Renovatio Imperii

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frederick the great
00venerdì 10 settembre 2010 10:39
Campagna Bellum Crucis 5.1 con superpack full difficoltà m/m


Prima di cominciare la narrazione di questa campagna vorrei fare alcune precisazioni:

- il titolo che ho scelto è rivelatore di quale sia il mio obbiettivo finale e spiega come mai ho scelto Bisanzio e non, che so, il Portogallo che poteva dare maggiori sfide (apparentemente, v'assicuro!)
- per questioni di narrazione ho volontariamente scelto di anticipare alcuni fatti storici (non esisteva un impero bulgaro al 1155) o di crearne altri: quest'ultimo è una rivolta nel peloponneso occidentale attorno alla città di Patras (che mi sono creato, anche se non esattamente nella posizione giusta [SM=g27971] ), il cui scopo è quello di accrescere l'aura di precarietà del potere bizantino alla start date
- per mera praticità ho mantenuto il sistema di datazione del gioco senza convertirlo in quello bizantino
- preciso che questa è la mia prima campagna full e ugualmente è la prima in cui so difficoltà media tanto per le battaglie quanto per la gestione

Detto questo...andiamo a incominciare!



Quando, nell’anno 527 d.C. al trono di Bisanzio ascese Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano, l’impero era potente, ricco e temuto. Alla sua morte, nel 565, Giustiniano lasciò al suo successore qualcosa di eccezionale, il frutto di quasi quarant’anni di campagne militari e mosse diplomatiche, qualcosa che è passato alla Storia come renovatio imperii . Konstantinoupolis era la città più potente del mondo, scrigno di favolose ricchezze che ogni regnante della terra invidiava e bramava. Era la città degli imperatori, il simbolo vivente che la gloria di Roma ancora brillava nel mondo.
Da quel momento sono passati seicento anni e quasi nulla è rimasto. Konstantinoupolis è ancora la città degli imperatori, ma l’attuale basileus , Manuele I Comneno, ogni tanto sarebbe disposto a scambiare il proprio ruolo con quello dell’ultimo dei nobili della lontana Caledonia. Perché troppe cose sono successe, perché quell’impero è solamente la pallida ombra di ciò che è stato e la sua forza è solo apparente. Questa crisi, che pare quasi irreversibile, è esemplificata in maniera terribile da tre date:

571 d.C., Italia. La calata dei Longobardi disintegra l’unità dell’appena riconquistata Italia, relegando il potere di Bisanzio a poche aree, destinate a erodersi fino alla sparizione dei secoli seguenti.
636 d.C., Siria. Presso il fiume Yarmuk l’esercito bizantino è sconfitto dagli Arabi. La disfatta comporta la perdita di tutto l’Oriente, dell’Egitto e dell’Africa.
1071 d.C., Anatolia. Il basileus Romano Diogene, alla testa di un’imponente armata assemblata per chiudere i giochi coi Turchi, subisce un’umiliante disfatta presso Manzikert e viene catturato. Nel giro di sette anni tutti i possedimenti asiatici vengono perduti (tranne Trapezounta) e solo l’arrivo della I Crociata permette ai Bizantini di recuperare qualcosa.

E oggi, anno 1155, nonostante quanto può essere visto da un sovrano straniero, l’impero è ancora allo sbando. La situazione economica è al livello di mera sussistenza: le tecniche agricole sono immobili da quasi cent’anni, le strutture portuali del tutto insufficienti e gestite da uomini corrotti, le compagnie mercantili praticamente inesistenti. La nobiltà è una classe infida, divisa in famiglie moderatamente leali alla casata Comnena, attualmente al potere, per il solo motivo di una eccessiva debolezza, e famiglie di antico lignaggio apertamente ostili e pronte a tutto pur di vedere gli odiati rivali nella polvere e loro sul trono. L’esercito, poi, è indegno perfino di una piccola repubblica cittadina: esiguo, male armato e peggio addestrato, è composto quasi esclusivamente da unità miliziane di coscritti a forza, che passano metà del tempo a lamentarsi e l’altra metà a cercare un modo per tornare alle proprie case.
L’unica parte decente delle forze armate bizantine è composta dagli squadroni di skythikon , cavalieri di origine bulgara e cumana che combattono alla maniera orientale, facendo della velocità e delle raffiche di frecce i propri punti di forza. Essi, tuttavia, sono mercenari e come tali non disposti a morire per un ideale, fidati solo fino a quando vedono la paga.
Oltre i confini l’Impero Bulgaro ha rialzato la testa e controlla un vasto territorio che va dalla città portuale di Constanta fino ai confini del Principato di Rascia. Quest’ultima, guidata dall’energico Stephan Nemanja, è in piena rivolta contro Bisanzio, mentre a occidente l’Epiro è ormai un despotato totalmente separato dal potere imperiale. Le terre asiatiche confinano costantemente coi domini dei Turchi Segiuchidi, che da Manzikert rappresentano la nemesi stessa di Bisanzio: il possesso di Sinope non solo dà al sultanato uno sbocco sul mar Nero, ma altresì rende la Chaldia, la regione di Trapezounta, distaccata dall’Impero e dipendente in modo assoluto dalle comunicazioni marittime. Dulcis in fundo, una rivolta popolare sta scuotendo la parte nord-occidentale del Peloponneso e i loro capi hanno appena proclamato la nascita del principato indipendente di Achaia con capitale Patras.



Per far fronte a questa complicatissima situazione, e senza tener conto del giovane regno d’Ungheria e della Serenissima Repubblica Veneta, Manuele può contare su pochissimi aiuti. La potente famiglia Branas è abbastanza fidata in quanto il suo capostipite, Michele, è il principe ereditario e l’onore ricevuto appaga per ora la sua ambizione; inoltre il principale prelato dell’Impero, il vescovo di Smyrna, è anch’egli un Branas. Ma le altre grandi famiglie bizantine sono tutte molto più interessate al proprio tornaconto che al bene comune: Michele Paleologo domina Nikaia con pugno di ferro; la vicina Paphlagonia è controllata da Pietro Bringas, apertamente ostile ai Comneni. Soprattutto, la grande città di Thessalonike, porta della Grecia e centro economico primario, è il personale regno di Isacco Diogene, discendente del basileus catturato a Manzikert e quanto mai desideroso di cancellare quella macchia dalla propria storia familiare: quale miglior modo che offuscarne il ricordo tramite le proprie grandi gesta come basileus ?



Gli altri governatori appartengono a famiglie che si stanno appena affacciando alla vita politica imperiale e, perciò, mantengono per ora un basso profilo; tuttavia Manuele si rende ben conto che la loro fedeltà è inversamente proporzionale al loro potere e che, dunque, non può appoggiarsi a loro.
frederick the great
00venerdì 10 settembre 2010 11:14


Manuele è poco propenso a ritenere che esista la reale possibilità per Bisanzio di tornare ai fasti del passato; tuttavia non intende essere ricordato come colui che lasciò andare tutto in malora per pura pigrizia. E la prima materia su cui intervenire è senza dubbio quella economica: se le finanze non si risollevano ogni altro progetto rimarrà unicamente in fase di idea.
La prima mossa è impopolare ma necessaria e comporta un inasprimento della tassazione fiscale; conscio dei rischi che quest’atto comporta, Manuele lo fa seguire da una serie di spese volte a modernizzare le tecniche agricole e a incrementare la produzione, migliorare le strutture commerciali nelle città e dotare ogni piazza di mercati più vasti e porti commerciali più capienti. In breve città come Thessalonike, Adrianoupolis, Athenai e Nikaia vedono il proprio volume d’affari crescere sensibilmente e il tesoro imperiale recupera parzialmente gli investimenti fatti.
Ma senza dubbio il massimo impegno Manuele lo mette nella costruzione di una serie di relazioni volte a favorire il commercio e nello sviluppo di una rete di compagnie mercantili che li sfruttino a dovere. Sultanato Turco (1155), Regno d’Ungheria (1159), Royuame d’Outremer (1164), Regnum Normannorum (1165), Patrimonium Sancti Petri (1166): sono i soggetti politici con cui Manuele tratta proficuamente. I primi colpi mercantili, tuttavia, vengono messi a segno contro uno stato apertamente ostile come l’Impero Bulgaro: nel 1156 la compagnia mercantile guidata da Demetrio Calafate riesce ad ottenere il monopolio dei traffici argentiferi delle miniere di Sredetz. È un colpo piuttosto duro per i bulgari, che sono costretti ad assistere all’arricchimento di Bisanzio a loro spese.
Il successo incoraggia Manuele, che scorge un po’ ovunque segnali di ripresa, e nuove compagnie vengono create: nel 1163 i commerci auriferi dell’Erdely entrano nella sfera d’influenza di Bisanzio. Nel medesimo periodo, però, il tentativo di assicurarsi l’argento della Zakarpatia finisce in una sonora sconfitta contro concorrenti polacchi. Tuttavia questo non ferma la marcia dei mercanti bizantini: l’anno dopo Michele Studita riesce a sottrarre ai Turchi i commerci di zolfo della Kapadokya, segnando la prima vittoria imperiale contro i selgiuchidi da tempo immemorabile. Non pago dei trionfi esterni, Manuele si lancia anche in una valorizzazione delle risorse interne, cominciando dallo zucchero cretese e dalla pregiata carta di Athenai.
Il successo rischia però di sottrarre al controllo imperiale le varie compagnie e Manuele, che assolutamente non vuole concedere ai governatori provinciali la loro gestione, decide nel 1165 di fondare a Konstantinoupolis una gilda centralizzata: in meno di trent’anni il volume dei traffici mercantili della Basileia imporrà necessariamente l’ampliamento della sede della gilda fino a renderla proprietaria di uno dei più imponenti palazzi della Capitale.



Impossibilitato, come abbiamo visto, ad affidarsi a membri dell’aristocrazia, Manuele decide di affidare il compito di riformare le armate imperiali a nuovi volti della nobiltà, legandoli a sé tramite l’adozione nella famiglia Comnena. I due prescelti sono Marciano Argiro e Romano di Efeso, provenienti dalle terre asiatiche.



Il secondo è una mente pianificatrice, uomo ideale per tentare la difficile impresa; il primo, invece, è cresciuto lungo la frontiera turca, dove ha appreso il mestiere delle armi e la debolezza di Bisanzio, avendo dunque una precisa cognizione di quale sia la forza della Basileia e della sua immagine. Marciano è un uomo d’azione, non intende affatto occuparsi diffusamente di una riforma su carta; sa bene che la Basileia ha bisogno di tempo per portarla a termine e che i sovrani stranieri, che ancora temono il nome di Bisanzio, cominciano però a scorgere le crepe della sua immagine, in particolare il re magiaro e il doge. La rinascita dei Bulgari, le rivolte in Rascia e Peloponneso, la scissione dell’Epiro sono tutti segni che urlano al mondo la crisi della Basileia. Come, dunque, impedire che il mondo comprenda e approfitti?
Il primo atto di Marciano è quello di ordinare un’adunata generale di tutte le milizie ad Adrianoupolis, lasciando ai confini lo stretto indispensabile; la Chaldia addirittura viene svuotata completamente. Nella città macedone il governatore, Michele Gabras, assiste con preoccupazione crescente all’arrivo di quell’orda disordinata di uomini lavativi e pericolosi. Ma Marciano non li ha convocati per creare ulteriori problemi: rapidamente rimpasta i reparti e li suddivide in due armate. La prima consta di sette battaglioni di fanteria e quattro squadroni di skythikon per 6.010 uomini totali; il secondo di quattro battaglioni di fanteria, due squadroni di skythikon e un contingente di arcieri per 4.000 uomini.
La seconda forza viene affidata a Romano di Efeso con il compito di chiudere quanto prima i conti con i ribelli peloponnesiaci; Marciano dal canto suo muove invece verso settentrione, direttamente contro il cuore militare dell’Impero Bulgaro: la grande rocca militare di Sredetz.
Questa fortezza è affidata ad uno dei più potenti nobili bulgari, Andrea di Sredetz, al cui comando lo zar Michele ha posto un esercito forte di oltre 8.000 uomini. Soldati bulgari, coriacei mercenari slavi e fieri miliziani lo compongono, tutti egualmente decisi a distruggere gli arroganti bizantini.
E Marciano pare fare in tutto il gioco del nemico: già in netta inferiorità numerica, destina tre battaglioni di fanti, più di 2.200 uomini, a compiti di razzia e foraggiamento, dando ai bulgari un’occasione impossibile da mancare. Così, nel freddo autunno del 1159, Andrea di Sredetz guida la propria armata contro Marciano, certo del trionfo.



I soldati bizantini sono preoccupati e col morale basso, consci della precarietà della loro situazione. Mentre l’esercito bulgaro si dispone con calma nella piana, i fanti occhieggiano al proprio comandante quasi con paura, chiedendosi come mai non fa qualcosa per impedire il disastro imminente. Ma Marciano è sereno, il suo volto è illuminato da un sorriso. E quando, finalmente, Andrea di Sredetz inizia ad avanzare, dà i propri ordini. La fanteria arretra in maniera precipitosa, quasi fuggendo davanti al nemico; contemporaneamente gli skythikon , divisi in due corpi, si aprono sulle ali e attaccano i fianchi dello schieramento bulgaro.



Andrea di Sredetz rimane momentaneamente incerto sul da farsi, quindi opta per separare in due tronconi le proprie forze e attaccare gli skythikon . E così facendo consegna la giornata a Marciano.
La velocità degli skythikon impedisce ai bulgari di arrivare a contatto e permette ai mercenari di adottare la loro tecnica preferita, tempeste di frecce prima di letali attacchi mordi e fuggi;



la fanteria bulgara si sfianca nell’inutile inseguimento e, soprattutto, si espone alle micidiali cariche della cavalleria pesante di Marciano.




Nel giro di un’ora tutto è finito, Andrea di Sredetz rimane sul campo con l’intera armata, i pochi superstiti vengono tallonati spietatamente fino in Sredetz. La fanteria bizantina non ha praticamente perso effettivi, le perdite totali assommano a soli 290 uomini.
Il trionfo spinge la nobiltà a insistere presso il basileus affinché si operi rapidamente contro i rivoltosi in Achaia, forse sperando che la vittoria di Marciano, che in molti guardano come a un puro colpo di fortuna, renda imprudente Manuele e lo conduca a un disastro tanto militare quanto politico. Ma Romano di Efeso ottiene per l’occasione l’appoggio del principe Michele, duca di Athenai, sconvolgendo i piani di molti aristocratici. Appoggiati dagli skythikon , i cavalieri pesanti di Michele Angelo e Anastasio di Amastri – nobili adottati nella famiglia Branas – danno un contributo decisivo all’annientamento della rivolta.



La riconquista di Patras e l’iniziale successo della sua riforma economica inducono Manuele a procedere con forza contro l’uomo che più di ogni altro gli si oppone: nel 1161 Isacco Diogene è arrestato, spogliato di ogni titolo e inviato ai confini magiari con compiti indegni di un nobile del suo rango. Al suo posto il giovane Michele Angelo è nominato duca di Thessalonike. L’atto, che certamente contribuisce in maniera decisiva a chetare ogni voce contraria, è però molto duro e esacerba l’animo di Isacco Diogene; profondamente umiliato, egli pensa seriamente di cambiare bandiera e legarsi magari agli Ungheresi.



Ma nel 1163 Marciano Argiro, divenuto nel frattempo duca di Sredetz, invita Isacco alla propria casa e lo accoglie con tutti gli onori dovuti a un uomo del suo rango. Questa mossa provoca preoccupazione un po’ ovunque e Manuele comincia a chiedersi se Marciano sia davvero fidato o se, invece, non stia diventando troppo ambizioso. Prima, però, che il basileus possa intervenire Marciano lascia Sredetz alla testa di cinque squadroni di skythikon e con Isacco nei ranghi (2400 uomini), dirigendosi con estrema decisione e rapidità verso occidente e sconfinando in Rascia all’inizio del 1164.
Il principe di Rascia, Stephan Nemanja, da anni è pronto a respingere eventuali tentativi bizantini di attentare al suo potere e la sua capitale, Ras, ospita oltre 10.000 uomini fieri e determinati. Quando riceve notizie dell’avanzata di Marciano, Nemanja decide di affrontarlo all’ombra delle imponenti mura di Ras: la rocca infatti è incassata fra i monti e il terreno collinoso mal si adatta alla tattica prediletta degli skythikon , rendendoli più lenti e vulnerabili.



Quel che Nemanja non sa è che lì, davanti a Ras, Marciano si appresta a dare al mondo una lezione di tattica militare. Sfruttando con estrema abilità la natura del terreno contro i suoi avversari – gli skythikon saranno più lenti, ma questo vale anche per le forze serbe – Marciano costringe il nemico a perdere coesione e a esporsi alle cariche della cavalleria pesante, assolutamente devastanti.





210 bizantini restano sul campo, ma sono quasi 10.000 i serbi che, fra morti, feriti e prigionieri, non rivedono la loro città. Isacco Diogene si batte come un autentico leone ed è proprio lui che, nelle fasi finali della battaglia, irrompe nel cuore dell’unità di Nemanja, abbatte il suo vessillo e cattura il principe di Rascia.



La notizia del trionfo vola in breve di bocca in bocca e ovunque è accolta con gioia. All’esterno il disastro serbo di Ras induce il sovrano magiaro a più miti consigli e ad accettare un’alleanza con la Basileia. E Marciano, sulle ali della gloria appena conquistata, prosegue la sua corsa inarrestabile verso le coste adriatiche, distruggendo il sogno di un Epiro indipendente nella primavera del 1167. Dyrrachion viene conquistata al termine di una gigantesca battaglia in cui, però, fin dall’inizio le truppe epirote e il loro despota Eliodoro sapevano di non avere possibilità.



A questo punto Marciano si trova con una duplice possibilità: proseguire lungo la costa per Ragusa o tornare a Sredetz per preparare la campagna definitiva contro i Bulgari. La prima possibilità è temuta in particolar modo dai Veneziani, che hanno accolto la notizia della conquista bizantina dell’Epiro come un lutto nazionale; per loro l’impossibilità di un’espansione verso Ragusa sarebbe praticamente mortale. Marciano difficilmente si preoccupa troppo dei desideri della Serenissima: la sua scelta, tuttavia, salva il traballante trono del doge. Le notizie di continue razzie da parte di predoni serbo-magiari inducono infatti Marciano a tornare indietro. Dopo aver velocemente risolto il problema banditi presso il villaggio di Lepinski Vir, Marciano e Isacco rientrano a Sredetz nel 1170, pochi giorni prima che Manuele in persona vi giunga.
La visita del basileus ha come scopo quello di esercitare un’antica prerogativa degli imperatori romani: il diritto al perdono. E Isacco Diogene si è guadagnato tale possibilità con le eroiche gesta compiute a Ras e Dyrrachion. Un’occasione che il nobile non può permettersi di ignorare, ma che gli impedisce di partecipare alla seguente campagna di Marciano. Alla testa dei suoi fidatissimi skythikon , il geniale comandante bizantino punta risolutamente verso la città portuale di Constanta, difesa dal potente Ban di Dubrodza Giovanni.





Il suo esercito è annientato sotto le mura della città dai trionfanti cavalieri di Marciano (1172), che pochi mesi dopo sorprendono le truppe bulgare inviate a rinforzo presso il villaggio di Cobadin e ottengono un’ulteriore vittoria. Il governo della regione è affidato a Marco Melisseno, neosposo di Elena Branas, e Marciano rientra da trionfatore a Sredetz, eseguendo per via una cavalcata per le terre bulgare che gli frutta un lauto bottino.
Ormai Manuele ha assoluta fiducia nel suo figlio adottivo nonché generale e così, nel 1178, Marciano può lanciare la campagna finale contro i Bulgari. Assieme a Isacco Diogene e ai suoi skythikon punta risolutamente su Tirnovgrad, dove lo zar Michele sta ammassando truppe in vista dell’inevitabile scontro. Quest’ultimo ha sviluppato un abbozzo di piano per sconfiggere i bizantini al loro stesso gioco. Così, quando Marciano suddivide le proprie forze in due tronconi – l’ala destra forte di tre squadroni di skythikon affidati a Isacco, l’ala sinistra composta da quattro squadroni al proprio diretto comando – lo zar mette in atto la sua idea: non suddivide le proprie forze come fatto dai suoi vassalli nei precedenti scontri, ma le scaglia tutte contro l’ala destra bizantina. Intende infatti limitarne il più possibile la mobilità e usare le proprie truppe d’elite, la guardia imperiale bulgara, per colpirle sul fianco e annientarle.
Il suo piano inizialmente pare funzionare e gli skythikon si trovano in effettiva difficoltà; inoltre Isacco viene richiamato da Marciano, lasciandoli senza una guida autorevole. Ma quando la guardia imperiale si prepara a colpire Marciano colpisce: momentaneamente esposti nel loro movimento aggirante, i bulgari vengono presi in pieno dalla tremenda carica della cavalleria pesante bizantina e letteralmente fatti a pezzi.



Nel frattempo gli skythikon dell’ala sinistra scatenano nugoli di frecce sul retro dei bulgari. L’attacco dello zar viene spezzato e la battaglia si incanala facilmente verso il trionfo bizantino: la morte di Michele, ucciso durante l’ultima disperata resistenza, è solamente il sigillo a un giorno di gloria.



In meno di vent’anni e usando unicamente truppe mercenarie dalla fedeltà inquieta, Marciano è riuscito nell’epica impresa di mostrare al mondo una facciata tremendamente forte, conquistando nel frattempo posizioni di alto valore strategico. Al rientro a Sredetz Manuele Comneno lo premia col titolo di Balcanico e con una cerimonia di trionfo come la Basileia non vedeva da tempo immemorabile.

Keirosophos
00venerdì 10 settembre 2010 13:26
Bella cronaca bravo!
The Housekeeper
00venerdì 10 settembre 2010 14:18
Fantastica [SM=x1140522]
frederick the great
00venerdì 10 settembre 2010 15:38
Grazie! Nel finesettimana dovrei riuscire a postare un altro pezzo - arrivano i Turchi!

Mi auguro soprattutto di aver trovato (e di riuscire a mantenere) una giusta misura fra narrazione delle battaglie e trattazione di tutto il resto...
ironman1989.
00venerdì 10 settembre 2010 21:11
Compimenti!!
Gaio Mario1
00sabato 11 settembre 2010 17:01
bellissima!!!
frederick the great
00lunedì 13 settembre 2010 11:02
Come promesso, ecco la nuova parte! E se qualcosa vi piace lasciate un messaggio (ma potete lasciarlo anche se vi fa schifo [SM=g27962])



Le imprese di Marciano, al di là di ogni altra considerazione, hanno concesso alla Basileia il tempo sufficiente per sviluppare un coerente piano di riforma militare e per metterlo in atto. Nel 1173 Romano di Efeso, divenuto nel frattempo duca di Dorylaion, presenta a Manuele il progetto definitivo, che verrà accettato e adottato. Esso si ispira palesemente agli antichi modelli romani e si compone di tre livelli: l’esercito campale, quello di frontiera e le armate per la sicurezza interna.
Armate per la sicurezza interna è una formula ampollosa che cela dietro di sé niente altro che il sistema già vigente, quello delle milizie cittadine. Fanti armati di lancia o spada e scudo a goccia accompagnati da arcieri: questa è la base di ogni guarnigione cittadina e Romano di Efeso è categorico nell’affermare come questi soldati non debbano essere impiegati sul campo di battaglia se non in situazioni estreme.
Le truppe di frontiera sono le piccole guarnigioni da porre in posizioni strategiche, con compiti di sorveglianza e allarme in caso d’attacco. Sono divisi in fanti, esplicitamente modellati sui limitanei e armati di lancia e scudo, uniti a armature leggere; arcieri, soldati irregolari adatti per agguati; e prokursatores , cavalieri rapidi e leggeri con compiti di pattugliamento. I limitanei sono utilizzabili anche in battaglia o in movimenti offensivi, ma sempre con la consapevolezza della loro natura di truppe leggere.
La parte più cospicua della riforma si focalizza però sull’esercito campale, quello che totalmente manca alla Basileia. In piena tradizione antica ogni corpo d’armata viene denominato legio . Ogni legio si compone, di base, come segue:

- sei battaglioni di lancieri pesanti, truppe corazzate armate di lancia e scudo il cui compito principale è quello di attirare su di sé i nemici e inchiodarli sul posto; ogni battaglione si compone di 630 uomini.
- quattro battaglioni di skoutatoi , fanteria pesante d’assalto armata di spada ricurva e scudo, ideale per attacchi sui fianchi del nemico; ogni battaglione si compone di 610 uomini.
- tre contingenti di arcieri appiedati, denominati trapezountai , armati di arco, scudo rotondo e spada per l’eventuale mischia; ogni contingente conta 600 uomini.
- due squadroni di hippotoxotai , arcieri a cavallo armati di arco, scudo rotondo e spada per la mischia, meno rapidi degli arcieri a cavallo orientali, ma molto più versatili; ogni squadrone si compone di 400 effettivi.
- quattro squadroni di pronoiaroi , cavalleria pesante armata di lancia e spada, il cui compito è annientare la cavalleria avversaria e aggirare il nemico per attaccarlo alle spalle; ogni squadrone si compone di 400 uomini.
- ogni legio comprende inoltre un comandante con la propria guardia personale, di media un contingente di 210 uomini.
- Totale effettivi 3.780+2.440+1.800+800+1.600+210=10.630 uomini.



L’idea generale è quella di creare un corpo malleabile, atto ad affrontare qualsivoglia situazione tattica si presenti in campagna, con alta mobilità e facilità di reclutamento di nuovi elementi. Solamente l’assedio è trattato in maniera separata, in quanto i treni di macchine d’assedio sono corpi a parte; questo per mantenere la mobilità.
Manuele, come detto, approva la riforma con decreto imperiale nell’estate del 1173 e un mese dopo, a Dorylaion, Romano di Efeso fonda ufficialmente la legio I , che riceve la denominazione d I Anatolica . Nel 1177 seguirà la legio II Balcanica di stanza a Ras e nel 1182 la legio III Bulgara a Sredetz. Quest’ultima inaugura le legiones particolares , ossia non del tutto conformi alle basi della riforma di Romano di Efeso: la III Bulgara , in particolare, si compone di sei battaglioni di lancieri leggeri (750 uomini a battaglione), quattro battaglioni di truppe valacche (600 uomini a battaglione), tre contingenti di guardie imperiali bulgare (600 uomini a contingente) e sette squadroni di skythikon (400 uomini a squadrone). La II Balcanica è, invece, una legio del tutto normale.



Nel 1179 a Sredetz si spegne Manuele Comneno. Perfino i suoi più acerrimi avversari, gli anziani Michele Paleologo e Isacco Diogene, non possono non ammettere che il suo operato ha instradato Bisanzio verso un futuro che appare un poco più roseo. Al trono imperiale intanto sale Michele Branas, ormai quasi sessantenne. Egli sa bene di essere un imperatore di transizione e la sua prima preoccupazione è quella di scegliere l’uomo destinato a succedergli. Non avendo figli naturali, Michele sceglie il primo fra gli adottivi, Anastasio di Amastri.
Il breve regno di Michele è interamente occupato dal programma di risistemazione stradale, volto a riportare all’antico splendore la rete viaria che conduce da Athenai alla Capitale via Thessalonike (la via Egnazia) e quella che da Adrianoupolis tramite i porti della Capitale conduce fino a Nikaia. Il programma non è però ancora completo quando nel tardo 1181 Michele si spegne a Konstantinoupolis e gli succede Anastasio di Amastri. Anch’egli privo di discendenti – non si è mai sposato – opta per il mantenimento di una continuità con la precedente dinastia e nomina erede al trono Marciano Argiro, il primo figlio adottivo di Manuele.





Alla salita al trono di Anastasio Bisanzio è uno stato piuttosto forte, con una fitta rete di rapporti internazionali. Khanato Cumano, Granprincipati russi, Regno di Francia sono alcuni degli alleati dell’Basileia, mentre un più vasto numero di soggetti è interessato da accordi di carattere meramente economico. Tutto questo ha permesso a Bisanzio di superare abbastanza brillantemente le spedizioni inviate da Sua Santità a soccorso del Royuame d’Outremer, da anni in lotta con gli Zenghidi. La grande città di Urfa è stata conquistata da truppe veneziane nel 1167 e nuovamente nel 1179. Anche se è vero che il trattato di mutuo soccorso e alleanza stipulato con l’Atabeg Nur ad-Din nel 1174 ha portato qualche anno dopo alla rottura delle relazioni con i Magiari e i Portoghesi, la posizione internazionale di Bisanzio è comunque molto solida e i confini sicuri. Esiste però uno stato che viene guardato con sospetto e paura, quasi terrore; per ora il Sultanato Selgiuchide è rimasto piuttosto tranquillo, espandendosi lentamente verso l’Armenia, e ha addirittura permesso alle truppe dell’Outremer di conquistare Adana e l’intera Cilicia. Ma per quanto potrà durare questo stato di cose? Quanto passerà prima che gli infidi Turchi volgano le loro mortifere schiere a occidente e attentino ancora una volta alla vita della Basileia?



La risposta arriva con brutalità nel 1182. Anastasio si trova alla Capitale e ha da pochi giorni ufficialmente dichiarato Marciano erede quando giunge dalla lontana Chaldia una nave. A bordo vi è un messaggero che reca nuova dal capitano Andronico, comandante della guarnigione di Trapezounta, che chiede urgentemente soccorsi: un’armata turca infatti sta risolutamente puntando sulla rocca. Prima ancora che ci si possa riprendere dalla sorpresa un secondo messaggero arriva trafelato da Amastri, avvisando che un’altra armata turca dirige sulla città.
Il panico si sparge rapido per la Basileia: in molti vedono come se fossero stati testimoni il funesto campo di Manzikert e il basileus Romano Diogene catturato. Da più parti si levano voci che profetizzano il crollo e anche il Giudizio Universale. Lo stesso Anastasio, per quanto uomo energico e poco propenso a credere a fandonie di tipo profetico, è però spaventato e non sa bene come reagire. Infine, consigliato da Marciano, opta per difendere Amastri, la cui caduta minaccerebbe direttamente la Capitale, e per l’abbandono di Trapezounta, ritenuta da tutti troppo distante per poter essere efficacemente difesa. Il giovane Alessio di Abido, fresco sposo dell’unica figlia del defunto basileus Michele, viene inviato come governatore in Paphlagonia per imbastire una prima difesa; a Dorylaion Romano di Efeso mette in allarme la I Anatolica , peraltro non ancora completa – manca di skoutatoi e di pronoiaroi -; a Nikaia vengono fatte convergere tutte le truppe disponibili nell’area, quasi tutte unità miliziane.
Frattanto i due capitani turchi procedono nella loro marcia. Il loro sultano da anni osservava con crescente preoccupazione la rinnovata potenza di Bisanzio e l’applicazione della riforma militare ha rappresentato la goccia finale; sicuri dell’inevitabilità di un conflitto, i regnanti selgiuchidi hanno così deciso di cominciare col vantaggio della sorpresa e hanno preparato due spedizioni. Esse sono state affidate ai capitani Cerrah e Orhan, con la promessa della promozione al rango di nobili in caso di successo. Sono operazioni su piccola scala, che intendono testare la forza delle difese orientali di Bisanzio – ma evitando il confronto con la potente rocca di Dorylaion – e, soprattutto, occupare Trapezounta prima che essa diventi una spina nel fianco turco. La scelta di Anastasio di abbandonare quest’ultima al suo destino collima esattamente coi desideri turchi e pare instradare l’attacco su una buona via.
Ma, si sa, il diavolo tende a dimenticarsi i coperchi e la spedizione turca – 1300 uomini armati alla turca, con arco e spada – a tutto è preparata tranne a ciò che effettivamente accade: il capitano Andronico - che dispone di circa un migliaio di uomini in prevalenza trapezitoi - resosi conto di essere stato abbandonato decide di giocare una carta audace e ordina ai propri cavalieri di attaccare il nemico in modo non convenzionale; invece del classico schema mordi e fuggi con piogge di giavellotti, egli li fa attaccare come se fossero unità di cavalleria pesante, i giavellotti usati come rudimentali e corte lance. Ne nasce una carica appena passabile secondo gli standard della cavalleria pesante, ma del tutto micidiale per truppe impreparate. Il sogno di Cerrah di divenire nobile viene spento da un giavellotto e i Turchi sono costretti a una rapida fuga verso la sicurezza dell’entroterra montano.



Frattanto, del tutto ignari di quanto accade a Trapezounta, le truppe di Orhan (3.000 uomini) avanzano fino ad Amastri e stringono la città d’assedio. Alessio di Abido arriva quando ormai il cerchio si sta già chiudendo, ma riesce comunque a intrufolare in città un proprio uomo e a concordare col capitano della guarnigione (1.800 uomini) un piano.
La fanteria turca occupa una buona posizione e non intende perderla; inoltre la superiorità numerica induce Orhan a restare prudente e a non esporsi per impedire un ricongiungimento delle forze nemiche, certo che comunque alla fine la vittoria gli arriderà. Alessio dal canto suo ordina alla fanteria miliziana di sfilare sul fianco destro dello schieramento turco e poi di attaccarlo. Gli arcieri turchi tentano di contrastare questa manovra, inducendo Alessio ad intervenire personalmente con la cavalleria; questo conduce a una serie di brevi schermaglie che trascinano i contendenti lontano dallo schieramento principale. Lo scontro di fanterie arride fin da subito ai Turchi, che mostrano di avere truppe più addestrate e determinate dei miliziani di Bisanzio; il ritorno di Alessio cambia però le sorti della giornata e Amastri viene liberata, pur se a prezzo di quasi la metà dei miliziani.



Le due vittorie, per quanto limitate, dimostrano che i Turchi non sono affatto invincibili e fanno levitare il morale dei soldati imperiali. Così, galvanizzato dai successi, Anastasio prende due decisioni: anzitutto si pone personalmente a capo delle truppe ammassate a Nikaia e, con l’ausilio di Marciano come consigliere, intende lanciare una campagna lungo le coste del mar Nero con obbiettivo il porto di Sinope; poi ordina a Romano di Efeso di lasciare Dorylaion alla testa della I Anatolica , per quanto incompleta, e di puntare risolutamente su una delle perle dell’Anatolia: Konya, la capitale del Sultanato.
I Turchi stanno recuperando dalle sconfitte e intendono riprendere con rinnovato vigore gli attacchi appena l’inverno finisce; per questo stanno ammassando truppe a Kayseri, la grande roccaforte della Kapadokya. A Konya è rimasto solamente il governatore Tutush con meno di 1.000 uomini. E sono queste truppe che nella primavera del 1183 si trovano ad affrontare l’impossibile impresa di fermare l’avanzata degli 8.000 uomini della I Anatolica che, un po’ perché incompleta, un po’ a causa del suo obbiettivo, comprende anche un piccolo treno d’assedio.











300 bizantini cadono sul campo di Konya, ma la città viene conquistata e l’eco della vittoria raggiunge anche le lande più occidentali dell’Basileia. Per i Turchi è un colpo particolarmente duro e la perdita della capitale avvilisce a tal punto il sultano che in pochi mesi il dolore lo conduce alla tomba.
Il suo successore, Tezcan, è l’uomo sbagliato al momento sbagliato: privo di interessi militari, ha almeno l’umiltà di riconoscerlo e, ritiratosi ad Ani, di deporre la conduzione delle ostilità nelle mani del suo capace erede, il principe Abi. Questi è un guerriero di razza, capace e coraggioso. Resosi presto conto della difficoltà di recuperare Konya, Abi preferisce fortificare Kayseri al punto da renderla un boccone troppo grosso e puntare a eliminare la presenza bizantina dal mar Nero. Questo prevede riuscire a occupare Trapezounta e sconfiggere l’esercito miliziano del basileus Anastasio. Nel frattempo Konya va tenuta sotto pressione tramite scorribande di razziatori con base ad Attaleia.





I piani turchi vengono però presto frustrati: un secondo attacco su Trapezounta viene egualmente respinto dai difensori, numericamente accresciutisi, e gli arcieri a cavallo curdi, il cui compito era impegnare i trapezitoi , si comportano in maniera quanto mai deleteria per la causa, fuggendo dopo una breve schermaglia; contemporaneamente Andronico di Alicarnasso, la cui difesa di Trapezounta gli è valsa l’accesso al rango nobiliare, sconfigge presso Beyshir Golu bande di razziatori turchi e mantiene pulite le linee di comunicazione con Dorylaion; dulcis in fundo nel 1186 la I Anatolica espugna Attaleia dopo un breve combattimento, levando ai Turchi una base avanzata.



A questo punto, nel 1187, il principe Abi decide di marciare personalmente su Trapezounta e chiuderla una volta per tutte con l’ostica fortezza. I suoi 4.300 uomini non sono arrestabili dai 1.800 difensori; ma con una operazione anfibia degna di nota il basileus Anastasio conduce i propri 6.000 miliziani fino alla fortezza in tempo per accogliere degnamente i Turchi. Lo scontro che segue è del tutto impari e Abi viene pesantemente sconfitto, cadendo nelle fasi finali della battaglia.







La vittoria apre ad Anastasio le porte per una rapida avanzata fino a Sinope e poi, con le spalle ora coperte, fino alla grande città di Amasya, che viene strappata ai Turchi nel giugno del 1188.


Keirosophos
00lunedì 13 settembre 2010 14:06
Molto bella!
davie
00lunedì 13 settembre 2010 14:43
Bellissima!
frederick the great
00martedì 14 settembre 2010 09:11


Ma il 1188 per entrambi i contendenti è l’anno della battaglia di Kayseri. Da sempre luogo di importanza strategica notevole, Kayseri è in mano turca fin dall’infausto giorno di Manzikert. Il suo possesso può determinare il corso dell’intera guerra e spostare irrimediabilmente gli equilibri. Finché Kayseri resta in mano selgiuchide Konya non sarà mai sicura e tantomeno Amasya. Il principe Abi era ben conscio della sua importanza e ne aveva fatto il proprio centro militare, un luogo in cui far convergere le unità reclutate e da cui lanciare pericolosi attacchi. La morte di Abi ha paralizzato momentaneamente la macchina bellica turca, ma all’ombra delle imponenti mura di Kayseri ci sono quasi 10.000 uomini in attesa, un pericolo che Bisanzio non può permettersi di ignorare.
L’onere di tentare di risolvere il problema è ovviamente affidato a Romano di Efeso e alla I Anatolica . Questa annovera 8.400 uomini all’inizio della campagna, ma fra di essi vi sono 1.200 pronoiaroi , unitisi nel corso del 1187 alla legio e comandati dal giovanissimo Pietro Argiro, figlio di Marciano.
La marcia di avvicinamento è fin troppo semplice ed appare chiaro che il governatore di Kayseri, il potente Shayrh, intende far allontanare il più possibile dai propri centri di rifornimento i bizantini. Tuttavia, dopo alcuni mesi di manovre e piccoli scontri, nel luglio del 1188 i due eserciti si fronteggiano nella piana antistante Kayseri.



Le forze turche sono un misto di fanteria saracena, arcieri e schermagliatori, sostenuti da unità di arcieri a cavallo curdi. Shayrh compie la prima mossa ordinando a un sottoposto, il capitano Qayit, di occupare una collinetta in posizione avanzata, in modo da assicurare una posizione dominante attorno alla quale schierare le forze per reggere l’attacco nemico. Romano di Efeso, tutt’altro che propenso a lasciare che ciò avvenga, invia rapido gli squadroni di hippotoxotai a scacciare il nemico.



I cavalieri bizantini portano rapidamente a termine il lavoro, ma si ritrovano isolati dal resto dell’armata, nel frattempo impegnata dai fastidiosi curdi.



Shayrh vede l’occasione di distruggere gli hippotoxotai e lancia il grosso delle proprie forze verso la collina, arcieri davanti e fanti in seconda linea. Si sviluppano una serie di feroci scambi di frecce, con i turchi che cercano la mischia e gli hippotoxotai che tentano a tutti i costi di evitarla.
A questo punto, mentre i trapezountai riescono finalmente a vincere il duello coi curdi, inferiori numericamente, Pietro Argiro cavalca dalla sua posizione fino al luogo dal quale Romano di Efeso osserva pensieroso l’andamento della battaglia e gli chiede il permesso di attaccare il fianco sinistro turco, pericolosamente esposto e difeso unicamente dai cavalieri di Shayrh in persona. Romano, dopo aver analizzato con occhio critico la cosa, autorizza l’attacco e nel giro di pochi minuti 1.400 cavalieri pesanti bizantini iniziano ad avanzare, mettendo definitivamente in fuga i curdi.



Passo, poi trotto, gli zoccoli che rimbombano e i vessilli che garriscono al vento. Infine Pietro, che si trova alla testa della linea, abbassa perentoriamente la spada verso il nemico e i pronoiaroi si scagliano avanti con impeto inarrestabile. Shayrh, denotando coraggio e stupidità, cerca di arrestarne l’attacco con i suoi miseri 210 uomini e viene massacrato con tutta la sua guardia.



A questo punto le truppe turche, prive di un comando, tentano la peggiore delle mosse: una ritirata verso l’illusoria sicurezza delle mura di Kayseri. Il risultato è che vengono presi in pieno dai pronoiaroi e dagli hippotoxotai letteralmente annientati; i pochi superstiti vengono inseguiti fino alla fortezza e fatti a pezzi. I numeri del trionfo sono impressionanti: 10.000 turchi giacciono morti o prigionieri a fronte di solamente 770 soldati bizantini.




Keirosophos
00martedì 14 settembre 2010 12:32
Grande battaglia!
Romolo Augustolo
00martedì 14 settembre 2010 21:40
complimentoni!!! :)
frederick the great
00mercoledì 15 settembre 2010 09:08


Per i Turchi Kayseri è una catastrofe: la grande città di Sivas è ora direttamente minacciata e Tezcan, al sicuro nel suo palazzo di Ani, vede rovina ovunque.



Il nuovo principe ereditario, Lachin, prova a contenere i danni ma ha a propria disposizione un numero limitato di truppe, senza contare che il loro addestramento è ampiamente incompleto. Inoltre non può sguarnire eccessivamente Malatya e i suoi tentativi di rinforzare il confine si scontrano coi desideri di suo fratello Salamish, che invece preme per avanzare a nord contro la Georgia. La cosa più grave però è che la popolazione stessa del sultanato comincia a ritenere che ormai la speranza abbia abbandonato le loro terre. La decisione di Anastasio di ribattezzare le città turche con gli antichi nomi greci – Konya diviene Ikonion, Kayseri Kaysareia, Amasya Amaseia – non fa che rafforzare questa visione e una serie di predicatori cominciano ad operare fra i monti dell’Anatolia, annunciando la fine di un mondo e la rinuncia al credo dei sovrani che hanno trascinato il Sultanato in questa guerra.
Il 1189 è praticamente scevro di grandi movimenti militari; ma è proprio in quest’anno che avviene un fatto che mostra in maniera lampante come ormai la bilancia del destino sia contro i Turchi e a favore di Bisanzio. Uno squadrone di 400 trapezitoi viene inviato a compiere una serie di razzie nei dintorni di Angora, la roccaforte più occidentale in possesso turco. Il comandante della guarnigione, informato delle mosse nemiche, decide di guidare le sue forze, circa 1.300 uomini, in una caccia. Nel corso di un’incredibile esempio di inettitudine militare, i Turchi vengono sistematicamente massacrati e gli increduli trapezitoi conquistano Angora (ridenominata Ankara) con perdite complessive inferiori ai 50 uomini!





Questa è l’ultima vittoria vista da Anastasio di Amastri. Egli infatti si spegne all’inizio del 1190 in Amaseia. Uomo certamente duro, tanto da guadagnarsi il soprannome di Tiranno , Anastasio ha però avuto l’indubbio merito di saper fronteggiare l’attacco turco e, dopo un paio di vittorie fortunate, adottare l’esatta strategia e fidarsi degli uomini giusti. Al trono sale Marciano, che in memoria del suo benefattore Manuele, unisce al nome della propria famiglia, Argiro, quello di Comneno. Erede al trono diviene il figlio Pietro, che si è coperto di gloria a Kayseri come comandante della cavalleria.
E proprio il neoprincipe nell’autunno del 1190 guida la I Anatolica verso Sivas.



Dopo aver varcato senza problemi l’Halys, le truppe bizantine incappano in avanguardie turche, appartenenti nientemeno che alla guardia personale del principe Lachin. Questi chiama rapidamente a sostegno l’intera guarnigione di Sivas, guidata dal capitano Shaban, dando inizio a una battaglia dal destino già segnato. Sebbene un primo attacco dei pronoiaroi sia respinto, le milizie turche sono prive di coesione e di vero controllo; la morte di Lachin, imprudentemente espostosi senza alcun rispetto per le capacità degli hippotoxotai , permette a Pietro di accerchiare da ogni lato il nemico e di conquistare vittoria e città. E così Marciano può entrare in Sebasteia finalmente riconquistata dopo oltre un secolo.





Il 1192 è, un po’ per tutta Europa, un anno di lutti: il signore di Milano, il re di Danimarca, il re di Portogallo, il re di Gerusalemme e il khan dei Cumani passano a miglior vita. Anche Marciano Argiro Comneno si spegne a Sebasteia e con lui Bisanzio non perde un grande basileus – è stato al potere troppo poco – ma un grande uomo e un grande generale. Il suo genio e intuito ha scongiurato la possibilità di attacchi su tutte le frontiere, fatto guadagnare a Bisanzio una posizione di assoluta forza nei Balcani e di rinnovato prestigio internazionale. Per un curioso caso del destino due settimane dopo si spegne anche Romano di Efeso, l’uomo della riforma militare.



Il nuovo basileus è dunque il venticinquenne Pietro Argiro Comneno e difficilmente Bisanzio può aspirare a qualcosa di meglio. Egli conosce diffusamente la parte asiatica della Basileia, sa come trattare coi Turchi ed è più che deciso a saldare ogni conto con l’infido Sultano. La sua prima mossa è la creazione di due nuove legiones: la IV Asiatica a Dorylaion, la V Greca a Naupaktos. Subito dopo nomina proprio erede Demetrio di Calcedonia che, in qualità di Eparco della Capitale, assicura una presenza fissa presso il centro della Basileia.





Forte di un prestigio ai massimi livelli e di un controllo quasi assoluto sul consiglio nobiliare (10 seggi su 20), Pietro nel 1194 lancia la potenza della I Anatolica contro la città di Malatya, difesa dal governatore Sundak con 5.000 uomini. Si tratta di una battaglia piuttosto dura e sanguinosa, ma in cui la tattica adottata dal basileus si rivela vincente: dopo aver aperto un breccia nel bastione occidentale, Pietro ordina alle macchine d’assedio di rendere inutilizzabili le torri e, quindi, fa avanzare in massa gli arcieri (sia a cavallo che a piedi) per investire con fitte piogge di frecce le truppe turche in attesa.



Contemporaneamente il parco d’assedio concentra i propri sforzi contro le porte della città. Sundak non può che reagire spostando tutte le proprie truppe da tiro in avanti, in modo da contrastare gli arcieri nemici. A questo punto Pietro manda all’attacco i lancieri pesanti in due ondate, impegnando al massimo la fanteria nemica già indebolita dalle raffiche di frecce, prima di scatenare la terza ondata di fanti attraverso le porte ormai abbattute sugli arcieri. Ne nasce una mischia assolutamente selvaggia, che però vede i Turchi pesantemente soverchiati in numero e che non può che condurre al loro annientamento.





1.700 bizantini restano sul campo di Malateia, facendo di questo scontro il più sanguinoso dell’intera guerra. Inoltre la nuova regione è ormai in preda a venti eretici sempre crescenti, che in breve si espandono anche alle regioni limitrofe. Fra il 1194 e il 1203 la chiesa ortodossa viene impegnata duramente per reprimere questi movimenti e non pochi sacerdoti inviati nell’area vengono contagiati a tal punto da divenire a loro volta predicatori eretici.
Frattanto il principe turco Salamish, che ha da poco occupato Tbilissi, invia un proprio messo al basileus Pietro per proporgli un accordo: egli, Salamish, si impegna a firmare un trattato di pace e ad accettare la perdita di tutti i territori ora in mano bizantina; si impegna a essere un leale amico di Bisanzio e a fare da baluardo orientale contro chiunque; si impegna a chiedere al basileus il permesso per ogni successiva espansione del proprio sultanato (eccezion fatta per la Georgia); in cambio desidera solo essere messo nelle condizioni di rendere possibili le sue intenzioni. Ossia, in parole povere, chiede a Bisanzio che suo padre venga assassinato.
La prima reazione di Pietro Argiro Comneno è di sdegno: come osa questo cane pretendere un gesto così disonorevole? Il fatto che Tezcan sia un codardo che si nasconde fra i monti non giustifica moralmente il suo omicidio a sangue freddo. Tuttavia una considerazione ben più prosaica induce infine Pietro a ordinare l’invio di un uomo fidato per la difficile missione: la morte del sultano potrebbe generare ulteriore instabilità nel Sultanato, agevolando le mosse di Bisanzio. Così, nel tardo 1198, l’esperto Simeone di Alicarnasso riesce a penetrare in Ani e nottetempo elimina silenziosamente Tezcan. Beninteso, Pietro non intende in alcun modo accordarsi realmente con Salamish: i Turchi vanno distrutti ed egli intende farlo fino in fondo.



La successiva campagna militare parte nel 1200 e coinvolge la I Anatolica , guidata dal basileus in persona, e la IV Asiatica , al comando di Andronico di Alicarnasso. Il neosultano Salamish viene messo a fronte della stupidità del suo gesto e della follia delle sue aspirazioni, senza alcuna possibilità di rimediare. Infatti Pietro lascia trapelare in qual modo Salamish è riuscito a salire al trono e questo provoca un moto di sdegno: il principe Derya, impegnato nell’assedio della rocca georgiana di Kutaissi, abbandona disgustato il suo signore e si accorda coi Georgiani, accettando di cingere la corona che essi gli offrono.



Sei mesi dopo, sotto le mura di Ani, il nuovo principe ereditario, Kuikabad, affronta alla testa di 8.700 uomini l’intera I Anatolica rinforzata da reparti della IV Asiatica per un totale di quasi 10.000 uomini: la battaglia si risolve nell’ennesima disfatta turca e tre settimane dopo Andronico di Alicarnasso guida la IV Asiatica alla conquista della rocca, immediatamente ribattezzata Anion.







Abbandonato da tutti i suoi vassalli, con il solo ausilio della propria guardia personale e di 450 rozzi montanari armati alla leggera, Salamish si rinchiude in Tbilissi. E qui, nel 1202, ha luogo l’unico scontro fra sovrani dell’intera guerra. Pietro Argiro Comneno attacca la città alla testa della I Anatolica , che si apre facilmente una via e annienta i montanari sotto gli occhi disinteressati del Sultano. Alla fine sono i suoi più intimi seguaci che, consci dell’ineluttabilità del loro destino, attaccano i Bizantini. Salamish viene ucciso quasi subito, ma anche nella morte si ritrova solo: le sue guardie, infatti, si dimostrano assai poco toccate dalla fine del loro signore e semplicemente continuano a combattere fino all’ultimo uomo, riuscendo a morire con dignità.






Keirosophos
00mercoledì 15 settembre 2010 12:27
Bravo! Continua così!
frederick the great
00venerdì 17 settembre 2010 11:21


La vittoria finale sui Turchi lascia Bisanzio padrona di un territorio quasi doppi rispetto a venti anni prima, che richiedono interventi tanto a breve quanto a lungo termine. La popolazione musulmana, ormai priva di una guida della medesima religione, sceglie in parte di emigrare in massa verso il Sultanato Zenghide a sud, in parte resta e viene man mano convertita all’ortodossia. Altro problema è invece la parte ebraica della popolazione, i cui rappresentanti sono assai preoccupati da questo cambio di signore: dopo attente riflessioni, Pietro decide di lasciare gli ebrei dove si trovano, nel triangolo composto dalle città di Ikonion, Amaseia e Sebasteia, facendo edificare e ampliare appositi quartieri.
Tbilissi viene quasi immediatamente abbandonata, in quanto ritenuta difficilmente controllabile. La linea della frontiera viene imperniata sulle roccaforti di Anion e Trapezounta, da cui dipendono una serie di fortini avanzati – due verso l’Azerbaijan, uno verso Tbilissi e, al confine fra Chaldia e Georgia, la cittadina portuale di Batum – difesi da unità di lancieri leggeri limitanei. Ad Anion vengono acquartierati i primi battaglioni della VI Armena , una legio particularis espressamente adattata a compiti di frontiera.



Nel 1204 il basileus si trova a dover fronteggiare un altro problema: l’intera guerra con la Turchia è stata accompagnata da una vasta produzione propagandistica e molto si è insistito sulla vendetta dell’infausto giorno di Manzikert. Il crollo dei Selgiuchidi preoccupa non poco l’Atabeg di Siria, che teme un proseguio della guerra verso meridione, a dispetto dell’alleanza stipulata anni prima. Dopotutto, perché non cercare di vendicare, dopo Manzikert, anche lo Yarmuk?
In maniera preventiva l’Atabeg siriano, che è impegnato contro il possedimento veneziano di Urfa, muove vasti contingenti di truppe alla frontiera con Malateia; la sua mossa provoca la controllata reazione del basileus , che dispiega a sud della città la IV Asiatica di Andronico di Alicarnasso, spostando nel frattempo la I Anatolica a Kaysareia. Le due legiones restano in queste posizioni fino al 1215, quando ben altri eventi sposteranno l’attenzione di tutti e faranno rientrare le tensioni.



Risolto momentaneamente anche questo problema, Pietro si trova a dover scegliere un nuovo erede: nel 1201 infatti muore Demetrio di Calcedonia. Viene nominato al suo posto Romano Zimisce, giovane e irruento membro della famiglia omonima.



La scelta esacerba gli animi di alcuni, che ritenevano di essere migliori candidati e uno di essi, Michele Monoftalmo, si ribella apertamente a Pietro, stabilendo un proprio dominio fra Rascia e Bulgaria e bloccando le vie di comunicazione. Nel 1203 il principe Romano decide di risolvere la questione e imprudentemente si lancia verso la gloria senza il sostegno della III Bulgara , di stanza nella vicina Sredetz: nello scontro il traditore è ucciso, ma anche Romano resta sul campo. Questo apre le porte della successione a Niceta, figlio primogenito di Pietro e duca di Malateia.



Per quanto le velleità militari di Romano Zimisce fossero note e il suo carattere fin troppo impetuoso biasimato, alcuni non riescono a ritenere che tutto sia solo frutto del caso e iniziano a circolare voci secondo le quali il basileus , deciso ad assicurare senza problemi la successione al proprio sangue, abbia espressamente fatto leva sulle ambizioni di Romano per spingerlo a un’impresa rischiosa chiusasi, come si è visto, in tragedia. E l’epiteto di Spietato comincia sempre più ad essere unito al nome di Pietro Argiro Comneno. Quasi a voler sottolineare la cosa nel 1206 Derya, l’ultimo selgiuchide ancora in vita, viene misteriosamente assassinato a Kutaissi.
Nel frattempo l’economia della Basileia subisce una brusca accelerazione e il tesoro imperiale passa dai 330.000 solidi del 1203 al mezzo milione di vent’anni dopo. Le continue campagne navali, in particolare quelle dell’ammiraglio Pietro detto il Bucaniere, ripuliscono con sistematicità i mari dai vascelli pirati e rendono sicure le rotte;



la riforma stradale iniziata da Michele Branas nel 1180 viene finalmente completata e solide e confortevoli strade di pietra collegano tutti i maggiori centri della Basileia; nuovi accordi vengono stipulati, accrescendo considerevolmente i mercati. Ma soprattutto sono le compagnie commerciali a generare profitti: a cavallo del secolo i mercanti bizantini si lanciano in una serie apparentemente inarrestabile di conquiste economiche, sottraendo con sistematicità ai propri avversari importanti traffici e, in ultima analisi, assestando duri colpi a tanti stati. Sicilia, Ifriqija, Ungheria settentrionale, steppe russe vedono merci pregiate sempre più sotto il controllo di Bisanzio. Chi più di ogni altro subisce questa autentica bulimia commerciale di Bisanzio sono però gli stati islamici dell’Oriente: i traffici di avorio, schiavi e spezie entrano nella sfera d’azione dei mercanti imperiali e ogni tentativo di recuperarli fallisce miseramente.



Anno 1207. A Milano muore Ordelaffo della Torre, signore di Milano. A questa data i possedimenti che fanno capo alla città lombarda si estendono dalla Svizzera meridionale (Lugano) al Piemonte (Asti), dalla Liguria (Genova) alle coste della Romagna (Bologna). Uno stato piuttosto insignificante a livello internazionale, ma cospicuo a livello locale, in costante lotta per la supremazia con la Serenissima Repubblica Veneta, che da poco si è impadronita dell’importante rocca strategica di Verona. Ordelaffo è stato un governante capace, che ha saputo dare una certa coesione ai propri domini e ha mantenuto rapporti amichevoli col Papato (a differenza dei Veneziani, che di lì a poco verranno infatti scomunicati). Il problema è che Ordelaffo non ha eredi e con lui si estingue una casata, lasciando i domini lombardi privi di una guida. Una straordinaria occasione per Venezia di annettere territori ormai indifesi; sennonché il sangue dei Della Torre scorre ancora in una persona: Agnella, l’unica figlia di Ordelaffo, andata sposa nel 1199, come parte di un trattato diplomatico, a Demetrio di Calcedonia, allora erede al trono imperiale di Bisanzio. Demetrio è morto del 1201, ma Agnella vive ancora alla corte di Konstantinoupolis e questo rende Bisanzio erede primario dei territori lombardi.



A Konstantinoupolis nessuno si aspettava una simile eredità e fin da subito essa viene sentita come un peso. Lontani, diversi per leggi, costumi e religione, i territori italici non rientrano nei piani dei grandi nobili né in quelli del basileus ; troppe spese da sostenere per riuscire a controllarli, troppe poche informazioni su cui basare piani d’azione, pochi profitti visibili all’orizzonte. Senza contare un probabile quanto impopolare conflitto con Venezia.
Se le reazioni nella Basileia sono di stupore e disinteresse, la situazione in loco è anche più difficile. La morte di Ordelaffo sparge il caos e l’incertezza, i potenti non hanno una precisa idea di come comportarsi; fino all’altro ieri comune indipendente e dominatore su altre città, si ritrovano oggi con due prospettive, entrambe poco attraenti: o darsi un nuovo ordinamento (e dire addio a tutta la potenza acquisita in decenni di lotte) o sottomettersi a un’altra potenza, rinunciando alla libertà (e comunque a condizioni di vita diverse). Il forte spirito indipendente dei genovesi spinge la città ligure verso la prima scelta e in breve indirizza i sentimenti dei rappresentanti delle altre. Tuttavia vi sono anche uomini che ritengono Bisanzio la scelta migliore: fra di essi spicca Giorgio Mondello.



Da molti ritenuto nient’altro che un avventuriero, questi è stato da poco nominato Legato di Romagna. Assieme ad altri due di recente nobiltà, Giuliano da Vicenza e Raimondo Palermo, egli si proclama immediatamente a favore di Bisanzio e comincia a radunare truppe a Bologna, la cui posizione dovrebbe permettere più facili contatti con Bisanzio.
Nella primavera del 1208 un’ambasceria bizantina raggiunge la Serenissima per incontrarsi col consigliere Almerico (il doge Alessandro è a Urfa): è un’udienza affabile, ma la proposta di scambiare Milano, Asti e Lugano in cambio della cessione di Ragusa non viene accettata. Quando la notizia della mossa del basileus raggiunge le terre lombarde un empito di sdegno scuote tutti e nel corso dei tre mesi seguenti una serie di rivolte instaura altrettante repubbliche indipendenti. Giorgio Mondello riesce ad evitare la morte per puro caso, scappando nottetempo da Bologna. Le sue truppe di ritrovano d’improvviso in territorio ostile, senza alcun aiuto e, cosa assai peggiore, con un futuro cupo davanti a sé.
Ironicamente le rivolte in Italia acquietano immediatamente ogni protesta interna e il prestigio del basileus , leggermente scosso dagli avvenimenti, ritorna più solido che mai. A questo punto, quando tutto sembra finito in un nulla di fatto, Pietro Argiro Comneno prende una decisione che determinerà il destino della Basileia nei quarant’anni seguenti: invia infatti un messaggero in Italia per informare Giorgio Mondello che una flotta è disponibile in qualunque momento a raccogliere lui e le sue forze sulle coste romagnole e a traghettarle in terra bizantina. Tuttavia il basileus lo invita a riflettere se non esiste, considerate le sue forze, la possibilità di conquistare un caposaldo che diventi il seme di un futuro dominio imperiale nell’area.
Dal punto di vista di Giorgio la scelta non si pone nemmeno: a Bisanzio egli non sarebbe altro che un piccolo avventuriero lombardo senza nessun potere; restando in Italia, invece, potrebbe diventare un uomo molto importante, primo referente del potente signore di Konstantinoupolis in Occidente. Dunque bisogna rischiare, indipendentemente dalle forze disponibili. E l’unico luogo che risponde a quanto desiderato dal basileus è la roccaforte alpina di Lugano.



Per tentare l’impresa Giorgio Mondello dispone un’armata di circa 13.000 uomini, molto più di quantità che di qualità. Il fulcro sono i battaglioni di lancieri italiani, noti come pavesari dal nome del grande scudo che portano; sono truppe coriacee, paragonabili per compiti ai lancieri pesanti di Bisanzio, anche se complessivamente meno addestrati. La massa delle truppe è però composta da uomini provenienti dai contadi delle varie città: questi servono tutto sommato volentieri nelle armate, vedendo nella guerra un modo rapido per ottenere i mezzi per una vita migliore. Ciò li rende determinati e talvolta temerari, ma non può cancellare il fatto che il loro equipaggiamento è scarso e che le armi con cui combattono vanno da vecchie asce e coltelli spuntati, da falcetti da potatore a forconi per il fieno. Sono truppe che un comandante non può usare a cuor leggero, a cui bisogna mantenere il morale alto pena un crollo di volontà e una fuga disordinata. Altri 1.900 uomini, al comando di Giuliano da Vicenza, fungono da corpo esplorativo e da razziatori per nutrire l’armata principale.
E le notizie che portano non sono affatto positive. Il nuovo governatore di Lugano, tale Ludovico, ha immediatamente iniziato un processo di rafforzamento delle difese della rocca; inoltre, usando in egual misura il denaro e la propaganda, è riuscito ad attirare intere compagnie di mercenari tanto italiani quanto svizzeri. Vi sono oltre 8.000 uomini a Lugano, lancieri mercenari, balestrieri pavesi e alcune unità di pericolosissimi picchieri svizzeri. Il che implica che i bastioni saranno fortemente difesi e che la loro conquista sarà quanto mai complessa. L’assenza di un treno d’assedio però non lascia alternativa che l’uso di scale e torri.



Lugano viene investita dalle forze di Giorgio Mondello nell’estate del 1209, ma solo verso ottobre il generale lombardo si ritiene pronto a lanciare l’attacco: la costruzione delle tre torri d’assedio e delle scale ha richiesto tempo ed energie. Inoltre l’inverno ha bussato presto e per quasi tutta la settimana precedente la neve è caduta generosamente, stendendo il suo bianco manto sul Canton Ticino.
Giorgio Mondello ha progettato un attacco a quattro punte. Due delle torri avanzano contro la parte sud del bastione orientale, la terza invece contro la parte est del bastione meridionale assieme ad una delle scale; una seconda scala viene lanciata contro la parte nord del bastione orientale, mentre l’ultima è tenuta di riserva, per un attacco di sorpresa al bastione occidentale.





Giocando d’azzardo, Giorgio Mondello sceglie di affidare la prima ondata alle unità miliziane, ritenendo che inviarle più avanti in soccorso dei compagni sull’orlo della distruzione possa minarne il morale e renderne l’attacco inefficace.
I difensori si sistemano calmi sui bastioni orientale e meridionale, lasciando un corpo (un battaglione di lancieri e uno di picchieri) a protezione del maschio e con un battaglione di lance pronte ad intervenire su un altro bastione. I balestrieri accolgono coi loro micidiali quadrelli le torri, ma il morale dei miliziani resta alto e ben presto le macchine d’assedio raggiungono le mura: uno dopo l’altro, gli uomini si slanciano sui bastioni affollati di mercenari e ha inizio una mischia assolutamente feroce.



Lo spazio limitato impedisce ai mercenari di usare appieno la propria superiorità, ma restano comunque in netto vantaggio. Ogni minuto che passa la pugna si fa più selvaggia, i morti e i feriti vengono sospinti dalla calca giù dalle mura ormai arrossate dal sangue. Ma, nonostante l’estrema determinazione, i miliziani cominciano a cedere terreno, le teste di ponte sono via via minacciate un po’ ovunque.



Con freddezza Giorgio Mondello ordina che i pavesari vengano immediatamente inviati sulle mura: il loro arrivo sposta nuovamente la bilancia in equilibrio e la mischia riprende con rinnovata ferocia. A questo punto Raimondo Palermo arriva di gran carriera per annunciare che il bastione occidentale è virtualmente inattaccabile: i difensori hanno incluso nelle fortificazioni lo stretto passaggio antistante e ora esso sorge su uno strapiombo.




Giorgio, che ha ben presente la situazione sui bastioni e sa di essere in svantaggio, ordina allora che il corpo destinato a quell’attacco (un contingente di miliziani con una scala e due battaglioni di pavesari ) venga immediatamente spostato e lanciato all’attacco della parte ovest del bastione meridionale, per tentare di impadronirsi del corpo di guardia e dei meccanismi di apertura dei pesanti cancelli della rocca. L’attacco risulta molto improvviso e i mercenari deputati a tappare impreviste falle, da tempo vicino al bastione orientale, non riescono a raggiungere in tempo le porte. Anzi, vengono immediatamente impegnati in un duro corpo a corpo da uno dei due battaglioni di pavesari e assistono impotenti all’ingresso della cavalleria di Giorgio Mondello.
Questa vittoria arriva appena in tempo. Infatti la situazione sui bastioni si è ormai irrimediabilmente deteriorata: se nel settore nord di quello orientale i pavesari riescono infine a prevalere e a scacciare il nemico (ma senza energie residue per proseguire), dalle altre parti i mercenari ricacciano nel sangue gli attacchi. I miliziani, fin troppo provati, si danno a una fuga disordinata; quanto resta dei pavesari si ritrova a combattere disperatamente per la propria vita in una resistenza destinata inevitabilmente ad essere vana.





La conquista delle porte cambia tutto. Alcuni mercenari iniziano ad abbandonare i bastioni e a ripiegare verso il maschio; altri, semplicemente, restano in attesa, vinti dalla fatica e non così desiderosi di morire.
La conquista del maschio è sanguinosa, ma Raimondo Palermo guida abilmente le poche truppe disponibili (la sua guardia, un battaglione di pavesari e un contingente di miliziani) e infine anche l’ultimo svizzero cade.





Tuttavia la situazione resta incerta, parecchi mercenari stanno ripiegando e rischiano di imbottigliare Giorgio e i suoi. Con una rapida mossa, l’unico battaglione di pavesari presente al maschio blocca l’unica vera via d’accesso e respinge uno via l’altro i sempre più deboli attacchi mercenari. La comparsa all’orizzonte del corpo di Giuliano da Vicenza (altri 1.900 uomini) induce finalmente i mercenari ad arrendersi e a consegnare la fortezza.





Lugano è conquistata, ma il conto del bagno di sangue è spaventoso: 7.600 mercenari sono rimasti sul campo (suo 8.700 totali), ma l’esercito di Giorgio Mondello ha perso qualcosa come 6.640 uomini, un salasso tremendo. L’unica consolazione (anche se piuttosto cinica) è che il grosso delle perdite si sono avute fra i miliziani, mentre i battaglioni di addestrati pavesari hanno sopportato meglio il massacro.


Keirosophos
00venerdì 17 settembre 2010 13:06
Aspetto il seguito!
Romolo Augustolo
00venerdì 17 settembre 2010 23:06
davvero stupenda! aspetto il seguito!
ironman1989.
00domenica 19 settembre 2010 11:33
Complimenti Frederick..
The Housekeeper
00domenica 19 settembre 2010 11:35
Grande campagna, e bellissima cronaca!
frederick the great
00martedì 21 settembre 2010 09:56
Per puro riepilogo:






Bisanzio si trova così con un possedimento in Occidente e la nobiltà, per quanto conscia che il basileus ha agito contro il loro volere, non ritiene onorevole abbandonare chi ha lottato in nome della Basileia. E, soprattutto, guarda con cupidigia alle ricchezze dell’Italia settentrionale.



Che fanno gola anche ad altri. Nel 1209 Bologna viene conquistata dalle forze veneziani; la Serenissima tenta anche un colpo contro Milano, ma le milizie della città respingono l’attacco. Due anni dopo il Piemonte è invaso dalle forze del re di Francia e interamente occupato. Queste mosse inducono i bizantini a prestare sempre maggior attenzione agli avvenimenti italici: per quanto non si abbia intenzione di scatenare una guerra in nome di un’eredità che, praticamente, si è stati incapaci di accettare e difendere, tuttavia a Konstantinoupolis si guarda con preoccupazione alla perdita di potenziali provincie dalla grande ricchezza. Lugano è sicuramente un luogo strategicamente importante, ma le ricchezze stanno a Milano o a Genova. Così Pietro Argiro Comeno decide di agire: nel 1213 concede alle truppe di Mondello lo status di legio col nome di VII Helvetica ; i miliziani sono inquadrati in unità ausiliarie. Frattanto un sempre maggior flusso di denaro viene inviato verso la roccaforte svizzera per ammodernarla e renderla nel minor tempo possibile degna sede di una legio . Dulcis in fundo, il basileus ordina a Giorgio Mondello di iniziare operazioni contro il piccolo comune di Milano appena pronto.



Queste vengono avviate nel corso del 1216 e in breve la VII Helvetica , per quanto incompleta (manca di cavalleria pesante, sostituita da unità di prokursatores , e di skoutatoi ) ottiene consistenti vantaggi, inducendo le milizie del comune lombardo a tattiche sempre più difensive. Questo però preoccupa non poco Veneziani e Francesi: i primi reagiscono inviando ingenti forze in Lombardia, i secondi mandano pattuglie da Thun verso Lugano e cominciano le operazioni contro Genova. Tuttavia nessuno osa provare una mossa di aperta rottura e tutto pare chiudersi in un nulla di fatto. Per il 1219 le forze veneziane vengono ritirate e i Francesi si concentrano esclusivamente su Genova. Milano è sotto stretto assedio e a Konstantinoupolis si preme perché venga inviato un nobile bizantino come governatore; va bene essere grati a Giorgio Mondello per quanto ha compiuto, ma non è il caso di dargli in mano troppo potere.
Pietro Argiro Comneno, ormai rientrato alla Capitale e padrone assoluto della Basileia – il primogenito Niceta è erede e comandante della IV Asiatica , il secondogenito Metodio governa Sebasteia ed è universalmente noto per la sua benevolenza e nobiltà d’animo, l’ultimo nato, Giovanni, è Eparco – è della medesima opinione e sceglie di inviare il giovane Pietro di Amastri.



Questi, appena diciannovenne, nel 1219 salpa da Dyrrachion per Genova. Nessuno ha idea che questa mossa sarà la scintilla che farà detonare le Guerre d’Italia.




Nel febbraio del 1220 Pietro di Amastri sbarca a Genova dopo un lungo viaggio attraverso il canale di Sicilia e il mar Tirreno. La città ligure è impegnata in una feroce contesa con il Regno di Francia, le cui truppe ogni giorno sono più vicine alle sue mura. Il podestà di Genova, che lo accoglie con ogni onore, cerca di convincere Pietro di Amastri a restare in città e a contribuire alla sua difesa, sperando ovviamente di attirare il potente Basileia Bizantino dalla propria. Ma il nobile ha altri compiti e intende raggiungere la VII Helvetica a Milano quanto prima.



Tuttavia, sulla base di quanto ha appreso, Pietro decide di non avventurarsi nell’entroterra con la sola scorta della propria guardia personale, ma di arruolare mercenari. La lucente promessa dell’oro di Konstantinoupolis attira rapidamente un capitano mercenario di origine germanica, Gunther, che offre i propri servigi. Egli comanda un corpo di fanti germanici, uno di lancieri, uno di balestrieri pavesi e uno di cavalieri franchi; sono tutti veterani della lunga guerra che oppone Francia e Impero Tedesco e ritengono che troveranno miglior sorte con Bisanzio che restando in una Genova che ritengono ormai condannata.



Pietro di Amastri si accorda con Gunther e verso la fine della primavera lascia finalmente la città ligure per Milano alla testa di 2.500 uomini. La marcia prosegue tranquilla fino a quando, circa una settimana dopo, gli esploratori riportano forti movimenti di truppe francesi. Esse, riferiscono, assommano a oltre 9.000 uomini, divisi in due corpi: quello più piccolo è guidato da un certo capitano Emery (3.200 uomini), l’altro è ai comandi del capitano Baldovino (6.200 uomini). Sulle loro intenzioni, però, non si hanno informazioni attendibili.
Una volta giunti presso il passo del Turchino queste diventano fin troppo evidenti. I francesi di Emery si preparano senza il minimo dubbio ad attaccare e Pietro riesce appena in tempo a fermarsi e a disporre i propri uomini attorno a una collinetta.



Da lì i balestrieri possono con una certa calma mirare ai nemici avanzanti, protetti davanti dai lancieri e sul fianco destro dai fanti tedeschi. Ma la velocità dell’attacco francese impedisce loro di essere veramente efficaci e il compito di colpire duramente il nemico ricade sui cavalieri: le loro ripetute cariche spargono il caos nei ranghi nemici, ma senza riuscire a fermarne l’avanzata. Solo l’attacco dei fanti di Gunther riesce a respingere i francesi.







Purtroppo però tutti hanno già visto che l’attacco di Emery aveva il solo scopo di bloccarli e sfiancarli: infatti le truppe di Baldovino avanzano tranquille verso la sottile linea bizantina, cantando e insultando gli uomini di Emery ormai in ritirata. Che, peraltro, hanno provocato ingenti danni alla piccola forza di Pietro: metà della cavalleria è rimasta sul campo e la sua efficacia si è grandemente ridotta. Non a caso un primo attacco, se pure riesce momentaneamente a scompaginare gli arcieri francesi, è presto respinto con altre perdite (su 400 cavalieri francesi solo 180 sono ancora in grado di combattere) e da ogni parte le milizie francesi avanzano soverchianti contro la collinetta.







Presto ogni singolo mercenario è impegnato in una disperata lotta per tenere la posizione e sopravvivere: i balestrieri devono intervenire spada alla mano per bloccare una manovra aggirante sul fianco sinistro. Pietro di Amastri, resosi conto che tutto è perduto, raduna la cavalleria a destra e si lancia in un’ultima carica, cercando una morte onorevole.
Quanto può un singolo colpo di spada! Nel corso dell’attacco il comandante francese Baldovino viene ucciso e la sua morte sottrae ogni volontà ai suoi uomini. Increduli, i mercenari osservano le truppe francesi in precipitosa ritirata, tallonati da un’altrettanto stupefatta cavalleria.





La giornata è di Bisanzio, a prezzo di 700 mercenari, ma tutti sanno quanto poco ci è mancato perché fossero i Francesi a gioire.





La notizia della battaglia viene accolta con costernazione a Konstantinoupolis in quanto nulla è mai stato fatto contro i Francesi, né militarmente né in altra maniera. Ben presto questo evento si va a collocare in un più grande contesto di scontro: per un complesso giro di alleanze – gran principati russi, khanato cumano, sultanato almohade e zenghide - Bisanzio si ritrova in guerra con la Corona d’Aragò, il regno di Danimarca, quello di Francia e la Serenissima Repubblica Veneta. Una simile situazione non è oggettivamente accettabile e risulta quanto mai problematica da gestire sia da un punto di vista commerciale che da un punto di vista militare: la Francia ha attaccato e non sarà certo la Basileia a subire passivamente. Così Pietro Argiro Comneno analizza attentamente la situazione e infine fa la sua mossa: invia l’esperto diplomatico Demetrio di Alicarnasso a conversare coi potenti d’Aragona.
Il piccolo regno iberico è tutt’altro che desideroso di mantenere uno stato di belligeranza scaturito indirettamente da varie alleanze: dunque ascolta con attenzione le proposte del basileus e rapidamente si giunge alla firma di un trattato. Questo, noto come trattato di Ais, si divide in due parti: nella prima si sancisce un’alleanza fra la Corona d’Aragò e la Basileia, alleanza rafforzata dal matrimonio della principessa aragonese Letgarda con il principe Niceta Argiro Comneno; nella seconda invece vengono trattati i rapporti da mantenere con gli altri stati le cui posizioni hanno condotto allo scontro. Così, fra l’autunno e l’inverno del 1220, i sovrani di molte realtà politiche sono costretti ad analizzare nei dettagli il Trattato di Ais e a decidere se accettarlo (tenendosi l’alleato, sia esso Bisanzio o l’Aragona, e chiudendo la guerra) oppure se rigettarlo (mantenendo lo stato di belligeranza e perdendo l’alleato, sia esso Bisanzio o l’Aragona).



Il sultanato almohade opta quasi subito per continuare la sua guerra contro l’Aragona e abbandonare Bisanzio. I Russi e i Cumani, i cui rapporti con la Basileia sono sempre stati ottimi, decidono di rimanere fedeli all’alleanza coi Danesi e, quindi, rescindono i trattati con Bisanzio, contando che i buoni rapporti passati non condurranno a gesti ostili da parte bizantina. Gli Zenghidi di Siria invece accettano il Trattato di Ais, chiudendo così un conflitto con l’Aragona che data al 1167.
Ma il vero nodo è Venezia. L’alleanza con la Corona d’Aragò è qualcosa che può essere mantenuto o abbandonato senza troppi patemi per la Serenissima; il mantenimento o meno di uno stato di belligeranza è invece ben altra cosa, soprattutto perché Venezia è l’unico soggetto politico interessato dal Trattato a essere in lotta con la Basileia. Il doge Almerico il Severo e il suo successore designato, consigliere Stefano, optano infine per rigettare il Trattato di Ais sulla base di alcune considerazioni. Venezia dal 1167 si è impegnata in un’avventura orientale che, dopo alterne fortune, è naufragata miseramente nel 1210 con la perdita di Urfa e la morte del precedente doge Alessandro; il crollo del comune di Milano e il frazionamento della sua realtà politica ha ovviamente attirato la Serenissima, che però ora vede queste terre in serissimo pericolo dall’espansionismo di Francia e Basileia. Le informazioni su quest’ultimo riferiscono di un’ingente armata di stanza a Ras (si tratta della II Balcanica) e di un’altra a Naupaktos (la V Greca). Considerato che l’unica strada per l’Italia passa dalla Zeta e dalla città di Ragusa, il doge ritiene di poter fermare un attacco: gli eserciti veneziani sono forti e numerosi, ben comandati e ben disposti lungo la linea costiera e sostenuti alle spalle dalla potente fortezza di Pola. Da ultimo si ritiene che Bisanzio possa attaccare fino a quando avrà un serio motivo per farlo (ossia dei possedimenti in Italia): la loro conquista porterebbe, nella visione del doge, alla morte di un casus belli e, quindi, alla cessazione delle ostilità. Ecco dunque che a Venezia fervono i preparativi e fra la fine del 1221 e l’inizio del 1222, una grande armata, affidata all’esperto Agostino de Finiza, viene inviata in Lombardia per distruggere i possessi bizantini.
Il calcolo veneziano si rivela, come vedremo, assai miope e, cosa ben più grave, costruito su due assunti tutt’altro che certi: che Bisanzio non cerchi alcuna rivincita in caso di sconfitta in Italia e, soprattutto, che le armate veneziane possano agevolmente sconfiggere in campo aperto una legio bizantina. La storia della battaglia di Codogno (1222) proverà limpidamente quanto questo secondo assunto sia errato e foriero di disgrazie.
ironman1989.
00martedì 21 settembre 2010 10:52
molto bella!!!
frederick the great
00martedì 21 settembre 2010 11:36
Mi sono accorto di aver scritto una scemenza: è vero che i cumani erano miei alleati quando ho stipulato il trattato con l'Aragona, ma non hanno dovuto affatto scegliere; nn erano in guerra con l'Aragona...
Keirosophos
00martedì 21 settembre 2010 14:13
Bellissima cronaca!!!
frederick the great
00martedì 21 settembre 2010 15:09


L’avanzata dei Veneziani desta somma preoccupazione nella Lombardia appena conquistata – Milano si è arresa all’inizio dl 1221 – e spinge il neogovernatore Pietro di Amastri a mettere in stato di allerta la VII Helvetica e a far confluire reparti aggiuntivi da Lugano. Gli 11.116 uomini che convergono su Milano sono battaglioni di pavesari (6), contingenti di arcieri leggeri (3), battaglioni di lancieri leggeri (2), squadroni di prokursatores (2), pronoiaroi (2) e hippotoxotai (2).
A fronteggiarli sta l’armata di Agostino di Finiza, 9.720 uomini addestrati e ben equipaggiati: contingenti di arcieri e balestrieri, ampi battaglioni di fanti sia professionali che miliziani, squadroni di cavalleria leggera.
Pietro di Amastri non è un uomo di guerra: se è vero che è cresciuto in Rascia fra le truppe, è altrettanto vero che ha sempre denotato interesse per le materie di governo ed è stato educato per fare il governatore. Tuttavia i movimenti francesi in Svizzera e Piemonte inducono Giorgio Mondello a restare a Lugano con i suoi compagni lombardi e costringono Pietro di Amastri ad assumersi personalmente l’onere di condurre la campagna militare.



Le forze bizantine si attestano presso il villaggio di Codogno, aspettando l’attacco veneziano. Ma Agostino de Finiza purtroppo non è uno stupido, è un generale esperto e capace. Si rende conto rapidamente che la posizione tenuta dalla VII Helvetica è quanto mai difficile da assaltare e, dunque, opta per una diversa tattica: dispone i suoi uomini in tre file, la prima di arcieri e le altre due di fanteria, con la cavalleria sui due lati, in una posizione piuttosto favorevole e attende.



Pietro di Amastri sa che non può ritirarsi, sarebbe un gesto codardo e con conseguenze gravissime per il morale dei soldati: così verso mezzodì ordina l’avanzata. Agostino risponde inviando un corpo di balestrieri a bersagliare i ranghi nemici: questo induce Pietro a ordinare ai pronoiaroi di ripulire l’area. Intanto invia gli hippotoxotai a tartassare l’ala sinistra veneziana.
I pronoiaroi piombano sicuri sui balestrieri e ne scompaginano rapidamente i ranghi; ma sono altrettanto rapidamente costretti a ritirarsi dai nugoli di frecce degli arcieri di Agostino. Frattanto uno squadrone di cavalleria leggera impegna gli hippotoxotai in una feroce mischia.



Ormai l’attacco principale è imminente e Pietro di Amastri ordina a tutte le unità di caricare secondo gli ordini ricevuti in precedenza: i pavesari , che formano la prima linea, si slanciano contro la tranquilla linea della fanteria nemica, mentre i lancieri leggeri si aprono sulle ali e i prokursatores iniziano la carica contro la cavalleria dell’ala destra avversaria.



Agostino sta aspettando questo momento da tanto. Rapido ordina una contro carica immediata e le forze veneziane assaltano fra grandi urla l’arrembante marea bizantina.



Lo scontro è selvaggio, ben presto alle urla di guerra si mescolano quelle dei feriti e i gemiti dei moribondi.



Gli arcieri veneziani, ritiratisi in seconda fila, accorrono a loro volta nella mischia o in aiuto dei propri cavalieri, contro i quali i prokursatores si ritrovano in difficoltà. E Agostino, avendo ormai lanciato i propri dadi, si scaglia contro gli hippotoxotai , facendone strage.
A Pietro di Amastri non resta che contare sulla volontà dei propri soldati e sulla capacità di tenere la linea dei pavesari . Le sue esortazioni servono a ben poco, molte non vengono nemmeno udite nel frastuono della battaglia. Così si pone alla testa dei pronoiaroi e li guida in una carica contro gli apparentemente inarrestabili cavalieri di Agostino de Finiza e contro le unità di arcieri che continuano a bersagliare i nemici.



La buona stella che lo ha protetto due anni prima al Passo del Turchino non abbandona Pietro nemmeno ora e infatti è Agostino a cadere sul campo. La sua morte ha effetti nefasti per la causa di Venezia: privi di una presenza carismatica, i soldati della Serenissima cominciano a dare campo e una micidiale carica alle spalle li manda definitivamente in rotta, consegnando la giornata a Bisanzio.





Pietro di Amastri, nello scrivere quella sera il resoconto della battaglia per il basileus , non può però esimersi dal ricordate che questa vittoria è stata estremamente dura – oltre 3.400 soldati caduti - e che senza aiuti difficilmente egli sarà in grado di mantenere oltre la posizione.
Keirosophos
00martedì 21 settembre 2010 18:56
Bellissimo aggiornamento! [SM=x1140428]
Keirosophos
00martedì 21 settembre 2010 18:56
-scusate doppio post-
frederick the great
00mercoledì 22 settembre 2010 12:19
Prima di postare questo nuovo aggiornamento vorrei ringraziare sentitamente tutti quelli che seguono questa campagna: grazie davvero per l'incoraggiamento! E lasciate post, mi raccomando!
Dedico questo aggiornamento a chiunque, per qualsivolgia motivo, detesta Venezia e vuole vederla nella polvere. Enjoy!



Le parole di Pietro di Amastri sono certamente veritiere, ma a Konstantinoupolis il basileus sta già da tempo emanando ordini per un attacco in forze. Nello stesso anno di Codogno la legio II Balcanica muove da Ras e invade la Zeta, puntando risolutamente su Ragusa: alla sua testa c’è il fratello minore di Pietro, Demetrio di Amastri. È la mossa che il doge si aspetta e a cui ritiene di poter efficacemente reagire: invia ordini al governatore di Zara, Prelato de Draga, di resistere il più a lungo possibile e promette l’invio di una grande armata di soccorso, il cui assemblaggio viene avviato a Pola. Frattanto Pietro Argiro Comneno non se ne sta ad aspettare, ma prepara quello che dovrà essere il vero colpo di maglio: la V Greca viene affidata a Teodoro di Magnesia e riceve l’ordine di iniziare i preparativi per partire al minimo segnale da Naupaktos; la IV Asiatica, spostata rapidamente da Kayseri a Smyrna, è già salpata per raggiungere l’Epiro al comando del principe Niceta Argiro Comneno.





Il 1225 si apre con una situazione quanto mai in bilico: Venezia non ha più tentato alcun attacco contro la Lombardia, ma la VII Helvetica non è assolutamente in condizione di muovere un’offensiva; la II Balcanica ha ormai sotto controllo gran parte della Zeta e sta assediando da diversi mesi Ragusa, fieramente difesa dalle truppe di Prelato de Draga; L’armata di soccorso, affidata al capace capitano Daniele e forte di oltre 9.000 uomini, lascia Pola sul finire dell’anno precedente e arriva a Zara per marzo; Verona è difesa dall’esperto Vitale Barbarigo, Mestre è poderosamente controllata da un grande esercito e un’altra armata assicura il controllo sul contado veneto. Inoltre – ma questo non è noto al doge – le mosse del basileus stanno attirando sempre più critiche e il prestigio personale di Pietro Argiro Comneno ne risulta intaccato (80%).



Ma il 1225 è l’anno determinante della guerra, quello in cui Bisanzio prende un vantaggio troppo grande per essere perso. Con un’audace operazione navale – peraltro assai poco complicata dalla flotta veneziana – la V Greca sbarca nell’aprile a sud di Pola. La fortezza è difesa da 2.000 uomini della riserva e nulla può contro l’attacco di 8.000 soldati sostenuti da un piccolo treno d’assedio.







Un mese dopo la IV Asiatica sbarca direttamente in terra veneta e il principe Niceta comincia l’avanzata verso il proprio obbiettivo: la grande fortezza di Verona, la cui caduta toglierebbe a Venezia una base militare dal valore strategico notevole. L’unica speranza per il doge risiede nel poderoso esercito del capitano Luigi, 12.600 uomini a cui sono stati attaccati i 1.000 del capitano Ilario. Niceta dimostra un notevole acume tattico e riesce, con una serie di marce rapide, a sorprendere Ilario presso il villaggio di Roncade. Il capitano veneziano manda immediati messaggi di soccorso a Luigi e si attesta come può su una sorta di collina da cui si domina l’area circostante. Un luogo tatticamente importante, che Niceta non può permettersi di lasciare in mano al nemico: invia dunque gli hippotoxotai a colpire duramente – le truppe di Ilario sono tutte miliziane – e guida personalmente il resto della legio in una corsa contro il tempo per arrivare alla collina. Perché Luigi sta arrivando e a sua volta intende occupare la zona rialzata.





Purtroppo per Venezia la corsa viene vinta, seppur d’un soffio, dai Bizantini e Niceta, forte del vantaggio acquisito, costringe Luigi ad attaccare in condizioni sfavorevoli; frattanto i pronoiaroi , protetti dal terreno rialzato e dunque invisibili ai Veneziani, scivolano sull’ala destra. Il cerchio si chiude rapidamente e il destino di Luigi e dei suoi viene segnato.









Il trionfo di Roncade – 1.000 bizantini caduti a fronte di oltre 13.000 veneziani annientati – apre a Niceta la strada di Verona, che viene conquistata l’anno seguente dopo una breve battaglia.





Ma soprattutto questi attacchi paralizzano la macchina bellica veneziana e l’esercito di soccorso, privo di ulteriori ordini da parte del doge, resta a Zara. Ciò condanna ovviamente Ragusa, che viene conquistata dalla II Balcanica al termine di una sortita tanto coraggiosa quanto disperata degli uomini di Prelato de Draga.





Decisa a sfruttare al massimo il vantaggio acquisito, Bisanzio muove le sue pedine. Una spedizione guidata da Giorgio Mondello raggiunge Niceta a Verona – ma la VII Helvetica resta a sorvegliare le mosse francesi; intanto la II Balcanica lascia Ragusa al comando dell’anziano ed esperto Giorgio Licude, in quando Demetrio di Amastri è stato nominato Duca di Zeta e incaricato della pacificazione definitiva della regione.





L’obbiettivo della II Balcanica è ovviamente Zara, la cui conquista darebbe a Bisanzio la continuità territoriale di tutti i suoi domini. Ma la città è fortemente difesa e i Veneziani non intendono affatto cedere senza combattere.





La guarnigione di Zara è composta da 8.250 uomini al comando del capitano Domenico, uomo determinato e deciso a non permettere al nemico di vincere. Nell’area circostante sono accampati i 9.930 uomini del capitano Daniele, l’esercito originariamente assemblato per portare soccorso a Ragusa assediata. Queste truppe sono un pericoloso mix di truppe professionali e di veterani della milizia, con ampi contingenti di arcieri e sostenuti da squadroni di cavalleria.
Per contro la II Balcanica dispone di 9.470 effettivi, non avendo avuto alcun tempo per ripianare le perdite subite a Ragusa; resta comunque una forza estremamente duttile e pericolosa, guidata da una mano ferma ed esperta come quella di Giorgio Licude. Questi è tutt’altro che contrario a una grande battaglia, anzi: intende distruggere il nemico con un unico grande colpo di maglio e spazzare via Venezia dalla Dalmazia. Decide pertanto di attaccare anzitutto le forze di Daniele e adotta uno schieramento piuttosto classico: una linea di lancieri pesanti al centro, alle cui spalle agiscono in sicurezza i trapezountai ; una seconda linea, composta da skoutatoi , dietro gli arcieri; due ali di cavalleria con, a destra, anche gli hippotoxotai .
Dal canto suo Daniele sistema le proprie truppe su due profonde linee di fanti con gli arcieri a formare una linea avanzata; soprattutto manda messaggi al collega Domenico, invitandolo ad unirsi alla battaglia e proponendogli un piano comune. Le truppe di Domenico appaiono rapidamente all’orizzonte, anch’esse strutturate su due profonde linee di fanti, con arcieri in linea avanzata e due squadroni di cavalleria all’ala destra.
Giorgio Licude, resosi conto del serio rischio di un congiungimento, decide di impedire la mossa e ordina un cambiamento di posizione e di schieramento.



La II Balcanica si sposta decisamente verso la propria destra per affrontare l’esercito di Domenico in marcia, con gli skoutatoi sistemati all’ala sinistra e tutta la cavalleria concentrata a destra. Gli hippotoxotai vengono inviati a disturbare le manovre veneziane.
A questo punto parecchie cose cominciano ad andare storte: i due eserciti veneziani smettono di marciare l’uno verso l’altro per unirsi, ma lanciano invece due attacchi di massa. I lancieri pesanti bizantini si ritrovano a dover lottare selvaggiamente contro una marea sempre crescente e arrembante per difendere ogni singolo centimetro di terreno.



Contemporaneamente gli skoutatoi attaccano sul fianco i veneziani all’assalto, ma questa mossa non riesce a dare quel respiro sperato, anzi; a loro volta gli skoutatoi devono mettere in gioco il loro addestramento e la loro abilità per non cedere terreno. Giorgio Licude, che sta rapidamente perdendo il controllo della battaglia, osserva disperatamente lo schieramento nemico alla ricerca di uno spiraglio attraverso il quale scatenare i pronoiaroi , ma senza successo; con acume Domenico mantiene alcuni contingenti di fanti in retroguardia, pronti ad intervenire con le loro mortifere lance in caso di attacco della cavalleria. Licude sta per ordinare alla cavalleria di girare alle spalle dei propri fanti per portarsi a sinistra, dove la situazione è più aperta, quando un novo problema attira il suo sguardo: gli hippotoxotai si trovano in una spinosa situazione. La loro avanzata, lungi dallo spaventare i Veneziani o dall’indurli a perdere coesione, è stata accolta dagli arcieri con un nutrito lancio di frecce; questo ha costretto gli hippotoxotai stessi a rispondere con egual moneta e, in ultima analisi, li ha esposti all’improvvisa e feroce carica della cavalleria veneziana.



Tartassati dalle frecce avversarie, impossibilitati a combattere secondo le proprie preferenze, caricati dal nemico, gli hippotoxotai reagiscono cedendo terreno e dandosi alla fuga.



Mai un’unità legionaria bizantina si è data alla fuga e per Giorgio Licude questa è un’atroce macchia da cancellare immediatamente col sangue del nemico: così guida la propria guardia in una spettacolare carica che praticamente annienta la cavalleria nemica. Ma, proprio negli ultimi istanti della mischia, una spada veneziana trova la giusta via e colpisce mortalmente Giorgio Licude, che crolla al suolo.
I Veneziani esultano alla notizia della morte del generale nemico e il capitano Daniele incita vieppiù i propri soldati alla sforzo finale: il morale dei Bizantini scricchiola ed è tempo di chiudere il conto.



E il conto viene infatti chiuso, ma in un modo a cui Daniele non aveva affatto pensato. Del tutto inutilizzati fino a quel momento, i comandanti dei quattro squadroni di pronoiaroi si trovano d’accordo nel lanciare una carica contro l’ala sinistra nemica e contro i corpi di fanteria della retroguardia. I Veneziani, di fronte alla minaccia, si preparano a reggere l’urto; ma l’attacco dei pronoiaroi è troppo impetuoso e spietato.


Sfondata nel sangue la linea di difesa nemica, i pronoiaroi si lanciano come lupi contro le spalle scoperte dello schieramento veneziano, portandovi la morte.



E a questo punto gli eroici soldati di Venezia cedono di schianto e iniziano una precipitosa ritirata che Daniele cerca inutilmente di arrestare: spietatamente inseguiti dai pronoiaroi gli uomini scappano o si arrendono a centinaia; lo stesso Daniele è catturato. Alla fine la giornata è ancora di Bisanzio e l’aquila imperiale sventola sulle mura di Zara, ma il prezzo pagato è molto alto: oltre 2.000 uomini sono caduti, fra cui lo stesso comandante.
Per i Veneziani Zara è un punto di non ritorno: essa segna la perdita dell’ultimo dominio orientale e di due armate per un totale complessivo di oltre 18.000 uomini.





La perdita di Zara getta il doge Almerico in un profondo stato di prostrazione e la situazione viene presa in mano dal consigliere Stefano, che si sposta rapidamente a Bologna. Ma ormai il sole di Venezia è irrimediabilmente destinato a tramontare e a non farsi più rivedere. L’anno dopo la colossale battaglia in Dalmazia, l’esercito di Mestre, 10.000 uomini della milizia, viene sistematicamente diviso, attaccato e infine distrutto dal corpo di cavalleria pesante lombarda di Giorgio Mondello.





Lo stesso Mondello nel 1229 coglie una nuova vittoria assicurando il controllo del principale guado del Po.








Questo libera definitivamente il campo per l’attacco decisivo, che viene portato nello stesso 1229. Giorgio Mondello, arruolati alcuni contingenti mercenari, assedia Bologna; Niceta, alla testa della IV Asiatica a ranghi completi, marcia invece contro Venezia stessa. Gilberto Contarini, il valoroso nobile al quale è affidato il comando delle ultime truppe veneziane, 12.700 uomini arruolati in fretta e furia, cerca inutilmente di fermare l’avanzata bizantina; nel corso di una colossale battaglia, quasi l’intera totalità dell’armata viene annientata e Contarini ucciso a prezzo di 2.000 bizantini.







Il doge Almerico si rifugia disperato nel proprio palazzo e la difesa estrema della città lagunare resta in mano a volenterosi cittadini. Nel 1232, ormai stremati, i veneziani si arrendono e poco dopo Giorgio Mondello rientra nella sua città – non ha mai abbandonato il titolo di Legato di Romagna – dopo quasi trent’anni.





La gloriosa storia della Serenissima Repubblica Veneta si chiude.
Keirosophos
00mercoledì 22 settembre 2010 13:53
Fantastica! [SM=x1140522]
Romolo Augustolo
00mercoledì 22 settembre 2010 17:33
sìììììììììì!!!! in EU3 venezia mi fotte sempre evvai!!!!!!!!!!!!!! è MORTA. E DICO MORTA!!!!!!!
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