre al principale e fulgido esempio di Monica e Agostino, con cui si apriva il libro, troviamo dunque diverse pagine dedicate alla devota contadina francese Maria Vianney. Sappiamo che il suo quartogenito, battezzato lo stesso giorno della nascita, l'8 maggio del 1786, nella piccola chiesetta di Dardilly fu affidato dalla madre, già con la pia scelta del nome, alla protezione congiunta di san Giovanni Battista e della Vergine Maria. Dalla mamma, il piccolo, pur restando quasi completamente analfabeta fino all'età di 17 anni, aveva appreso, quasi respirandola nella vita familiare, quella consuetudine alla preghiera assidua e quotidiana che sarà forza e conforto in tutta la sua vita. "Dopo Dio - dirà il curato d'Ars, soffermandosi sul dono della preghiera - esso è l'opera di mia madre". Perché i bambini - aggiungeva con sapienza - "fanno volentieri ciò che vedono fare". E allora, ripensando alla straordinaria virtù di carità, all'inebriante amore verso Dio e verso il prossimo che animò il santo curato in ogni momento della sua missione sacerdotale, non stupisce scoprire come presso la casa dei coniugi Vianney, ancor prima della nascita di Giovanni Maria, avessero spesso trovato accoglienza e rifugio, nei freddi mesi invernali, numerosi poveri e bisognosi, alloggiati nel solaio della modesta dimora, assistiti dalla signora Vianney e ospitati alla stessa mensa della famiglia. Viene riferito che anche Benedetto Labre, il santo "vagabondo di Dio" che, peregrinando, predicava il Vangelo nella più assoluta povertà, sia passato dalla casa dei Vianney. E, "dovunque passano i santi - avrebbe detto un giorno il curato d'Ars - Iddio passa con loro".

Affrontando molteplici difficoltà e superando l'iniziale scetticismo del marito, la signora Vianney incoraggiò il figlio nella maturazione della sua scelta sacerdotale, ottenendo infine il consenso del coniuge affinché il ragazzo, inviato nella vicina Ecully, potesse acquisire dall'abate Bailey la necessaria istruzione, che l'umile famiglia non aveva potuto offrirgli. All'esempio della madre - morta nel febbraio del 1811 - che non fece in tempo ad assistere all'ordinazione del figlio, Giovanni Maria Vianney ricorrerà spesso nell'instancabile e caritatevole esercizio del suo ministero e "ripensando a sua madre - viene narrato - piangeva di tenerezza".

Diversi aspetti di similitudine alla vicenda del curato d'Ars presenta la biografia di Pio x, intimamente devoto al parroco francese, che ne volle la beatificazione. Papa Sarto, che era stato anch'egli, da giovane, un semplice curato nel piccolo borgo veneto di Salzano, elevò Giovanni Maria Vianney alla gloria degli altari l'8 gennaio del 1905, nella basilica di San Pietro, riconoscendolo, per primo, come modello e riferimento per i sacerdoti.

Da sua madre, Margherita Sanson, quel Papa, Giuseppe Sarto, non aveva ereditato solo un'impressionante somiglianza fisica. Margherita, un'illetterata cucitrice della campagna veneta, avrebbe trasmesso al figlio, il futuro san Pio x, anche un'intensa educazione spirituale. E il quarantenne Giovanni Sarto, padre del Pontefice, che aveva sposato la moglie - di oltre vent'anni più giovane di lui - a un'età che un tempo era considerata matura, aveva accolto i suoi undici figli - l'ultimo dei quali arrivato quando l'uomo era già sessantenne - acconsentendo fiducioso ai misteriosi e provvidenziali disegni divini. Ricorderà un amico della famiglia:  "La giornata si terminava con la preghiera e l'esame di coscienza in famiglia; ciascuno confessava i suoi torti e domandava perdono a colui che aveva offeso; usanza ammirabile che esisteva nella famiglia Sarto, come nelle primitive famiglie del cristianesimo" - aggiungendo ancora - "perciò è forse da meravigliarsi che un'anima santa sia uscita di là?". Con enorme sacrificio, dopo la morte del marito, fu Margherita a farsi carico della numerosa famiglia, che viveva in una situazione d'estrema ristrettezza economica, riprendendo il suo vecchio lavoro di cucitrice. Nonostante ciò, Margherita Sanson Sarto insieme ai suoi figli "al mattino era in piedi alle cinque, faceva lunghe preghiere, assisteva alla santa Messa, si comunicava, recitava l'ufficio della Vergine, leggeva in ginocchio un capitolo del Nuovo Testamento". La vocazione sacerdotale del figlio venne dunque accolta dalla donna come una grazia che il Signore benignamente le aveva accordato in risposta alle sue preghiere. A Margherita fu anche concesso il tempo e la gioia di vedere il suo secondogenito servire la Chiesa come vescovo di Mantova e poi ancora nella veste di patriarca di Venezia. Un vecchio aneddoto - tramandato dagli antichi abitanti di Riese, il paese natale del futuro Papa, e che forse val la pena ricordare perché ci rende esplicita quella spiritualità semplice e concretamente vissuta di cui s'era nutrito Giuseppe Sarto - narra che quando suo figlio, appena nominato vescovo di Mantova, volle andare a visitare e ringraziare l'anziana madre inferma, Margherita, dopo averne baciato l'anello episcopale gli mostrò la sua fede nuziale esclamando "È molto bello il tuo anello, Giuseppe; ma tu non l'avresti se io non avessi questo". Il matrimonio tardivo, e provvidenziale, di Giovanni Sarto con la sua giovane sposa, vissuto con una fede incrollabile e quasi biblica, tra fatiche e privazioni, avrebbe infatti donato alla Chiesa un Pontefice e un santo. Ma questo Margherita Sanson non poteva saperlo.

"La madre di un Papa non ha mai saputo di esserlo" - osserverà, molti anni dopo, Paolo vi pensando alla mamma, la bresciana Giuditta Alghisi, con espressioni di grande tenerezza - "ma suo figlio lo sa. E soffre di non poterle dire la sua riconoscenza, di non poterlesi inginocchiare davanti, per ricevere una benedizione". Rispondendo alla curiosità di Guitton, Papa Montini ammetteva un impagabile debito di gratitudine nei confronti di sua madre. "Credo di dover molto di quel che sono a mia madre, al suo modo di pensare e di sentire". E, ancora, in un altro colloquio raccontava:  "A mia madre devo il senso del raccoglimento, della vita interiore, della meditazione che è preghiera, della preghiera che è meditazione. Tutta la sua vita è stata un dono". E continuava, ricordando i genitori, indispensabili l'uno all'altro, che morirono entrambi nel 1943, a pochi mesi di distanza:  "All'amore di mio padre e di mia madre, alla loro unione devo l'amore di Dio e l'amore degli uomini". Non stupisce allora che sia stato un Papa, e proprio Paolo vi, nella sua ultima enciclica - la tanto contestata Humanae vitae - a trovare le parole più belle e veritiere per parlare dell'amore tra un uomo e una donna, di quell'"amore totale" che unisce in maniera esclusiva marito e moglie e che è realmente "una forma tutta speciale di amicizia personale", un amore "pienamente umano", e quindi insieme "sensibile e spirituale".

Ed è, infine, ancora un dialogo di Paolo vi a offrirci una prima, essenziale, risposta agli interrogativi che hanno mosso queste:  "Noi - ci viene detto - viviamo tutti più o meno (lo ammetteva anche Renan) di quello che una donna ci ha insegnato nella dimensione del sublime. E i figli lo sentono più delle figlie, a causa della diversità delle nature. E i figli preti ancora più fortemente, perché sono votati alla solitudine". Ma, alla luce delle significative esperienze qui richiamate, anche nella più intima e insondabile maturazione d'una vocazione sacerdotale - e in ogni altra missione che chiunque, laico o religioso, è misteriosamente chiamato dalla Volontà divina a compiere, al servizio di Cristo e della sua Chiesa - possiamo cogliere l'eco delle parole di Gesù, raccolte da Giovanni, che risuonano nel nostro animo come un'imperitura e feconda promessa di fedeltà:  "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Giovanni, 15, 16).


(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio 2010)
S_Daniele
00venerdì 9 aprile 2010 14:26
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Il prete che io cerco


Esistenza sacerdotale è il titolo del volume (Hans Urs von Balthasar, Brescia, Queriniana, 2010, pagine 118, euro 10) che raccoglie una selezione di testi sulla spiritualità presbiterale del grande teologo svizzero morto nel 1988 poco prima di ricevere la porpora da Giovanni Paolo ii. Pubblichiamo ampi stralci del capitolo intitolato "Il prete che io cerco".
 

di Hans Urs von Balthasar


Chi è malato va dal medico, chi fa testamento si rivolge al notaio, allo specialista. C'è uno specialista della relazione di Dio con me? Nella sua libera donazione a un essere umano, Dio non è legato ad alcuna legge; in questo campo né il sociologo né lo psicologo hanno nulla a che fare, perché oggetto della loro scienza sono al massimo le relazioni religiose medie della "specie uomo" con un cosiddetto assoluto. Ma, anche in questo caso, questo essere unico che io sono, a cui il Dio unico si rivolge, non dovrebbe essere soggetto ad alcuna legge generale.

 Nessuna legge socio-psicologica regola il comportamento di Gesù o delle persone alle quali egli si rivolge, essendo queste vincolate alla sua libera e irripetibile chiamata. Coloro che sono chiamati commettono una scorrettezza se obbediscono alle leggi normali del comportamento umano - prendere congedo, seppellire il padre, eccetera; in tal caso essi "non sono degni di lui". Non posso pianificare insieme la Parola di Dio e la famosa "situazione concreta", così che da ambedue risulti un parallelogramma delle forze.
Gesù, la Parola di Dio per me, mi viene incontro nella Chiesa, la quale custodisce la sua Parola, sempre attualmente viva, nella predicazione e nel sacramento. Nella Chiesa, nella sua comunione, io devo ricevere la sicurezza che la Parola di Dio non mi raggiunge come un'eco da un lontano passato, bensì mi risuona vicina, palpabile e chiara così come la mia esistenza è concreta nel tempo e nello spazio. Ma in questo caso la Chiesa non si trasforma forse a sua volta in legge generale che, nella sua interpretazione dell'irripetibile volontà di Dio nei miei riguardi, si frappone tra me e Dio, forte di un'esperienza socio-psicologica di secoli forse a essa specifica?

Tuttavia, se la Chiesa come Ecclesia è la comunità dei chiamati, se a essa sono state consegnate la Parola di Dio e le chiavi del regno dei cieli, se a essa è stato donato da Dio e da Gesù Cristo lo Spirito Santo che, essendo Dio, è irripetibile al pari del Padre e del Figlio e può spiegarci alla fonte la volontà di Dio in Gesù Cristo:  se questa è la realtà, come potrei io fare a meno della Chiesa, nell'ipotesi che io voglia assoggettare la mia vita alla verità del Dio vivente? Ma quale Chiesa, chi nella Chiesa, può aiutarmi? Io pure sono un membro della Chiesa, ma né posso rivendicare per me lo Spirito Santo nella sua pienezza ecclesiale, né definirmi a testa alta un "buon cristiano" che vive vicino al cuore della Chiesa e comunica per osmosi con la sua più profonda comprensione. So invece benissimo, se sono onesto e sincero, quanto sono lontano dal soddisfare le richieste di Dio e quanto volentieri vorrei ridurre tali richieste al mio livello di medioborghese e di decaduto a causa del peccato, dando l'ultima parola alla sociologia religiosa, contro la mia stessa coscienza:  "Che farci, gli uomini sono così". "Tutto sommato, e considerato il mio carattere, non mi si può chiedere di più".

Ciò ci aiuta a capire quanto difficile e complicata sia la condizione di chi va in cerca d'aiuto. La richiesta che io avanzo può essere soddisfatta da un uomo? Egli dovrebbe farmi da tramite nei miei rapporti irripetibili con Dio, senza però dissolverli nelle generalità di questo mondo. Egli dovrebbe pertanto sapere, basandosi sul proprio irripetibile rapporto con Dio, che cosa sia tale irripetibilità, e simultaneamente essere provvisto del mandato e dell'autorità di saperlo, nello Spirito Santo, anche per gli altri, per poter dare loro le adeguate indicazioni. Mandato e autorità da Dio, uniti con l'esperienza nello Spirito:  ciò lo autorizzerebbe a richiedere da me - non per sé, ma per Dio e per me - ciò che io non ho il coraggio di chiedere a me stesso.

Questa è la prima qualità che dovrebbe possedere il prete che io cerco. Infatti il sacerdote dovrebbe essere colui che è delegato e dotato di autorità dall'alto, cioè da Cristo, per presentarmi la Parola incarnata di Dio, così che io sia sicuro di non ridurla ai miei scopi, di non averla anticipatamente svigorita con una mia interpretazione psicologica, esegetica e demitizzante, tanto da renderla impotente a generare in me ciò che le è proprio; così che io non possa sfuggire alle sue richieste, perché si presentano a me nella concretezza dell'autorità ecclesiastica, la quale nel ministero attualizza la concretezza dell'autorità divina. Non è però sufficiente che qualcuno mi metta impietosamente di fronte alle richieste della Parola, per poi lasciare che mi fermi:  forse sono già giunto da solo a pormi di fronte a quelle. Egli deve anche aiutarmi a perseverare, a non fuggire, stando costantemente accanto a me, con amore inesorabile. Tale uomo è simile, in certi momenti, all'angelo del monte degli Ulivi, che infonde forza quando si è soli con Dio. La forza con cui tale uomo fa questo deriva certamente dalla sua missione (che possiede in se stessa la forza e l'inesorabilità di Dio) ma allo stesso tempo dal suo stesso vigore che lo star con Dio in solitudine gli conferisce.

Se gli manca l'esperienza, non potrebbe proclamare credibilmente la Parola di Dio neppure dal pulpito; tutt'al più potrebbe essere una eco morta di quello che, della Parola di Dio, altri - per esempio Paolo - predicarono con la loro esistenza. Tanto meno sarebbe capace di accompagnare, e di sostenere, un credente nel confronto esistenziale con la Parola di Dio. "Se gli manca l'esperienza...":  subito si affaccia, ma deve essere immediatamente respinta, la parola "specialista". Nell'assoluto irripetibile non possono infatti esistere né "specializzazioni" né classificazioni. La stessa parola "scienza" va evitata, potendosi al massimo parlare di una certa "saggezza" che lo Spirito Santo concede a coloro che hanno familiarità con il suo "spirare dove egli vuole". Anche se sono state proposte "regole per il discernimento degli spiriti" e si è parlato di una "scienza dei santi", tali regole, se autentiche e utilizzabili, vengono però sempre date per esperienza personale e comprovate dall'esperienza personale nell'ambito della Chiesa; quella "scienza", poi, si identifica con uno dei sette doni dello Spirito Santo, per cui può essere concessa soltanto a coloro - e da quelli soltanto può essere capita - che con la preghiera e con la pratica della vita si sforzano di penetrare il centro dello Spirito.

A colui che nella Chiesa si assume la missione di predicare ufficialmente e di proporre a ciascuno in particolare la Parola di Dio, che è Cristo, non rimane altra alternativa che quella di tradurla in atto e di perseverarvi con coerenza, di dedicare totalmente a essa la propria esistenza. Egli deve identificarsi con la sua missione; questo fecero gli apostoli per comando di Gesù, allorché abbandonarono tutto per seguirlo:  non soltanto gli averi e la casa paterna, ma anche la moglie e i figli. Ovviamente, la rinuncia materiale per dedicare la vita alla Parola di Dio rimane soltanto il punto di partenza; essa diventa un criterio per giudicare il "prete che io cerco" soltanto se questo primo passo si trasforma in stile costante di vita. Da un punto di vista terreno, questo stile di vita è e rimane privo di senso, non trovando una collocazione in nessuna condizione sociologica; e ogni iniziativa che, partendo dal paganesimo o dal giudaismo, tentò di dargli un sostegno ecclesiologico suscitò sempre perplessità. Il prete deve continuamente prospettarsi l'eventualità di essere nuovamente escluso dall'organizzazione della società. Qui più che mai è valida l'affermazione di Agostino, secondo cui chi poggia la propria vita su Cristo non sta in piedi, ma sta appeso o "sta oltre se stesso". E unicamente Dio in Cristo può garantire che "chi per amore mio e del Vangelo abbandona tutto" non cadrà nel vuoto senza trovare un punto d'appoggio, ma sarà sorretto (appeso) per tutta la sua esistenza.

Umiltà e zelo crescono dalla medesima radice. Il prete umile non sarà tentato di propormi qualcosa che non sia la Parola di Dio diretta a me; quello zelante non sopporterà che io mi sottragga a essa. Egli mi tiene alle redini, per cui posso rimproverargli di essere importuno; per la verità, importuna e insistente è soltanto la Parola di Dio. Nel caso io trovi il prete che cerco, non posso rimproverargli d'accostarsi a me con una sicurezza che nessun uomo può pretendere, quasi che egli debba limitarsi a indicarmi vagamente in quale direzione il mio cammino verso Dio forse si muove, quasi sia obbligato a lasciare a me e alla mia coscienza di giudicare, accettare o respingere le sue indicazioni generiche. Premesso che egli abbia identificato la sua esistenza con la sua autorità, assorbendola in questa, la sua missione non gli consente nessuna falsa modestia; altrimenti rappresenterà soltanto parzialmente e confusamente l'autorità nella Chiesa. Se l'unione con Dio nella preghiera e l'umiltà della mediazione pervengono alla trasparenza e al dono totale, allora può anche avverarsi il miracolo che da Dio giunga - nello Spirito Santo che è nella Chiesa - un'autentica direttiva che, per quanto scomoda, io non posso fingere di non udire. Soltanto chi sa scomparire senza finzione può ricevere la grazia della sicurezza. Egli può permettersi di gioire con chi è felice, di piangere con gli afflitti; mai però gli è permesso, per solidarietà, di tentennare con chi esiti nell'incertezza.

Abbiamo parlato di miracolo. La riuscita di un prete è sempre un miracolo della grazia. Il miracolo atteso sarebbe semplicemente la santità:  quella di un uomo che in Dio ha perso talmente la coscienza di se stesso da stimare Dio come unica realtà importante. Egli non si preoccupa più della propria identità. Perciò è abituale e nutriente come una pagnotta da cui chiunque può strappare un boccone. Il modo in cui egli si distribuisce viene a identificarsi con quello adottato dalla Parola di Dio per distribuirsi in pane e vino. Egli conosce anche il modo di spezzare e d'interpretare la Parola di Dio. Contrariamente ai predicatori di oggi, egli non mi richiamerà dal deserto provvedendomi di un indigesto viatico di parole sull'apertura della Chiesa al mondo. Che cosa devo porgere agli affamati che mi circondano, se non pane? Ma dove lo prendo, se non mi viene porto? Come può la Chiesa uscire all'esterno se non ha più alcuna interiorità da porgere? Oppure si deve dire che essa scaccia da sé l'incertezza della propria identità perché non ha più alcuna esperienza di ciò che è il suo intimo? Non è essa stessa tale interiorità - la Chiesa non può riflettere se stessa - bensì Cristo, suo capo e anima, mediante il quale il Dio trino s'impossessa di essa.

Una volta c'erano i monaci, sia in Oriente che in Occidente, sull'Athos, a Clairvaux e al Ranft, a Kiev e Optina. I monaci erano anche chiamati "spirituali" (in greco, pneumatikói, coloro che possiedono lo Spirito); tale è tuttora la denominazione corrente dei sacerdoti nei Paesi di lingua tedesca. Per secoli, nell'ortodossia, i candidati ai gradi più elevati delle gerarchie sono stati forniti dai monaci. Sono spirituali quelle persone che hanno esperienza dello Spirito Santo e, grazie a essa, sono capaci di riconoscere e di accendere in noi, in me, lo Spirito nascosto, incognito, imprigionato. Quanto raro è diventato questo tipo di uomo. Dobbiamo forse accontentarci di un surrogato dello Spirito? Tale surrogato ci è fornito soprattutto dalla psicologia - il che non significa che un buono e umile psicologo non possa essere permeabile allo Spirito Santo; ma il suo oggetto è rappresentato dalle leggi generali della psiche umana. Lo Spirito, invece, è sempre irripetibile. L'uomo spirituale deve permettere allo Spirito Santo irripetibile d'intervenire su di lui in modo da riuscire a soddisfare il bisogno di quest'uomo irripetibile che gli sta di fronte:  non facendo intervenire forze mediatrici, ma nell'apertura alla grazia del Dio vivente, il quale liberamente rivolge a me la sua Parola amorosa, dolce ed esigente - mediante il prete che io cerco.


(©L'Osservatore Romano - 9 aprile 2010)
S_Daniele
00lunedì 12 aprile 2010 18:59
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Santa Caterina da Siena e il tesoro della Chiesa


di Diega Giunta

"El tesoro della Chiesa è el sangue di Cristo, dato in prezzo per l'anima (...) e voi ne sete ministro". L'affermazione, icastica sintesi del pensiero di Caterina da Siena sul mistero e sul ministero sacerdotale, costituisce l'essenza della prima lettera che Gregorio xi riceve dalla senese poco dopo il suo arrivo a Roma (17 gennaio 1377). La sede di Pietro, dopo la lunga permanenza in Avignone, è ritornata a Roma, al "luogo suo", e il Pontefice si trova a reggere la Chiesa in tempi difficili e problematici. Urge una coraggiosa riforma dei costumi, da viversi in primis dal clero perché essa possa dare frutti duraturi nel corpo universale della Chiesa. Scosso dalla rivolta, alimentata dalla lega antipapale, capeggiata da Firenze e favorita dalle mire politiche di Bernabò Visconti, lo Stato della Chiesa perde possedimenti e città. La ribellione di Cesena (1 febbraio 1377) sedata in un bagno di sangue, è cronaca tristemente nota anche alla santa senese.

Questo lo scenario pregresso e attuale sotteso alla Lettera 209, nella quale Caterina esorta Gregorio xi, da parte di Dio, ad adoperarsi per la pace e non per la guerra:  "Pace, pace, per l'amore di Cristo crocifisso!", implora la santa. Se il ricorso alle armi potrà sembrare un atto dovuto per "racquistare e conservare el tesoro e la signoria de le città", perdute dalla Chiesa, il successore di Pietro, però, non ha altro bene più prezioso da riconquistare se non quello di "tante pecorelle che sono uno tesoro nella Chiesa. (...) Meglio ci è dunque lassare el loto delle cose temporali che l'oro delle spirituali". Egli otterrà tutti e due i beni - l'onore di Dio, la salvezza delle anime e le sostanze temporali - "più col bastone de la benignità, dell'amore e pace, che col bastone della guerra", e a tal fine la senese lo richiama all'essenza del suo ministero sacerdotale.

 Il sangue di Cristo, che ci lava dai peccati e dal quale traggono virtù ed efficacia i sacramenti, è affidato alla Chiesa:  è il suo tesoro ed essa ne è depositaria, custode, amministratrice. Mansioni sacre e sante che Caterina esemplifica nelle immagini della "bottiga" e del "cellaio". Il Verbo incarnato e crocifisso ha fatto di sé un ponte, inarcato tra terra e cielo a colmare l'abisso che separava l'uomo da Dio per il peccato di Adamo. Costruito con pietre vive - le virtù - e murato col sangue e con la calcina della carità dell'Unigenito Figlio, il "tutto Dio e tutto uomo", il ponte è ricoperto dalla misericordia - l'Incarnazione - che ripara i viandanti dalla pioggia della giustizia divina; è inoltre munito di scala, i cui gradini - piedi, costato squarciato e bocca del Crocifisso - agevolano la salita della creatura che ha in sé ragione verso il suo Creatore e Redentore. E sul ponte-Cristo è posta "la bottiga del giardino della santa Chiesa".

La chiave della "bottiga", del "cellaio della santa Chiesa", dove è custodito il sangue, è stata data a Pietro e a quelli che gli succederanno sino "a l'ultimo dì del giudicio". Del sacro deposito "Cristo in terra" è cellario, portinaio, guardiano, e soprattutto "ministratore", poiché il "sangue de l'umile immacolato Agnello" può riceversi soltanto dalle sue mani e da quelle di coloro che egli ha unto come ministri, perché lo aiutino "per tutto l'universale corpo della religione cristiana". Dal Vicario di Cristo, dunque, s'origina "tutto l'ordine chiericato", e come ai ministri egli affida l'ufficio di "ministrare questo glorioso sangue (...), così a lui tocca il correggerli de' difetti loro" e non ad altra persona o potere:  "Questi sono i miei unti, e però dissi per la Scrittura:  "Non vogliate toccare i cristi miei" (Salmo, 104, 15)".

Quanto Caterina da Siena insegna sulla dignità del ministero sacerdotale trova ampia formulazione nella parte de Il dialogo della divina Provvidenza titolata "Il corpo mistico della Santa Chiesa". L'imperativo "voglio" caratterizza l'adesione di Caterina; che, com'è suo costume, addebita a sé i tanti mali che affliggono il mondo e la Chiesa:  "O anima mia, oimè, tutto il tempo della vita tua Ai perduto, e però sono venuti tanti mali e danni nel mondo e nella santa Chiesa (...); e però io voglio che tu ora remedisca col sudore del sangue".

Luci e ombre, virtù e peccati dei ministri sono mostrati dall'Eterno Padre a Caterina:  il servizio virtuoso del tesoro dei sangue, posto da Dio, per gratuita sua grazia, nelle mani dei prescelti, fa risaltare, per contrasto, la miseria di chi indegnamente lo amministra. Caterina è invitata a prendere coscienza dell'eccellenza e dignità del ministero sacerdotale, che Dio non ha riservato alla natura angelica, ma alla creatura che ha in sé ragione. Questa, infatti, creata per amore a immagine e similitudine di Dio e ricreata a grazia dal sangue del Figlio suo unigenito, ha "maggiore eccellenza e dignità che l'angelo".

In virtù del sangue del Verbo, l'originaria nobiltà e grandezza della creatura è sublimata dal sacramento del battesimo, che per l'efficacia della sua grazia e per il dono della fede restaura e perfeziona in lei la potenzialità che le è propria, l'attitudine ad amare. La contemplazione di tale grande dignità, ricomprata "con tanta pena sul legno della santissima croce", strappa talvolta alla santa apostrofi forti:  "O ingrato uomo, che natura t'ha data lo Dio tuo? La sua. E tu non ti vergogni di tollere da te tanto nobile cosa con la colpa del peccato mortale?".

Tuttavia la vulnerabilità e la debolezza della creatura, retaggio della colpa originale, non fanno desistere l'Amore per essenza:  come ha voluto l'incarnazione del Verbo per redimere l'opera delle sue mani, ribellatasi al suo progetto d'amore, così, per sostenerla e guidarla nel cammino verso di Lui, continua a scegliere i ministri tra la progenie di Adamo. Se il battesimo ridona alla creatura "la somiglianza divina perduta a causa del peccato", il sacramento dell'eucaristia, elargendole sotto la "bianchezza del pane" il corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo, la unisce in modo mirabile al suo Dio. Gli effetti spirituali sono, dunque, identici sia nel fedele sia nel sacerdote, poiché l'uno e l'altro si nutrono dello stesso pane e bevono allo stesso calice, ma è esclusivo del sacerdote il dono-potere di rendere realmente presente il Corpo e il Sangue di Cristo nel pane e nel vino. Per accostarsi a sì grande mistero si richiede a tutti purità e carità, "ma molto maggiormente Io richieggio - rileva l'Eterno Padre - purità ne' miei ministri e amore verso di me e del prossimo loro, ministrando il corpo e sangue de l'unigenito mio Figliuolo con fuoco di carità e fame della salute de l'anime, per gloria e loda del mio nome".

La speciale loro dignità richiede ai sacerdoti un adeguato stile di vita:  scelti per amministrare i sacramenti, messi "come fiori odoriferi nel corpo mistico della Chiesa" e "posti come angeli, debbono essere come angeli in questa vita". Se per celebrare il sacrificio eucaristico essi esigono "la nettezza del calice", Colui che li ha elevati a tanto onore chiede loro nettezza e purezza di cuore, anima, mente, corpo. Ne consegue che devono bandire la superbia dal loro cuore, che non devono cercare "le grandi prelazioni"; che siano generosi e non avari; non vendano per cupidigia la grazia spirituale, posta da Dio nelle loro mani per la salvezza delle anime. Anche se le sostanze temporali non reggono il confronto con l'intrinseco valore dei beni spirituali elargiti dai ministri sacri, questi possono e debbono ricevere dai fedeli elemosine e beni temporali per il loro sostentamento, per sovvenire i poveri e per le diverse necessità della Chiesa.

A conforto e sostegno dei "suoi cristi", che vuole strenuamente impegnati nella sequela del Figlio Unigenito, l'Eterno Padre ricorda il vissuto esemplare di alcuni suoi "dolci e gloriosi ministri". Questi, pur nella diversità di ruoli e di carismi, con vera e perfetta umiltà e come lucerna posta sul candelabro, hanno illuminato la Chiesa e dilatato la fede:  Pietro, "a cui furono date le chiavi del regno del cielo da la mia Verità", con la predicazione, la dottrina e il martirio; "Gregorio con la scienzia e santa scrittura e con specchio di vita; Salvestro contro a gl'infedeli e massimamente con la disputazione e provazione che fece della santissima fede in parole e in fatti"; Agostino, Girolamo e il glorioso Tommaso, estirpando gli errori "col lume della scienzia"; i martiri con l'effusione del sangue; i prelati scelti da "Cristo in terra" con santa e vita onesta, con vera umiltà e ardentissima carità, con la "margarita della giustizia", per la quale, avendo corretto se stessi, hanno potuto correggere e riportare sulla retta via i loro fedeli. "Come pastori buoni, seguitatori del buono Pastore mia Verità, il quale Io vi diei a governare voi pecorelle, e volsi che ponesse la vita per voi", tutti costoro hanno anteposto a loro stessi e ai personali interessi, l'onore di Dio e la salvezza delle anime, che, divenuti loro cibo, come affamati l'hanno mangiato "con diletto in su la mensa della santissima croce". Così, "come angeli terrestri e più che angeli" si sono accostati alla mensa dell'altare, celebrando "con purità di cuore e di corpo e con sincerità di mente, arsi nella fornace della carità". Hanno adempiuto anche l'ufficio proprio degli angeli:  sul loro gregge hanno vigilato come custodi e guardiani, suggerendo buone e sante ispirazioni, elevando a Dio desideri e preghiere, offrendo la dottrina della parola e l'esempio della vita. Un governare umile e amabile il loro, fondato su fede solida, carità immensa, speranza viva in Dio provvidente, e ciò li ha liberati dalla preoccupazione di accantonare per loro beni materiali, anzi hanno dato con tale larghezza ai poveri che alla loro morte hanno lasciato in debito la Chiesa.

L'esemplarità eroica di così buoni e santi ministri strappa al cuore del Padre l'affettuosa esclamazione "O diletti miei!", appassionato preludio all'elogio che riepiloga e conclude quanto l'Eterno Padre ha fatto conoscere di loro a Caterina:  "O diletti miei! Essi si facevano sudditi essendo prelati; essi si facevano servi essendo signori; e si facevano infermi essendo sani e privati della infermità e lebbra del peccato mortale. Essendo forti si facevano debili; co' matti e semplici si mostravano semplici, e co' piccoli, piccoli. E così con ogni maniera di gente per umilità e carità sapevano essere, e a ciascuno davano il cibo suo".

L'antitesi della "scellerata vita" di certi prelati, chierici e religiosi - posti a essere "angeli terrestri" e fattisi invece "templi del diavolo" - ha il suo triste sommario all'inizio di quei dieci capitoli de Il dialogo della divina Provvidenza, nei quali l'Eterno Padre squaderna a Caterina la cruda e nuda miseria della loro vita, perché lei e gli altri servi suoi offrano per loro "umili e continue orazioni". "Miseri tapinelli", "quanto è terribile e oscura la morte loro!". È l'amara compassione del Padre che non può abbracciare nemmeno nell'ultimo approdo il tanto atteso figliol prodigo. In quest'ora estrema, assediati dal demonio, con intollerabile confusione e con orribile chiarezza vedono la gravità del loro stato, ma non sanno affidarsi alla misericordia divina. Ben diversa l'ultima battaglia del giusto:  per chi ha vissuto, lottando e vincendo il mondo, il demonio, la carne, il trapasso avviene nella pace. E il Signore suo Dio, dando al pastore fedele la corona di giustizia adorna "delle margarite delle virtù", lo saluta "angelo terrestre" e così lo elogia:  "O angelo terrestro! beato te che non se' stato ingrato dei benefizi ricevuti da me e non ài commessa negligenzia né ignoranzia; ma sollicito, con vero lume, tenesti l'occhio tuo aperto sopra i sudditi tuoi, e come fedele e virile pastore ài seguitata la dottrina del vero e buono Pastore, Cristo dolce Iesu unigenito mio Figliuolo".


(©L'Osservatore Romano - 12-13 aprile 2010)
S_Daniele
00martedì 18 maggio 2010 19:25
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

San Vincenzo Pallotti e la formazione dei presbiteri


di Jan Kupka
Direttore dell'Istituto San Vincenzo Pallotti di Roma


L'intensità del servizio pastorale al popolo di Dio dipende dalla formazione dei sacerdoti. A volte si sente dire che i preti di oggi non rispondono alle sfide del tempo, non sono aggiornati sugli attuali problemi del mondo, non esercitano i loro uffici pastorali in modo professionale. Le cause possono risiedere in una carente e non aggiornata formazione sacerdotale. La celebrazione dell'Anno sacerdotale 2009-2010 offre l'occasione per ribadire la necessità della formazione sacerdotale e cercare i modelli adeguati per renderla spiritualmente ricca ed efficace. Ciò che ha sottolineato Benedetto XVI nell'omelia per l'apertura dell'Anno sacerdotale:  "Per essere ministri al servizio del Vangelo - ha detto il Papa - è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione teologica e pastorale, ma è ancor più necessaria quella "scienza dell'amore" che si apprende solo nel "cuore a cuore" con Cristo".
A tal riguardo, è fonte di ispirazione la figura e il pensiero di san Vincenzo Pallotti (1795-1850), ordinato sacerdote nella basilica di San Giovanni in Laterano il 16 maggio 1818. Apparteneva al clero di Roma. Era quindi un prete romano che nella prima metà dell'Ottocento si è distinto tra i sacerdoti per la sua formazione intellettuale e spirituale. Era un modello di sacerdote buon pastore che guidava e difendeva i credenti nel tempo dell'indebolimento della fede. Ma, soprattutto, si è iscritto nella storia della Chiesa con le sue iniziative per promuovere la formazione spirituale e pastorale dei sacerdoti romani.
Vincenzo Pallotti aveva un'ampia conoscenza della vita sacerdotale. Egli era convinto che il fondamento della santità dei sacerdoti e del loro impegno pastorale fosse la buona formazione. Perciò fin dall'inizio della sua attività sacerdotale si notò la sua grande premura per il continuo rinnovamento della vita del clero. Ciò è confermato dal suo testo degli anni 1823-1829 (il periodo del pontificato di Leone XII), intitolato:  "Vari punti di riforma pel Clero" (cfr. Opere complete v, pp. 544-557). In questo testo, che contiene le proposte per il rinnovamento della vita sacerdotale, il Pallotti sollecita a promuovere tutto ciò che contribuisce alla formazione dei perfetti servi di Cristo. I sacerdoti, i confessori devono essere ben preparati e condurre una vita santa. I predicatori devono distinguersi per la loro dottrina e integrità morale. Dalla santità, scienza e vigilanza dei pastori dipende in gran parte la pace della cristianità e la salvezza eterna delle anime. Inoltre, il Pallotti ebbe dal 1827 la direzione spirituale del Seminario Romano, poi quella del Collegio Inglese e Irlandese e, dal 1833, quella del Collegio Urbano di Propaganda Fide.
L'esercizio dell'incarico di direttore spirituale accresceva la sua convinzione della necessità di una profonda formazione sacerdotale, soprattutto di quella missionaria. Quale dovesse essere il tenore della formazione spirituale lo dice questo appunto:  "Per disporre gli alunni ad essere veri missionari tra gli infedeli è necessario formarli nella pratica indicata da Gesù Cristo:  "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Matteo, 16, 24)" (Opere complete XI, p. 449). Negli scritti di Vincenzo Pallotti ricorre continuamente il pensiero che l'ecclesiastico deve impegnarsi personalmente a crescere lungo tutto il cammino della sua vita. Il Pallotti era convinto che esiste un legame intrinseco tra la crescita spirituale, lo studio e l'impegno apostolico. Riguardo a ciò merita attenzione il suo testo sull'obbligo di tutti i sacerdoti "di crescere nella santità e d'istruirsi" (cfr. ibidem ii, pp. 81-86). E il Pallotti enumerava i campi in cui ci si deve istruire e cercare di impegnarsi continuamente:  la Sacra Scrittura, la storia ecclesiastica, la teologia dogmatica e fondamentale, la teologia dei sacramenti, la liturgia e la teologia morale. Di conseguenza, lo scopo fondamentale di questa continua istruzione è espressa dal Pallotti in questi termini:  "Per non tornare indietro e per vivere sempre nella più perfetta imitazione della vita del nostro Signore Gesù Cristo; onde efficacemente cooperare alle opere della sua maggiore gloria, e della maggiore santificazione delle anime" (ibidem vii, pp. 63-64).
Vincenzo Pallotti iniziò nel 1839 a celebrare nella chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani, a via Giulia, nel mese di maggio, con i sacerdoti romani, sia diocesani che religiosi. All'origine c'erano la sua devozione mariana e l'intento di arrivare più profondamente all'animo di tutti i fedeli. A tal riguardo si deve ricordare che nel 1833 il Pallotti compose il testo del mese mariano in tre versioni (per i consacrati, i fedeli e gli ecclesiastici). I sacerdoti romani risposero con un'attiva partecipazione all'invito del Pallotti di celebrare insieme il mese mariano nella chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani. I presbiteri espressero il desiderio di radunarsi nello stesso luogo periodicamente nel corso dell'anno. Così nacque l'idea delle conferenze settimanali per i sacerdoti, che ebbero luogo nella chiesa fin dal 1839.
La prima conferenza settimanale per i sacerdoti ebbe luogo il 6 giugno 1839, primo giovedì del mese. Da quel giorno il clero romano cominciò a radunarsi ogni giovedì pomeriggio nella chiesa dello Spirito Santo in via Giulia. Vi parteciparono presbiteri diocesani e regolari, monsignori, teologi, consultori dei dicasteri pontifici e anche alcuni vescovi. Le conferenze, grazie a Vincenzo Pallotti, erano indirizzate a rinnovare la vita spirituale e all'aggiornamento pastorale. Nell'intraprendere quest'iniziativa, il Pallotti si ispirò all'idea di san Vincenzo de' Paoli di promuovere adunanze periodiche di ecclesiastici per la loro preparazione pastorale. In questi raduni si proponeva un caso di morale o di liturgia, lo si analizzava e si davano le soluzioni.
Vincenzo Pallotti era profondamente convinto che ogni sacerdote doveva sentirsi responsabile della propria formazione ed essere aperto ad accogliere i suggerimenti degli altri. Il presbitero per crescere ha bisogno di formarsi. Inoltre, il progresso delle scienze e i cambiamenti nel mondo esigono un aggiornamento continuo del nostro sapere per poter operare in modo efficace. È una necessità di vita. Ma ciò che sorprende nel pensiero del Pallotti è la sua motivazione spirituale:  dobbiamo istruirci per imitare Gesù Cristo. Ciò costituisce un fondamento cristologico solido della formazione sacerdotale.
Il secondo punto emerge dal significato più profondo delle conferenze settimanali per i sacerdoti. Il Pallotti le ha istituite e promosse non da solo, ma in collaborazione con gli altri sacerdoti, coinvolgendo tutti i partecipanti. A questo si unisce un altro fattore molto significativo per le conferenze settimanali:  esse non si limitarono solo alla formazione, ma furono anche un forum di azione. Il 13 gennaio 1847 Pio ix visitò la chiesa di Sant'Andrea della Valle per la conclusione dell'Ottavario dell'Epifania organizzato dal Pallotti. In quell'occasione il Papa fece una fervente predica, invitando tutti al rinnovamento della vita cristiana. Il Pallotti si sentì personalmente interpellato e il giorno seguente scrisse quanto segue:  "Nel dì 14 gennaio 1847 i sacerdoti delle Conferenze ecclesiastiche settimanali, che si promuovono dalla Congregazione dei Sacerdoti della detta pia Società nel S. Ritiro del SS. Salvatore in Onda, considerando che siamo tutti obbligati ad eseguire efficacemente, e stabilmente la detta missione a tal fine ha giudicato necessaria e opportuna la istituzione di una pia Unione (...) per promuovere la maggiore glorificazione dei Nomi di Dio, di Gesù Cristo, di Maria Santissima, degli Angeli e dei Santi, e per estirpare l'orrendo vizio della bestemmia, per conservare la purità dell'anima e del corpo e per distruggere il vizio della disonestà e di ogni impurità (cfr. Opere complete III, pp. 392-393)".



(©L'Osservatore Romano - 19 maggio 2010)
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 01:55.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com