Peppino Impastato: morte di un “fanatico estremista”.
Peppino era in effetti un militante di sinistra, passato per vari gruppi minori. Che fosse un “fanatico estremista”, come intitolò il Corriere il giorno della sua morte, è cosa che lascerò all’opinione personale d’ogni lettore. Era certo un oppositore del sistema sociale vigente, critico verso la strategia del “compromesso storico” perseguita dal PCI in quegli anni e più ancora dell’evidente corruzione dei governi DC. La sua ribellione al sistema non sarebbe stata tanto sorprendente per un giovane della sua generazione (in effetti, al nord sarebbe stata vista quasi una cosa naturale) se non fosse maturata in un ambiente dove la collusione della mafia con i poteri democristiani nella sanguinosa repressione dei moti contadini del dopoguerra era ancora ben vivida nella memoria popolare. La sua ribellione fu precoce, diretta, aperta e coraggiosa fina all’estremo.
Nel 1965, a diciassette anni, tra lo stupore e l’ira del genitore, fonda e diviene coeditore del giornalino "L'Idea socialista" e aderisce al Psiup. Peppino era uno che, come vuole il detto popolare, non le mandava certo a dire. Sull’Idea Socialista fa pubblicare, nel 1966, un editoriale dal titolo: “Mafia: una montagna di merda!” Uno dei suoi parenti mafiosi disse al padre: “Se fosse mio figlio, scaverei una fossa e ce lo seppellirei!”
Peppino fu bandito di casa. La madre, Felicia Bartolotta Impastato, prese a cucinargli e portagli di nascosto il cibo. Il marito, che la riteneva colpevole di non aver “educato” il figlio secondo i principi delle famiglie mafiose, la investiva di continuo con rimbrotti e contumelie per il “disonore” portato al suo nome.
“Era una dittatura! Paura, disperazione … quando lo sentivo rincasare, me la facevo addosso,” avrebbe raccontato in seguito la donna.
Dal 1968 in poi, Peppino partecipa, a volte con ruolo dirigente, alle attività dei gruppetti che nascono di continuazione nell’area della Nuova Sinistra: Lega dei Marxisti-Leninisti, Partito Comunista d’Italia, il Manifesto, Lotta Continua. Le continue diatribe ideologiche, le arcane sottigliezze dottrinali, le ripetute scomuniche reciproche tra i vari gruppi e, soprattutto, l’incapacità di costruire una vera alternativa di massa a quella sinistra storica con la quale è in disaccordo, gli riempiono l’animo di dubbi angosciosi. Abbandona varie volte l’attivismo politico, proclama il suo “fallimento come uomo e come rivoluzionario”, medita il suicidio.
Ma sempre si riprende. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo (Punta Raisi), in territorio di Cinisi; degli operai edili sfruttati da alcuni imprenditori protetti dalla mafia; dei disoccupati. Nel 1975 costituisce il gruppo “Musica e cultura”, che svolge varie attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti); nel 1976 fonda “Radio Aut”, radio privata autofinanziata, con cui denuncia quotidianamente i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, e in primo luogo del già menzionato Gaetano Badalamenti, che in quegli anni aveva assunto un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto ed i legami con Cosa Nostra americana a Detroit. Il programma più seguito era “Onda pazza”, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici, parlava di “Mafiopoli” e “mafiacipalità”, ed inventava scenette in cui i boss venivano collocati nei vari gironi dell’Inferno dantesco. Oppure nel “Vecchio West”, dove Tano Badalamenti diventava “Tano Seduto”, un “viso pallido impegnato nel traffico di droga e nell’uso della lupara a canne mozze”. Chiunque riesca anche solo in piccolissima parte ad immaginare che cosa potesse voler dire pubblicare certe cose in una cittadina dominata da uno dei maggiori boss di Cosa Nostra, potrà forse riuscire a misurare l’enorme coraggio di quel ventenne.
Scrive Paola Bonifacio, dell’Università di Pittsburgh, nella sua critica al già citato film di Giordana: “Per risvegliare i cittadini di Cinisi dall’assuefazione alla mafia Peppino si serve della satira, mette i boss alla berlina, ne mette in dubbio l’autorità, utilizza dunque un mezzo inaccettabile. La denuncia poteva essere tollerata, dice Giordana, perché anch’essa fa parte del gioco, la ridicolizzazione invece, la mancanza di “rispetto”, no.”
Mandarle a dire? Peppino te le sputava in faccia.
Peppino conosceva certo i pericoli che correva in questa sua arrogante ed irriverente provocazione giornaliera a Cosa Nostra. Sua madre gli ripeteva di continuo che i mafiosi erano “animali”, per i quali uccidere un uomo era come spegnere una candela. Il padre, pur essendo non meno “animale” degli altri, cercò in qualche modo di proteggere Peppino dalle conseguenze più estreme. Ricorda Felicia Bartolotta Impastato: “Badalamenti telefonava spesso per lamentarsi delle azioni di Peppino e mio marito lo supplicava di non ucciderlo.” Ma nel settembre 1977, Luigi Impastato muore in un incidente d’auto. Per anni fu creduto che fosse una fatalità, anche se ci sono oggi buoni motivi per considerarla invece un’esecuzione, una punizione per non essere stato capace di tenere a freno il figlio. Come disse un mafioso “pentito”: “In Cosa Nostra non si possono dare le dimissioni. Se non servi più o non sei affidabile, vieni eliminato.”
Qualunque la verità dietro quell’avvenimento, ora Peppino è solo. Solo contro la cosca di uno dei boss mafiosi più potenti dell’isola. Solo, con l’aiuto titubante dei suoi pochi compagni e l’appoggio morale, peraltro tra lo sprezzante e l’infastidito, della sinistra storica. Eppure, ai funerali, Peppino compie il gesto inaudito che lo consegnerà precocemente alla tomba: rifiuta ostentatamente di stringere la mano ai mafiosi venuti a porgere le condoglianze. Per un’associazione criminale come Cosa Nostra, ultramoderna eppure legata ad antichi rituali scopiazzati dalla cavalleria medievale, le logge massoniche ed i carbonari, è più che un insulto: è uno “sfregio”. E gli sfregi si pagano.
Chissà se Peppino si rese conto, nel momento in cui ignorava con disprezzo le mani tese dei boss di Cinisi, di aver di fatto firmato la propria condanna? Probabilmente sì, conoscendo l’ambiente come lo conosceva lui.
Forse fu il suo modo di rispondere a quelli che deridevano le sue sfide considerandolo un “privilegiato”, che non aveva nulla da temere perché difeso dal padre. Di dimostrare, insomma, che su quella protezione non contava ed a quella non teneva.
O forse a suggerirgli quel gesto temerario fu invece proprio la paura, l’umanissima paura di esser adesso tentato a cedere, ad ascoltare le voci che gli consigliavano di moderare il tono e non tirare troppo la corda. La paura, insomma, di aver paura. Come Spartaco, che al momento di affrontare la battaglia finale contro le legioni di Crasso uccise il proprio cavallo per non aver la tentazione di fuggire, così forse fece Peppino, che scelse di bruciare da solo i ponti alle sue spalle per rendere impossibile la ritirata, affinché l’idea non potesse nemmeno allettarlo.
E dopo quello sfregio non poteva esserci più resa o compromesso. Non esisteva più alcun spazio di manovra. Semplicemente, non c’era più scelta. Ormai non gli restava che andare avanti sulla strada su cui si era avviato anni prima, nell’attesa dell’inevitabile.
Non gli restava molto da attendere.
(segue)