Prezzi delle case: in Italia i valori più sproporzionati d’Europa!

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marco---
00domenica 26 agosto 2012 00:30
I prezzi delle case in Italia sono i più sproporzionati d’ europa rispetto ai redditi...
Ringraziando stelafe per questa segnalazione.

Prezzi delle case: in Italia i valori più sproporzionati d’Europa! (Fonte: immobiliareok.altervista.org - 21/08/2012)

“I prezzi delle case in Italia sono i più sproporzionati d’ europa rispetto ai redditi. A certificarlo è un rapporto proveniente da Londra, a cura del centro di ricerche di Savills, una delle più grandi società di real estate al mondo.”



Come vediamo nel grafico in alto, che tiene conto dei dati eurostat, un tipico appartamento da 90 mq costerebbe in Italia in media 264.000 euro. Questo valore, se confrontato con il pil pro-capite (gdp per capita), mette in luce come il rapporto tra prezzi delle case e ricchezza media sia del tutto sproporzionato.



L’ indice house price ratio (quando è vicino a 4 rappresenta l’equilibrio) è in Italia quasi a 8, mentre in Spagna, dopo i crolli dei prezzi delle case, sta raggiungendo la normalità e in Irlanda, il paese che ha sperimentato la maggiore bolla immobiliare, le correzioni sono state rapide e sonore.

In questi cinque anni di crisi, infatti, mentre in molti paesi europei i prezzi delle case sono scesi in modo notevole, da noi è un fenomeno appena cominciato e rimane quindi, un ampio margine da colmare rispetto al resto d’Europa.



Il rapporto, tuttavia, evidenzia come il mercato immobiliare di un determinato paese non segua sempre le stesse regole. Nel Regno unito e in Francia, per esempio, i macro distretti di Londra e Parigi costituiscono un mondo a parte, mentre in Italia, suggerisce che, nonostante i prezzi siano i più sopravvalutati di tutto il continente, altri fattori possano spiegare questo fenomeno, come per esempio i risparmi delle famiglie.

E’ comunque vero che negli ultimi mesi il mercato italiano sta cambiando con prezzi delle case che hanno cominciato ad abbassarsi sempre più rapidamente e che, per la primi volta, la crisi del settore si sia estesa a tal punto da poter riservare delle sorprese.

Già un paio di anni fa, uno studio del Financial Time, aveva evidenziato come i valori immobiliari italiani, fossero sopravvalutati di un 8.7% rispetto ad una analoga comparazione con i redditi. Oggi ci troviamo con un house price ratio pari al doppio dell’indice normale…è evidente che, per una ripresa del mercato immobiliare, esista un’unica soluzione…
marco---
00venerdì 9 agosto 2013 09:26
E se la ripresa del mercato immobiliare dipendesse da prezzi più accessibili? (Fonte: casaeclima.com - 08/08/2013)

Per evitare che la bolla immobiliare esploda non servono più incentivi e meno tasse. Serve un allineamento dei prezzi di mercato ai redditi familiari, che sono molto più bassi rispetto al periodo pre-crisi.

Il settore immobiliare è fermo e non dà segni di ripresa, neanche di ipotizzabili sul lungo periodo. Le proposte per farlo ripartire sono innumerevoli ma hanno tutte un filo conduttore: il presupposto che l’intervento, qualunque esso sia, debba essere statale. Si va dall’eliminazione o riformulazione dell’Imu, dai vari sgravi fiscali, agli incentivi per la ristrutturazione e riqualificazione energetica. Ma se la ricetta per disinnescare la bolla immobiliare fosse un’altra? Se l’unica soluzione fosse quella di una riduzione dei valori immobiliari che andrebbero rimodulati in base alla disponibilità di spesa dei potenziali acquirenti, inevitabilmente scesa rispetto ai periodi di pre-crisi?

I PREZZI VANNO ABBASSATI E ADEGUATI AL REDDITO DELLE FAMIGLIE. A sollevare la questione è un articolo pubblicato ieri su lavoce.info, a firma di Raffaele Lungarella, in cui viene evidenziato come le condizioni dell’offerta abbiano una responsabilità non secondaria nell’originare la crisi e che si debba intervenire principalmente su di esse per uscirne. Il suggerimento è chiaro: i prezzi delle case vanno abbassati e adeguati ai redditi delle famiglie. Un’operazione che molti altri paesi hanno messo in atto e a cui l’Italia invece non ha pensato.

L’INIZIATIVA DOVREBBE PARTIRE DAI PROPRIETARI. In realtà non è che non ci abbia proprio pensato- riferisce Lungarella, sottolineando come sia l’Istat che l’Abi abbiano più volte diffuso dati allarmanti e proposto misure per rendere le abitazioni più accessibili alle famiglie. Prendendo però come esempio la proposta lanciata dall’Abi di destinare gli immobili invenduti all’edilizia sociale, l’istituto ha sempre ritenuto che l’operazione avrebbe dovuto essere parte di un Piano Casa con fondi Cdp. Ed è questo il problema. Se la disponibilità ad abbassare i prezzi delle abitazioni fosse direttamente degli imprenditori- proprietari, non sarebbe necessario attendere un futuribile nuovo piano casa.

ALLINEARE I PREZZI A QUELLI DELL’EDILIZIA CONVENZIONATA. Si tratterebbe, suggerisce Lungarella, di allineare i prezzi dell’edilizia di mercato ai più bassi valori dell’edilizia convenzionata. “A parità di caratteristiche costruttive e di localizzazione, la differenza di prezzo tra le due tipologie di alloggi è data principalmente dal diverso valore attribuito all’area edificabile. Nel caso dell’edilizia convenzionata, è il risultato della negoziazione tra comune e impresa di costruzione ed è mantenuto relativamente basso. Nel caso dell’edilizia libera, il valore dell’area è stabilito dal mercato, in genere oligopolistico in ragione del numero ristretto di proprietari dei terreni agricoli che diventano edificabili; è un valore molto alto. L’incremento di valore delle aree, che fa lievitare il prezzo delle case, costituisce la rendita che l’operatore incassa senza particolare merito (se non, forse, quello di una capacità di interazione con la pubblica amministrazione). Se la rendita viene depurata e si contabilizza il solo valore di acquisto delle aree, i prezzi di vendita delle case si abbassano in misura consistente e si riequilibra il loro rapporto con il reddito delle famiglie. Gli imprenditori che hanno realizzato gli immobili su aree di cui erano già proprietari prima che diventassero edificabili (è il caso più ricorrente in molte aree) non accuserebbero nessuna perdita. Semplicemente guadagnerebbero di meno, ma accrescerebbero le probabilità di vendere i loro alloggi. Una ripresa delle vendite porterebbe benefici anche alle banche che li hanno finanziati." Se, come sostengono Confindustria e Abi, conclude l'articolo, la ripresa del mercato della casa necessita di una caduta dei prezzi, è interesse di tutti i soggetti coinvolti non aspettare che la bolla esploda, bensì innescare una deflazione controllata.

SONDAGGIO BANKITALIA. Una conferma alla stagnazione del settore immobiliare arriva anche dagli ultimi dati, riferiti al secondo trimestre 2013 del ''Sondaggio congiunturale sul mercato delle abitazioni'' pubblicato da Bankitalia. Secondo cui le aspettative sul segmento abitazioni del settore immobiliare sono peggiorate.

Un mercato sempre più debole. Le interviste sul mercato delle abitazioni in Italia si sono svolte tra il 25 giugno e il 19 luglio 2013. Vi hanno partecipato 1.375 agenzie immobiliari1. I giudizi degli agenti immobiliari indicano che nel secondo trimestre del 2013 e' proseguita la fase di debolezza del mercato: continuano infatti a prevalere le indicazioni di flessione delle quotazioni (sebbene in lieve attenuazione rispetto ad aprile) e diminuisce il flusso dei nuovi incarichi a vendere. La quota del valore dell'immobile finanziata tramite mutuo e' in diminuzione da un anno.

Aspettative sfavorevoli. Nel mercato delle locazioni si segnalano ulteriori flessioni dei canoni, anche se in misura inferiore rispetto al precedente sondaggio. Le aspettative a breve termine sono peggiorate, sia per il mercato locale di riferimento sia per quello nazionale, annullando il parziale progresso registrato nell'inchiesta precedente; la flessione delle quotazioni proseguirebbe nel trimestre in corso. Anche per le aspettative di lungo periodo (due anni) sono tornati a prevalere i giudizi sfavorevoli sugli andamenti del mercato nazionale.

Trattative e tempi di vendita. Per quanto riguarda le trattative e i tempi di vendita, il margine di sconto rispetto alla richieste iniziali dei venditori e' rimasto stabile al 15,7%, mentre e' aumentato il tempo che intercorre tra l'affidamento dell'incarico e la vendita dell'immobile, si sale da 8,8 da 8,6 mesi. Gli agenti segnalano anche, dopo due mesi di rialzi consecutivi, una diminuzione congiunturale dei prezzi. E' lievemente diminuita la quota di agenzie che hanno venduto almeno un'abitazione (al 63,6% per cento, contro il 64,4% osservato in aprile e in gennaio) ,che tuttavia resta di quasi otto punti percentuali sopra il minimo registrato nel terzo trimestre del 2012. La quota di acquisti di abitazioni finanziati con un mutuo ipotecario e' diminuita per il quarto trimestre consecutivo (al 55% cento, contro il 56,1% del sondaggio precedente e il 64,7 rilevato nel secondo trimestre 2012).

Canoni stabili. E' rimasta sostanzialmente invariata (all'80%) la percentuale di agenzie che hanno locato almeno un immobile. Tra queste, il 60 per cento ha segnalato una flessione dei canoni di locazione rispetto al trimestre precedente (contro il 66,6% nell'indagine di aprile), mentre sono aumentati i giudizi di stabilita' dei canoni (al 37,9%, contro il precedente 30,7%). Il saldo percentuale tra attese di miglioramento e di peggioramento del mercato nazionale nel prossimo biennio e' tornato su valori negativi (-5,5 punti percentuali) dopo due rilevazioni consecutive in cui erano prevalse indicazioni di miglioramento. Il deterioramento ha riguardato tutte le aree geografiche; solo al Sud e nelle Isole si rilevano saldi positivi.
marco---
00sabato 12 aprile 2014 10:46
Immobiliare, crisi salutare contro il mercato drogato” (Fonte: pagni.blogautore.repubblica.it - 11/04/2014)

Ha creato drammi occupazionali e chiusura di imprese. Ma la crisi che ha colpito il settore immobiliare è stata anche salutare. perchè ha messo fine “a un mercato drogato dalla finanza facile e progetti sganciati dalla realtà”, Calmierando i prezzi e aprendo a nuove riflessioni sul modo di costruire e sull’uso degli spazi urbani. A esserne convinto è Alessandro Maggioni, presidente di Federabitazione-Confcooperative.Che fa il punto su quanto accaduto e fa alcune proposte. Anche provocatorie.

La crisi ha colpito il settore delle costruzioni, con calo di occupati, blocco dei cantieri e crollo dei prezzi. Ma è tutto così negativo? Non è stato in qualche modo salutare per calmierare i prezzi delle abitazioni?

Parto da una considerazione, relativa al calo dei prezzi, rispetto al quale non parlerei di crollo ma, stando alla metafora “sismica”, parlerei di smottamento. Con l’avvio della prima grande depressione immobiliare del nuovo millennio, infatti, non si è vista una brusca e repentina caduta dei valori degli immobili, bensì si è assistito a un progressivo, continuo e costante calo degli stessi, in un periodo relativamente lungo. Ciò perché la gran parte dei cespiti immobiliari incagliati e acquisiti da molti operatori nei momenti appena precedenti la crisi sono stati comprati, nella più parte dei casi, con un’ampia leva finanziaria. Oggi, le banche si trovano nei loro bilanci operazioni immobiliari che non hanno più alcuna speranza di successo alle sopravvalutazioni con cui sono state acquisite. Quindi, la strategia è da un lato quella dell’attesa verso momenti migliori (per le operazioni più appetibili) o una lenta (e saggia) svalutazione per il resto, puntando così a costi di commercializzazione più in linea con le reali esigenze e necessità del mercato.
Anche a partire da ciò arrivo a rispondere alla domanda: no, non tutto è negativo, in relazione alla crisi. Al netto del problema occupazionale e imprenditoriale a cui si connettono spesso drammi umani, penso che in generale si possa dire che la crisi ha agito, per il “mercato immobiliare” drogato da finanza facile e progetti spesso sganciati dalla realtà, da disintossicatore. Si è passati, insomma, da un’offerta sovraprodotta che intendeva generare una domanda ipertrofica e anabolizzata, a una domanda più attenta, consapevole e riflessiva. A una domanda, insomma, più vicina al bisogno primario di abitazione piuttosto che a quello “edonistico”, spesso indotto nel recente passato.
Non è venuto il momento di una riflessione sull’uso del territorio? Che senso ha continuare a costruire se a ogni statistica leggiamo di migliaia di appartamenti sfitti?

Sì, senza alcun dubbio. Il tema dell’uso del territorio e della trasformazione – spesso distruttiva – del “paesaggio” a esso correlata è un tema ineludibile. Ciò non significa avere un atteggiamento luddista e nostalgico legato a un ritorno a una società rurale, bensì comprendere solo come da un rapporto equilibrato tra città e campagna, tra pieno e vuoto, tra artificio e natura si ri-generi quella qualità urbana e territoriale che genera qualità della vita e socialità. Non a caso la parola “paesaggio” deriva da “paese”! In tal senso anche taluni approcci ideologici – utili ma non produttivi di credibili azioni legislative – che considerano come suolo occupato il suolo, per esempio, di un grande parco urbano, non aiutano la causa ma – al contrario – alimentano la reazione.
Rispetto al freno al consumo di suolo libero e al riuso di quello occupato, degradato, sottoutilizzato, sarebbe bene considerare con attenzione una questione a mio avviso fondamentale: se si propongono solo leggi conservative rispetto alla sacrosanta necessità di fermare la trasformazione di aree agricole o verdi in suolo edificabile, senza pensare contemporaneamente a un sistema di agevolazioni (fiscali, procedurali e recanti certezze in tema di bonifiche) per il riuso del suolo occupato, alla lunga – in questo nostro paese a flebile intensità civica – la battaglia sarà persa. Resta sempre troppo vantaggioso economicamente, infatti, distruggere terreno vergine piuttosto che riconvertire quello “contaminato”.
Sul perché si continuano a costruire nuovi alloggi a fronte di una forte offerta di sfitto, in parte si dovrebbe tornare agli argomenti toccati nella prima questione: spesso si è costruito e si costruisce non per rispondere a un bisogno effettivo ma solo per “muovere la macchina” e per indurre domanda.
Nel recente passato poi molto spesso i comuni hanno utilizzato l’urbanistica per fare cassa, ossia agevolando cambi di destinazione d’uso scriteriati, scommettendo su una crescita infinita del mercato (che poi è collassato) per ottenere oneri di urbanizzazione utili a chiudere i bilanci comunali, facendo dei veri e propri “falsi in bilancio”. Senza dimenticare poi che sovente l’edilizia connessa alle trasformazioni immobiliari, anche minute e in sperduti comuni di provincia, è un potente combinato disposto per riciclare denaro sporco (a tal proposito si provi a guardare la qualità urbana espressa in quei territori lombardi segnalati come roccaforti della ‘ndrangheta e si vedrà il trionfo della distruzione di ogni estetica del paesaggio urbano).

Quale qualità del costruito? In passato non si è edificato troppo e male, lontani anni luce dagli standard europei?

Anche qui farei una distinzione. Se per qualità del costruito ci riferiamo alla qualità “urbana” del costruito, quindi non solo guardando al manufatto edilizio in quanto tale, bensì al suo rapporto con lo spazio pubblico, con le funzioni e con la città in generale, la risposta è sì: si è costruito troppo e male.
Se, invece, parliamo di qualità media degli edifici di più recente costruzione – naturalmente con una discreta differenza tra diverse aree terrritoriali – il giudizio non è così secco. La qualità media del costruito (al netto della fondamentale questione estetico-compositiva, spesso maltrattata), infatti risente di una serie di norme che hanno obbligato a rendere performanti gli edifici dal punto di vista energetico, termico e acustico, in linea con quanto accade in Europa.
In ogni caso è indubbio il fatto che non vi sia una coscienza diffusa, sia nella committenza, sia nel ceto professionale, di quanto sia necessario porre il tema del progetto urbano ed edilizio al centro del dibattito, sfuggendo scorciatoie modaiole e figlie delle terrificanti “archistar”, inseguendo invece pensieri collettivi e collaborativi.

Uno dei motivi che ha fatto lievitare i prezzi degli immobili è stato il costo del terreno. Il pubblico potrebbe intervenire in qualche nodo perché il fenomeno si ripeta?

Non ci sono dubbi: il costo delle aree, ossia l’incidenza della rendita fondiaria, è il fattore primo che determina il costo finale di un alloggio. Certo, in talune zone di maggior pregio, anche il peso del profitto immobiliare atteso da un’operazione non è indifferente ma – senza dubbio alcuno – la prima imputata per gli alti costi degli immobili è proprio la rendita.
Tale questione, oggetto di innumerevoli studi di economisti e urbanisti, è strettamente connessa – a mio avviso – con il sottostante regime dei suoli che, nel nostro Paese, è ineludibilmente intrecciato con una soverchiante prevalenza dei diritti del “privato” rispetto a quelli del “pubblico”. Dunque, in partenza, il cosiddetto “pubblico” parte già in svantaggio. A completare il quadro di labilità pubblica su un tema così importante contribuisce – oltre allo scarso civismo collettivo che vede, da sempre, nella trasformazione del suolo un favoloso fattore di arricchimento individuale – vi è una tale frammentazione nella legislazione urbanistica (oltretutto antiquata) che non favorisce l’affermarsi di un forte indirizzo collettivo nella definizione di politiche urbane virtuose, sia qualitativamente sia quantitativamente.
È chiaro che una politica che metta al centro la questione urbana, senza ideologismi, ma con una forte visione prospettica è una necessità e una possibilità che non andrebbe sprecata.
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