Personaggi internazionali

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Sound72
00venerdì 1 agosto 2014 16:34
è morto a 42 anni Belkevich, ex nazionale bielorusso e capitano della Dinamo Kiev...
mi dispiace, bel centrocampista, aveva pure qualità...
Sound72
00mercoledì 17 settembre 2014 18:08
Re:
Sound72, 01/08/2014 16:34:

è morto a 42 anni Belkevich, ex nazionale bielorusso e capitano della Dinamo Kiev...
mi dispiace, bel centrocampista, aveva pure qualità...




e' scomparso a 41 anni anche Gusin, compagno di squadra di Belkevich nella Dinamo Kiev, uno dei punti fermi della nazionale con Rebrov e Shevchenko ..incidente con la moto.. [SM=g27992]

Sound72
00martedì 7 ottobre 2014 20:14
Wim Kieft. Coca e debiti: "Tossico perso"


Tossicodipendenza, debiti, matrimonio fallito e tentativi di disintossicazione andati male: così si racconta l'ex giocatore di Pisa e Torino nel suo libro "Kieft"

Diciannove anni di tossicodipendenza, un matrimonio e una relazione fallita, 4 figli, 400 mila euro di debiti con lo Stato, 2 tentativi di disintossicazione andati male e un naso che perde sangue. Così si descrive oggi Wim Kieft nel suo libro "Kieft", che integra il già nutrito filone di biografie shock, genere di moda in Olanda. Dopo Van der Meyde, Ricksen e Helder, tocca all’ex Pisa e Toro raccontare la sua vita. Con un’avvertenza. "Chi vuol leggere di strip bar, folli corse notturne in auto e sesso con modelle ha sbagliato libro. Non c’è niente di selvaggio in un uomo solo in una camera d’albergo, con 4 bottiglie di vino e una montagna di coca".
BISOGNO DI AIUTO — È andata avanti così fino al 2013, quando Kieft è tornato nella clinica di Best per la terza volta, quella decisiva. "Almeno per la cocaina, perché sull’alcol ci sto lavorando. È un processo lungo e difficile, frequento ogni giorno le riunioni del Narcotics Anonymous, interiorizzando il loro motto: se ti svegli alle 6 di sera, ricordati che la tua malattia è già in piedi da un’ora. Al primo incontro col medico dissi: Sono Kieft, penso lei sappia con chi stia parlando. E lui: Sì, con un tossico che ha un disperato bisogno di aiuto". Kieft è un libro che parla di dipendenza e fragilità. Nella prima Kieft ci è caduto chiusa la carriera. Vale la pena ricordarla: debutto a 17 anni nell’Ajax, Scarpa d’Oro a 20, campione d’Europa nel 1988 con Olanda e Psv, oltre 200 reti in carriera. "Ma mi sono sempre sentito inadeguato. A Parigi, mentre mi consegnavano la Scarpa d’Oro, pensavo: ecco un perdente in giacca e cravatta. Guardavo Platini e Paolo Rossi accanto a me, si muovevano disinvolti, io me la facevo sotto". A 18 anni è già l’idolo delle ragazzine: dalle fan gli arrivano fino a 60 lettere al giorno. "Ma la mia prima ragazza l’ho avuta solo a 19 anni, ed è poi diventata mia moglie. Il mio complesso di inferiorità scompariva solo quando bevevo: a 17 anni presi la mia prima sbronza, alla giornata di pesca con l’Ajax". Dietro la faccia d’angelo si sono sempre nascoste depressione, vergogna e paura. "Se sbagliavo un rigore a casa piangevo".
IN ITALIA IN ETERNO — In carriera c’è pure l’Italia. "Mia madre mi comprò un giaccone rosso: devi fare bella figura, disse. Arrivai a Pisa e c’erano 35 gradi. I primi mesi volevo scappare, al terzo anno avrei voluto rimanere in Italia in eterno, nonostante al Toro Radice mi disse che dopo l’infortunio al ginocchio non sarei più tornato quello di prima. Ma mi cercò il Psv, uno squadrone, e così me ne andai". Poi Bordeaux, di nuovo Psv e poi il buio. "Ho provato la coca per la prima volta a 33 anni, in discoteca. Da allora ne avrò sniffata una quantità pari a mezzo milione di euro. Oggi vivo con 20 euro al giorno, se ne avessi 100 li spenderei tutti. Giro in treno e in bici, non posso permettermi un taxi. Il piano di rientro dai debiti con lo Stato lo gestisce il mio manager. Per fortuna il lavoro, da opinionista o commentatore tv, non mi manca. Mi facevo perché mi piaceva e ho continuato perché non potevo più farne a meno, come un tossico qualsiasi".

gazzetta.it

quanto avrà pippato? 5-6 chili di coca? [SM=x2478856]
giove(R)
00venerdì 10 ottobre 2014 14:55
mi dispiace... Wim Kieft era uno dei primissimi stranieri arrivati in Italia con la riapertura. lo prese prima il Pisa, all'epoca se ne poteva prendere solo uno. non era un campione ma segnava, a me non dispiaceva. e aveva la faccia simpatica.

beh non avrei mai pensato nascondesse tale profonda insicurezza.
e fa (per l'ennesima volta) pensare. che poi questi che vediamo come "animali da prestazione", a cui chiediamo tante cose, sia tecniche, che fisiche, che mentali...
e resta più che mai il discorso sulla mentalità, nellos port (e non solo). ecco perchè è così importante scegliere gli uomini prima dei giocatori.

spero gli vadano bene le cose, Kieft era proprio un goleador dalal faccia pultia, e naturalmente mi ricorda gli inizi del mioa vvicnamento al calcio "visto" e non più SOLO giocato.
avevo 14 anni quando arivà al Pisa. sono passati più di 30 anni.

auguri.
lucaDM82
00mercoledì 22 ottobre 2014 19:41
Carlos Henrique Kaiser, l’uomo che si finse calciatore per 20 anni
ottobre 16, 2014


Ha giocato nei più importanti club brasiliani sfruttando le sue amicizie, ma non era un calciatore.


E’ possibile fare carriera nel mondo del calcio senza essere un calciatore, senza giocare nessuna partita e guadagnando anche dei soldi? Per quanto possa sembrare impossibile, sì. Questa è la surreale e quasi comica storia di un giovane brasiliano che, con la sua straordinaria capacità di risolvere situazioni apparentemente compromesse, è riuscito a “giocare” per quasi 20 anni nell’elite del calcio brasiliano, messicano e francese. Carlos Henrique Raposo, nato a Rio de Janeiro nel 1963, aveva un dono e non era precisamente quello di saper giocare a calcio: sapeva intrattenere relazioni come nessuno.
Assiduo frequentatore delle notti della Rio de Janeiro degli anni ’80, Carlos diventò il principale punto di riferimento per i calciatori che cercavano un po’ di svago nella città brasiliana, da Ricardo Rocha a Edmundo, passando per Romario, Bebeto, Renato Gaucho e chi più ne ha più ne metta. A quel punto l’idea geniale: convincere i giocatori a farlo ingaggiare dai club come calciatore professionista. Era sicuro di quello che faceva, Carlos, in primo luogo perchè era convinto di poter giocare, secondo poi perchè lo aiutava un fisico atletico – simile, da come raccontano, a quello di Beckenbauer e da lì il soprannome Kaiser – che evitava qualsiasi tipo di sospetto a prima vista.
Il primo contratto da professionista arriva nel 1986, tra le fila del Botafogo. Il tutto grazie a Mauricio, suo amico dai tempi dell’infanzia, che era uno dei calciatori più amati della torcida del club. Partite giocate a fine campionato: zero. “Facevo dei movimenti strani durante l’allenamento, mi toccavo il muscolo e me ne stavo 20 giorni in infermeria. A quel tempo non esisteva la risonanza magnetica. I giorni passavano, ma avevo un amico dentista che mi faceva dei certificati dicendo che avevo problemi fisici. E così, i mesi passavano…”.
Non avendo giocato nessuna partita non fu difficile trovare un’altra squadra da abbindolare, così l’estate successiva fu il turno del Flamengo. Lì c’era un altro grande amico, Renato Gaucho, ex giocatore della Roma e della Selecao, attualmente allenatore: “Sapevo che Kaiser era un nemico del pallone. Durante gli allenamenti si accordava con alcuni compagni per farsi colpire in modo di andare direttamente in infermeria”. Zero minuti giocati anche al Flamengo.
C’era anche un immagine pubblica da curare. Per alimentare la sua fama, si presentava agli allenamenti del Flamengo con un enorme telefono cellulare – che all’epoca rappresentava un alto status sociale – e fingeva telefonate in inglese affermando che erano grandi club europei interessati al suo ingaggio. I compagni e lo staff tecnico gli hanno sempre creduto, finchè un dottore che aveva vissuto in Inghilterra rivelò che le sue conversazioni erano totalmente senza senso. Una volta scoperto, si resero conto che non solo Carlos fingeva, ma che il cellulare che usava era un giocattolo.
Bisogna tener conto che negli anni ’80 le informazioni non erano accessibili a tutti come oggi. Niente programmi specializzati, nessun sito internet per scoprire informazioni su un calciatore, nè tantomeno video per ammirare le sue presunte qualità. Bastavano un paio di articoli di giornale che ne parlassero bene e la diceria popolare avrebbe fatto il resto. “Ho una facilità incredibile nello stringere amicizia con le persone. Conoscevo bene molti giornalisti di quel tempo, trattavo tutti bene. Qualche regalo, qualche informazione interna potevano aiutare e loro ricambiavano parlando del ‘grande calciatore’.”
Dopo il Brasile però era il momento di conquistare nuove mete, e il Messico fu la tappa successiva. Fu ingaggiato dal Puebla, formazione di Primera Division, con un contratto di 6 mesi. Zero minuti giocati e via negli Stati Uniti, a El Paso. “Firmavo sempre il contratto di rischio, il più corto, normalmente di sei mesi. Ricevevo i bonus e me ne andavo in infermeria.”
Nel 1989 torna in Brasile, al Bangù, dove si rese protagonista di uno degli aneddoti che lo descrivono nel migliore dei modi. Infastidito dai suoi comportamenti, l’allenatore decise di convocarlo per la partita della domenica. A metà del secondo tempo lo mandò a scaldarsi a bordocampo e Henrique, intuita la possibilità di un suo esordio in campo, si inventò il colpo di genio: litigò e fece a botte con un tifoso degli avversari, procurandosi l’espulsione diretta. Quando la squadra rientrò negli spogliatoi, prima che l’allenatore inferocito gli potesse dire qualcosa, si diresse verso di lui e sbottò: “Dio mi ha dato un padre e me l’ha tolto. Ora che Dio mi ha dato un secondo padre – riferendosi all’alenatore – non posso permettere che nessuno lo insulti.” Bacio in fronte e rinnovo del contratto per altri 6 mesi.
Grazie ai tanti amici nel mondo del calcio, giocherà anche nel Vasco da Gama, nella Fluminense e nell’America. Ma come faceva ad avere tutti questi amici? Semplice, lo racconta lui stesso: “Quando venivo a conoscenza dell’hotel che ci avrebbe ospitato mi recavo lì con due o tre giorni d’anticipo. Affittavo camere per dieci donne nell’albergo, in modo che anziché scappare di nascosto io e i miei compagni potessimo semplicemente scendere le scale per divertirsi.”
Altro suo grande amico fu l’ex giocatore del Real Madrid, Ricardo Rocha, che lo descrive così: “E’ un grande amico, una persona squisita. Peccato che non sappia neanche giocare a carte. Aveva un problema con il pallone, non l’ho mai visto giocare in nessuna squadra. Ti racconta storie di partite, però non ha mai giocato la domenica alle quattro di pomeriggio al Maracanà, ve lo posso assicurare! In una gara di bugie contro Pinocchio vincerebbe Kaiser…”.
Dopo altre avventure in terra brasiliana tra cui Palmeiras e Guaranì, riesce a fare il grande salto in Europa, in Francia tra le fila dell’Ajaccio. In quegli anni un brasiliano che arrivava in Europa era sinonimo di successo e la presentazione che il club aveva riservato al brasiliano lo colse di sorpresa: “Lo stadio era piccolo, ma era gremito di gente in ogni posto. Pensavo che dovessi solo farmi vedere dalla folla e salutare, per vidi moltissimi palloni in campo e capii che ci saremmo dovuti allenare. Ero nervoso, si sarebbero resi conto che non sapevo giocare al mio primo giorno.” Per un giocatore abituato a ingannare tutti però, questa era una passeggiata. “Entrai in campo e cominciai a scaraventare tutti i palloni in tribuna. Allo stesso tempo salutavo e baciavo la maglietta. Chiaramente dalla tribuna non è tornato nessun pallone…”. In dieci minuti si era guadagnato l’affetto di tutti i tifosi senza aver giocato un minuto.
Chiuse la “carriera” al Guarany da Camacqua, a 39 anni. In quasi venti anni ha realizzato un totale di 20 presenze, tutte terminate anzitempo per infortunio. “Non mi pento di nulla. I club prendono in giro moltissimi calciatori, qualcuno doveva pure vendicarli…”

[SM=x2478856]


Sound72
00lunedì 17 novembre 2014 19:31
Scompare Mezague, ala del Camerun: sostituì Foé, morto in campo nel 2003

Si sospetta il suicidio. Aveva 30 anni, era molto depresso. Nella gara di Confederations cup, in cui Foé ebbe l’infarto fatale, subentrò al suo posto.

Coincidenza, certo. Ma a volte la realtà rende vere cose che sarebbero giudicate incredibili in una sceneggiatura cinematografica. Il centrocampista del Camerun Valery Mezague, 30 anni, è stato trovato morto nella sua casa di Tolone, dove giocava nel club locale che milita nella quarta divisione francese. Secondo quanto riportano alcuni media francesi, la polizia non ha trovato segni di violenza sul corpo del calciatore e prende consistenza l’ipotesi che si sia trattato di un suicidio. Sembra infatti che Mezague avesse problemi di depressione derivanti dal fatto che non si era mai ripreso completamente dalle conseguenze di un incidente automobilistico che, dieci anni fa, lo aveva fatto entrare in coma per tre giorni e, in pratica, ne aveva interrotto una carriera che probabilmente era destinata ad essere per le sue qualità tecniche, di altissimo livello.
Coincidenza
In Francia aveva giocato anche nel Montpellier, Sochaux e Le Havre, mentre in Inghilterra aveva fatto parte del Portsmouth in Premier League. Aveva avuto un’esperienza anche nel calcio minore della Grecia. Mezague soprattutto aveva messo insieme 7 presenze con la maglia della nazionale africana, dopo aver optato per i «Leoni Indomabili», dato che proprio nel 2003 anche la Francia lo aveva convocato in Nazionale. Tra le gare giocate quelle nella Confederations Cup del 2003, segnata per i «Leoni Indomabili» dalla tragedia della morte in campo di Marc-Vivien Foé, colpito da attacco cardiaco mentre disputava la semifinale contro la Colombia. E Mezague in quella partita era entrato proprio al posto di Foe’. Poi aveva giocato anche la finale persa 1-0 contro la Francia. A distanza di 11 anni se ne sono andati prematuramente i due giocatori che giocarono l’uno al posto dell’altro quella partita destinata comunque a restare nella storia del calcio per quel che successe in campo a Foé.
Cordoglio
Lo Sporting Tolone, nel confermare via Twitter l’accaduto ha espresso «grande tristezza per la morte di Valery Mezague. Il nostro pensiero va in questo momento alla sua famiglia». Anche il centrocampista del Milan, Michael Essien, ha postato un tweet per lui: «Triste e sotto shock nell’apprendere la brutta notizia su Valery Mezague. Riposa in pace amico mio, i miei pensieri e le mie preghiere vanno alla tua famiglia».

corriere.it
lucaDM82
00lunedì 17 novembre 2014 21:03
Che brutta coincidenza.Chissà se l'episodio dello stesso Foè inconsciamente lo abbia condizionato negli anni seguenti.
Sound72
00lunedì 29 dicembre 2014 23:52
Mendieta, il 'bidone' da 90 miliardi che oggi fa il deejay

Gaizka Mendieta, professione centrocampista, ex giocatore di Valencia, Lazio, Barcellona, Middlesborough e della selezione spagnola: per tutti però quel biondo basco nativo di Bilbao è Mister 90 miliardi, i soldi che spese Cragnotti per portarlo alla Lazio dal super Valencia di Hector Cuper. L'ingaggio? Da capogiro: quinquennale da 8 miliardi a stagione.

MIGLIOR GIOCATORE CHAMPIONS 2000-01 - "La Lazio sarà il mio Real": questa la frase con cui si qualifica Mendieta, il giorno della presentazione a Formello con la maglia biancoceleste. I tifosi dell'Aquila impazziscono: giocatore in grado di ricoprire qualsiasi ruolo di centrocampo, dopo aver iniziato la carriera nel Castellón, club nel quale è cresciuto, si trasferisce al Valencia, di cui in breve diventa capitano. Con il club murcielago, dopo aver vinto la Coppa del Re e la Supercoppa spagnola nel 1999, disputa due finali consecutive di UEFA Champions League, perdendole entrambe con Real Madrid e Bayern Monaco, ma ottiene comunque un premio di consolazione come miglior giocatore della competizione nella stagione 2000-2001. Si fa notare anche con la maglia della Roja, disputando un ottimo Europeo nel 2000.

BIDONE PREZIOSO - Completo, dotato di grande visione di gioco e grande abilità negli inserimenti, fiuto del gol, freddezza dal dischetto e preciso sui calci di punizione: questa volta Cragnotti sembra davvero aver fatto il colpo della vita. Non sa di aver appena comprato il bidone più costoso del calcio italiano: Dino Zoff, tecnico dei biancocelesti, che di calcio ne sa qualcosa in più, sin da subito si pone il problema della collocazione del giocatore. Problema che si ripresenta anche con il nuovo tecnico, Zaccheroni. Lo spagnolo è irriconoscibile, gioca fuori ruolo e sbaglia tanto, quasi tutto. Alla fine del campionato 27 gettoni tra campionato e Champions League, zero gol. L'anno precedente erano state 13 le reti realizzate al Valencia, addirittura 19 due stagioni prima e 12 nel 1999. Numeri impietosi, per colui che avrebbe dovuto essere il nuovo Nedved. Dopo solo una stagione in Italia, a Roma sono già stufi del basco.

CLAUSOLA ANTI-REAL - Oltre al danno, per la Lazio c'è anche la beffa: nel contratto stipulato tra Lazio e Valencia c'era infatti una clausola che impediva ai biancocelesti di cedere il giocatore al Real Madrid. Clausola che, alla luce dei fatti, si era rivelata provvidenziale, ma per i Blancos. A Cragnotti non rimane altro che cedere Mendieta in prestito, al Barcellona: i blaugrana però non erano quelli di oggi, chiudono sesti in classifica, non si qualificano alla Champions League e decidono di non riscattare il basco. Intanto la Lazio sprofonda nella crisi economica in seguito al crack Cirio e deve liberarsi assolutamente di un ingaggio pesante come quello di Mendieta: interviene il Middlesbrough che prende in prestito il giocatore. Mendieta nella mediocrità generale della squadra in qualche modo galleggia e si toglie la soddisfazione di vincere la Coppa di Lega 2003/04, primo trofeo assoluto del club. Questo storico evento convince i dirigenti del Boro a riscattare il cartellino del giocatore per intero. Mendieta gioca col Middlesbrough fino al 2008: 73 presenze in 4 anni e una finale di Coppa Uefa raggiunta. Non certo quello che ci si aspettava da lui. Addirittura, per saldare completamente il debito contratto col Valencia, la Lazio deve cedere agli spagnoli Stefano Fiore e Bernardo Corradi: altri due flop, stavolta in terra spagnola.

MR 90 MILIARDI OGGI FA IL DEEJAY - Oggi, a tanti anni dal suo ritiro agonistico, Mendieta vive con la famiglia a Yarm, città alle porte di Middlesborough; a 38 anni, fa il DJ part time nei nightclub. La musica? Spazia da Aretha Franklin a The Jam e Kings of Leon. I 90 miliardi e il calcio sono lontani.

www.calciomercato.com/

8 miliardi all'anno..certo che sul doping amministrativo ParmaLatio ce n'era de materiale..
E poi lo spalmadebiti..e Geronzi e Baraldi e Lotito..
Sound72
00mercoledì 4 febbraio 2015 19:18
La Germania piange Udo Lattek: fu il primo a vincere le tre coppe europee

Scompare a 80 anni un mito del calcio tedesco: vinse 8 volte la Bundesliga, trionfò più volte in Europa. Tra le squadre allenate, Bayern Monaco, Borussia Moenchengladbach e Barcellona

Lutto per il calcio tedesco piange Udo Lattek, uno degli allenatori più vincenti della storia scomparso all'età di 80 anni. Lattek è stato uno degli allenatori tedeschi più vittoriosi di sempre, avendo conquistato otto titoli in Bundesliga e la prima Coppa dei Campioni del Bayern Monaco nel 1974 (in Baviera lanciò futuri campioni del calibro di Franz Beckenbauer, Sepp Maier e Gerd Mueller) e diventando anche il primo tecnico ad aver vinto Coppa Uefa, Coppa dei Campioni e Coppa delle Coppe. Dopo di lui c'è riuscito solo Giovanni Trapattoni. In carriera ha allenato anche Borussia Moenchengladbach, Borussia Dortmund, Colonia e Schalke. A Barcellona, tra il 1981 e il 1983 ha avuto a sua disposizione campioni come Maradona e Schuster, conquistando una Coppa delle Coppe e una Coppa de Re.

"La notizia della morte di Lattek ci ha profondamente commosso", ha detto in un comunicato il presidente del Bayern,Karl-Heinz Rummenigge. "Lattek è stato uno degli allenatori più vincenti di sempre del calcio tedesco e una delle più grandi personalità dello sport a livello nazionale e internazionale per decenni. Perdiamo uno dei grandi uomini del Bayern Monaco, un mentore e un amico". L'ex tecnico, nato a Bosemb il 16 gennaio 1935, soffriva da tempo del morbo di Parkinson e ha passato gli ultimi anni della sua vita in una casa di cura a Colonia.

repubblica.it

Un mito Lattek


en.wikipedia.org/wiki/Udo_Lattek
lucaDM82
00sabato 7 febbraio 2015 11:29
Dopo Oliha,Yekini e Okafor scompare anche il portiere Agbonavbare,tutti ex della nigeria di USA 94.
Sound72
00venerdì 18 dicembre 2015 11:47
articolo su Rogerio Ceni di qualche giorno fa

Obrigado Rogerio, l’addio di O Mito do Morumbi

Avrebbero voluto vederlo tutti in campo, a calcare il manto sacro del “Morumbì” forse per l’ultima volta. Ma lui non c’era, colpa di una lesione al piede destro che lo sta tenendo lontano dai campi da gioco da almeno un mese: ha scambiato qualche parola con i compagni lungo il tunnel degli spogliatoi, poi si è accomodato in panchina e se n’è andato al termine del primo tempo, lasciando per l’ultima volta da giocatore quella che ha sempre definito la sua seconda casa. Sì, perché a meno di sorprese (un po’ come accadde lo scorso anno quando venne dato l’annuncio ufficiale salvo poi smentire tutto qualche settimana dopo) Rogério Mücke Ceni la prossima domenica appenderà definitivamente i guantoni al chiodo. Ma anche gli scarpini, perché più che per le sue parate lo storico portiere del San Paolo verrà universalmente ricordato per altri record. Uno su tutti? 131 reti realizzate durante tutta la sua carriera. Che poi forse definirla così è anche riduttivo visto che stiamo parlando di uno dei personaggi più longevi del gioco, uno che ha collezionato qualcosa come 1128 presenze (secondo solo all’eterno Peter Shilton, in campo fino ai 48 anni), di cui ben 1192 con la maglia del San Paolo lasciandosi alle spalle un mostro sacro come Pelè, il cui record di 1116 apparizione con il Santos sembrava irraggiungibile per chiunque.
Ma quelli erano altri tempi, decisamente più romantici rispetto a oggi, in cui la fedeltà verso un’unica causa è cosa assai rara. E questa causa, così come la sua porta, Ceni la difende da ben 25 anni, da quando cioè venne tesserato tra le fila del Tricolor. E pensare che da giovane avrebbe potuto diventare altro, un giocatore di pallavolo professionista per esempio, visto che nel 1989, a 16 anni, arrivò persino a disputare i Giochi Studenteschi di Brasilia con la selezione dello stato del Mato Grosso, dove si trasferì con mamma Hertha e papà Eurydes all’età di dodici anni. Con le mani ci sapeva fare eccome, ma a lui piaceva giocare con i piedi, di fino, nello stretto, tanto che nelle partite aziendali disputate con i dipendenti della banca cittadina nella quale lavorava come addetto alle pulizie, veniva impiegato come regista. Un giorno però, il portiere titolare non si presentò all’incontro e in questi casi chi finisce a difendere la porta? L’ultimo arrivato. E chi fu quel giorno l’ultimo ad arrivare al campo? Rogerio Ceni, il ragazzino di Pato Branco che quella sera parò qualsiasi cosa gli avessero tirato.

Il Sinop Futebol Clube, la squadretta del paese, lo nota, lo provina e decide di aggregarlo alla prima squadra come terzo portiere: un ruolo che stava molto stretto all’ambizioso diciassettenne, che tempo due settimane aveva già scalato le gerarchie guadagnandosi il posto da titolare e portando il Sinop alla vittoria del primo torneo statale della propria storia. Un caso? Noi diciamo di no.Al termine del campionato, date le buone prestazioni di Ceni e la concomitante interruzione dell’attività del Sinop, un dirigente della società raccomandò al portiere di fare un provino per il San Paolo. Appoggiato dal preparatore dei portieri del San Paolo, Gilberto Geraldo de Moraes, già estremo difensore del club negli anni 1960, Ceni fece il suo ingresso nella rosa del San Paolo nel settembre 1990 (esordio ufficiale in un torneo amichevole in Spagna, contro il Tenerife) e da lì non se ne andrà mai. Inizialmente fu riserva di grandi campioni come Gilmar e Zetti, e fino al 1996 giocò sporadicamente, disputando soprattutto incontri nel Campionato Paulista. Ma nel 1997 iniziò a essere impiegato con maggior continuità, e gli venne assegnato il ruolo di estremo difensore titolare nel Campionato Brasileiro Sèrie A di quell’anno.

“Nel 1996, quando Telê Santana (c.t. del Brasile ai Mondiali 1982 e 1986, morto nel 2006, ndr) era allenatore della mia squadra, non c’era nessuno che tirasse i calci da fermo – ha raccontato qualche tempo fa lo stesso Rogerio – Arrivavo mezz’ora prima dell’allenamento e ci provavo. Riempivo un sacco con una ventina di palloni. Usavo una barriera mobile, perché non c’era nessuno con cui allenarmi. Cercavo di colpire il palo e poi mi dicevo: se riesco a colpirlo, posso centrare facilmente pure la rete“.
E sì, possiamo dire che qualche centinaia di volte ce l’ha fatta a centrarla, bucando decine e decine di poveri colleghi che con ogni mezzo hanno sempre tentato di non entrare nella storia dalla parte sbagliata perché, in fondo, subire gol da un portiere è sempre stata un’umiliazione per tutti. La prima volta non si scorda mai, si dice, e come si potrebbe dimenticare la prima perla che ha fatto di un umile ragazzino quello che oggi viene definito in patria O Mito? La prima realizzazione nel 1997 contro l’União São João, sempre nel campionato paulista, sempre su punizione, sempre con la maglia bianco-rosso-nera ovviamente.

Di anno in anno le statistiche crescono, fino ad arrivate all’anno di grazia 2005, dove Ceni scrive 21 nella colonna delle reti segnate: incredibile! Però in Sud America erano anche abbastanza abituati a vedere un portiere segnare da calcio da fermo, quindi perché non provare a sfidare anche i suoi predecessori, cercando di conquistare un primato leggendario? Nel 2006 raggiunse ufficialmente Jose Luis Chilavert, primo a quota 62. Il paraguaiano disse all’epoca: “Non è vero, io di gol ne ho fatti 70. Li ho contati tutti, e Ceni non mi ha superato.” Ok, nessun problema per Rogério, che allora non rispose a parole, ma con i fatti e il 27 marzo 2011, contro i rivali del Corinthians, sigla la rete che lo consegna ufficialmente alla storia del gioco: la numero 100.
Tre cifre che tutti sognano di raggiungere in carriera e che se già per un attaccante non è roba da poco, bè…figuratevi cosa voglia dire per un portiere. Negli ultimi quattro anni di attività, complice anche qualche infortunio di troppo, Rogerio ha un po’ calato il ritmo, togliendosi comunque la soddisfazione di segnare quella che probabilmente sarà l’ultima rete della propria carriera alla veneranda età di 42 anni quando, lo scorso 26 agosto ha pensato di mettere il proprio timbro sulla vittoria del San Paolo contro il Cearà, match valido per la Copa do Brasil: con questa fanno 131 realizzazioni (https://pt.wikipedia.org/wiki/Lista_de_gols_de_Rog%C3%A9rio_Ceni), 129 per la Fifa, visto che, come accaduto anche per le 1000 reti di Romario, si sa che i brasiliani non si fanno troppi scrupoli a conteggiare anche le amichevoli.

Poco importa, sono comunque numeri che fanno girare la testa, se si pensa oltretutto che Rogerio figura al decimo posto dei marcatori di tutti i tempi per il Tricolor, mettendoci lo zampino un po’ ovunque: dal campionato Paulista, a quello nazionale, alla Coppa del Brasile, alla Libertadores, alla Sudamericana e arrivando persino a scrivere il proprio nome nei registri del Mondiale per Club, quello del 2005 per l’esattezza, quando un suo gol regalò al San Paolo la vittoria contro i sauditi dell’Al-Ittihad. Peccato non essere riuscito a replicarsi con la maglia della Selecao, dove comunque ha avuto la soddisfazione di partecipare a due Mondiali (2002 e 2006) e portarsene a casa uno, quello di Giappone e Corea, seppur con un ruolo piuttosto marginale dietro a Dida e Marcos. Ma in fondo all’Highlander di Pato Branco i riflettori non sono mai piaciuti. Niente telecamere, niente microfoni, solo la sua adorata maglia numero 1, che nel tempo si è trasformata in 01 per ovvi motivi
Domenica prossima solo un miracolo potrà regalare ai tifosi paulisti il sogno di vedere scendere in campo il loro eroe (termine di gran lunga riduttivo) contro il Goias per l’ultimo match del campionato e l’ultima partita della carriera di Ceni, ma tutto è ovviamente pronto per una grande festa perché un quarto di secolo donato al San Paolo non può venir ignorato da nessuno. Basti pensare che in città ci sono alcuni bambini molto piccoli che si chiamano Rogerioceni da Costa, o Rogerioceni Moraes. Alcuni ragazzi si sono tatuati il suo volto sul braccio, altri l’hanno dipinto sul cofano della loro auto. Di più: il mitico Raì gli ha ufficialmente ceduto il titolo di eroe più grande della storia del San Paolo e a Morumbì esiste già il progetto di una statua in suo onore. Cosa farà Rogerio da grande è un mistero, anche se ha già dichiarato che il suo sogno più grande resta quello di allenare la sua squadra del cuore un giorno, ma non è improbabile che possa venirgli affidato un ruolo dirigenziale all’interno del club, lontano dai riflettori ovviamente.

La sua prima autobiografia, pubblicata nel 2006, si concludeva così: “Non che mi interessino le vostre finanze, ma vi consiglio di mettere da parte qualche dollaro per comprare l’aggiornamento di questo libro.” Forse il consiglio andrebbe ascoltato, perché di cose raccontare ancora ce ne sono, perché non ci si annoia mai ad ascoltare le parole di una leggenda, ma soprattutto perché lui è O Mito do Morumbì.

Obrigado Rogerio.

www.tuttocalcioestero.it/2015/12/02/obrigado-rogerio-laddio-di-o-mito-do-morumb...


Sound72
00mercoledì 13 gennaio 2016 19:42
Si è ritirato anche Damien Duff, bell'esterno ai tempi del Chelsea e del Newcastle, probabilmente uno dei giocatori irlandesi piu' talentuosi degli ultimi 30 anni.
lucaDM82
00sabato 13 febbraio 2016 14:53
scomparso Ivanov della Bulgaria,usa 94... [SM=g27994]
Sound72
00mercoledì 2 marzo 2016 12:00
ieri durante Leicester -West Bromwich, partita abbastanza sfigata per Ranieri, bordate di fischi per il ribelle James Mc Clean.

Bel personaggio McClean...nato a Derry nell'Irlanda del Nord, sceglie la nazionale dell'EIRE, simpatizza per l'IRA, si rifiuta nella gara di andata (da qui i fischi) di indossare la maglia col papavero in ricordo delle vittime di guerra inglesi reclamando lo stesso trattamento per i morti dimenticati di Londonderry.
E in Inghilterra ad ogni trasferta del WBA è uno vs tutti.

Per inciso..gran film Bloody Sunday




Giacomo(fu Giacomo)
00mercoledì 30 marzo 2016 14:00
Io ho sempre pensato che fosse uno scemo, però la storia presentata così è interessante

zonacesarini.net/2015/07/11/jorge-campos-messico/

«Campos rappresenta tutto quello che ci si aspetta da un messicano: un indolente e gioioso disprezzo per le regole, le abitudini, lo status quo. Quello che è sempre stato il Messico, un Paese tanto abituato alle rivoluzioni da averle istituzionalizzate nel suo sistema politico. E, a quanto pare, nei suoi campi da calcio.

Il portiere non è un giocatore qualsiasi. Non gli è concesso spazio per l’inventiva, tranne che nelle perdite di tempo. Niente voli pindarici, solo balzi felini tra i legni. Gli altri sognino pure rovesciate, contropiedi e scorribande; al portiere non è concesso.

Niente grilli per la testa, all’interno dell’area piccola: “Giù la testa, coglione”.

Siamo al tramonto degli anni Ottanta, e mentre l’Europa fa i conti con Hillsborough e l’Heysel, nei PUMAS di Città del Messico debutta un ragazzino esile e agilissimo, che di nome fa Jorge Campos Navarrete.

Jorge Campos nasce nel 1966 ad Acapulco, “la perla del Pacifico”: una città turistica, più vicina alla California dei Beach Boys che al latifondo che ancora caratterizza gran parte del Messico. Jorge è un bambino iperattivo, ed essendo di buona famiglia può permettersi di provare tutti gli sport che desidera: si avvicina al basket, ma la bassa statura probabilmente lo scoraggia dal continuare; tenta il baseball, l’equitazione e il tennis, abbandonati presto senza rimpianti; si cimenta infine con il surf, passaggio necessario per ogni acapulqueño che si rispetti.

Mentre cavalca le onde della Playa Hornos e de La Condesa, Jorge guarda estasiato i costumi sgargianti dei surfer di tutto il mondo: abbandonerà presto il surf, ma quell’orgia di colori, quella sfrontata allegria, quello sgargiante manifesto di ribellione rimarranno per sempre con lui.

A 16 anni, Jorge Campos inizia a giocare a calcio; in porta, forse anche per quella sua innata voglia di distinguersi dagli altri. Dopo le giovanili nei Delfines di Acapulco e una parentesi nella Cruz Azul, nel 1985 viene tesserato dai PUMAS, il club della Universidad Autonoma Mexicana. Ogni due settimane, Jorge prende la corriera da Città del Messico ad Acapulco per andare a trovare i suoi cari: un viaggio infinito, durante il quale spesso Jorge si chiede se non valga la pena ritornare a casa, completare i suoi studi in Amministrazione di Impresa e rimanere con la sua famiglia nella baia di Acapulco.

Nel 1988 entra in prima squadra, dove il suo coetaneo Adolfo Rios occupa stabilmente il ruolo di portiere: l’allenatore, Miguel Mejía Barón, è un uomo pragmatico, e intuendo le doti di Campos, gli propone di giocare come attaccante esterno. Jorge accetta e in 37 presenze mette a segno 14 gol, diventando il capocannoniere della squadra. Nel 1990 il sistema si perfeziona: Rios rimane il portiere titolare, ma quando la squadra prende gol ecco che Campos “scala” in porta e Rios se ne va in panchina. La formula sembra folle, ma i PUMAS vincono addirittura il campionato.

Dopo la cessione di Rios al Veracruz, Mejía Barón decide di schierare Campos in porta, nonostante i 24 gol segnati in due anni: Jorge accetta, in cambio di qualche libera uscita dall’area di rigore. Mejía Barón, allenatore, dentista e (secondo alcune fonti) filosofo, dimostra di averci visto giusto ancora una volta: Jorge Campos sarà pure un buon attaccante, ma è diventato soprattutto un ottimo portiere. Agile, reattivo e capace di leggere in anticipo le intenzioni degli attaccanti: per la scarsa tradizione di arqueros messicani, Campos è un patrimonio troppo grande per esser dilapidato in attacco.

Dal 1991 entra in pianta stabile a far parte della Nazionale, con la quale raggiunge una fama planetaria: non sono le parate feline o le uscite spensierate a renderlo indimenticabile, quanto le sgargianti divise che si disegna da solo e che sfoggia in ogni competizione internazionale. Le finali di Concacaf e di Coppa America del 1993 lo elevano a icona, ma sono i Mondiali statunitensi a consacrarlo nell’immaginario collettivo.

Quando il Messico annuncia la sua intenzione di schierare Campos come portiere volante, Blatter si oppone fermamente: nessuna regola vieta espressamente il cambio di ruolo, ma il padre padrone della FIFA non vuole personaggi sopra le righe, o iniziative che possono cambiare prassi e consuetudini. Campos spiega:

“Non capisco che cosa significhino le dichiarazioni di Blatter. Se io sono in grado di giocare in due ruoli, è un vantaggio che il mio allenatore, se lo ritiene opportuno, ha tutto il diritto di sfruttare. Certo, in tutto il Mondiale, mi piacerebbe giocare almeno un quarto d’ora da attaccante. Sarebbe una soddisfazione personale”.

Blatter è intransigente, e l’unica risposta possibile è disegnare e indossare divise ancora più appariscenti, con improbabili accostamenti di rosa fluo, giallo e verde , che lo rendono riconoscibile a distanza siderale.


Se in quanto a colori, Campos fa di tutto per distinguersi, nelle foto di squadra cerca in ogni modo di nascondere la sua bassa statura: Jorge si mette in piedi sopra il pallone, in seconda fila, così da guadagnare una ventina di centimetri e non sembrare “diverso”. In fondo, la vita di Campos si può riassumere in questo contrasto: un disperato bisogno di essere come gli altri, senza perdere un briciolo della propria personalità. La necessità di una maglietta colorata per distinguersi in porta, tenendo sotto una maglia uguale agli altri.

Una figura mitologica, un po’ Arlecchino e un po’ Clark Kent: la solitudine del numero uno e la gloria della punta, invertendo le magliette. Sì, perché Jorge Campos – quando Blatter non lo vieta – gioca come arquero con il numero 9 e come attaccante con il numero 1. Sovvertendo ogni logica europea, per cui l’attaccante è il primo difensore, Campos sembra volerci dire che il portiere è il primo attaccante: perché “Mexico always attacks. That’s what Mexico is”.

Del resto, in un Paese che ha istituzionalizzato perfino la rivoluzione, cosa sarà mai sovvertire ruoli e colori in un campo da calcio?

Dopo USA ’94, La fama di Jorge Campos cresce a dismisura: l’anno successivo è protagonista di uno spot della Nike destinato a fare epoca. Assieme a Cantona, Rui Costa e Maldini sfida i demoni nella più memorabile pubblicità sportiva che si ricordi, Good vs Evil. Non bastasse, perfino Capitan Tsubasa – il nostro Holly e Benji, gli rende omaggio con il personaggio di Ricardo Espadas, portiere goleador che segna alla nazionale giapponese prima dell’inevitabile sconfitta dei messicani.

Ex surfer, portiere attaccante, icona del calcio mondiale: inevitabile passare ai Los Angeles Galaxy, nella patria dello show business. Una parentesi di due anni, nei quali Campos non segna e non si diverte quanto vorrebbe: dietro le copertine patinate, non c’è il mondo disordinato e passionale dei gringos. Tanto vale tornare a Città del Messico, e alternare porta e attacco, Pumas e Cruz Azul, gol fatti e gol subiti. Concedendosi anche un gol in sforbiciata con la maglia dell’Atlante.

Ai Mondiali del 1998 Blatter gli vieta di indossare divise sgargianti: Campos si presenta in campo con una maglia tutta bianca quando i compagni vestono verde e viceversa. In Confederations Cup l’anno seguente avrà la sua rivincita: un improbabile completo giallo viola e la vittoria della Coppa insieme a Rafa Márquez e Blanco. A chi gli domanda cosa ne pensa dei divieti e delle polemiche attorno alle sue magliette, Jorge Campos risponde serafico: “Che m’importa? A fine partita c’è sempre qualcuno che vuole la mia maglia.“

Jorge Campos si ritira nel 2004. Oggi è un signore di cinquant’anni, che vive l’eterna estate di Acapulco; quando si siede sulla spiaggia e vede quelle coloratissime tavole da surf, ripensa alle magliette con cui solcava i campi da calcio. Diverso dai suoi compagni, ma solo a prima vista; il Messico è come una grande onda e i surfer, in fondo, condividono tutti lo stesso amore.»
(Alessandro Bezzi)
lucaDM82
00sabato 11 giugno 2016 13:16
morto keshi...gli ex nigeriani stanno morendo tutti...
Sound72
00domenica 12 giugno 2016 01:07
Re:
lucaDM82, 11/06/2016 13.16:

morto keshi...gli ex nigeriani stanno morendo tutti...




e oggi è scomparso pure Amodu che aveva sostituito Keshi sulla panchina della nazionale nigeriana 2 anni fa prima di lasciare il posto a Oliseh.
[SM=g27993]
lucaDM82
00domenica 12 giugno 2016 12:52
Fossi oliseh toccherei ferro
Sound72
00venerdì 28 ottobre 2016 13:54
Asprilla presenta nuovi linea di profilattici: è arrivato il PreservaTino [SM=g7557]

Misure extra large ..Valderrama tra i testimonial [SM=x2478856]
jandileida23
00venerdì 28 ottobre 2016 14:19
Era una squadra molto sobria quella Colombia.

Ammazza ho visto le foto, Tino pare Kermit la rana dei Muppets
lucaDM82
00venerdì 4 novembre 2016 13:06
Morto carlos alberto che ci segno' al mondiale del 70 (gran gol tra l'altro).
Rip
Sound72
00venerdì 4 novembre 2016 14:29
Tim Weise intanto furoreggia col wrestling.

Se chiama THE MACHINE
Sound72
00giovedì 17 novembre 2016 12:51
Addio Prodan, ex Messina: muore a 44 anni guardando la tv
Il romeno ha giocato anche per Steaua Bucarest e Glasgow Rangers, partecipando per 3 anni alla Champions e, con la sua nazionale, al Mondiale ’94 e a Euro ’96

[SM=g27991]
Sound72
00giovedì 12 gennaio 2017 17:37
Addio a Van der Elst, leggenda dell'Anderlecht: aveva 62 anni

Una bandiera per l'Anderlecht con cui vince 2 campionati, Coppa delle Coppe e 2 Supercoppe Uefa. Con la Nazionale è finalista agli Europei italiani del 1980

È stato un simbolo del Belgio. Un punto fermo della sua nazionale protagonista del calcio europeo tra gli Anni 70 e 80 e una vera leggenda per il suo club: l'Anderlecht. Francois Van der Elst è deceduto ieri, 11 gennaio, all'ospedale di Alst per arresto cardiaco. Aveva 62 anni.
ALA COL FIUTO DEL GOL — Classe 1954, Van der Elst, un'ala col fiuto del gol (più di 100 in carriera), fu acquistato nel 1969 dall'Anderlecht. E con la squadra di Bruxelles nel 1976 si aggiudica la Coppa delle Coppe segnando anche una doppietta nella finale vinta contro il West Ham per 4-2. Sempre in quell'anno si assicura il titolo di capocannoniere della Jupiler League con 21 gol. Ma non solo. Con l'Anderlecht vince due campionati belgi (1971-1972 e 1973-1974), quattro coppe nazionali (1971-1972, 1972-1973, 1974-1975, 1975-1976) e due Supercoppe Uefa (1976, 1978).
LO SBARCO NEGLI STATES — Nel 1980, Van der Elst sbarca negli States per giocare con i New York Cosmos di Beckenbauer, Chinaglia e Pelé, conquistando il Campionato Nasl. Dopo una stagione però torna torna in Europa, al West Ham per 400.000 dollari. Chiude la carriera in Belgio, nel Lokeren.
NAZIONALE — Con la maglia della nazionale belga conta 44 presenze e 14 gol. Nel 1980, con la squadra allenata da Guy Thys, si piazza al secondo posto agli Europei 1980 giocati in Italia. Quel gruppo poteva contare su stelle di livello assoluto, oltre a Van der Elst, il portiere Pfaff, il difensore Gerets, il centrale e capitano Cools, e il centrocampista Ceulemans. Nel 1982 gioca anche il Mundial, vinto dagli azzurri del c.t. Bearzot.

(gazzetta.it)

Mi dispiace, quel Belgio era una signora squadra..pure piu' forte forse di quella che arrivò quarta ai Mondiali del 1986.
lucaDM82
00giovedì 12 gennaio 2017 18:44
Un cimitero questo topic [SM=g27995]
lucaDM82
00lunedì 8 maggio 2017 22:06
[SM=g27993]
Morto d'infarto Ehiogu...poraccio...44anni..
..ricordi di fifa anni 90...
Sound72
00lunedì 15 maggio 2017 15:38
Dirk Kuyt, 37 anni, da capitano con una tripletta mette la firma sul titolo vinto dal Feyenoord dopo 18 anni

[SM=g10633]
lucaDM82
00lunedì 15 maggio 2017 17:36
Gran calciatore
Giacomo(fu Giacomo)
00lunedì 15 maggio 2017 18:50
se ne parlava per la Roma di Spalletti, o sbaglio?
magari ce fosse cascato!
lucolas999
00lunedì 15 maggio 2017 19:25
Jandi svelace Sto segreto di fatima come si pronuncia kuyt? Negli anni sono nate varie leggende
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