Papa Ratzinger ha iniziato a rispondere all’ultima domanda (The Final Question)

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00venerdì 14 novembre 2008 11:32
Carbone e diamante sono la stessa cosa. Ma uno soffoca la luce e l'altro la fa risplendere
Spiritualità e teologia della bellezza

Carbone e diamante sono la stessa cosa
Ma uno soffoca la luce e l'altro la fa risplendere


La Pontificia Università Gregoriana ha ricordato il cinquantesimo anniversario del suo Istituto di Spiritualità con un simposio intitolato "Spiritualità e teologia". Pubblichiamo un estratto della relazione del Cardinale diacono di Sant'Agata de' Goti.

di Tomás Spidlík

Vladimir Solov'ëv più di cento anni fa osservò che i luoghi considerati sacrosanti della scienza europea avevano ricevuto il nome di università, termine che promette di offrire ai suoi membri una scienza universale, integrale; tutto il sapere raggiungibile dall'uomo intelligente in maniera che si veda nella sua unità. Ma ben presto si ebbero le prime suddivisioni sotta forma delle "facoltà". Ulteriori divisioni apparvero poi anche dentro le stesse facoltà nelle multiformi specializzazioni.
L'uomo di oggi si è conciliato con questa evoluzione e manifesta stima a quanti si sono "specializzati" in qualche materia, anche a costo di un'ignoranza penosa riguardo ai problemi essenziali della vita. Al contrario, il grande pensatore russo ne fu urtato dolorosamente. Da giovane era stato incantato dalla visione della Sofia, nella quale "tutto ciò che fu, ciò che è e tutto ciò che sarà lo abbraccia un unico sguardo immobile". 
Al contrario, lo studio della cultura europea lo convinse che vi dominano tre tipi di conoscenza. La prima:  sensibile, empirica; la seconda:  razionale - "aristotelica" per i padri, "kantiana" per Solov'ëv -; la terza:  spirituale, intuitiva, mistica.
Purtroppo, fra queste tre categorie della nostra cultura, non esiste comunicazione. La nostra cultura si accontenta dell'enciclopedismo.
Solov'ëv considerava quindi la sua vocazione di pensatore e di scrittore in questa prospettiva:  ritrovare l'unità della nostra cultura e della conoscenza umana in genere. Non potrà essere una nuova scolastica, nel senso di una sintesi dentro a una cornice razionale. Bisogna allora cercare l'unità scegliendo un'altra via. Questa via il pensatore la scoprì verso la fine della sua vita, al crocevia fra le scienze e le arti. Possiamo leggere la linea principale del pensiero soloviano in alcuni articoli:  La bellezza della natura; Il senso generale dell'arte; Il primo passo verso un'estetica positiva. Per le scienze l'universo è oggetto di studio, ma nello stesso tempo il mondo esercita un'attrattiva su di noi, perché amiamo la sua bellezza. Tuttavia non sempre. Perché tutto non ci sembra bello?
Per porre il problema in modo del tutto concreto, Solov'ëv ricorre all'esempio del diamante. Tutti sono d'accordo che il diamante è bello. Ci rendiamo anche conto di quale sia la causa della sua bellezza. Chimicamente, il diamante è la stessa cosa del carbone. Ma la grande differenza con esso consiste nel fatto che il carbone soffoca la luce, mentre il diamante la fa risplendere. Guardando il carbone, vedo solo il carbone, nel diamante risplende il cielo. Riflettendo su questa esperienza, la bellezza può essere definita come "trasformazione della materia per mezzo dell'incarnazione, in essa, di un altro principio, sovramateriale".
Lo stesso principio si può dire anche in altre parole:  le scienze analitiche vedono una cosa accanto all'altra (cfr. l'idea clara et distincta a quavis alia di Cartesio), la visione estetica vede uno nell'altro; uno non è distinto dall'altro, ma diviene simbolo dell'altro, le cose materiali rivelano le idee che vi si incarnano. Procedendo su questa via, si può alla fine vedere l'uno nel tutto e tutto in uno. Il mondo diventa così capace di rivelare la pienezza della sapienza divina.
In questa impostazione, notiamo subito che si affronta il problema religioso:  elevarsi dall'inferiore al superiore, dal terreno al divino, è la via che culmina in Cristo stesso:  "Chi vede me, vede il Padre" (Giovanni, 14, 9). In tal modo il cristiano è capace di pregare il Padre nostro sia in mezzo a tutte le sue scienze, che nelle sue svariate azioni. La sua vita religiosa appare come edificata su due colonne fondamentali:  la theoria e la praxis. Anche noi affrontiamo così la questione.
Il detto cartesiano Cogito ergo sum corrisponde alla tradizione greca che, fra le prerogative umane, mise al primo posto la conoscenza. Ma le conoscenze sono di natura diversa. Già i filosofi antichi diedero la precedenza alla conoscenza razionale, ponendola davanti a quella sensitiva. E i padri della Chiesa fecero un passo ulteriore:  la vera conoscenza è quella che, superando sia i sensi che i concetti razionali, raggiunge il lògos theòteles delle cose, il loro significato trascendente, divino.
Usando la terminologia platonica, i padri greci non si stancavano di ripetere che "ciò che cade sotto i sensi è lontano da Dio". Allora sembrerebbe che, come conclusione inevitabile, l'uomo spirituale debba evitare le opere artistiche che attirano l'attenzione dei sensi. In tale senso si può citare una notizia su Pacomio, il quale fece distruggere il proprio oratorio dicendo che "era per azione del demonio che egli aveva ammirato la bellezza della costruzione".
L'obiezione sembrava assai seria ed entrava nella discussione con gli iconoclasti. Ma fu trovata la giusta risposta. "Superare i sensi" non significa rigettarli, evitarli, ma renderli trasparenti, così che attraverso di essi si possa salire alla conoscenza della verità superiore, fino alla verità divina. Tale è infatti lo scopo della "contemplazione naturale" e tale è anche l'essenza di ogni vera arte, della bellezza. Essendo diafanicità, trasparenza, la bellezza arriverà alla sua perfezione il giorno in cui si vedrà Dio in tutto (1 Corinzi, 15, 28), quando tutto sarà compiuto, quando "la verità sarà nella gloria". Per questo la pittura delle icone, che annuncia la venuta del Regno di Dio, rappresenta le cose come "prodotte dalla luce" e non soltanto "illuminate da una sorgente di luce" esterna a esse:  le forme non vi sono modellate dal chiaroscuro come in un quadro, dipinto in un mescolarsi di luci e ombre, ma nascono da una luce superiore, che nulla potrà oscurare.
Nella scuola per i pittori sul Monte Athos, gli allievi seguivano varie istruzioni teologiche, liturgiche, tecniche. Alla fine ognuno doveva passare una sorta di esame conclusivo, dipingendo l'icona della trasfigurazione del Signore sul monte Tabor. In questo caso l'allievo mostrava la sua capacità di essere pittore sacro e non profano, cioè di saper presentare il mondo come lo hanno veduto i tre apostoli sul Tabor nella visione anticipata dell'"ottavo giorno", dopo la resurrezione dei morti. Il nome di trasfigurazione, in greco metamòrphosis, indica un cambiamento delle forme (cfr. le Metamorfosi di Ovidio). Ma gli autori cristiani che ne scrivono avvertono che il nome è utilizzato in questo caso in un modo particolare:  se Gesù avesse cambiato la sua forma, gli Apostoli non lo avrebbero riconosciuto; a cambiare fu però la luce nella quale egli è stato visto in quel momento. Ne segue che per esprimere la bellezza escatologica del mondo gli iconografi devono essere maestri nell'"illuminazione" delle forme tradizionali. Qui si apre a loro la possibilità di dimostrare la loro arte.
Furono soprattutto gli iconografi tradizionali, per i quali il problema della luce era capitale, a dimostrare la sacralità della pittura. Dato che le forme - e per lo più anche i colori - rimangono tradizionali, l'originalità del maestro si mostra nell'"illuminazione del quadro", cioè nel modo in cui l'iconografo sa presentarlo internamente illuminato. Lo Spirito Santo come persona risiede nel cuore dell'artista e con lui dice "Abba, Padre" (Galati, 4, 6).
Per rendercene conto, facciamo alcune comparazioni. La luce spontaneamente appare come un simbolismo della grazia divina; sia nella Scrittura che nella liturgia è metafora dello Spirito Santo. Nelle chiese barocche, i pittori la fanno venire dall'alto. Un santo, soprattutto nel momento della morte, rivolge lo sguardo verso il cielo e da quella parte appare illuminato. Sull'immagine dell'Immacolata di Murillo, la Vergine è interamente illuminata, mentre tutto intorno è nelle tenebre del peccato. Vale la pena paragonarla alla Veglia notturna di Rembrandt. Anche qui i volti delle persone emergono dal buio notturno. Sono volti che si direbbero brutti, ma la luce li rende belli. Non si potrebbe forse interpretare come espressione dell'insegnamento protestante sulla "sola grazia" che ci santifica? La Madonna di Murillo è, al contrario, anche umanamente bella e la luce lo mette in rilievo, come "la grazia che suppone e santifica la natura". In questo tipo di presentazione lo Spirito si vede mentre "viene" a noi.
Un altro modo di utilizzare l'elemento della luce lo osserviamo in Fra Angelico, nelle stanze di San Marco a Firenze. Qui si nota che tutto lo spazio è illuminato, la luce è inerente all'aria stessa, e le persone che vi si trovano sono penetrate da questa luce misteriosa. Ci troviamo nell'ambiente sacro di un monastero, santificato dallo Spirito, che santifica quelli che vi entrano.
Infine, sulle icone notiamo ancora un'altra concezione. Dato che la luce è simbolo dello Spirito, essa non proviene dal di fuori, ma sembra scaturire dal cuore, illuminando internamente la persona, soprattutto il volto. Le icone evitano l'illuminazione esterna. Fra i pittori occidentali conosciamo El Greco, che colpisce con i suoi colori raggianti da se stessi. Il suo nome indica, del resto, la sua provenienza orientale. Ma vorrei in questo modo interpretare la Hagia Sophia di Costantinopoli. Quando uno si trova nel centro del tempio, non vede le finestre nascoste sotto la cupola. Ciò crea l'effetto, dicono, che la cupola sembri volare nell'aria. Ma la migliore impressione è la seguente:  a uno che sta nella chiesa pare di trovarsi in uno spazio pieno di luce, senza poter scoprire la sua sorgente esterna, come se essa facesse parte dello spazio interiore.
Quante sfumature mistiche si possono esprimere con l'illuminazione interna delle icone lo può testimoniare chi ne ha subito l'influsso nel museo Tretjakov a Mosca, nella stanze dove ora sono raccolte insieme le più famose tavole di Andrej Rublëv.
Ciò che abbiamo detto della pittura vale analogicamente per tutte le altre manifestazioni della bellezza. Il grande pensatore religioso Vjaceslav Ivanov lo applica all'arte letteraria, dato che lui stesso era un poeta. La poesia utilizza un linguaggio formatosi nel corso dell'evoluzione millenaria di un popolo, ma dà alle parole un escatologismo che le supera, un senso spirituale, cristologico. Allora, per mezzo dell'arte, la visione religiosa entra nelle culture dei popoli per salvare il loro valore. Pavel Evdokimov lo conferma in modo generale quando dice:  "L'artista non troverà il suo sacerdozio se non compiendo un sacramento teofanico, disegnare, scolpire e cantare il nome di Dio, nel quale Dio fa la sua dimora".



(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
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00venerdì 14 novembre 2008 11:34
Il giudizio finale di Dio come sorgente di speranza
Il cardinale Re e l'ambasciatore Horstmann a un incontro di "Carità politica"

Il giudizio finale di Dio
come sorgente di speranza


di Paolo Brocato

Nell'epoca moderna, chiusa nelle ideologie dell'immanenza, il pensiero del giudizio finale di Dio che attende e pro-muove ogni persona umana - è questa una delle verità fondamentali della fede cristiana - è lasciato nell'ombra, dimenticato, rimosso. Il pensiero prevalente è quello del progresso e della fiducia, idolatrica, nel progresso e nella scienza come soluzione dei problemi dell'umanità. All'idea della trascendenza, del trascendente, segnatamente e intensivamente del Trascendente, si sostituisce il simulacro ipostatizzato del progresso composto dalle molte speranze e utopie secolari che non possono pretendere certo di essere salvifiche. Occorre un salto di qualità per riuscire, coniugando per quanto possibile la storia con l'escatologia, a scorgere il mistero rivelato del giudizio finale di Dio - che non può essere empirizzato - nell'orizzonte delle ragioni della fede e della speranza.
Del giudizio finale di Dio come luogo e stato di essere - complemento ulteriore e codinamico delle fede stessa - di apprendimento e di esercizio della speranza, se ne è parlato all'incontro organizzato, mercoledì pomeriggio a Roma, da "Carità politica". Una riflessione che si iscrive nel ciclo di approfondimenti sull'enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, promossi dall'associazione internazionale di diritto pontificio, da anni impegnata a favorire una collaborazione culturale sempre più stretta tra gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede. Sono intervenuti il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi e Hans Henning Horstmann, ambasciatore della Repubblica Federale di Germania presso la Santa Sede. Presente l'arcivescovo dell'Aquila monsignor Giuseppe Molinari, assistente ecclesiastico dell'associazione. La conferenza è stata moderata da Alfredo Luciani.
Nella sua relazione, ricca di citazioni e di spunti di riflessione, il cardinale Re ha esordito sottolineando "la presenza" del giudizio universale nell'arte e nella letteratura dei secoli passati. Rappresentazioni per lo più ispirate a un sentimento che evoca "paura, anzi terrore di quel giorno e di quel momento". Per quanto le scene del giudizio universale - basti pensare al maestoso affresco della Cappella Sistina oppure a quello della cattedrale di Orvieto - siano armoniose nel loro insieme "lo sguardo di Cristo giudice che rifiuta i dannati e si abbatte su di essi come un fulmine sembrano davvero agghiaccianti". Benedetto XVI, invece presenta, nella seconda parte dell'enciclica, il giudizio finale come "luogo di apprendimento e di esercizio della speranza. Per il Papa il giudizio finale è sorgente di speranza". Il cardinale Re ha individuato il senso di tale promessa in due motivi:  "Primo, perché ci dice che l'impegno per mantenersi onesti e non seguire le sirene del male nella propria vita personale non è vano, ma un giorno sarà premiato; secondo, perché il pensiero di un giudizio finale ci dà la certezza che c'è un Dio che farà giustizia; quindi, un giorno ci sarà quella vera giustizia che non c'è su questa terra".
L'uomo porta in sé, insopprimibile e innata, la sete di giustizia:  cioè che il male sia riconosciuto come tale e sia punito e che il bene sia premiato. "L'esperienza di ogni giorno - ha rilevato il porporato - ci dice invece che in questo mondo non esiste giustizia. Anzi, in questo mondo non è neanche possibile che gli uomini creino una vera giustizia. Solo Dio può creare la giustizia. Il potere nel suo cinismo più volte nella storia ha preteso di fare giustizia, ma in realtà ha portato soltanto a grandi crudeltà e alle violazioni della stessa giustizia che anche la storia recente ha dovuto conoscere. Si è trattato di poteri che hanno spadroneggiato nel mondo, ma non hanno portato giustizia".
Nel giudizio finale la giustizia di Dio sarà vittoriosa su tutte le ingiustizie commesse dagli uomini. Secondo il cardinale Re "il giudizio di Dio è sorgente di speranza anche per un altro motivo:  perché sarà non solo giustizia ma anche grazia. Sarà giustizia che premia il bene e punisce il male, ma sarà anche grazia e misericordia". Se fosse solo grazia, ha spiegato, "non esisterebbe una giustizia nei riguardi delle tante ingiustizie terrene. La vera giustizia non può essere una spugna che cancella tutto, così che l'assassino impenitente possa sedere alla medesima tavola accanto alle sue vittime. Ugualmente, se fosse pura giustizia, il giudizio di Dio sarebbe per noi motivo di paura, attese le nostre molte fragilità e debolezze".
Che cosa conterà in quel giorno? "Quello che più conterà - ha affermato il cardinale - è la motivazione che deciderà la sentenza:  la prima e fondamentale motivazione del giudizio, individuale e poi universale, è l'atteggiamento che abbiamo avuto nei confronti della persona di Gesù Cristo stesso:  chi ha creduto in lui verrà salvato, chi ha rifiutato di credere in lui sarà condannato".
L'atteggiamento di ciascuno verso Cristo determinerà il giudizio. "Colui che crede - ha detto il porporato citando l'evangelista Giovanni - non sarà giudicato, colui che non crede già si è giudicato da se stesso per aver rifiutato la luce". Il giudizio finale non farà altro che "manifestare in piena luce questa discriminazione operata nel segreto dei cuori su questa terra".
L'altro fondamentale tema del giudizio finale sarà l'atteggiamento avuto verso il prossimo:  "Il motivo discriminatorio per essere collocati a destra o a sinistra nell'ultimo giorno, davanti a Cristo Signore e re dell'universo, sarà il comportamento dell'uomo verso i suoi fratelli deboli e bisognosi di aiuto:  affamati, assetati, stranieri, poveri, ignudi, malati, carcerati. E la ragione ultima:  "Perché lo avete fatto a me"".
"Il giudizio di Dio - ha concluso il cardinale Giovanni Battista Re - non sarà soltanto giustizia, ma anche grazia e misericordia, per i meriti di Cristo che ci ha amati fino a morire in croce per noi. Egli è la sorgente della nostra speranza nel cammino della vita e nel momento supremo in cui ci presenteremo al suo trono di giustizia".
Nell'affrontare la complessa riflessione della Spe salvi nella sua accezione teologico-spirituale che riguarda "ogni uomo ma anche ogni visione sociale o concezione filosofica dell'uomo e dell'ordinamento della società", l'ambasciatore Horstmann, ha detto che l'enciclica contrappone la speranza nella realtà di Dio a tutte le utopie politiche, postulando un obiettivo collocato fuori della storia, per liberare la storia dai tentativi, interamente falliti, di creare salvezza e giustizia in seno alla stessa. "Il Papa - ha sottolineato l'ambasciatore della Repubblica Federale di Germania presso la Santa Sede - assegna alla politica e all'operato umano un ruolo di provvisorietà. Il carattere definitivo lo colloca invece in una dimensione trascendente il cui riconoscimento e accettazione concedono all'uomo la libertà di fare del bene, aiutandolo però anche a sopportare gli aspetti frammentari, contingenti e a volte ingiusti dell'esistenza temporale, visto che egli continua a orientarsi verso una speranza maggiore che non poggia su utopie terrene, bensì sulla realtà di Dio".
La risposta definitiva al significato dell'esistenza, secondo l'ambasciatore Horstmann, "non può venir data né dalla scienza, né dalla fede nel progresso, né dalle utopie politiche. La risposta definitiva alla morte, alla sofferenza e all'esperienza della finitezza la può dare solo un Dio che viene peraltro presentato come un Dio che condivide la sofferenza. La fede proclamata dal Papa trae da ciò anche il suo potenziale sociale". Una siffatta visione delle cose non può infatti rimanere una questione privata. "La speranza - ha rilevato l'ambasciatore Horstmann - ha di per sé anche una dimensione sociale con notevoli ripercussioni sull'esperienza e sull'edificazione del mondo. Per questo la speranza possiede anche la capacità di modificare l'individuo e la società che - in virtù della speranza vera e propria - si liberano da utopie irrealizzabili. La vita terrena si svolge così su coordinate allargate e solide".



(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
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00venerdì 14 novembre 2008 11:37
Dai vescovi degli Stati Uniti un nuovo appello a difendere la vita
Conclusa con la dichiarazione finale del cardinale George l'assemblea plenaria di Baltimora

Dai vescovi degli Stati Uniti
un nuovo appello a difendere la vita


 Speranza per il lavoro della prossima Amministrazione ma anche preoccupazione per possibili ostacoli che possono frapporsi nel cammino vero l'unità del Paese. È quanto afferma il cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti nella dichiarazione diffusa al termine dell'assemblea d'autunno. "La Chiesa cattolica degli Stati Uniti accoglie con favore questo momento di storica transizione e attende di lavorare con il presidente eletto Obama e i membri del nuovo Congresso per il bene comune di tutti", ha detto il porporato. Tuttavia, "la desiderata unità fra il presidente eletto Obama e tutti gli americani in questo momento di crisi sarà impossibile da raggiungere", se la politica della nuova Amministrazione incrementa il ricorso agli aborti. "Politiche aggressive, legislazioni e decreti pro aborto - si legge nella dichiarazione - faranno allontanare permanentemente milioni di americani e sarebbero visti da molti come un attacco al libero esercizio della loro religione. Esprimiamo ancora il nostro grande desiderio di lavorare con tutti quelli che hanno a cuore il bene comune della nostra nazione. Il bene comune non è la somma totale degli interessi individuali; si raggiunge lavorando insieme in una vita comune basata sul buon senso e sulla buona volontà per tutti". In continuità con la storia della Chiesa e il suo ministero nel Paese, afferma il cardinale George a nome dei vescovi degli Stati Uniti, "vogliamo continuare la nostra opera per la giustizia economica e per pari opportunità per tutti; nei nostri sforzi per modificare le leggi sull'immigrazione e sulle condizioni degli irregolari; nella nostra richiesta di una migliore educazione e un'assistenza adeguata per tutti, specialmente per donne e bambini; nel nostro desiderio di salvaguardare la libertà religiosa e di diffondere pace entro e oltre i nostri confini nazionali. La Chiesa è intenta a fare il bene e continuerà a cooperare cordialmente con il Governo e chiunque lavori per questo".
I vescovi precisano però che "il bene fondamentale è la vita stessa, dono di Dio e dei nostri genitori. Un buono Stato protegge la vita di tutti. La protezione legale per quei membri della famiglia umana che sono ancora in attesa di nascere in questo Paese fu rimossa quando la Corte Suprema emise la sentenza Roe vs Wade nel 1973. Quella era una cattiva legge. Il pericolo che i vescovi vedono ora è che una cattiva decisione della Corte dia vita a una cattiva legislazione, più radicale della stessa sentenza del 1973".
All'ultimo Congresso, ricordano i vescovi, è stato presentato il Freedom of Choice Act, che nella versione attuale "metterebbe fuorilegge qualsiasi interferenza alla pratica dell'aborto su richiesta", privando milioni di americani in tutti i 50 Stati del Paese delle sia pure modeste restrizioni che ancora limitano l'"industria dell'aborto". Su questo tema, si afferma nella dichiarazione, sulla protezione legale dei non nati, "i vescovi sono una mente sola con i cattolici e con tutti gli uomini di buona volontà" e lo sono perché prima di tutto "hanno un solo cuore". Le recenti elezioni, affermano ancora i vescovi, sono state principalmente decise dalle preoccupazioni per l'economia, per la perdita dei posti di lavoro e della sicurezza finanziaria delle famiglie. Se tale elezione è invece "malinterpretata, ideologicamente, come un referendum sull'aborto, la desiderata unità del presidente eletto Obama con tutti gli americani in questo momento di crisi sarà impossibile da raggiungere. L'aborto non uccide solo i bambini; distrugge l'ordine costituzionale e il bene comune, che è assicurato solo quando la vita di ogni essere umano è legalmente protetta".
La dichiarazione, si afferma in conclusione, "è stata scritta su richiesta e direzione di tutti i vescovi, i quali vogliono inoltre ringraziare tutti quelli che in politica lavorano con buona volontà per proteggere la vita dei più vulnerabili fra noi. Queste persone lo fanno a volte a costo di grandi sacrifici per se stessi e per le loro famiglie; gliene siamo estremamente riconoscenti".
Nel corso della plenaria conclusasi a Baltimora, i vescovi hanno fra l'altro prodotto un documento sulla crisi finanziaria, nel quale si promette che la Chiesa continuerà a raggiungere "i bisognosi, a stare accanto ai più colpiti e a lavorare per politiche che introducano compassione, affidabilità e giustizia nella vita economica". Come previsto, i presuli hanno anche approvato la traduzione del Missale Romanum editio typica tertia nella parte che non era stata approvata nell'assemblea del giugno scorso. Il vescovo di Paterson, Arthur Joseph Serratelli, presidente della Commissione sul Culto divino, ha definito la traduzione "un passo avanti nel continuo rinnovamento della liturgia". (marco bellizi)



(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
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00venerdì 14 novembre 2008 11:41
Dialogo tra le religioni. I perché di un impegno
Un documento della Conferenza dei vescovi di Francia

Dialogo tra le religioni
I perché di un impegno


 Parigi, 13. "Perché la Chiesa cattolica continua a impegnarsi nel dialogo interreligioso?":  se lo chiede l'episcopato francese in un documento approvato nei giorni scorsi al termine dell'assemblea plenaria che si è svolta a Lourdes. "È importante - questo il senso del testo - spiegare oggi alle nostre comunità perché e come il dialogo è parte così integrante dell'esistenza cristiana. Si tratta di mostrare che, se il concilio Vaticano ii ha aperto la strada a questa attitudine, non lo ha fatto per semplice spirito di adattamento ai tempi moderni, ma perché c'era una convinzione di fondo, radicata nel Vangelo stesso".
Il documento è frutto di due anni di lavoro in seno al Consiglio per le relazioni interreligiose e le nuove correnti religiose presieduto dal vescovo di Créteil, Michel Santier, e del quale fanno parte altri due vescovi - André Marceau (Perpignan-Elne) e Jean-Yves Riocreux (Pontoise) - e otto esperti della materia; fra essi suor Geneviève Comeau, teologa, padre Michel Fédou, gesuita e membro del Groupe des Dombes, Dennis Gira e don Pierre Massein, studiosi di religioni asiatiche, e padre Christophe Roucou, direttore del Servizio nazionale per le relazioni con l'islam, che, con monsignor Santier, ha fatto parte della delegazione francese al primo seminario del Forum cattolico-musulmano svoltosi dal 4 al 6 novembre a Roma.
In otto pagine, il dossier esplora fondamenti, obiettivi, frutti e condizioni del dialogo fra le religioni giungendo alla conclusione che, se tale cammino "è certamente difficile ed esigente", esso permette ai cristiani "di andare sempre più lontano per sondare la profondità del mistero di Cristo". Il fatto di dialogare rappresenta anche "l'annuncio di ciò che è al centro stesso della fede cristiana" ovvero "l'ascolto e l'atteggiamento positivo di un cristiano che si impegna nel dialogo proclamando il piano di Dio per tutti gli uomini, i quali non realizzano pienamente se stessi che nel dialogo, con i loro simili e con Dio". Ma non è sufficiente riconoscere le basi e gli scopi del dialogo interreligioso:  occorre capire che esso implica un "modo di agire" e, ancor più, un "modo di essere".
La società francese - afferma monsignor Santier - è segnata da una profonda evoluzione nel suo orizzonte religioso. Attraverso le relazioni di vicinato, la scuola, il lavoro, la partecipazione alla vita associativa, come a livello delle più alte istanze politiche, "i cristiani sono portati a incontrare altri credenti, ebrei, musulmani, buddisti. Che lo vogliano o no - sottolinea il vescovo - essi vivono sempre più in situazioni allo stesso tempo interculturali e interreligiose. È una situazione di fatto". Per i cristiani il dialogo si fonda più specificatamente sulla rivelazione di Dio uno e trino. Per questo la Chiesa cattolica lo presenta come un'esigenza fondamentale per i fedeli e ne conferma oggi l'importanza, ogni giorno, attraverso il suo impegno. Il documento cita la Dignitatis humanae, Dichiarazione di Paolo vi sulla libertà religiosa, datata 7 dicembre 1965:  essa ha il merito - scrive l'organismo presieduto da Santier - "di mostrare come il Nuovo Testamento inviti a sostenere, allo stesso tempo, la ricerca della verità e il rispetto dell'altro". Senza niente sacrificare della ricerca della verità, è importante mostrare come "l'attitudine al dialogo sia conforme alla manière d'être richiesta dal Vangelo". Ciò vale per ogni dialogo ma, in particolare, per quello interreligioso:  "Esso fa certamente parte, in questo senso, della missione della Chiesa".
Almeno quattro, secondo il documento, le condizioni del dialogo. "Occorre innanzitutto precisare - si legge - che il dialogo, contrariamente a quanto si intende spesso attraverso questa parola, non significa da sé "intesa" o "accordo"". Esso permette di "conoscere meglio il punto di vista degli altri credenti e dà ai cristiani la possibilità di rendere testimonianza al Vangelo", assolutamente non per "imporre agli altri la propria posizione" ma semplicemente per "essere interlocutori leali riguardo la personale tradizione religiosa". Inoltre, precisano i vescovi, va detto che "non sono le religioni che dialogano fra loro ma i credenti". Una conseguenza di ciò è che "il dialogo deve essere incarnato":  occorre cioè che "si abbia un incontro vero fra persone concrete, fra uomini e donne realmente rappresentativi della loro tradizione religiosa e della loro comunità". E affinché ci sia veramente un incontro è necessario che "ciascuno abbia il coraggio di dire ciò che crede essere vero, ma senza aggressività". Infine il dialogo richiede una giusta complementarità fra l'ascolto e la parola:  "Ascoltare veramente - è scritto nel documento - implica un'attitudine interiore fatta di ricettività, interesse e rispetto. Accade invece che in certe riunioni accademiche si assista a monologhi successivi:  nessuno ascolta veramente gli altri, poiché ognuno pensa soprattutto a ciò che sta per dire, in attesa del suo turno".
La sfida - sottolinea il dossier - "è di mantenere in tensione feconda un'identità religiosa riconosciuta e affermata, una referenza comunitaria non particolarista (all'opposto di un "comunitarismo stretto") e il riconoscimento dell'alterità, nel quadro della laicità. Si tratta di un'urgente questione sociale. La Chiesa può così promuovere atteggiamenti di rispetto e di accoglienza delle differenze, affatto avvertite come minacce ma riconosciute come un arricchimento reciproco". La Chiesa ha un ruolo privilegiato da giocare in questo processo, innanzitutto "sensibilizzando i cattolici alla ricchezza della loro tradizione secolare di rispetto e di ospitalità e formandoli all'arte e alla deontologia dell'incontro"; poi "incoraggiandoli a essere presenti ovunque si costruisce questo legame sociale plurale al di fuori del quale né l'Europa né il "villaggio globale" hanno possibilità di farcela in futuro senza scontri maggiori". È in questo senso che si può riconoscere "una reale dimensione civica all'impegno della Chiesa nell'incontro o nel dialogo interreligioso". (giovanni zavatta)


(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
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00venerdì 14 novembre 2008 11:48
Aperti alla ragione senza fondamentalismi
Il dibattito sulla vita umana

Aperti alla ragione
senza fondamentalismi


di Rino Fisichella

Le tematiche di natura etica rimarranno in primo piano per ancora molto tempo. Pensare che si possano ridurre a un dibattito televisivo di pochi minuti o a un lancio di agenzia non può rendere ragione della profondità che questi temi richiedono. Alla base è necessaria, in primo luogo, la competenza su quanto si discute, superando spinte emotive suscitate, volta per volta, da singoli casi. L'importanza della posta in gioco non può sfuggire a nessuno:  né allo scienziato che vuole procedere alla sperimentazione, né al legislatore che con le sue leggi crea di fatto una cultura. Pensare che su tali questioni la competenza sia esclusiva degli uomini di scienza porta con sé un vizio di fondo che è difficile negare.
Non esiste una posizione neutrale della scienza:  in nessun ambito, e tanto meno in quello che tocca direttamente la vita umana, che come tale comporta delle implicazioni etiche. La scienza vive di ricerca e non avremmo raggiunto alcune tappe fondamentali del progresso attuale senza il suo apporto faticoso, a volte difficile, ma sempre necessario. La scienza, tuttavia, non vive senza regole; alcune le raggiunge a partire da sé, altre deve necessariamente richiederle. Una scienza che volesse sperimentare sulla vita umana senza sentire il bisogno di un richiamo etico si porrebbe da se stessa fuori gioco, perché presterebbe il fianco al sospetto di essere al servizio del potente di turno e non del bene di tutta l'umanità.
È inutile ricordare che anche l'economia e la finanza - che hanno investito e investono molto in questi ambiti - hanno loro pure bisogno di criteri etici. Quando oggetto di sperimentazione è l'uomo, allora gli stessi scienziati devono convincersi che è necessario l'apporto di quanti avanzano una competenza antropologica. Questa esigenza non può essere rifiutata, e tanto meno schernita o emarginata.
Davanti alla promozione e alla difesa della vita umana non si deve parlare di ingerenza nei confronti degli Stati, né esistono ragioni di opportunità politica per impedire di esprimere un giudizio in proposito. La libertà degli Stati nel legiferare in materia bioetica non può certo essere intaccata da elementi esterni ai propri sistemi giuridici. Allo stesso modo, la libertà della Chiesa di esprimere il proprio insegnamento non può essere limitata dall'arroganza di alcuni scienziati o intellettuali, i quali ritengono che su tali contenuti non dobbiamo parlare.
La vita possiede per i cristiani una sua sacralità perché è innanzi tutto mistero, e dal suo inizio sino alla sua fine evidenzia quanto la natura abbia in sé qualcosa di talmente inintelligibile, che ancora sfugge all'analisi più critica e alla macchina più precisa e, proprio per questo, deve essere rispettata da tutti. Quando si parla di vita umana, insomma, non si è mai in presenza di pura materia manipolabile; c'è in essa una dignità intrinseca che merita almeno il rispetto.
Che senso ha dividersi sulla necessità di difendere la vita quando tutti ne sentiamo profondamente la responsabilità per il suo giusto sviluppo e per la conservazione della sua dignità? Non saranno le vaghe promesse di guarigione che alcuni avanzano, sapendo pietosamente di mentire, a poter permettere l'utilizzo di embrioni per la ricerca, fossero anche quelli che per l'avidità di alcuni sono stati congelati e di cui ora ci si ricorda come panacea, per suscitare ulteriori emozioni.
Su alcune questioni vitali tacere sarebbe ipocrita e questo non ci appartiene. Molte cose si possono rimproverare agli uomini di Chiesa in diversi momenti della sua storia bimillenaria, ma su questi temi la nostra posizione permane da sempre cristallina, immutata e proprio per questo credibile. Non siamo soliti fare promesse che non possiamo mantenere. Qualcuno potrà sorridere davanti alla nostra fede. Ne siamo abituati. Da duemila anni veniamo sbeffeggiati e fino ai nostri giorni proprio per questo motivo molti cristiani vengono uccisi ed emarginati. Ma questa è la nostra forza e ci rende - come disse Paolo vi davanti alle Nazioni Unite - esperti in umanità.
Se altri trovano le loro certezze nella scienza non troveranno certo in noi degli oppositori. Solo desideriamo con grande rispetto ricordare che anche la scienza non ha certezze definitive e che il mistero dell'esistenza umana, con le sue domande inevitabili di senso, vale anche per loro. Non necessariamente dovranno dare ascolto alla Chiesa cattolica, ma se mantengono aperta la loro ragione e danno spazio alla forza del ragionamento a noi basta:  non andranno lontano dalle nostre posizioni. Questo, alla fine, sarà anche lo spartiacque per verificare chi aderisce a fondamentalismi confessionali o laicisti; questi infatti non servono per approdare a una visione condivisa per la salvaguardia e il rispetto della vita umana.
Ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno è la capacità di ascoltare gli uni le ragioni degli altri. Questo è un punto fermo. Al contrario non è per nulla vero che abbia ragione chi grida di più, forse perché a corto di argomentazioni, oppure chi sbandiera un consenso scientifico che non si vede all'orizzonte.



(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
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00venerdì 14 novembre 2008 11:50
Benedetto XVI al nuovo Ambasciatore di San Marino presso la Santa Sede
Benedetto XVI al nuovo Ambasciatore di San Marino presso la Santa Sede

Una sana laicità dello Stato non deve trascurare
le fondamentali istanze etiche


Benedetto XVI ha ricevuto nella mattina di giovedì 13 novembre, alle ore 11.30, in solenne udienza, Sua Eccellenza il Signor Sante Canducci, nuovo Ambasciatore della Repubblica di San Marino presso la Santa Sede, il quale ha presentato le Lettere con le quali viene accreditato nell'alto ufficio. 
S.E. l'Ambasciatore, rilevato alla sua residenza da un Gentiluomo di Sua Santità e da un Addetto di Anticamera, è giunto alle 11.15 al Cortile di San Damaso, nel Palazzo Apostolico Vaticano, ove un reparto della Guardia Svizzera Pontificia rendeva gli onori.
Al ripiano degli ascensori, S.E. l'Ambasciatore era ricevuto da un Gentiluomo di Sua Santità e subito dopo saliva alla seconda Loggia, dove si trovavano ad attenderlo gli Addetti di Anticamera ed i Sediari. Dalla seconda Loggia il corteo si dirigeva alla Sala Clementina, dove l'Ambasciatore veniva ricevuto dal prefetto della Casa Pontificia, l'arcivescovo James Michael Harvey, il quale lo introduceva alla presenza del Pontefice nella Biblioteca privata.
Dopo la presentazione delle Credenziali da parte dell'Ambasciatore avevano luogo lo scambio dei discorsi e, quindi, il colloquio privato.
Dopo l'udienza, nella Sala Clementina l'Ambasciatore prendeva congedo dal prefetto della Casa Pontificia e discendeva nella Basilica Vaticana:  ricevuto da una delegazione del Capitolo, si recava dapprima nella Cappella del Santissimo Sacramento per un breve atto di adorazione; passava poi a venerare l'immagine della Beatissima Vergine e, quindi, la tomba di San Pietro.
Al termine della visita l'Ambasciatore prendeva congedo dalla delegazione del Capitolo, quindi, alla Porta della Preghiera, prima di lasciare la Basilica, si congedava dai dignitari che lo avevano accompagnato e faceva ritorno alla sua residenza.


Questo è il testo del discorso del Papa.

Signor Ambasciatore,
sono lieto di porgerLe il mio cordiale benvenuto, nel momento in cui ricevo dalle sue mani le Lettere commendatizie, con le quali Ella viene accreditato presso questa Sede Apostolica Ministro Straordinario e Plenipotenziario dell'antica ed illustre Repubblica di San Marino. Il mio primo e deferente pensiero va ai Serenissimi Capitani Reggenti, dei quali Ella diviene alto Rappresentante, e all'intera popolazione sammarinese, da sempre cara al Successore di Pietro. In effetti, la Repubblica del Titano, sin dal suo nascere, ha intrattenuto con la Sede Apostolica serene e proficue relazioni, ufficialmente formalizzate nel 1926, con vincoli di reciproca e rispettosa interazione. Mi è pertanto gradito rinnovare l'espressione della mia vicinanza spirituale al Popolo che Ella da oggi è deputato a rappresentare, un Popolo piccolo per l'estensione del territorio dove risiede, ma degno di ogni attenzione e rispetto per la sua storia, ricca di tradizioni culturali e religiose.
Nel salutarLa con vivo piacere, vorrei ricordare con sincera gratitudine il suo benemerito predecessore, il Prof. Giovanni Galassi, che per lunghi anni ha svolto in modo encomiabile il ruolo di Rappresentante della Repubblica di San Marino e quello di Decano del Corpo Diplomatico qui accreditato. La sensibilità, il tatto umano e la competenza che hanno contraddistinto la sua attività gli hanno attirato la stima dei suoi colleghi diplomatici, ed hanno soprattutto contribuito a intensificare le già cordiali relazioni tra la Repubblica di San Marino e la Santa Sede. Sulla medesima scia sono certo che Ella proseguirà il lavoro già avviato, perché il consolidamento di proficui reciproci rapporti, oltre a favorire il dialogo e a facilitare l'intesa fra le autorità e la comunità cattolica di San Marino, risulterà utile anche per una comune azione a favore della solidarietà e della pace in Europa e nel mondo.
Ogni Nazione ed ogni Istituzione, grande o piccola che sia, è chiamata oggi ad operare attivamente per costruire una comunità internazionale poggiante su condivisi valori umani e spirituali. A questo progetto di portata mondiale la Repubblica di San Marino non farà certo mancare il suo contributo, mettendo a disposizione di tutti l'esperienza di un passato ricco di storia e di cultura, in cui primeggia la tutela della famiglia, cellula fondamentale di ogni comunità. Quella che è conosciuta come lo Sperone del Titano è terra segnata da una peculiare identità, che si inserisce nella ricchezza culturale e spirituale della Penisola italiana. Punto qualificante di tale identità è l'antico patrimonio di valori che trae linfa in gran parte dalla fede cristiana, la quale ha impregnato la vita e la storia della gente e delle istituzioni sammarinesi. Giustamente pertanto Ella ha evocato nelle sue parole queste antiche radici, facendo riferimento anche alla visita compiuta dal mio venerato predecessore, Giovanni Paolo ii, il 28 aprile 1982, tra l'entusiasmo del Popolo sammarinese. Esprimo di cuore l'auspicio che, nel solco di tali plurisecolari tradizioni culturali e spirituali, e proseguendo lo sforzo dispiegato sino ad oggi da tante persone di buona volontà, l'attuale comunità civile e religiosa di San Marino sappia scrivere insieme una nuova pagina di progresso e di civiltà, riconoscendo il ruolo indispensabile che ogni famiglia è chiamata a svolgere nella formazione delle nuove generazioni come luogo di educazione alla pace.
Valorizzare l'eredità greco-romana, arricchita dall'incontro con il cristianesimo, costituisce pertanto una indubbia opportunità offerta anche alla Repubblica di San Marino per contribuire a rendere l'Europa terra di dialogo e "casa comune" di nazioni con le loro specifiche peculiarità culturali e religiose. Sono certamente mutate le condizioni ambientali e sociali in cui noi oggi viviamo; inalterato però resta l'obbiettivo ultimo di ogni quotidiano nostro impegno personale e comunitario:  la ricerca dell'autentico benessere della persona, e la costruzione di una società aperta all'accoglienza e attenta alle reali esigenze di tutti. L'insieme unitario di valori e di leggi, il comune "alfabeto" spirituale che ha reso possibile nei secoli scorsi ai nostri popoli di scrivere nobili pagine di storia civile e religiosa, rappresenta una preziosa eredità da non disperdere, un patrimonio da incrementare con l'apporto delle moderne scoperte della scienza, della tecnica e della comunicazione, poste al servizio del vero bene dell'uomo.
Signor Ambasciatore, la Santa Sede rinnova l'attestazione della sua piena disponibilità a collaborare per perseguire tali condivisi obiettivi, consapevole com'è della necessità, per una così vasta impresa, della cooperazione di tutti:  a livello locale, nazionale ed internazionale, si richiede l'apporto di ognuno nel proprio ambito e con il proprio specifico compito, sempre nel reciproco rispetto e in costante dialogo. Sono queste le condizioni di quella laicità "sana" che è indispensabile per costruire una società dove convivano pacificamente tradizioni, culture e religioni diverse. Separare infatti totalmente la vita pubblica da ogni valore delle tradizioni, significherebbe introdursi in una strada cieca e senza uscita. Ecco perché è necessario ridefinire il senso di una laicità che sottolinei la vera differenza e autonomia tra le diverse componenti della società, ma che conservi anche le specifiche competenze in un contesto di comune responsabilità. Certamente questa "sana" laicità dello Stato comporta che ogni realtà temporale si regga secondo proprie norme, le quali tuttavia non devono trascurare le fondamentali istanze etiche il cui fondamento risiede nella natura stessa dell'uomo, e che, proprio per questo, rinviano in ultima analisi al Creatore. Quando la Chiesa cattolica, attraverso i suoi legittimi Pastori, fa appello al valore che taluni fondamentali principi etici, radicati nell'eredità cristiana dell'Europa, rivestono per la vita privata, ed ancor più per quella pubblica, è mossa unicamente dal desiderio di garantire e promuovere la inviolabile dignità della persona e l'autentico bene della società.
Signor Ambasciatore, ecco i sentimenti che mi sorgono spontanei nell'animo in questo momento. Mentre La ringrazio per le sue gentili parole e Le assicuro la piena disponibilità dei miei Collaboratori, formulo l'augurio che Ella possa assolvere al meglio la Sua alta missione. Ai Serenissimi Capitani Reggenti e al Popolo dell'amata Repubblica di San Marino, che Ella qui rappresenta, rinnovo con affetto il mio saluto avvalorato dalla preghiera, affinché Iddio protegga e benedica sempre tutti e ciascuno.



(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
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00sabato 15 novembre 2008 10:13
La XXIII assemblea plenaria del Pontificio Consiglio

Da laici nella storia con coraggio
e creatività


Identità, presenza e formazione:  in queste tre parole chiave sono racchiusi i compiti che con maggiore urgenza si prospettano ai cristiani all'inizio del terzo millennio. Li ha indicati il cardinale Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, aprendo giovedì 13, a Roma, la XXIII assemblea plenaria del dicastero.
Tutta la relazione del porporato ha avuto come bussola l'esortazione apostolica Christifideles laici di cui ricorre il ventennale. Magna charta del laicato cattolico, pietra miliare del cammino dei laici, sintesi organica dell'insegnamento conciliare sul laicato, arricchita dalle esperienze ecclesiali del dopo concilio Vaticano ii, raccolte durante il Sinodo dei Vescovi del 1987, il documento di Giovanni Paolo ii rappresenta un vero vademecum per tutta la Chiesa, che a venti anni dalla stesura continua a testimoniare - ha detto Rylko - come l'"ora del laicato" scoccata con il Vaticano ii non si sia mai fermata. E la plenaria è chiamata a discutere della responsabilità dei fedeli nei diversi ambiti della vita pubblica e dell'efficacia della loro presenza nella società civile:  dalla politica alla promozione della vita e della famiglia, dal lavoro all'economia, dall'educazione alla formazione dei giovani.
In quest'ottica la Christifideles laici ha avuto il merito di approfondire tre questioni che nell'immediato dopo-Concilio si prospettavano come novità assolute:  i cosiddetti ministeri laicali, i movimenti ecclesiali e la promozione della donna. Oltre agli aspetti positivi del generoso impegno dei laici nella vita delle comunità cristiane, infatti, in questo campo non sono mancati pericoli:  la nuova stagione aggregativa ha rappresentato un grande segno di speranza, ma sono apparsi necessari criteri puntali per il discernimento dell'autenticità dei carismi sorgivi.
L'analisi del relatore si è poi spostata sui recenti mutamenti globali, che hanno portato a un contesto dominato dalla "dittatura del relativismo". "Sta guadagnando terreno - ha ammonito - la pretesa di creare un "uomo nuovo", completamente sradicato dalla tradizione giudeo-cristiana, un "nuovo ordine mondiale"". C'è anzi di più, una sorta di "nuovo anticristianesimo" che "fa passare per politicamente corretto attaccare i cristiani, e i cattolici in particolare. Chi vuole vivere e operare secondo il Vangelo di Cristo deve pagare il conto perfino nelle liberalissime democrazie occidentali". Senza tralasciare che sono una sessantina i Paesi del mondo in cui diritti umani sono violati palesemente. Il porporato ha aggiunto all'elenco le discriminazioni subite dai cristiani e il paradosso per il quale nonostante il secolarismo dilagante vanno sempre più diffondendosi fondamentalismi e fanatismi religiosi. Da qui l'esortazione:  "È giunto il tempo di liberarci dai nostri falsi complessi di inferiorità nei confronti del cosiddetto mondo laico, per essere coraggiosamente discepoli di Cristo". E a quanti lamentano un calo della presenza nella società ha risposto affermando che "il vero problema non è essere minoritari, ma essere diventati volutamente marginali, irrilevanti, per mancanza di coraggio, per essere lasciati in pace, per mediocrità". Per questo anche in Chiese di antica tradizione si avverte la necessità di un nuovo "primo annuncio".
Riprendendo questa sollecitazione, il cardinale Angelo Scola - nella successiva relazione che affrontava il tema in agenda da una prospettiva teologica - ha ricordato il vivace dibattito acceso in ambito civile sul concetto di laicità, che vede la comunità cristiana impegnata su un nuovo fronte nel dialogo con il mondo contemporaneo. Il patriarca di Venezia ha evidenziato come la testimonianza dei cattolici in politica debba mettere in moto la virtuosa ricerca del "compromesso nobile", con il realismo di chi sa che non si dà convivenza civile senza sacrifici. "I laici - ha spiegato - sono chiamati a perseguire, di volta in volta, il giusto ordine della società". È un lavoro intenso quello che spetta loro nella vita personale e comunitaria e richiede - ha concluso - "un'assunzione creativa e coraggiosa del compito missionario".
Nel pomeriggio sono intervenuti il sotto-segretario del dicastero, Guzmán Carriquiry - il quale ha parlato della nuova stagione aggregativa dei fedeli, sottolineando la grande pluralità e diversità dei movimenti, i cui carismi restano però innestati nella tradizione cattolica, attraverso l'inserimento nelle Chiese locali - e l'arcivescovo di Monaco e Frisinga, monsignor Reinhard Marx, che ha auspicato un "ripensamento" della formazione del laicato, iniziando dalla catechesi per i bambini. Bisogna - ha detto - "intendere la catechesi in un modo nuovo, come una proclamazione integrale della dottrina cristiana". Attraverso una rilettura della Christifideles laici e del romanzo del 1992 Westend, dello scrittore cattolico Martin Mosebach, il presule è partito dal presupposto che l'educazione cristiana dei laici si estende tra i poli dell'iniziazione e della maturità, dunque tra catechesi e la testimonianza. Il primo polo porta dal mondo verso Cristo, il secondo da Cristo al mondo. Entrambi sono necessari, ma nessuno dei due è concepibile senza l'altro. Tuttavia, essi possiedono una cronologia:  prima viene l'iniziazione catechetica al mysterion, l'evento salvifico, poi l'iniziazione a una vita ispirata dalla fede.
Il problema attuale è che si crea un vuoto tra i due momenti, tanto che alcuni autori cattolici hanno paradossalmente definito il momento della Confermazione come quello dell'"uscita solenne dalla Chiesa", in quanto la ricezione del sacramento della Cresima finisce con il costituire per molti giovani l'ultimo contatto con la comunità ecclesiale.
Per questo - ha spiegato il relatore - occorre recuperare il terreno perduto e trovare il modo di passare direttamente dalla catechesi alla testimonianza cristiana, come avviene per esempio in occasione delle Giornate mondiali della gioventù. Esse sono pensate per aiutare i giovani cristiani, non solo a essere testimoni autentici della loro fede nel corso della celebrazione dell'avvenimento, ma per insegnare loro a declinarla in ogni momento della loro vita quotidiana. Questa relazione tra catechesi e testimonianza, mostra il legame di reciprocità inscindibile tra raccoglimento e missione, tra vita spirituale e di azione, tra mistica e politica, secondo la definizione di Charles Péguy.



(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2008)
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00sabato 15 novembre 2008 10:14
L'arcivescovo Gardin ai superiori maggiori italiani

Autorità e obbedienza
nella vita consacrata


di Egidio Picucci

"Non ci sono situazioni eccezionalmente preoccupanti sulla pratica libertà-obbedienza, due facce della stessa medaglia che possono combaciare perfettamente grazie alla capacità di riconoscere le gerarchie dei valori e di armonizzare esigenze diverse. Tuttavia è parso bene parlarne in un documento ufficiale sia per ribadire alcune linee-guida per il bene della vita consacrata, sia perché neppure esse sono immuni dal virus della secolarizzazione". Lo ha detto il segretario della Congregazione per la vita consacrata e le società di vita apostolica, arcivescovo Agostino Gardin, parlando recentemente a 170 superiori maggiori italiani riuniti a Napoli per la 48ª assemblea generale sul tema del servizio dell'autorità e l'obbedienza, ricalcato sul titolo dell'omonima istruzione pubblicata lo scorso 11 maggio dalla Congregazione.
L'obbedienza presuppone ovviamente l'autorità, "la quale - ha detto don Alberto Lorenzelli, presidente della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (Cism) - pare che in occidente sia in crisi, anche se nessuno sa farne una diagnosi esatta e tanto meno sa suggerire rimedi, anche se un'indicazione generica protende verso un'autorità in grado di svolgere un servizio equilibrato alla crescita tanto della persona quanto della comunità e della missione". Obiettivi raggiungibili esercitando un'autorità spirituale "che garantisce il tempo e la qualità della preghiera; che promuove la dignità della persona; che infonde coraggio e speranza nelle difficoltà; che tiene vivo il carisma del proprio istituto; che alimenta il sentire cum Ecclesia e che accompagna il cammino di formazione permanente".
È quanto si richiede oggi, quando l'obbedienza non è più "minuta e bassa" come in passato, allorché era vista come "un comando dal superiore al suddito", ma è divenuta "alta" perché è impostata sulla ricerca assidua di Dio e della sua volontà; è identificata con la fede ed è considerata un obbedire come Cristo e in Cristo, presentato più come modello dell'obbedienza che dell'autorità.
Un'obbedienza del genere ha bisogno di mediazioni, costituite dalla regola, dalla comunità e dal superiore, realtà che ogni candidato alla vita religiosa conosce fin dal tempo della prima formazione e che accetta senza riserve e senza condizioni. "In questa grande obbedienza - ha detto monsignor Gardin - trovano posto le piccole obbedienze quotidiane, per cui oggi si parla non solo di obbedienza, ma di obbedienze".
Anche l'autorità, che nella vita consacrata è stata sempre prospettata come servizio, "deve rifarsi a Cristo, fonte di ispirazione per chi ha tale compito, perfino nei momenti dell'ammonizione e della correzione, da esercitare con cuore di padre, intelligenza di medico e compassione evangelica". Solo così il piccolo esercito di 21.000 consacrati italiani - tanti ne censisce l'ultimo annuario edito dalla Cism - risponderà alle attese di Cristo e della Chiesa, riuscendo a far fronte alle opere che gestisce e che fanno riferimento alle scuole (189 con 50.000 alunni), ai centri di formazione professionale (99), alle case editrici (53), alle emittenti radiofoniche (29), alle pubblicazioni periodiche (332), alle strutture educative (77), alle mense per i poveri, ai centri sanitari e di assistenza per i tossicodipendenti e i malati di aids (50), agli istituti per disabili (58).
È vero che i religiosi stanno diminuendo, ma questo "non influisce - secondo don Lorenzelli - sul fascino che la vita consacrata esercita sui giovani e sulla popolazione, perché, in un clima culturale stanco di tecnologia, essi sono un segno forte e convincente di semplicità e di autenticità".
Altro segno di vitalità la gente lo vede nella vicinanza dei religiosi all'umanità sofferente, "di cui si interessano con l'amore di Madre Teresa o di suor Emmanuelle, scomparsa da poco. In molti casi essi sono arrivati prima delle strutture pubbliche, non con i segni della potenza, ma con la potenza dei segni, com'è avvenuto nella cura dei malati di aids e nell'accoglienza degli immigrati".
Resta vero, comunque, quanto diceva Dietrich Bonhoeffer a proposito della vita consacrata, e cioè che essa ha annunciato e sta annunciando le realtà penultime, e fa bene; ma non deve dimenticare che deve annunciare anche quelle ultime. Le penultime sono tutte le strutture caritative, i centri di impegno sociale, di amore verso il prossimo. Le ultime sono il bene e il male, la vita e la morte. La vita consacrata deve saper parlare anche di questo, mostrando il senso ultimo dell'esistenza; presentando il vangelo e la forza esaltante delle beatitudini.



(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2008)
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00sabato 15 novembre 2008 10:15
La persecuzione nazifascista e i ricordi struggenti di uno scrittore ebreo

Evocazione


"Dove le lacrime del martire bagnano anche gli occhi dell'oppressore"

Un medico e scrittore ebreo di Salonicco - nipote del rabbino Yehuda Nehama e cittadino italiano dal 1919 - con la sua famiglia subì la persecuzione nazifascista e durante l'occupazione di Roma trovò rifugio nel convento di San Francesco in via Merulana. Pubblichiamo un suo testo inedito.

di Saul Israel

Nella corrente lontana dei ricordi, la scomparsa di quelle persone che cristallizzarono intorno a sé un largo ciclo di esperienze sentimentali e spirituali, segna una frana profonda che divide il passato in isole di ricordi al centro delle quali emerge una di quelle figure. Intorno a queste isole si forma un vuoto incolmabile che le tiene separate le une dalle altre. Nessuno sforzo della fantasia spinto dal più accorato desiderio, riesce a eliminare questa irriducibile soluzione di continuità e questi singoli episodi della nostra storia personale si ripresentano ogni tanto alla memoria come vaganti alla deriva nell'oceano del passato.
Così è stato per la morte della mia nonna paterna, per la morte di mio fratello, di mio padre, di mia madre. Ognuno di loro s'è portato con sé quella porzione del mio passato che era strettamente legata alla loro presenza e che tuttora rimane aderente alla loro ombra e che si illumina della fioca luce della loro esistenza fantomatica, trascinata dalle onde silenziose dell'oblio da dove riesce penosamente a sollevarla per poco l'accorata nostalgia degli affetti lontani. Questo passato mi sfugge, si allontana e minaccia a ogni istante di confondersi con tante cose sognate o immaginate e mi par di assistere al miracolo di una resurrezione quando, ogni tanto, dei sussulti di vita lo scuotono e lo fanno vibrare con la medesima intensità delle cose reali. 
Esiste una forza misteriosa che riesce a condurre vicino alla nostra realtà più attuale questi ricordi vaghi e a renderli presenti per qualche istante. Allora essi diventano così simili al presente da poter perfino immaginare che si stiano svolgendo accanto a noi. La forza che più di tutte riesce a realizzare questa trasfigurazione miracolosa è il dolore, quell'acre dolore che contiene il presentimento della morte. Con l'aleggiare della fine suprema si spande nell'animo un cupo bagliore che illumina di una luce tenue, ma insolitamente limpida, dei tratti più o meno estesi del nostro passato e ne fa apparire con precisione impressionante molte linee sbiadite dall'oblio.
Nel convento in cui ero rifugiato durante la persecuzione, io l'attendevo quella morte, con una malinconia placida percorsa da una impercettibile vibrazione di gioia. C'era nel dolore del distacco da tutto quello che amavo e che non volevo rimanesse avvolto nella disperazione causata dalla mia perdita, come un'attesa mistica. La mia persona si dilatava nel sentirsi consacrata al medesimo sacrificio al quale erano stati già immolati mio fratello, mia sorella e centinaia di altre vittime.
Il sole era calato da poco dietro l'orizzonte e l'aria cominciava a tingersi delle prime chiazze trasparenti della penombra della notte, ancora diluita nei colori smaglianti del crepuscolo. Il silenzio scendeva lento e insensibile come l'oscurità e da esso si staccavano improvvisamente delle voci che non erano state ancora udite:  dei cinguettii brevi e discreti che somigliavano a richiami affettuosi di una madre che, al momento di chiudere l'uscio di casa, chiama il bambino che gioca in mezzo alla strada. Poi, a poco a poco, inavvertitamente, tutto taceva mentre i profili delle cose cominciavano a perdersi nell'ombra che stava diventando più continua e più densa. La camera nella quale mi trovavo era quasi completamente immersa nel buio e mi sentivo straordinariamente isolato, quasi sollevato nel vuoto dal silenzio e dall'oscurità. Vicino a me, nel convento, percepivo un lieve mormorio di preghiera.
Forse fu questo mormorio che sembrava più immaginato che realmente percepito, che fece sorgere dal più profondo del passato, la figura venerabile di nonna Esmeralda; forse questo mormorio di preghiera era già da tempo nel mio desiderio.
Rividi nella mia fantasia semiassopita, la mia buona nonna, proprio come l'avevo conosciuta da fanciullo. Nella imprecisione che la penombra dava ai contorni delle cose che mi circondavano, mi era straordinariamente facile adattare a essi le linee degli oggetti e delle persone che stavo rievocando. Non esitai a immaginare di essere sdraiato sul divano della sala della nonna, gli occhi chiusi, mentre la nonna e gli altri familiari erano usciti e stavano nella camera attigua. La rievocazione diventava a poco a poco più completa:  la figura della nonna emergeva spontaneamente dal passato, abbellita dalla maestà particolare delle cose che hanno varcato le soglie della vita e dai colori e dagli accenti che mi rendono così attraenti i ricordi dell'infanzia. Quanta sublime semplicità nella persona esile e piccola di quella vecchia, quanta dolcezza nella sua voce e quanta tenerezza nei suoi accenti modulati!
Rivedevo un tramonto splendido e sereno come questo. La sala nella quale ci raccoglievamo attorno alla nonna era lunga e larga, forse molto più grande della realtà, per i miei occhi di bambino. Era il venerdì sera. Mio padre aveva da poco officiato l'arvith, nel grande corridoio prospiciente i ballatoi che davano sul vastissimo cortile, campo dei nostri giochi. Le trenta o quaranta persone che avevano partecipato alla funzione si erano tutte ritirate dopo aver scambiato gli auguri e le benedizioni per il sabato entrato ormai nella natura e negli animi. Il corridoio era rimasto deserto, illuminato da due enormi lumi a petrolio che troneggiavano, ognuno su di un tavolo apparecchiato festosamente per il rito del sabato, con il tovagliato candidissimo e la piccola cesta contenente il pane della benedizione. Dal soffitto scendeva fino a quasi un metro da ogni tavolo, sospesa da una lunga catena di metallo lucido, una campana di vetro con rituale lucignolo immerso nell'olio che immetteva nella luce della lampada a petrolio dei chiarori tiepidi e vibranti.
Nonna Esmeralda ci riceveva nella sala a destra, in fondo al corridoio. Dopo averci dato le mani da baciare, ci abbracciava uno per uno e ci dava la benedizione; poi conduceva mio padre davanti alla finestra, ne scostava la tendina per scoprire un lembo di cielo stellato e, gli occhi sollevati in quella direzione, nonna Esmeralda diceva la sua benedizione fra lacrime silenziose di tenerezza:  Yevarehéha Adonáy, Veischmeréha
Come vibrava nella mia memoria, durante questa evocazione, la voce sommessa della nonna, e come la sua immagine e quella di mio padre mi apparivano chiare e nette, simili al ricordo di cose e fatti accaduti poche ore prima! Soltanto la certezza immanente della loro morte che li separava inesorabilmente da me, dava alle loro parole e alle loro figure quella opacità che è caratteristica delle cose definitivamente scomparse.
Nel ritrovarvi in questa realtà rivestita di sogno, o mio padre, o mia nonna, mi sentivo ritrovato da voi come se foste stati i primi a cercarmi; sentivo la mia presenza diventata già simile alla vostra, dotata di una consistenza immateriale, come se mi stessi familiarizzando con la morte. Voi mi riportavate in quell'istante le preghiere della mia infanzia, quelle sublimi preghiere che sempre, allora come oggi, riescono a staccare il mio spirito dalle abitudini e a riportarlo, attraverso la sacra comunione della famiglia, a una più vasta comunione che si dilata indefinitamente.
Nonna Esmeralda! In queste preghiere ho ricomposto come in un sudario sublime la tua persona, quelle di mio padre e dei miei fratelli. Quando mi riappari, io ti rivedo soltanto in quell'atteggiamento di invocazione nel quale ti ho sempre vista e conosciuta; la tua voce stessa mi sembra fatta soltanto di accenti di preghiera e di benedizione:  Yevarehéha Adonáy Veischmeréha. Che il Signore ci custodisca sotto le ali del suo amore dove la vita non ha avuto inizio e non avrà mai fine. Nonna Esmeralda! In questo istante in cui sono riuscito a vincere l'angoscia della prossimità della morte, che questa stessa benedizione mi accolga e mi avvolga nello stesso sudario che avvolge tutti i nostri scomparsi. Ti sento oggi molto vicina e sento che la tua voce tremula sta già pronunciando la dolce invocazione per il figlio di tuo figlio. Quel mormorio sommesso, nel tenue chiarore della notte che sta calando, contiene non soltanto dei dolci ricordi ma degli impeti di una forza inverosimile.
Nonna Esmeralda! Forse fra qualche giorno molti ancora di noi saranno scomparsi nei turbini di un odio spaventoso e saranno diventati delle ombre come te; forse fra qualche giorno io sarò con loro... ma non mi opprime più il pensiero di dover anticipare di alcuni anni l'esperienza del trapasso poiché il suo approssimarsi ravviva nell'animo sentimenti così sublimi.
Così pensavo mentre nella fantasia leggermente eccitata dalle ombre sempre più dense della notte sopraggiunta e dal silenzio divenuto più sordo le visioni del mio passato si snodavano con un ritmo lento ma ininterrotto. Di là dalla mia camera veniva un mormorio sommesso, animato da un cantilena che non mi era affatto nuova:  erano i frati che recitavano le loro preghiere mentre scendevano nel refettorio. Le loro voci e l'inflessione stessa delle loro preghiere si innestavano perfettamente nelle voci che la memoria mi stava riportando; sembrava che ne fossero la continuazione e talvolta mi pareva che fossero le voci udite in quegli anni lontani, nelle Yeshivóth, che perforavano le dense nebbie del passato riuscendo a rendersi distinte e presenti. Senza dimenticare un solo istante che quella era la preghiera dei frati che mi ospitavano, io riuscivo a fondere perfettamente questa realtà con la visione che mi stava ossessionando:  uno spirito comune amalgamava questa visione con questa realtà e ne faceva una realtà unica e dall'una e dall'altra scaturivano indifferentemente delle associazioni che intrecciavano insieme le due diverse vicende.
Dopo un tempo indeterminato di assopimento, durante il quale non mi fu più possibile nemmeno pensare, mi si riaffacciarono improvvisamente le percezioni delle cose che mi circondavano. Nella mia camera l'oscurità era appena attenuata da un vago chiarore che veniva dal cielo limpidissimo, illuminato dalle prime stelle, mentre i rumori si erano ridotti a qualche scricchiolio, a qualche fruscio di foglie e a un brusio lontano che veniva dalla città. Quest'ultimo brusio era la parte più estranea al mio essere, non apparteneva più al mondo nel quale stavo vivendo la mia strana vita di uomo nascosto e braccato. Ero quasi contento di sentirmene fuori. Ma questa contentezza fu improvvisamente rotta dalla stretta terribile che mi causò il pensiero del dolore che avrei lasciato dietro di me, del pianto sconsolato di mia moglie. Questa morte io non la volevo, non l'avevo mai desiderata e perciò il dolore che essa avrebbe provocato non sarebbe stato il frutto di una mia debolezza, di una mia colpa. Eppure esso mi penetrava insensibilmente nell'animo e cominciava a farmi del male; lo sentivo riecheggiare in me stesso e invadere a poco a poco tutto il mio spirito. Perché dunque ricevere tanta serenità all'approssimarsi della morte e non poterne donare nemmeno una piccola porzione?
Questa lugubre visione della disperazione che avrebbe accompagnato la mia scomparsa scosse e ruppe il mio equilibrio con un'angoscia insopportabile. Invocai allora un soccorso fuori di me; invocai di nuovo la voce pregante di nonna Esmeralda; invocai il miracolo di un'allucinazione davanti alla quale invocare pietà e consolazione per chi sarebbe rimasta senza di me. I miei occhi frugarono nel buio nella folle speranza di scoprire questa apparizione... 
Tutto intorno a me mi appariva ora simile a quei luoghi sacri al ricordo. Come somigliava questa tranquillità attraversata dagli ultimi aneliti di vita del tramonto, ai tramonti che avevo conosciuti durante la mia infanzia! Il cinguettio degli uccelli udito trent'anni prima mi appariva lontano non più di quello udito mezz'ora fa e si sovrapponeva a esso nella memoria. Si sovrapponevano anche le immagini degli alberi e persino la forma della stanza che, nella penombra, non aveva più dimensioni precise; e quel mormorio di preghiera che avevo udito poco prima venire dalle sale del convento si sovrapponeva perfettamente alla medesima cadenza delle preghiere ascoltate e recitate tanti anni prima. Sulla scrivania doveva trovarsi una Bibbia in lingua ebraica che mi era stata prestata, con tanto senso di umana comprensione, da padre F., e di cui riuscivo a individuare la sagoma nell'ombra. Tutto era qui come nella Yeshivà e, come nella sala della nonna, vi spirava la medesima armonia, ravvisavo le medesime parvenze. Come era mai possibile ritrovare tanta somiglianza di atteggiamenti e di accenti, che evocavano identici affetti e identiche reazioni spirituali, a tanta distanza di tempo e in tanta apparente diversità di esperienze?
Perfino quel crocefisso di cui scorgevo le linee al di sopra del letto, si confondeva intimamente con tutte quelle immagini e veniva avvolto nella medesima atmosfera di famiglia dalla quale scaturiva l'ombra di nonna Esmeralda. Forse era per la presenza di quella Bibbia scritta con quei caratteri la cui forma era direttamente e naturalmente associata alla preghiera, alla mia preghiera che era così simile nel tono e nell'inflessione a quella dei frati.
Dalle mie labbra usci spontanea l'invocazione che, fin dai tempi più remoti della nostra storia, i padri dei nostri padri, tutti quelli che hanno creduto, che hanno avuto come scolpita nella carne e fusa nel sangue la fede del Dio Unico di misericordia e di verità, hanno sempre pronunciata con animo commosso, nel momento in cui il martirio spreme la preghiera dall'animo del popolo come il frantoio spreme l'olio dall'oliva. Questa invocazione la pronunciai nella lingua sacra, davanti al crocefisso, avendo presenti nella fantasia le immagini dei miei morti:  Shemáh Israél Adonáy Elohénu, Adonáy Ehád. Queste parole che io pronuncio nella lingua che fu tua più di quanto non è stata mia, o martire di una passione che pesa ancora sul tuo popolo, queste parole che hai sentito pronunciare da tua madre e che tu stesso pronunciasti chissà quante volte, io le ripeto davanti a te. Nel tuo martirio è simboleggiato il martirio millenario della gente del tuo sangue e della tua fede, che viene di nuovo inchiodata su di una croce, su cui sale e risale incessantemente, dopo innumerevoli resurrezioni. È nel nome di questo martirio che purifica l'uomo dall'errore, è nel nome di tanti innocenti, che dobbiamo giurare di estirpare per sempre l'oppressione del corpo e dello spirito; di spegnere quell'odio che viene inculcato in nome di presunte verità; sapendo che la verità che si serve della violenza e dell'insidia è un'atroce e diabolica menzogna, anche se invocata in nome di Dio. Io mi raccolgo con te, insieme alle anime di tanti innocenti torturati a causa della loro fede, in una consanguineità che supera quella della carne, sotto le ali della preghiera, di quella preghiera che la voce morta di nonna Esmeralda mi riporta oggi da lontano, come una dolce onda che nasconde le sue scaturigini nel passato più remoto che si possa immaginare:  Yevarehéha Adonáy Veischmeréha. Che il Signore ci benedica e ci custodisca tutti, sotto le ali dove la vita non ha avuto inizio e non avrà mai fine; dove le lacrime del martire bagnano anche gli occhi dell'oppressore, dove la violenza si risolve nella quiete come il sonno del febbricitante mentre il male sta per lasciarlo.


(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2008)
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00sabato 15 novembre 2008 15:33
Il Papa: servono politici cattolici coerenti
Da: RaiNews24

Roma | 15 novembre 2008
Il Papa: servono politici cattolici coerenti
Ratzinger
Ratzinger

Il Papa ha rilanciato la sua richiesta di formare una nuova generazione di politici cattolici, coerenti con la fede e a servizio del bene comune. "Ribadisco - ha detto ricevendo i partecipanti alla assemblea plenaria del Pontificio consiglio per i laici - la necessita' e l'urgenza della formazione evangelica e dell'accompagnamento pastorale di una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica, che siano coerenti con la fede professata, che abbiano rigore morale, capacit… di giudizio culturale, competenza professionale e passione di servizio per il bene comune".

Ai laici, ha ricordato Benedetto XVI, "spetta di farsi carico della testimonianza della carita' specialmente con i piu' poveri, sofferenti e bisognosi, come anche di assumere ogni impegno cristiano volto a costruire condizioni di sempre maggiore giustizia e pace nella convivenza umana, cos da aprire nuove frontiere al Vangelo". "Chiedo dunque - ha aggiunto - al Pontificio Consiglio per i Laici di seguire con diligente cura pastorale la formazione, la testimonianza e la collaborazione dei fedeli laici nelle pi- diverse situazioni in cui sono in gioco l'autentica qualita' umana della vita nella societa"'.

Benedetto XVI ha voluto ribadire oggi "quanto la Chiesa riconosca, apprezzi e valorizzi la partecipazione delle donne alla sua missione di servizio alla diffusione del Vangelo". "L'uomo e la donna - ha ricordato nel discorso al Pontificio Consiglio per i laici - uguali in dignita', sono chiamati ad arricchirsi vicendevolmente in comunione e collaborazione, non solo nel matrimonio e nella famiglia, ma anche nella societa' in tutte le sue dimensioni".

 In particolare, ha aggiunto, "alle donne cristiane si richiedono consapevolezza e coraggio per affrontare compiti esigenti, per i quali tuttavia non manca loro il sostegno di una spiccata propensione alla santita', di una speciale acutezza nel discernimento delle correnti culturali del nostro tempo, e della particolare passione nella cura dell'umano che le caratterizza". Il ruolo delle donne nella Chiesa e nella societa' era stato esaltato venti anni fa da Giovanni Paolo II con la lettera apostoolica "Mulieris dignitatem" che Papa Ratzinger ha citato oggi esortando i cardinali, vescovi e sacerdoti ma anche i responsabili delle associazioni e movimenti laicali presenti all'incontro in Vaticano a trarne spunto per la loro azione.

zsbc08
00martedì 18 novembre 2008 18:27
Appello del Papa per i «nostri fratelli più piccoli» che vivono l'esperienza del dolore causato da malattie, guerre e fame

Ogni essere umano ha valore in se stesso
anche se debole allo sguardo dell'uomo

 

"Al centro di ogni intervento medico deve esserci sempre il conseguimento del vero bene del bambino, considerato nella sua dignità di soggetto umano" con "pieni diritti". Dunque bisogna aiutarlo a superare sofferenza e malattia, anche prima della nascita. Lo ha ribadito il Papa ricevendo sabato mattina, 15 novembre, i partecipanti al congresso organizzato dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute.

Signor Cardinale,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Professori,
cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di incontrarvi, in occasione dell'annuale Conferenza Internazionale organizzata dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, giunta alla sua 23.ma edizione. Saluto cordialmente il Cardinale Javier Lozano Barragán, Presidente del Dicastero, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome vostro. Estendo la mia riconoscenza al Segretario, ai collaboratori di codesto Pontificio Consiglio, ai relatori, alle autorità accademiche, alle personalità, ai responsabili degli Istituti di cura, agli operatori sanitari e a coloro che hanno offerto la loro collaborazione partecipando in vario modo alla realizzazione del Convegno, che quest'anno ha come tema:  "La pastorale nella cura dei bambini malati". Sono certo che questi giorni di riflessione e confronto su un tema tanto attuale contribuiranno a sensibilizzare la pubblica opinione sul dovere di riservare ai bambini tutte le attenzioni necessarie per il loro armonico sviluppo fisico e spirituale. Se questo vale per tutti i bambini, ancor più ha valore per quelli ammalati e bisognosi di cure mediche speciali.
Il tema della vostra Conferenza, che oggi si chiude, grazie all'apporto di esperti di fama mondiale, e di persone direttamente a contatto con l'infanzia in difficoltà, vi ha permesso di evidenziare la situazione difficile in cui continua a trovarsi un numero assai considerevole di bambini in vaste regioni della terra, e di prospettare quali siano gli interventi necessari, anzi urgenti, per venire in loro aiuto. Notevoli certamente sono stati i progressi della medicina negli ultimi cinquant'anni:  essi hanno portato a una considerevole riduzione della mortalità infantile, anche se resta ancora molto da fare in questa prospettiva. Basti ricordare, come voi avete fatto notare, che ogni anno muoiono 4 milioni di neonati con meno di 26 giorni di vita.
In questo contesto, la cura del bambino malato rappresenta un argomento che non può non suscitare l'attento interesse di quanti si dedicano alla pastorale della salute. Un'accurata analisi dell'attuale stato delle cose è indispensabile per intraprendere, o continuare, una decisa azione tesa a prevenire per quanto possibile le malattie e, quando esse sono in atto, a curare i piccoli ammalati mediante i più moderni ritrovati della scienza medica, come pure a promuovere migliori condizioni igienico-sanitarie soprattutto nei Paesi meno fortunati. La sfida è oggi scongiurare l'insorgenza di non poche patologie una volta tipiche dell'infanzia e, complessivamente, favorire la crescita, lo sviluppo e il mantenimento di un conveniente stato di salute per tutti i bambini.
In questa vasta azione sono tutti coinvolti:  famiglie, medici e operatori sociali e sanitari. La ricerca medica si trova talora di fronte a scelte difficili quando si tratta, ad esempio, di raggiungere un giusto equilibrio tra insistenza e desistenza terapeutica per assicurare quei trattamenti adeguati ai reali bisogni dei piccoli pazienti, senza cedere alla tentazione dello sperimentalismo. Non è superfluo ricordare che al centro di ogni intervento medico deve esserci sempre il conseguimento del vero bene del bambino, considerato nella sua dignità di soggetto umano con pieni diritti. Di lui pertanto occorre prendersi cura sempre con amore, per aiutarlo ad affrontare la sofferenza e la malattia, anche prima della nascita, nella misura adeguata alla sua situazione.
Tenendo poi conto dell'impatto emotivo, dovuto alla malattia e ai trattamenti a cui il bambino viene sottoposto, che non raramente risultano particolarmente invasivi, è importante assicurargli una comunicazione costante con i familiari. Se gli operatori sanitari, medici e infermieri, sentono il peso della sofferenza dei piccoli pazienti che assistono, si può ben immaginare quanto più forte sia il dolore vissuto dai genitori! L'aspetto sanitario e quello umano non vanno mai dissociati, ed ogni struttura assistenziale e sanitaria, soprattutto se animata da genuino spirito cristiano, ha il dovere di offrire il meglio della competenza e dell'umanità. Il malato, in modo speciale il bambino, comprende particolarmente il linguaggio della tenerezza e dell'amore, espresso attraverso un servizio premuroso, paziente e generoso, animato nei credenti dal desiderio di manifestare la stessa predilezione che Gesù nutriva per i piccoli.
"Maxima debetur puero reverentia" (Giovenale, Satira xiv, v. 479):  già gli antichi riconoscevano l'importanza di rispettare il bambino, dono e bene prezioso per la società, al quale va riconosciuta quella dignità umana, che pienamente possiede già da quando, non ancora nato, si trova nel grembo materno. Ogni essere umano ha valore in se stesso, perché creato ad immagine di Dio, ai cui occhi è tanto più prezioso, quanto più appare debole allo sguardo dell'uomo. Con quanto amore va allora accolto anche un bambino non ancora nato e già affetto da patologie mediche! "Sinite parvulos venire ad me":  dice Gesù nel Vangelo (cfr. Mc, 10, 14), mostrandoci quale debba essere l'atteggiamento di rispetto e di accoglienza con cui accudire ogni fanciullo, specialmente quando è debole e in difficoltà, quando soffre ed è indifeso. Penso soprattutto ai piccoli orfani o abbandonati a causa della miseria e della disgregazione familiare; penso ai fanciulli vittime innocenti dell'Aids o della guerra e dei tanti conflitti armati in atto in diverse parti del mondo; penso all'infanzia che muore a causa della miseria, della siccità e della fame. La Chiesa non dimentica questi suoi figli più piccoli e se, da un lato, plaude alle iniziative delle Nazioni più ricche per migliorare le condizioni del loro sviluppo, dall'altro, avverte con forza il dovere di invitare a prestare un'attenzione maggiore a questi nostri fratelli, perché grazie alla nostra corale solidarietà possano guardare alla vita con fiducia e speranza.
Cari fratelli e sorelle, mentre formulo l'auspicio che tante condizioni di squilibrio, ancora esistenti, vengano al più presto sanate con interventi risolutivi a favore di questi nostri fratelli più piccoli, esprimo vivo apprezzamento per coloro che impegnano energie personali e risorse materiali al loro servizio. Con particolare riconoscenza penso al nostro Ospedale del Bambin Gesù ed alle numerose associazioni ed istituzioni socio-sanitarie cattoliche, le quali, seguendo l'esempio di Gesù Cristo Buon Samaritano, e animate dalla sua carità, prestano sostegno e sollievo umano, morale e spirituale a tanti bambini sofferenti, amati da Dio con singolare predilezione. La Vergine Santa, Madre di ogni uomo, vegli sui fanciulli malati e protegga quanti si prodigano nel curarli con premura umana e spirito evangelico. Con tali sentimenti, esprimendo sincero apprezzamento per il lavoro di sensibilizzazione compiuto in questa Conferenza internazionale, assicuro un costante ricordo nella preghiera ed imparto a tutti la Benedizione Apostolica.


(©L'Osservatore Romano - 16 novembre 2008)

zsbc08
00martedì 18 novembre 2008 18:28
Il discorso di Benedetto XVI ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici

La Chiesa ha bisogno
in particolare delle donne

 

La "necessità e l'urgenza della formazione evangelica e dell'accompagnamento pastorale di una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica", sono state ribadite da Benedetto XVI durante l'incontro con i partecipanti della plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, avvenuto sabato mattina 15 novembre, nella sala del Concistoro.

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di incontrare oggi tutti voi, Membri e Consultori del Pontificio Consiglio per i Laici, riuniti in Assemblea Plenaria. Saluto il Signor Cardinale Stanislaw Rylko e Mons. Josef Clemens, Presidente e Segretario del Dicastero, e insieme con loro gli altri Prelati presenti. Un benvenuto speciale rivolgo ai fedeli laici provenienti da diverse esperienze apostoliche e vari contesti sociali e culturali. Il tema scelto per la vostra Assemblea - "A vent'anni dalla Christifideles laici:  memoria, sviluppo, nuove sfide e compiti" - ci introduce direttamente nel servizio che il vostro Dicastero è chiamato ad offrire alla Chiesa per il bene dei fedeli laici del mondo intero.
L'Esortazione apostolica Christifideles laici, definita la magna charta del laicato cattolico nel nostro tempo, è il frutto maturo delle riflessioni e degli scambi di esperienze e di proposte della vii Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che ebbe luogo nel mese di ottobre del 1987 sul tema "Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo". Si tratta di una rivisitazione organica degli insegnamenti del Concilio Vaticano II riguardanti i laici - la loro dignità di battezzati, la vocazione alla santità, l'appartenenza alla comunione ecclesiale, la partecipazione all'edificazione delle comunità cristiane e alla missione della Chiesa, la testimonianza in tutti gli ambienti sociali e l'impegno a servizio della persona per la sua crescita integrale e per il bene comune della società -, temi presenti soprattutto nelle Costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes, come anche nel Decreto Apostolicam actuositatem.
Mentre riprende gli insegnamenti del Concilio, la Christifideles laici orienta il discernimento, l'approfondimento e l'orientamento dell'impegno laicale nella Chiesa di fronte ai mutamenti sociali di questi anni. Si è sviluppata in molte Chiese particolari la partecipazione dei laici grazie ai consigli pastorali, diocesani e parrocchiali, rivelandosi molto positiva in quando animata da un autentico sensus Ecclesiae. La viva consapevolezza della dimensione carismatica della Chiesa ha portato ad apprezzare e valorizzare sia i carismi più semplici che la Provvidenza di Dio dispensa alle persone, sia quelli che apportano grande fecondità spirituale, educativa e missionaria. Non a caso, il Documento riconosce e incoraggia la "nuova stagione aggregativa dei fedeli laici", segno della "ricchezza e della versatilità delle risorse che lo Spirito alimenta nel tessuto ecclesiale" (n. 29), indicando quei "criteri di ecclesialità" che sono necessari, da una parte, al discernimento dei Pastori e, dall'altra, alla crescita della vita delle associazioni di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità. A questo riguardo desidero ringraziare il Pontificio Consiglio per i Laici, in modo tutto speciale, per il lavoro compiuto durante gli scorsi decenni nell'accogliere, accompagnare, discernere, riconoscere e incoraggiare queste realtà ecclesiali, favorendo l'approfondimento della loro identità cattolica, aiutandole a inserirsi più pienamente nella grande tradizione e nel tessuto vivo della Chiesa, e assecondando il loro sviluppo missionario.
Parlare del laicato cattolico significa riferirsi a innumerevoli persone battezzate, impegnate in molteplici e svariate situazioni per crescere come discepoli e testimoni del Signore e riscoprire e sperimentare la bellezza della verità e la gioia di essere cristiani. L'attuale condizione culturale e sociale rende ancora più urgente questa azione apostolica per condividere a piene mani il tesoro di grazia e di santità, di carità, dottrina, cultura e opere, di cui è composto il flusso della tradizione cattolica. Le nuove generazioni sono non solo destinatarie preferenziali di questa trasmissione e condivisione, ma anche soggetti che attendono nel proprio cuore proposte di verità e di felicità per poterne rendere testimonianza cristiana, come già accade in modo mirabile. Ne sono stato, io stesso, nuovamente testimone a Sydney, nella recente Giornata Mondiale della Gioventù. E perciò incoraggio il Pontificio Consiglio per i Laici a proseguire l'opera di questo provvidenziale pellegrinaggio globale dei giovani nel nome di Cristo, e ad adoperarsi per la promozione, ovunque, di un'autentica educazione e pastorale giovanile.
Conosco anche il vostro impegno in merito a questioni di speciale rilevanza, com'è quella della dignità e partecipazione delle donne nella vita della Chiesa e della società. Ho avuto già occasione di apprezzare il Convegno da voi promosso a vent'anni dalla promulgazione della Lettera apostolica Mulieris dignitatem, sul tema "Donna e uomo, l'humanum nella sua interezza". L'uomo e la donna, uguali in dignità, sono chiamati ad arricchirsi vicendevolmente in comunione e collaborazione, non solo nel matrimonio e nella famiglia, ma anche nella società in tutte le sue dimensioni. Alle donne cristiane si richiedono consapevolezza e coraggio per affrontare compiti esigenti, per i quali tuttavia non manca loro il sostegno di una spiccata propensione alla santità, di una speciale acutezza nel discernimento delle correnti culturali del nostro tempo, e della particolare passione nella cura dell'umano che le caratterizza. Mai si dirà abbastanza di quanto la Chiesa riconosca, apprezzi e valorizzi la partecipazione delle donne alla sua missione di servizio alla diffusione del Vangelo.
Permettetemi, cari amici, un'ultima riflessione riguardante l'indole secolare che è caratteristica dei fedeli laici. Il mondo, nella trama della vita familiare, lavorativa, sociale, è luogo teologico, ambito e mezzo di realizzazione della loro vocazione e missione (cfr. Christifideles laici, 15-17). Ogni ambiente, circostanza e attività in cui ci si attende che possa risplendere l'unità tra la fede e la vita è affidato alla responsabilità dei fedeli laici, mossi dal desiderio di comunicare il dono dell'incontro con Cristo e la certezza della dignità della persona umana. Ad essi spetta di farsi carico della testimonianza della carità specialmente con i più poveri, sofferenti e bisognosi, come anche di assumere ogni impegno cristiano volto a costruire condizioni di sempre maggiore giustizia e pace nella convivenza umana, così da aprire nuove frontiere al Vangelo! Chiedo dunque al Pontificio Consiglio per i Laici di seguire con diligente cura pastorale la formazione, la testimonianza e la collaborazione dei fedeli laici nelle più diverse situazioni in cui sono in gioco l'autentica qualità umana della vita nella società. In particolar modo, ribadisco la necessità e l'urgenza della formazione evangelica e dell'accompagnamento pastorale di una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica, che siano coerenti con la fede professata, che abbiano rigore morale, capacità di giudizio culturale, competenza professionale e passione di servizio per il bene comune.
Il lavoro nella grande vigna del Signore ha bisogno di christifideles laici che, come la Santissima Vergine Maria, dicano e vivano il "fiat" al disegno di Dio nella loro vita. Con questa prospettiva, vi ringrazio dunque del prezioso vostro apporto a così nobile causa e di cuore imparto a voi e ai vostri cari la Benedizione Apostolica.



(©L'Osservatore Romano - 16 novembre 2008)

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00martedì 18 novembre 2008 18:29
Concluso dal cardinale Lozano Barragán alla presenza del Papa il congresso internazionale sui bambini malati

Il dolore degli innocenti interpella i cristiani

 

Il dolore innocente interroga, provoca ma soprattutto sprona la comunità cristiana a farsi carico della sofferenza del bambino. Dunque nessuno deve sentirsi escluso dalla "pastorale nella cura del bambino che soffre". Don Andrea Manto, direttore dell'ufficio nazionale per la pastorale sanitaria della Conferenza episcopale italiana, ha così sintetizzato il ruolo che la Chiesa, nel suo complesso, deve interpretare per accompagnare il bambino che soffre. Intervenuto in apertura dei lavori dell'ultima giornata del XXIII congresso internazionale organizzato dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, don Manto ha voluto in sostanza far notare che il bambino che soffre evoca un concorso di interventi competenti e solidali, che vanno oltre il reparto ospedaliero ed anche oltre la famiglia, fino ad investire l'ambito più vasto della comunità in cui vive. Naturalmente è necessario che tale ambiente abbia le risorse morali, umane e civili che gli consentano di intercettare e assumere questo ruolo. In questo quadro una missione fondamentale la interpretano "le istituzioni socio-sanitarie di ispirazione cristiana - ha detto don Manto -. In tutto il mondo esse sono testimonianza concreta e fattiva della carità della Chiesa e come opere di Chiesa vanno valorizzate e stimolate ad essere sempre di più segno e profezia".
Di istituzioni sanitarie di ispirazione cristiana aveva parlato poco prima il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il quale ha presieduto la prima parte dei lavori della mattinata. Dopo aver assicurato tutta la sua attenzione per la riflessione del congresso - la cui fase iniziale ha detto di aver potuto seguire solo grazie ai servizi pubblicati, anche prima dell'inizio, da "L'Osservatore Romano", poiché era impegnato con la delegazione del Brasile - ha rivolto un elogio particolare al Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute per l'importanza "che riveste per la Chiesa l'iniziativa adottata, soprattutto oggi, in un momento in cui si dibatte il delicato problema della rianimazione neonatale dei bambini nati "grandi immaturi"". Ha poi voluto ribadire il suo personale interesse per la cura dei bambini malati "sia quando ero arcivescovo di Genova - ha ricordato - e dunque presidente dell'istituto Gaslini" sia oggi come "Presidente dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù in quanto segretario di Stato di Sua Santità". Il cardinale ha poi riproposto alcuni suoi ricordi personali di incontri con bambini sofferenti. In particolare un episodio occorsogli durante una visita a bambini ricoverati in un ospedale pediatrico. "Ricordo - ha detto - che quando chiesi ad uno di loro cosa avrebbe voluto che io facessi per lui mi ha risposto solo "preghi per me"".
Gli interventi in aula sono stati conclusi questa mattina, sabato 15 novembre, dalle relazioni dei rappresentanti degli ordini e delle congregazioni religiose che si occupano di dare assistenza ai bambini malati nelle loro strutture sanitarie; dai rappresentanti delle numerose associazioni di volontariato che si prendono cura dei bambini sofferenti, e di quanti sostengono i bambini con la loro preghiera, in particolare il presidente dell'associazione medica internazionale di Lourdes ed un cappellano dell'ospedale pediatrico argentino "Ricardo Gutierrez".
La conclusione dei lavori congressuale è avvenuta alla presenza del Papa, durante l'udienza che egli ha concesso ai partecipanti, riuniti nella sala Clementina. Il cardinale presidente Javier Lozano Barragán, dopo aver ringraziato Benedetto XVI per la sua attenzione e dopo aver presentato i partecipanti, ha illustrato al Papa lo svolgimento del congresso. "Dopo aver introdotto il tema in maniera generale - ha detto -, lo abbiamo studiato in tre fasi:  realtà, pensiero e pratica pastorale nella cura dei bambini malati. Nella prima parte, la realtà, abbiamo considerato la storia di questa cura nella Chiesa, l'attuale situazione della mortalità infantile, le malattie di oggi ed il loro impatto nell'ambiente globalizzato; quindi abbiamo riflettuto sull'origine delle suddette malattie, sia sul piano personale, che tecnologico e scientifico, politico ed ecologico. Nella seconda parte, il pensiero, abbiamo esposto i dati della Rivelazione nella Sacra Scrittura e nei Padri della Chiesa, quindi abbiamo ascoltato la testimonianza di alcuni Santi che hanno consacrato la loro vita alla cura dei bambini malati; infine abbiamo riflettuto su questi dati alla luce delle tre virtù teologali e della responsabilità dei cristiani in merito; in seguito abbiamo iniziato un dialogo interreligioso sulla cura dei bambini con rappresentanti dell'Ebraismo, dell'Islamismo, dell'Induismo, del Buddismo, e della Postmodernità. Nella terza parte, la pratica pastorale, abbiamo analizzato i seguenti temi:  dal punto di vista religioso, i bambini malati e la Catechesi, la Pastorale sacramentale, la Diocesi e la Parrocchia, gli Ordini e le Congregazioni religiose, il Volontariato, il loro sostegno spirituale, gli aspetti pastorali in rapporto alla Psicologia; dal punto di vista biomedico, i bambini malati e la ricerca, le cure, l'accompagnamento e le istituzioni; dal punto di vista socio-politico, questi bambini ed i mezzi di comunicazione sociale, i sistemi sanitari nazionali ed internazionali, le legislazioni, le migrazioni, le risorse economiche, scientifiche e tecnologiche, le politiche alimentari e l'igiene sociale; dal punto di vista familiare, la famiglia del bambino malato, il personale sanitario e le visite ai bambini infermi.



(©L'Osservatore Romano - 16 novembre 2008)

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00martedì 18 novembre 2008 18:39
Profezia ed eredità di un pontificato drammatico e difficile

Chi fu veramente Papa Pacelli

 

di Andrea Riccardi

"Sono un Papa politico e perciò enigmatico" - dice il Pio XII di Pier Paolo Pasolini. E aggiunge:  "Della carità so solo, come dice l'autorità, che c'è". Insensibile ai dolori degli uomini, rigido e politico. Questa è l'immagine invalsa da quarant'anni in una parte non piccola della storiografia e della pubblicistica. Ma chi fu Pio XII? Lo storico si incontra con due domande:  quella sulla figura di Papa Pacelli, ma anche quella sull'enigma della leggenda nera su di lui. Quest'ultimo interrogativo tocca a fondo il modo di fare storia contemporanea.
Chi fu? Fu un Papa di grande popolarità. Non pochi giovani cattolici di allora ricordano come, alla sua morte, nel 1958, sembrasse impossibile un papa diverso da Eugenio Pacelli. Un grande pontificato finiva. Arturo Carlo Jemolo, storico cattolico liberale, ha concluso:  "In quei diciannove anni di pontificato incarnò veramente la Chiesa cattolica". Fu considerato un Papa così grande che si sentì il bisogno di concepire l'idea di un papato di transizione. Lo stesso Giovanni XXIII, nei suoi primi passi, è ancora sotto l'impressione di Pio XII e confessa:  "Quando sento parlare del Papa intorno a me(...) per esempio:  bisogna dire al Papa, bisogna trattare questo col Papa, eccetera, io penso ancora e sempre al santo Padre Pio XII".
Pio XII fu considerato un grande Papa. Fu il primo Papa dei media e la sua immagine entrò nel piccolo schermo delle case europee e nordamericane. Il suo volto divenne noto, come la sua parola pronunciata in parecchie lingue. Dopo che, con l'Ottocento, la figura del Papa cominciò a essere conosciuta dai fedeli, non più solo un nome remoto e venerato, avvenne un'altra svolta con Pio XII:  il Papa diventò un leader pubblico presente nei media. Attorno a lui ci fu consenso, eccetto che nel mondo comunista. Le testimonianze ebraiche alla morte - che vengono spesso ricordate - mostrano una popolarità al di fuori del cattolicesimo. Solo "l'Humanité", quotidiano comunista francese, parlò di silenzi sulla Shoah. Ma la stampa comunista dell'Est e dell'Ovest bersagliava da sempre il Papa come collaboratore del nazifascismo.
Che cosa è successo in meno di dieci anni? Come un Papa popolare è divenuto una figura esecrabile che lasciava una pesante eredità? Il processo revisionista su Pio XII, come è noto, ha il suo catalizzatore ne Il Vicario di Rolf Hochhuth, pubblicato nel 1963, nella linea del teatro politico di Erwin Piscator. Madre Pascalina suggerisce che parte della documentazione provenga dal prelato filonazista tedesco, monsignor Alois Hudal, rimosso da Pio XII. Altri pensano alla documentazione fornita da un ecclesiastico non fedele alla Santa Sede. La rappresentazione de Il Vicario a Broadway all'inizio del 1964 aprì un dibattito negli Stati Uniti. Ma la quasi totalità delle organizzazione ebraiche, soprattutto l'Anti-Defamation League e l'American Jewish Commitee furono su altra lunghezza d'onda:  guardavano con interesse prioritario al grande cambiamento che il Vaticano II stava introducendo nei rapporti con gli ebrei. Anzi un esperto della League preparò una brochure in difesa del Papa per il National Catholic Welfare Committee. La tournée americana de Il Vicario fu annullata. Nel volgere di qualche anno, però, l'opinione ebraica avrebbe registrato significativi cambiamenti.
Il clima doveva evolversi anche nell'opinione americana con il processo ad Adolf Eichmann (1960) e con la guerra dei Sei Giorni (1967). La cultura della vittima, oggi così rilevante negli Stati Uniti e altrove, non era amata nel mondo di John Wayne e Gary Cooper. Con gli anni Sessanta molto cambia:  le minoranze, le vittime, acquistano un loro rilievo nei confronti delle maggioranze o delle istituzioni tradizionali. Il processo di revisione di Pio XII subisce l'impatto del movimento antiautoritario del Sessantotto:  quale istituzione incarnava l'autorità tradizionale meglio del Papato e del Papa che lo incarnò sovranamente?
La revisione coinvolge il mondo dei cattolici. Nel 1964, al momento della sua pubblicazione in Italia presso Feltrinelli, Il Vicario fu introdotto da un noto studioso cattolico, Carlo Bo:  Pio XII è "un Papa che si adatta a una società che da troppo tempo è stata abituata a non tener conto delle verità del Vangelo". Il silenzio di Pio XII manifesta una Chiesa in pieno "adattamento" al mondo:  "Scegliere la strada del minor male risponde in fondo a uno spirito di adattamento". Bo così rappresenta la posizione del Papa dopo Il Vicario:  "La Chiesa non è la principale accusata, è soltanto seduta fra altri sullo stesso banco". Un Papa che si adatta. Eppure negli anni dopo il concilio, una parte del dibattito sulla Chiesa verte sulla necessità di colmare il suo iato con il mondo, adattandosi alla realtà.
Già lo scrittore francese, François Mauriac, aveva scritto negli anni Cinquanta:  "Il silenzio del Papa e della gerarchia altro non era che un ripugnante dovere; si trattava di evitare sciagure peggiori. Ciò non toglie che un crimine di tanta ampiezza ricada in parte non indifferente su tutti i testimoni che hanno taciuto, quali che siano state le ragioni del loro silenzio". D'altra parte Mauriac era stato sensibile all'arcivescovo di Parigi, cardinale Emmanuel Célestin Suhard, grande figura, ma vicina a Pétain. Dopo la guerra, il modernista Ernesto Buonaiuti - che aveva conosciuto il giovane don Eugenio, prima del suo distacco dalla Chiesa - aveva scritto sul fallimento di Pio XII nel confronto con le grandi domande della contemporaneità:  la difesa dell'immutabilità irrorata dal senso della romanità e l'uso dello strumento diplomatico ne erano i principali ingredienti. Su questa linea, vent'anni dopo, si era mosso anche Carlo Falconi, che, prima di lasciare la Chiesa, era stato vicino a monsignor Giovanni Battista Montini. Prima del Il Vicario esisteva quindi uno strutturato pensiero critico su Papa Pacelli, come realista e uomo fuori dal tempo. Ma, dalla metà degli anni Sessanta, diventò un pensiero di massa, per così dire. La miscela di Concilio e Sessantotto, uno spirito del tempo, ansioso del nuovo e del non istituzionale, trovarono in Pio XII un antiprofeta, un realista dell'adattamento.
La sua eredità diventava imbarazzante per i cattolici alla ricerca del nuovo. Il rinnovamento del concilio, il Papato "profetico" di Giovanni XXIII, l'attesa di un rapporto nuovo con il tempo, motivarono, nel giro di pochi anni, lo slittamento della figura di Pio XII da Papa popolare a simbolo del passato:  l'ultimo Papa dell'età costantiniana, sovrano e politico, la cui eredità era da liquidare. Influisce lo "spirito del Sessantotto" non solo con la sua carica anti istituzionale, ma con il senso utopico del nuovo e dei tempi nuovi. Non aveva la stessa Chiesa cattolica, la più antica istituzione d'Occidente, con il Vaticano II, detto la sua volontà di uscire dal vecchio? Bisognava rinunciare all'eredità del Papa-re.
La modernizzazione di Paolo VI negli ambienti vaticani, come strutture, corte e arredamento, non andava nel senso di una dimissione della regalità? Certo le forme dell'autorità di Pio XII erano un po' anacronistiche in un tempo di repubbliche e di monarchie nordiche. Il Papa, nato nel 1876, quasi coetaneo di Stalin nato nel 1879, di Churchill del 1874, apparteneva a una cultura dell'autorità segnata da un "cesarismo" nelle figure pubbliche, per dirla con George Mosse. Gli anni Sessanta anelavano a un clima diverso:  Kennedy, Kruscev e Papa Giovanni rappresentavano la volontà di uscire da un mondo della politica tipico degli anni della guerra e della guerra fredda? Pio XII diventò quasi anacronistico. Il Papa del concilio e del futuro non doveva essere come Pio XII!
Paolo VI, che pure aveva innovato rispetto a Pio XII, lo difese costantemente. Fu Paolo VI, nel 1964, a promuovere la pubblicazione dei documenti vaticani sulla seconda guerra mondiale a soli vent'anni dalla conclusione del conflitto. Si trattava di una decisione molto innovativa per i tempi degli archivi vaticani. Tale decisione mostra come l'accesso alle fonti sia decisivo per scrivere la storia della Chiesa proprio nei suoi punti più controversi. La documentazione di altri archivi, come quella dei diplomatici accreditati in Vaticano, per sua natura, non porta alla piena ricostruzione delle motivazioni e alla complessità dell'agire dei responsabili vaticani. Eppure è su documentazione secondaria che viene scritta gran parte di questa storia, perché quella della Chiesa fa parte del più vasto dibattito della storia contemporanea.
La difesa di Pio XII non è stata condivisa da una parte del mondo cattolico, mentre la sua figura è divenuto simbolo del Papa del preconcilio, l'ultimo Papa-re, quello dei tradizionalisti. Intanto si sviluppava una storiografia critica. Giovanni Miccoli, autore di numerose e significative opere in questo senso, ne è forse l'autore più significativo:  egli parla di un "anacronismo" di Pio XII, rinchiuso nell'atemporalità. Osserva che Pio XII e la sua Chiesa, bloccati nella loro rigidità istituzionale e ecclesiastica, privi di senso della storia, ossessionati dal comunismo, non percepirono la realtà mostruosa della distruzione degli ebrei e del nazismo. Una parte degli scritti cattolici su Papa Pacelli sono stati caratterizzati da un tono difensivo, espressione dello stupore che un Papa così popolare potesse essere oggetto di accuse di questo tipo.
Sono stato da sempre convinto che la figura di Pio XII sia uno dei principali luoghi storici della Chiesa del Novecento. In questa prospettiva, nel 1983, promossi presso l'Università di Bari un convegno sulla figura di Pio XII, aperto da una relazione di uno studioso di grande capacità critica, Francesco Traniello, che esprimeva il nostro sforzo:  "Pio XII dal mito alla storia". C'era infatti "una nuova verità inattaccabile e indiscutibile" su Pio XII, come afferma Sergio Romano, più nell'ordine del mito che della storia. In quell'occasione rilevavo come molti aspetti di questo pontificato fossero elementi portanti della stagione conciliare e postconciliare, mentre i vescovi novatori del Vaticano II fossero in larga parte creature pacelliane. Per questo mi permisi di parlare di "governo e profezia" nel pontificato di Pio XII, perché esiste, in qualche modo, un certo profetismo pacelliano, sorprendente nell'uomo, considerato fino all'elezione saggio, moderato, equilibrato.
Gli uomini, i problemi, la tradizionale continuità, facevano degli anni di Pio XII un luogo storico decisivo per capire il tempo successivo. Purtroppo il dibattito storiografico contemporaneista si muove spesso nell'ignoranza delle argomentazioni e degli scritti. È un dibattito che, nella diversità delle interpretazioni, non tiene talvolta conto delle acquisizioni, anche perché - come notano gli editori - le questioni attorno a Pio XII fanno vendere e sollecitano emozioni, nonostante i tanti anni trascorsi. Così si ondeggia tra la storiografia e la pubblicistica. Si giunge, attraverso storie che non sono storiografia, al paradosso di John Cornwell:  "Fu il Papa ideale per l'indicibile piano di Hitler. Fu la pedina di Hitler. Fu il Papa di Hitler". Oppure alle affermazioni di Daniel Jonah Goldhagen, per cui la Chiesa, in quanto erede di questo Papa, è chiamata a un risarcimento materiale, politico e spirituale.
In realtà l'eredità di Pio XII è quella di una storia difficile. I suoi anni sono un periodo in cui la Chiesa si confronta, in grande solitudine, con sfide temibili, come il nazismo e il comunismo che, dopo il 1945, conduce un'opera di distruzione del cristianesimo nell'Est europeo, paragonabile solo alle distruzioni operate dall'invasione islamica nella storia della Chiesa.
La questione comunista è decisiva, perché Papa Pacelli, avverte il presidente Roosevelt del rischio di una presenza di Mosca in Europa e rifiuta l'interpretazione americana di un cambiamento comunista in materia di libertà, significativa coincidenza di visione con Karol Wojtyla. D'altra parte Pio XII, come è noto, non consente che i cattolici nordamericani intralcino la politica di Roosevelt in sostegno dello sforzo bellico sovietico contro
la Germania.
Perché il Papa, silente con i nazisti, aveva scomunicato i comunisti nel 1949? Andrebbe ricordato che la storia con i sovietici è lunga e registra anche una fase in cui la Santa Sede tentò di trovare un accordo con Mosca. Pacelli, nel 1925, negoziò con il commissario sovietico Georgij Vasilevic Cicerin a Berlino e poté scrivere al cardinale Pietro Gasparri un parere non pessimistico sul colloquio:  "Il Governo dei Soviety, ora per la prima volta e in via di eccezione a favore della Chiesa cattolica, dice di ammettere sul suo territorio la gerarchia soggetta alla Santa Sede, che essa pure riguarda come potere estero". I negoziati falliscono e la situazione dei cattolici in Russia è disperata.
Pio XII, nel secondo dopoguerra, vede come i poteri comunisti vogliano "nazionalizzare" le Chiese cattoliche, rompendo il loro rapporto con Roma e colpendo i vescovi fedeli al Papa, per esercitare un pieno controllo su di esse. In questo clima, soprattutto guardando all'Est,  nasce  la  scomunica, come gesto  disperato  di  denuncia,  limite morale a ogni rapporto con i sistemi comunisti, quasi scudo protettivo. L'anticomunismo di Pio XII, scomodo in un'età di negoziati con poteri comunisti, riacquista peraltro un suo valore dopo il 1989.
La personalità di Pio XII è complessa, ma il suo tempo è tormentato. Si è già detto del nazismo, del comunismo e il suo dominio in Europa e in Asia, ma andrebbe anche accennato all'incipiente consumismo con la secolarizzazione, alla fine del colonialismo, ai mutamenti indotti dalla democrazia, allo sviluppo delle scienze. Giovanni Spadolini scrive acutamente nel 1973:  Pio XII "non è personaggio adatto ai terribles semplificateurs del nostro tempo; tutto bene, tutto male, tutto destra, tutto sinistra, tutto luce, tutto tenebre". Padre Raimondo Spiazzi, che lo conobbe, ne parla come di una figura poliedrica:  una fibra religiosa sensibile, fedele custode della tradizione, capace di immedesimazione in mondi lontani, "a suo agio nel lavoro di ricostruzione di una umanità migliore soprattutto come maestro", ma segnato da limitata "calda spontaneità di movimento e incisività di azione pratica".
Affrontare da un punto di vista storico il suo pontificato è però decisivo per comprendere la vicenda novecentesca della Chiesa. Infatti l'eredità di Papa Pacelli è notevole:  i suoi anni hanno avuto un'influenza decisiva, anche perché i quadri della Chiesa nei decenni successivi sono stati scelti e orientati da questo Papa. Nella Chiesa la classe dirigente si sviluppa con un forte senso di continuità, in modo ben lontano dallo spoil system della società politica. Gli uomini di Pio XII hanno fatto la stagione conciliare e postconciliare. Primo Giovanni Battista Montini, stretto collaboratore di Pio XII. Sull'episodio del trasferimento a Milano del futuro Paolo VI nel 1954, sono giunto alla convinzione che non significasse una rottura personale tra il Papa e il suo collaboratore, quanto una sua valorizzazione con l'esperienza pastorale di Milano in un momento in cui quest'ultimo passava un tempo di difficoltà con la curia. Basterebbe pensare a come Montini difese la memoria di Pio XII per le scelte della guerra, in cui era stato direttamente coinvolto - era redattore del messaggio sulla guerra del 1939 - assieme a monsignor Domenico Tardini e al cardinale Luigi Maglione.
L'eredità di Pio XII è notevole. Non meraviglia che si ritrovi tanto del suo magistero nei documenti e nei dibattiti del concilio, divenendo l'autore più citato. Non lo ricordano la Sacrosanctum Concilium sulla liturgia - ma cita solo il magistero fino a Trento -, il decreto sulla vita religiosa, senza note; quello sull'ecumenismo che cita solo due Padri, i concili e la Scrittura; quelli sulle religioni non cristiane e sulle comunicazioni sociali. D'altra parte la Mystici Corporis e la Mediator Dei sono molto utilizzate nella Lumen gentium; la Divino afflante Spiritu ricorre nella Dei Verbum, o le encicliche missionarie nel decreto sulle missioni. Non si tratta di citazioni di maniera per dire la continuità del magistero, ma di una ripresa sostanziosa di problematica e prospettive nella logica di compimento e di sviluppo. Del resto le citazioni di Pio XII sono molte nel magistero di Giovanni XXIII, specie nei primi due anni, mentre si attestano tra le ventuno e le trentasei citazioni nei tre anni successivi. Significativamente Pio XII resta un Papa molto citato anche da Paolo VI, tanto che la sua presenza supera nel 1973, a quindici anni dalla sua morte, il ricordo di Giovanni XXIII.
Il costante richiamo all'insegnamento di Pio XII da parte del concilio e dei suoi due successori può apparire ovvio. Ma c'è anche una continuità di metodo politico-diplomatico della Santa Sede. Eppure su di essi, dagli anni Sessanta, già aleggiava lo spettro dei cosiddetti silenzi. Infatti la questione dei silenzi è divenuta progressivamente una categoria morale applicata in ogni campo. Un capitolo importante della politica vaticana di Paolo VI è il rapporto con i governi dell'Est. La sua grande preoccupazione è la vita dei cattolici in quei regimi:  cerca quindi contatti con i governi per garantire un minimo di vivibilità. Non è una politica entusiasmante per l'antico sostituto di Papa Pacelli, bensì - come la definisce il segretario di Stato Jean-Marie Villot - un modus non moriendi. Ebbene questa politica richiede un cambiamento di atteggiamento pubblico verso il comunismo. Emerge dal silenzio del Vaticano II su di esso o da attenuazioni di tono nelle dichiarazioni del Papa. Quella che è interpretata da taluni settori cattolici come volontà di dialogo con il marxismo, è in realtà un atto di amaro realismo per la curia montiniana. Questo avviene negli anni delle denunce del potere sovietico da parte di Aleksandr Solzenicyn.
Si tratta di nuovi silenzi? La persecuzione dei cristiani non è un olocausto, ma una gravissima violenza di massa che colpisce i credenti dall'Urss all'Europa e all'Asia. Il realismo continua a imporre di modulare gli interventi pubblici anche dopo Pio XII. Sono scelte fatte con la collaborazione di monsignor Agostino Casaroli, formatosi alla scuola del cardinale Tardini, personalità diplomatica non timida, ma realista. Del resto così era avvenuto durante la prima guerra mondiale con Benedetto xv, intervenuto sulla strage degli armeni nell'impero ottomano con vari passi e con documenti al sultano ottomano, ma che aveva difeso fino in fondo l'imparzialità riservata della Santa Sede tra i belligeranti. Solo nel 1978, con l'avvento di Giovanni Paolo ii, il Papa, pur proseguendo la politica di contatto con i governi comunisti, comincia a parlare forte dei "diritti umani".
Al di là delle continuità o discontinuità politiche, il pontificato di Pio XII rappresenta un tessuto di approfondimento dottrinale e pastorale che connette la Chiesa della prima metà del Novecento con quella della seconda metà. Pio XII, che ha passato la sua giovinezza sacerdotale durante la crisi modernista e che è succeduto come sottosegretario agli Affari Ecclesiastici straordinari al capofila antimodernista, monsignor Umberto Benigni, è ovviamente uomo della tradizione e della difesa della dottrina. Tuttavia avverte che nei Paesi di antica tradizione cristiana esistono una crisi e un allontanamento dalla Chiesa:  ne parla anche a proposito della sua amata Roma cristiana, definita in un discorso terra di missione in alcune sue parti.
Un piccolo episodio illustra la sensibilità tormentata di Papa Pacelli, custode della tradizione e alla ricerca di un contatto nuovo con la gente. Egli confida ai suoi familiari di aver perduto il sonno nei giorni prima dell'approvazione della riforma del digiuno eucaristico. Le riforme liturgiche vanno nel senso di una restaurazione dell'antico, come per la Settimana santa, ma anche di un adattamento che renda la liturgia più accessibile ai fedeli, come con la messa della sera, la riduzione del digiuno eucaristico e l'introduzione parziale delle lingue volgari in Cina, dal 1949, si può dire tutta la messa in cinese, eccetto il canone.
Adattamento della Chiesa? È quel che Bo rimprovera a Pio XII nei confronti della guerra. Ma l'adattamento promosso da Pio XII è per il rilancio della missione della Chiesa. È l'adattamento che Pio XII richiede ai religiosi, che conoscono un grande sviluppo negli ordini antichi e nelle nuove congregazioni nel Novecento:  il punto più alto è proprio negli anni di Papa Pacelli. Il Papa procede alla riforma dei religiosi, sia nella riscoperta del carisma del fondatore, che in una cooperazione più forte con la missione. Ma nascono anche forme di vita religiose nuove, come l'Opus Dei approvata a Madrid nel 1941 e a Roma nel 1946, gli istituti secolari. Si noti anche il rapido itinerario compiuto dalle piccole sorelle e dai piccoli fratelli di Gesù. Colpisce anche l'accesso facile che la fondatrice, piccola sorella Magdaleine di Gesù, ebbe presso il Papa. In realtà - sia detto per inciso - è attestata una certa accessibilità del Papa non solo alle folle cattoliche, ma anche alle singole persone:  un giovane piemontese diciassettenne, inquieto sulla sua vocazione, ebbe la sorprendente possibilità di parlarne al Papa, che gli consigliò di entrare dai gesuiti.
Pio XII volve a un rilancio della missione della Chiesa, anche perché sembrava intuirne una crisi da qualche sintomo. Per Papa Pacelli la Chiesa doveva farsi missionaria:  ne è espressione la manifestazione più alta e partecipata del pontificato, l'Anno santo del 1950, il proclamato gran ritorno. Dal dopoguerra sono insistenti gli inviti alla mobilitazione. Riccardo Lombardi, il gesuita che anima dal 1952 il movimento per un mondo migliore - tanto influente in America Latina -, è il missus dominicus del Papa, come lo definì Montini. Esitante a condurre una riforma strutturale o a operare cambiamenti, di cui sentiva però la necessità, Pio XII autorizzò il gesuita a mobilitare i cattolici in una prospettiva per lui necessaria. La missione era prioritaria. Permise i preti operai in Francia e poi li chiuse nel 1954, quando gli sembrò si mettesse in discussione il sacerdozio cattolico; ma ne riorganizzò la presenza con la prelatura della Missione di Francia.
Le arditezze apostoliche, nella prospettiva di un rilancio missionario della Chiesa, sono consentite e auspicate, purché si evitino le "false opinioni che minacciano la dottrina cattolica", così si esprime nel 1950 nell'enciclica Humani generis. Il quadro del rilancio della Chiesa va completato accennando alle missioni dove, facendosi erede della linea di attenzione alle culture di Benedetto xv e Pio xi, Papa Pacelli prepara l'impatto con la stagione delle indipendenze che sente prossima. Richiede però - con due encicliche missionarie - un nuovo impegno di tutto il mondo cattolico, che portò a una vasta mobilitazione in questo senso. Durante il suo pontificato, avvenne il raddoppio dei preti nelle missioni - più di 18.000 - mentre i preti africani passarono da poco più di 300 a 1.800. L'ordinazione del poco più che trentenne, monsignor Bernardin Gantin, nel 1957 nella cappella di Propaganda Fide, fatta dal decano cardinale Eugène Tisserant, dal prefetto di Propaganda Fide e dal cardinale Celso Costantini, costruttore della strategia missionaria dal primo dopoguerra, è un evento simbolico di come l'eredità missionaria di Benedetto XV e Pio XI, passando per Pio XII, divenga realtà della Chiesa del concilio e del dopo concilio.
La Chiesa di Pio XII si sente movimento nel mondo, sia nelle società europee che nei cosiddetti mondi nuovi. Deve farsi presente in tutti i modi, perché per Pio XII la radice dei mali moderni è l'assenza di un radicamento in Dio e nell'insegnamento della Chiesa. La Chiesa di Pio XII, il Papa diplomatico, riduce di molto le attese verso la diplomazia e gli Stati, seppur conduce una politica concordataria; in realtà confida soprattutto nei popoli, cercando il contatto con la gente, come nota un testimone della vita di Pio XII. È convinta, dopo la guerra mondiale, di dover proporre una via di civiltà cristiana. La Chiesa è, per Papa Pacelli, non impero ma "educatrice di uomini e di popoli":  "Con uomini così formati - dice nel discorso programmatico per il concistoro del 1946 - la Chiesa prepara alla società umana una base, sulla quale potrà riposare con sicurezza".
La Chiesa non è legata a civiltà del passato né a una sola civiltà, non è "inerte nel segreto dei suoi templi", ma cammina guidata dalla "legge vitale - dice Pio XII - di continuo adattamento". Pio XII, con il più ampio magistero tra i suoi predecessori, discute di tutto, anche di temi remoti, e lo fa per mostrare che niente è estraneo alla Chiesa e per condurre questa a vivere in mezzo alle nuove realtà contemporanee. Il vasto capitolo sulla vita, il corpo, la salute, le cure, la riduzione della sofferenza - dove ci furono posizioni innovative - è un esempio di questo atteggiamento del Papa.
Le sollecitazioni, le esigenze di cambiamento, i problemi, sono tanti. Il Papa assume su di sé tanta problematica, la ricerca di nuove piste, la responsabilità di dare impulso, prefigurandosi non solo come dottore ma anche come profeta. Questo lo fece con fatica di un uomo che il cardinale Tisserant, un po' duramente, considerava "indeciso, esitante". Per Tardini era invece delicato e fragile. Padre Yves Congar, che subì le limitazioni del controllo teologico degli anni di Pio XII, scrive acutamente:  "Il grande Papa Pio XII non era certo contrario a ogni cambiamento, ma voleva conservarne uno stretto controllo e l'iniziativa".
L'assunzione diretta di tanti compiti da parte del Papa, a partire dal governo della Segreteria di Stato senza segretario, al contatto con la gente, all'insegnamento e alla profezia, rendono il suo ministero faticoso, talvolta drammatico. Il senso drammatico viene accresciuto dalla percezione delle difficoltà e delle crisi con la persecuzione comunista, la secolarizzazione, le "cose nuove" del mondo contemporaneo. Desideroso di adattare e cambiare, ma preoccupato della portata dei cambiamenti, il Papa traccia, personalmente, la linea, moltiplicando iniziative e interventi. Vuole rispondere ai problemi aperti. Molti dei quali emergono poi con i vota dei vescovi in preparazione al Vaticano II.
In realtà la percezione di Pio XII sullo stato della Chiesa fu drammatica soprattutto nei suoi ultimi anni, segnati dalla malattia. La guerra fu un periodo difficilissimo, ma il lungo dopoguerra fu contrassegnato da una complessità inedita. La sua eredità umana e dottrinale è stata quella di un Papa che si è confrontato con la complessità nella tradizione della Chiesa cattolica, ma animato dall'ansia di raggiungere il mondo. La vicenda umana di Eugenio Pacelli è ricca e significativa, emblematica delle difficoltà e delle risorse della Chiesa del suo tempo. Nel 1954, parlando di Gregorio VII, ricordò il "crollo apparente di tutta l'opera sua", ma poi - aggiunse - "egli apparve il vero vincitore della lotta per la libertà della Chiesa". L'eredità di Papa Pacelli, forse come quella del suo lontano predecessore medievale, pur così diversa, si può cogliere nel tempo e con lo studio.



(©L'Osservatore Romano - 16 novembre 2008)

zsbc08
00mercoledì 19 novembre 2008 15:53
GENOMA: COMPLETATA MAPPA DNA MAMMUTH
» 2008-11-19 12:52
GENOMA: COMPLETATA MAPPA DNA MAMMUTH
 (ANSA) - ROMA, 19 NOV - E' pronta la mappa completa del genoma del mammuth: è la prima mappa del Dna di un animale estinto. La ricerca, pubblicata questa settimana su Nature, è stata condotta negli Stati Uniti, presso l'università della Pennsylvania. Gli studiosi, coordinati da Stephan Schuster, sono riusciti a decodificare il materiale genetico dell'animale estinto migliaia di anni fa utilizzando diversi campioni di Dna estratti da campioni di peli: mettendo insieme i dati ricavati dai differenti campioni sono riusciti a ricomporre il puzzle di almeno l'80% dell'alfabeto genetico. Nell'analisi sono stati utilizzati campioni prelevati da esemplari di specie diverse, rimasti sepolti nel terreno durissimo e ghiacciato (permafrost).
zsbc08
00mercoledì 19 novembre 2008 15:57
Usa: card. Stafford critica Obama
» 2008-11-18 22:33
Usa: card. Stafford critica Obama
Per esponente Curia Romana e' 'estremista anti- vita'
 (ANSA) - NEW YORK 18 NOV - Il 4 novembre ha vinto il candidato che aveva corso su una piattaforma 'estremista anti-vita'. Cosi' il card. James Francis Stafford. Parlando alla Catholic University di Washington il cardinale americano, prefetto del Tribunale della Penitenzieria Apostolica della Santa Sede, ha detto che quel giorno gli Usa sono passati attraverso un 'terremoto culturale', aggiungendo che il futuro del Paese sotto la presidenza di Obama assomigliera' all' 'orto dei Getsemani' di Gesu' Cristo in agonia.
zsbc08
00mercoledì 19 novembre 2008 16:16
la crisi? Ratzinger l'aveva prevista nel 1985
da: RaiNews24.it

Milano | 19 novembre 2008
Tremonti alla Cattolica: la crisi? Ratzinger l'aveva prevista nel 1985
Giulio Tremonti
Giulio Tremonti

Diffidate degli economisti. Affrontate la crisi con "ignoranza scientifica", ossi la consapevolezza di "sapere di non sapere". L'invito del ministro dell'economia Giulio Tremonti agli studenti della Cattolica di Milano è quello di "diffidare da chi dice di sapere e da chi non avendo previsto l'inizio
della crisi, ora ci dice come affrontarla". Il primo a 'vedere' l'attuale crisi? E' stato Benedetto XVI.   

Joseph Ratzinger aveva profetizzato l'attuale crisi globale dei mercati finanziari nel lontano 1985, ha ricordato Tremonti: "Si sta avverando - ha detto il ministro intervenendo
alla cerimonia di inaugurazione dell'Università Cattolica - la previsione secondo la quale in economia il declino della disciplina economica e l'allentamento delle leggi e delle
regole avrebbero portato le leggi stesse del mercato al collasso e all'implosione su se stessa". Una previsione, ha puntualizzato Tremonti, contenuta nello scritto "Church and
economy" realizzato dall'allora cardinale Joseph Ratzinger nel 1985.

Tremonti ha spiegato come l'economia negli ultimi anni abbia "perso il contatto con la realtà", non "la compassione ma la sua funzione sociale".

Il domino della crisi
"La crisi economica che stiamo attraversando è come vivere dentro un videogame. In quelli che si giocano, si affrontano mostri e poi si spegne tutto. Mentre questa non è ancora terminata e non è possibile fare 'game over'", ha detto Tremonti.

"Come nei videogiochi ci sono dei mostri da affrontare per passare al livello successivo. Ora -ha continuato il ministro-dobbiamo affrontare i mostri delle carte di credito, poi quello delle
attese bancarotte societarie e poi il mostro dei mostri, quello dei derivati, della follia del rischio incalcolabile e degli effetti collaterali non preventivabili".


Il futuro
"Penso che si possa giungere a un capitalismo in una versione più conservativa, più umanista, antiautoritaria, antidogmatica", ha detto Tremonti, per il quale si intravede uno "scenario in cui si apriranno spazi al mercato sociale attraverso l'introduzione nell'economia di una disciplina dei valori morali".

Article presented in 1985 in a symposium in Rome, “Church and Economy in Dialogue.” 1

Market Economy and Ethics

Allow me to give a cordial welcome — also in the name of the two other protectors, Cardinal Höffner and Cardinal Etchegaray — to all the participants here present for the Symposium on Church and Economy. I am very glad that the cooperation between the Pontifical Council for the Laity, the International Federation of Catholic Universities, the Institute of the German Economy and the Konrad-Adenauer-Foundation, has made possible these world-wide conversations on a question of deep concern for all of us.

The economic inequality between the northern and southern hemispheres of the globe is becoming more and more an inner threat to the cohesion of the human family. The danger for our future from such a threat may be no less real than that proceeding from the weapons arsenals with which the East and the West oppose one another. New exertions must be made to overcome this tension, since all methods employed hitherto have proven themselves inadequate. In fact, the misery in the world has increased in shocking measure during the last thirty years. In order to find solutions that will truly lead us forward, new economic ideas will be necessary. But such measures do not seem conceivable or, above all, practicable without new moral impulses. It is at this point that a dialogue between Church and economy becomes both possible and necessary.

Let me clarify somewhat the exact point in question. At first glance, precisely in terms of classical economic theory, it is not obvious what the Church and the economy should actually have to do with one another, aside from the fact that the Church owns businesses and so is a factor in the market. The Church should not enter into dialogue here as a mere component in the economy, but rather in its own right as Church.

Here, however, we must face the objection raised especially after the Second Vatican Council, that the autonomy of specialized realms is to be respected above all. Such an objection holds that the economy ought to play by its own rules and not according to moral considerations imposed on it from without. Following the tradition inaugurated by Adam Smith , this position holds that the market is incompatible with ethics because voluntary “moral” actions contradict market rules and drive the moralizing entrepreneur out of the game. 3 For a long time, then, business ethics rang like hollow metal because the economy was held to work on efficiency and not on morality. 4 The market's inner logic should free us precisely from the necessity of having to depend on the morality of its participants. The true play of market laws best guarantees progress and even distributive justice.

The great successes of this theory concealed its limitations for a long time. But now in a changed situation, its tacit philosophical presuppositions and thus its problems become clearer. Although this position admits the freedom of individual businessmen, and to that extent can be called liberal, it is in fact deterministic in its core. It presupposes that the free play of market forces can operate in one direction only, given the constitution of man and the world, namely, toward the self-regulation of supply and demand, and toward economic efficiency and progress.

This determinism, in which man is completely controlled by the binding laws of the market while believing he acts in freedom from them, includes yet another and perhaps even more astounding presupposition, namely, that the natural laws of the market are in essence good (if I may be permitted so to speak) and necessarily work for the good, whatever may be true of the morality of individuals. These two presuppositions are not entirely false, as the successes of the market economy illustrate. But neither are they universally applicable and correct, as is evident in the problems of today's world economy. Without developing the problem in its details here — which is not my task — let me merely underscore a sentence of Peter Koslowski's that illustrates the point in question: “The economy is governed not only by economic laws, but is also determined by men...”. 5 Even if the market economy does rest on the ordering of the individual within a determinate network of rules, it cannot make man superfluous or exclude his moral freedom from the world of economics. It is becoming ever so clear that the development of the world economy has also to do with the development of the world community and with the universal family of man, and that the development of the spiritual powers of mankind is essential in the development of the world community. These spiritual powers are themselves a factor in the economy: the market rules function only when a moral consensus exists and sustains them.

If I have attempted so far to point to the tension between a purely liberal model of the economy and ethical considerations, and thereby to circumscribe a first set of questions, I must now point out the opposite tension. The question about market and ethics has long ceased to be merely a theoretical problem. Since the inherent inequality of various individual economic zones endangers the free play of the market, attempts at restoring the balance have been made since the 1950s by means of development projects. It can no longer be overlooked that these attempts have failed and have even intensified the existing inequality. The result is that broad sectors of the Third World, which at first looked forward to development aid with great hopes, now identify the ground of their misery in the market economy, which they see as a system of exploitations, as institutionalised sin and injustice. For them, the centralized economy appears to be the moral alternative, toward which one turns with a directly religious fervor, and which virtually becomes the content of religion. For while the market economy rests on the beneficial effect of egoism and its automatic limitation through competing egoisms, the thought of just control seems to predominate in a centralized economy, where the goal is equal rights for all and proportionate distribution of goods to all. The examples adduced thus far are certainly not encouraging, but the hope that one could, nonetheless, bring this moral project to fruition is also not thereby refuted. It seems that if the whole were to be attempted on a stronger moral foundation, it should be possible to reconcile morality and efficiency in a society not oriented toward maximum profit, but rather to self-restraint and common service. Thus in this area, the argument between economics and ethics is becoming ever more an attack on the market economy and its spiritual foundations, in favor of a centrally controlled economy, which is believed now to receive its moral grounding.

The full extent of this question becomes even more apparent when we include the third element of economic and theoretical considerations characteristic of today's situation: the Marxist world. In terms of the structure of its economic theory and praxis, the Marxist system as a centrally administered economy is a radical antithesis to the market economy. 6 Salvation is expected because there is no private control of the means of production, because supply and demand are not brought into harmony through market competition, because there is no place for private profit seeking, and because all regulations proceed from a central economic administration. Yet, in spite of this radical opposition in the concrete economic mechanisms, there are also points in common in the deeper philosophical presuppositions. The first of these consists in the fact that Marxism, too, is deterministic in nature and that it too promises a perfect liberation as the fruit of this determinism. For this reason, it is a fundamental error to suppose that a centralized economic system is a moral system in contrast to the mechanistic system of the market economy. This becomes clearly visible, for example, in Lenin's acceptance of Sombart's thesis that there is in Marxism no grain of ethics, but only economic laws. 7 Indeed, determinism is here far more radical and fundamental than in liberalism: for at least the latter recognizes the realm of the subjective and considers it as the place of the ethical. The former, on the other hand, totally reduces becoming and history to economy, and the delimitation of one's own subjective realm appears as resistance to the laws of history, which alone are valid, and as a reaction against progress, which cannot be tolerated. Ethics is reduced to the philosophy of history, and the philosophy of history degenerates into party strategy.

But let us return once again to the common points in the philosophical foundations of Marxism and capitalism taken strictly. The second point in common — as will already have been clear in passing — consists in the fact that determinism includes the renunciation of ethics as an independent entity relevant to the economy \. This shows itself in an especially dramatic way in Marxism. Religion is traced back to economics as the reflection of a particular economic system and thus, at the same time, as an obstacle to correct knowledge, to correct action — as an obstacle to progress, at which the natural laws of history aim. It is also presupposed that history, which takes its course from the dialectic of negative and positive, must, of its inner essence and with no further reasons being given, finally end in total positivity. That the Church can contribute nothing positive to the world economy on such a view is clear; its only significance for economics is that it must be overcome. That it can be used temporarily as a means for its own self-destruction and thus as an instrument for the “positive forces of history” is an ‘insight’ that has only recently surfaced. Obviously, it changes nothing in the fundamental thesis.

For the rest, the entire system lives in fact from the apotheosis of the central administration in which the world spirit itself would have to be at work, if this thesis were correct. That this is a myth in the worst sense of the word is simply an empirical statement that is being continually verified. And thus precisely the radical renunciation of a concrete dialogue between Church and economy which is presupposed by this thought becomes a confirmation of its necessity.

In the attempt to describe the constellation of a dialogue between Church and economy , I have discovered yet a fourth aspect. It may be seen in the well-known remark made by Theodore Roosevelt in 1912: “I believe that the assimilation of the Latin-American countries to the United States will be long and difficult as long as these countries remain Catholic.” Along the same lines, in a lecture in Rome in 1969, Rockefeller recommended replacing the Catholics there with other Christians 8 — an undertaking which, as is well known, is in full swing. In both these remarks, religion — here a Christian denomination — is presupposed as a socio-political, and hence as an economic-political factor, which is fundamental for the development of political structures and economic possibilities. This reminds one of Max Weber's thesis about the inner connection between capitalism and Calvinism , between the formation of the economic order and the determining religious idea. Marx's notion seems to be almost inverted: it is not the economy that produces religious notions, but the fundamental religious orientation that decides which economic system can develop. The notion that only Protestantism can bring forth a free economy — whereas Catholicism includes no corresponding education to freedom and to the self-discipline necessary to it, favoring authoritarian systems instead — is doubtless even today still very widespread, and much in recent history seems to speak for it. On the other hand, we can no longer regard so naively the liberal-capitalistic system (even with all the corrections it has since received) as the salvation of the world. We are no longer in the Kennedy-era, with its Peace Corps optimism; the Third World's questions about the system may be partial, but they are not groundless. A self-criticism of the Christian confessions with respect to political and economic ethics is the first requirement.

But this cannot proceed purely as a dialogue within the Church. It will be fruitful only if it is conducted with those Christians who manage the economy \. A long tradition has led them to regard their Christianity as a private concern, while as members of the business community they abide by the laws of the economy.

These realms have come to appear mutually exclusive in the modern context of the separation of the subjective and objective realms. But the whole point is precisely that they should meet, preserving their own integrity and yet inseparable. It is becoming an increasingly obvious fact of economic history that the development of economic systems which concentrate on the common good depends on a determinate ethical system, which in turn can be born and sustained only by strong religious convictions. 9 Conversely, it has also become obvious that the decline of such discipline can actually cause the laws of the market to collapse. An economic policy that is ordered not only to the good of the group — indeed, not only to the common good of a determinate state — but to the common good of the family of man demands a maximum of ethical discipline and thus a maximum of religious strength. The political formation of a will that employs the inherent economic laws towards this goal appears, in spite of all humanitarian protestations, almost impossible today. It can only be realized if new ethical powers are completely set free. A morality that believes itself able to dispense with the technical knowledge of economic laws is not morality but moralism. As such it is the antithesis of morality. A scientific approach that believes itself capable of managing without an ethos misunderstands the reality of man. Therefore it is not scientific. Today we need a maximum of specialized economic understanding, but also a maximum of ethos so that specialized economic understanding may enter the service of the right goals. Only in this way will its knowledge be both politically practicable and socially tolerable.



[1] This article, translated by Stephen Wentworth Arndt, is provided courtesy of Dr. Johannes Stemmler, secretary emeritus of the BKU (Federation of Catholic Entrepreneurs) and secretary of Ordo socialis in Köln, Germany. This article appeared previously in English under the title “Church and economy: Responsibility for the future of the world economy,” Communio 13 (Fall 1986): 199-204.

[2] Joseph Cardinal Ratzinger is Prefect of the Congregation for the Doctrine of the Faith.

[3] Cf. Peter Koslowski, “Über Notwendigkeit und Möglichkeit einer Wirtschaftsethik,” Scheidewege. Jahresschrift für skeptisches Denken 15 (1985/86): 301, 204–305. This fundamental study has given me essential suggestions for my own paper.

[Ed. note: This paper, “On the Necessity and Possibility of an Ethics of the Economy,” is further elaborated and available in English in the book by P. Koslowski, Ethics of Capitalism; and, Critique of Sociobiology: Two Essays with a Comment by James M. Buchanan, vol. 10, Studies in Economic Ethics and Philosophy (New York: Springer-Verlag, 1996), with the 6th German edition 1998, along with Spanish, Korean, Russian, Chinese, and Japanese translations.]

[4] Koslowski, “Über Notwendigkeit und Möglichkeit einer Wirtschaftsethik,” 294.

[5] Koslowski, “Über Notwendigkeit und Möglichkeit einer Wirtschaftsethik,” 304; cf. 301.

[6] Cf. Card. J. Höffner, Wirtschaftsordnung und Wirtschaftsethik. Richtlinien der katholischen Soziallehre, ed. Sekretariat der Deutschen Bischofskonferenz (Bonn, 1985), 34–44. The English translation of this paper was published by Ordo socialis: Economic Systems and Economic Ethics–Guidelines in Catholic Social Teaching (Association for the Advancement of Christian Social Sciences, 1986).

[7] Koslowski, “Über Notwendigkeit und Möglichkeit einer Wirtschaftsethik,” 296, with reference to Lenin, Werke (Berlin, 1971), I 436.

[8] I found these two considerations in the contribution of A. Metalli, “La grande epopea degli evangelici,” Trenta giorni 3, no. 8 (1984): 9, 8–20.

[9] For detailed information see P. Koslowski, “Religion, Okonomie, Ethik. Eine sozialtheoretische und ontologische Analyse ihres Zusammenhangs,“ in Die religiöse Dimension der Gesellschaft, Religion und ihre Theorien, ed. P. Koslowski (Tübingen, 1985), 76–96.

[Ed. note: This paper, “Religion, Economics, Ethics: An Analysis of Their Relationship from the Perspective of Social Thought and Ontology,” in The Religious Dimension of Society: Religion and its Theories, is further elaborated and available in English in the book by P. Koslowski, Principles of Ethical Economy, vol. 17, Issues in Business Ethics (Boston: Kluwer Academic Publishers, 2001), with a 2nd German edition in 1994 along with French, Russian, Chinese, and Spanish translations.]

zsbc08
00venerdì 21 novembre 2008 16:17
Il Papa chiede ai contemplativi di vivere la fedeltà al Vangelo in modo radicale
Il Papa chiede ai contemplativi di vivere la fedeltà al Vangelo in modo radicale

La vita monastica
insegna a cercare Dio


"Cercare Dio e nulla anteporre al suo amore":  è questo lo scopo di ogni esperienza di vita monastica. Lo ha ribadito Benedetto XVI durante l'udienza ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, ricevuti nella mattina di giovedì 20 novembre, nella Sala Clementina.

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Con gioia vi incontro in occasione della Plenaria della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che celebra i suoi cento anni di vita e di attività. È passato infatti un secolo da quando il mio venerato predecessore San Pio x, con la Costituzione apostolica Sapienti Consilio, del 29 giugno 1908, rese autonomo il vostro Dicastero come Congregatio negotiis religiosorum sodalium praeposita, denominazione successivamente modificata più volte. Per ricordare questo evento avete programmato, il 22 novembre prossimo, un Congresso dal significativo titolo "Cento anni al servizio della vita consacrata"; auguro perciò pieno successo all'opportuna iniziativa. 
L'odierno incontro è per me occasione quanto mai propizia per salutare e ringraziare tutti coloro che lavorano nel vostro Dicastero. Saluto in primo luogo il Prefetto, Cardinale Franc Rodé, a cui sono grato anche per essersi fatto interprete dei comuni sentimenti. Insieme con lui saluto i Membri del Dicastero, il Segretario, i Sotto-Segretari e gli altri Officiali che, con mansioni diverse, prestano il loro quotidiano servizio con competenza e sapienza, per "promuovere e regolare" la pratica dei consigli evangelici nelle varie forme di vita consacrata, come anche l'attività delle Società di vita apostolica (cfr. Cost. ap. Pastor bonus, n. 105). I consacrati costituiscono una eletta porzione del Popolo di Dio:  sostenerne e custodirne la fedeltà alla divina chiamata, carissimi fratelli e sorelle, è il fondamentale impegno che svolgete secondo modalità ormai ben collaudate grazie all'esperienza accumulata in questi cento anni di attività. Questo servizio della Congregazione è stato ancor più assiduo nei decenni successivi al Concilio Vaticano ii, che hanno visto lo sforzo di rinnovamento, sia nella vita che nella legislazione, di tutti gli Istituti religiosi e secolari e delle Società di vita apostolica. Mentre, pertanto, mi unisco a voi nel rendere grazie a Dio, datore di ogni bene, per i buoni frutti prodotti in questi anni dal vostro Dicastero, ricordo con pensiero riconoscente tutti coloro che nel corso di questo secolo di attività hanno profuso le loro energie a beneficio dei consacrati e delle consacrate.
La Plenaria della vostra Congregazione ha focalizzato quest'anno la sua attenzione su un tema che mi è particolarmente caro:  il monachesimo, forma vitae che si è sempre ispirata alla Chiesa nascente, generata dalla Pentecoste (cfr. At 2, 42-47; 4, 32-35). Dalle conclusioni dei vostri lavori, incentrati specialmente sulla vita monastica femminile, potranno scaturire indicazioni utili a quanti, monaci e monache, "cercano Dio", realizzando questa loro vocazione per il bene di tutta la Chiesa. Anche recentemente (cfr. Discorso al mondo della cultura, Parigi, 12 settembre 2008) ho voluto evidenziare l'esemplarità della vita monastica nella storia, sottolineando come il suo scopo sia semplice ed insieme essenziale:  quaerere Deum, cercare Dio e cercarlo attraverso Gesù Cristo che lo ha rivelato (cfr. Gv 1, 18), cercarlo fissando lo sguardo sulle realtà invisibili che sono eterne (cfr. 2 Cor 4, 18), nell'attesa della manifestazione gloriosa del Salvatore (cfr. Tt 2, 13).
Christo omnino nihil praeponere (cfr. RB 72, 11; Agostino, Enarr. in Ps. 29, 9; Cipriano, Ad Fort 4). Questa espressione, che la Regola di san Benedetto riprende dalla tradizione precedente, esprime bene il tesoro prezioso della vita monastica praticata fino ad oggi sia nell'occidente che nell'oriente cristiano. È un invito pressante a plasmare la vita monastica fino a renderla memoria evangelica della Chiesa e, quando è autenticamente vissuta, "esemplarità di vita battesimale" (cfr. Giovanni Paolo ii, Orientale lumen 9). In virtù del primato assoluto riservato a Cristo, i monasteri sono chiamati a essere luoghi in cui si fa spazio alla celebrazione della gloria di Dio, si adora e si canta la misteriosa ma reale presenza divina nel mondo, si cerca di vivere il comandamento nuovo dell'amore e del servizio reciproco, preparando così la finale "manifestazione dei figli di Dio" (Rm 8, 19). Quando i monaci vivono il Vangelo in modo radicale, quando coloro che sono dediti alla vita integralmente contemplativa coltivano in profondità l'unione sponsale con Cristo, su cui si è ampiamente soffermata l'Istruzione di codesta Congregazione "Verbi Sponsa" (13.v.1999), il monachesimo può costituire per tutte le forme di vita religiosa e di consacrazione una memoria di ciò che è essenziale e ha il primato in ogni vita battesimale:  cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore.
La via additata da Dio per questa ricerca e per questo amore è la sua stessa Parola, che nei libri delle Sacre Scritture si offre con dovizia alla riflessione degli uomini. Desiderio di Dio e amore per la sua Parola si alimentano pertanto reciprocamente e generano nella vita monastica l'esigenza insopprimibile dell'opus Dei, dello studium orationis e della lectio divina, che è ascolto della Parola di Dio, accompagnata dalle grandi voci della tradizione dei Padri e dei Santi, e poi preghiera orientata e sostenuta da questa Parola. La recente Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, celebrata a Roma il mese scorso sul tema:  La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, rinnovando l'appello a tutti i cristiani a radicare la loro esistenza nell'ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, ha invitato specialmente le comunità religiose e ogni uomo e donna consacrati a fare della Parola di Dio il cibo quotidiano, in particolare attraverso la pratica della lectio divina (cfr. Elenchus praepositionum n. 4).
Cari fratelli e sorelle, chi entra in monastero vi cerca un'oasi spirituale dove apprendere a vivere da veri discepoli di Gesù in serena e perseverante comunione fraterna, accogliendo pure eventuali ospiti come Cristo stesso (cfr. RB 53, 1). È questa la testimonianza che la Chiesa chiede al monachesimo anche in questo nostro tempo. Invochiamo Maria, la Madre del Signore, la "donna dell'ascolto", che nulla antepose all'amore del Figlio di Dio da lei nato, perché aiuti le comunità di vita consacrata e specialmente quelle monastiche ad essere fedeli alla loro vocazione e missione. Possano i monasteri essere sempre più oasi di vita ascetica, dove si avverte il fascino dell'unione sponsale con Cristo e dove la scelta dell'Assoluto di Dio è avvolta da un costante clima di silenzio e di contemplazione. Mentre per questo assicuro la mia preghiera, di cuore imparto la Benedizione Apostolica a tutti voi che partecipate alla Plenaria, a quanti operano nel vostro Dicastero e ai membri dei vari Istituti di vita consacrata, specialmente a quelli di vita integralmente contemplativa. Il Signore effonda su ciascuno l'abbondanza delle sue consolazioni.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)

 


 Una testimonianza dall'India nella Giornata delle Claustrali

La preghiera
nel mezzo delle persecuzioni


di Madre Alosious
Clarissa

Qual è l'impatto delle attività anti-cristiane sulla nostra vita contemplativa? Quali sono le nostre impressioni in questo momento? Quali le nostre riflessioni, speranze, paure, angosce? Innanzitutto, vorremmo dire che siamo profondamente toccate e rattristate dal fatto che il nostro Paese, che una volta era tollerante e pacifico, è diventato un focolaio di terrorismo e di persecuzione contro i cristiani. Questi motivi non sono tali da farci disperare o da scoraggiarci perché "tutta la creazione geme e soffre fino a oggi" (Romani, 8, 22) in attesa di un cielo nuovo e di una terra nuova. Siamo piene di speranza perché sappiamo che il sangue dei martiri è germe del cristianesimo, e che "tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Romani, 8, 28). Sappiamo che questa è la tempesta che viene prima della calma; sappiamo che Dio vincerà e che dopo questo Venerdì Santo ci sarà sicuramente la Domenica di Pasqua.
Indubbiamente, stiamo affrontando una vera persecuzione dei cristiani, una persecuzione che è un invito a scuotere tutti i cristiani in letargo, letargo in cui ci troviamo anche noi suore contemplative. Siamo ferite dalla consapevolezza che finora non siamo state vere cristiane, che il nostro Padre Celeste ci stia dando una scossa per farci essere cristiane credibili e lodiamo il Signore perché la Chiesa in India si sta svegliando. 
Qual è stato l'impatto di tutte queste vicende su di noi, nella clausura? Soltanto ascoltando quanto è successo in una comunità a Quilon si può capire quello che sta avvenendo in tutte le nostre comunità. Tutto è cominciato con una legge inaccettabile sull'educazione, approvata in Kerala. Poi abbiamo sentito tutto ciò che succedeva in Orissa e la profanazione della nostra Cappella a Milagre, nel Bangalore. Ci siamo molto rattristate e abbiamo deciso di digiunare e pregare. Abbiamo anche deciso di rinunciare a un tempo di ricreazione per poter offrire delle preghiere di intercessione. Dopo circa una settimana di questa preghiera così intensa un vescovo, che è anche nostro amico, ci ha visitato dicendo che in queste circostanze non dovevamo rinunciare alla ricreazione. Rimanendo nell'obbedienza, abbiamo cercato comunque di non smettere di pregare e di intercedere.
È interessante e incoraggiante vedere la reazione degli anziani della Casa di cura legata al nostro monastero. Fino a quel momento avevano aderito alle preghiere comunitarie rimanendo nei loro posti nel refettorio. Dopo aver sentito queste brutte notizie andavano in cappella con i loro girelli e i loro bastoni per pregare insieme con la comunità. Un'ottantenne, faticosamente andava da una porta all'altra, bussando alle porte delle sue amiche, chiamandole in cappella per pregare e intercedere insieme. Il fervore con cui si sono radunate ci ha edificate e incoraggiate; anche gli anziani si sono sentiti ringiovaniti. Crediamo che il mondo sia mantenuto unito a motivo delle lacrime, dei sospiri e delle preghiere di anime innocenti come queste.
"Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Romani, 8, 28). Di questo siamo sicure. Proprio come le eruzioni vulcaniche, i terremoti e le tempeste, così anche questi eventi paurosi e distruttivi sono episodi necessari che Dio permette per perfezionare il genere umano. Crediamo, e ne siamo sicure, che questi castighi che viviamo adesso, anche se dolorosi e apparentemente oltre la nostra capacità di sopportazione, facciano parte del piano di Dio che corregge un'umanità disonesta, chiedendo all'uomo un cambiamento del cuore e purificando la Chiesa.
Mentre attendiamo il rinnovamento della Chiesa in India con una speranza profonda, siamo colpite dalla situazione in cui si trovano i cristiani poveri e i missionari. Tanti cristiani devono riconvertirsi all'induismo per salvare la loro vita; tante religiose e altre persone, specie le più povere, si nascondono nella selva senz'acqua e senza cibo. Le donne, soprattutto le sorelle religiose, sono state maltrattate e rapite. I nostri cuori sono profondamente trafitti e ci sentiamo chiamate a intensificare la nostra vita di preghiera e di sacrificio. Allo stesso tempo, troviamo conforto nel pensiero che il nostro Padre Celeste conosce tutto e preghiamo che il suo cuore si pieghi compassionevolmente verso tutti i dolori umani e ci faccia comprendere che ha permesso tutti questi eventi per il nostro bene.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)


 







La clausura non separa la monaca dall'amore dei fratelli

Contemplative
nel cuore della Chiesa e del mondo


di Anna Maria Canopi
Abbazia Benedettina «Mater Ecclesiae»
Isola San Giulio, Orta (Novara)

"Si parla tanto di vite sprecate:  ma sprecata è soltanto la vita di chi la lascia passare senza rendersi conto che esiste Dio" (S. Kierkegaard).
Nella memoria liturgica della Presentazione di Maria al tempio i cristiani sono esortati a pregare specialmente per le claustrali. Secondo la tradizione, Maria fu condotta al tempio in tenera età per esservi educata alla scuola della Parola di Dio e della preghiera. Come la Vergine Maria tutta raccolta sotto lo sguardo di Dio e intenta a Lui solo ne riceve e ne riflette la luce della santità senza nulla trattenere per sé, così ogni vergine consacrata è tutta donata a Dio e tutta dono per gli altri; vive in totale gratuità. Immersa nel silenzio meditativo e nella preghiera, Maria è per tutti i cristiani, e in particolare per le claustrali, una maestra incomparabile di vita spirituale.
Se c'è un motivo di speranza per il futuro della Chiesa e dell'umanità, questo sta proprio nel fatto che anche nel nostro tempo, oltre a tanta corruzione, c'è tanta mite sofferenza consumata nel silenzio, tanto sacrificio generosamente offerto, tanta preghiera di lode e di supplica nascosta nel cuore della Chiesa e in particolare nel cuore di molte donne che, avendo rinunziato alle nozze umane e alla maternità fisica, possono vivere più intensamente il mistero della maternità spirituale, partecipando al mistero della fecondità verginale di Maria.
Forse pochi immaginano quale carico di affanni e di dolore venga deposto in seno alle comunità oranti, e quanto intenso sia il coinvolgimento delle contemplative nella vita dei fratelli. Consacrate al ministero della preghiera, esse vivono il travaglio del parto spirituale di cui parla san Paolo ai Galati:  "Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!" (Gal 4, 19).
La clausura separa la monaca dal secolo, non dall'amore dei fratelli; anzi, proprio nella solitudine e nel silenzio del chiostro, dove è abbondantemente nutrita di Parola di Dio e di Eucaristia, la claustrale cresce nell'amore oblativo verso Dio e verso il prossimo al quale si fa vicina superando con la preghiera ogni confine di spazio e di tempo. Soprattutto vengono superate tutte le possibili barriere create dalle diversità etniche, culturali, ideologiche e religiose, poiché chi vive in Cristo comunica unicamente con il linguaggio universale e inequivocabile della carità. Per evangelizzare si hanno a disposizione, oltre l'annunzio verbale, anche strumenti di immediata diffusione:  i mass-media, ma per aprire le menti e i cuori alla fede e alla carità è indispensabile la grazia. È il ministero proprio delle contemplative:  nascoste agli occhi del mondo, esse sono come sorgenti che rendono fertili valli e pianure.
A qualcuno potrebbe sembrare superfluo pregare per chi prega. Invece è più che mai necessario, proprio perché vi siano le sorgenti e non si esauriscano. Come nei periodi di siccità si invoca dal cielo la pioggia, così è bene pregare perché il Signore susciti sempre molte e sante vocazioni per la vita contemplativa in modo da fare contrappeso alla superattività degli uomini del nostro tempo così facilmente immersi nel rumore delle cose che stordiscono i sensi e distolgono il cuore e la mente dall'unum necessarium (cfr. Lc 10, 42). Per placare l'arsura dei loro cuori inariditi, essi corrono a bere alle cisterne delle acque malsane offerte in abbondanza dalla società dei consumi. Nella Chiesa e nel mondo le contemplative hanno la missione di pregare, perché tutti i fratelli possano lavarsi e dissetarsi con l'acqua viva della grazia che sgorga dalla sorgente della salvezza:  Cristo crocifisso e risorto. Un giorno, presentandosi alla porta di un monastero, un poeta disse:  "Sono carico di fuliggine e mi vedo brutto, perciò sono venuto a lavare la mia anima nell'acqua pura della vostra innocenza". E dopo una sosta di silenzio e di preghiera ripartì lasciando questo messaggio:  "Grazie! Qui ho ritrovato la bellezza. Grazie!". Forse egli nemmeno sapeva che prima di lui qualcuno aveva già detto:  "Soltanto la bellezza salverà il mondo". Quella bellezza che è santità.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)



Intervista all'arcivescovo Gianfranco Agostino Gardin

Le claustrali risorsa eloquente
di testimonianza silenziosa


In occasione della Giornata pro orantibus che la Chiesa celebra venerdì 21 novembre, memoria liturgica della Presentazione di Maria al tempio, l'arcivescovo Gianfranco Agostino Gardin, segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, ha rilasciato un'intervista al nostro giornale. Il presule delinea le questioni più urgenti che riguardano oggi le religiose di vita contemplativa.

Perché una giornata specifica dedicata alla vita claustrale e non alle altre forme di vita consacrata femminile?

Il 21 novembre la Chiesa celebra la Presentazione di Maria al Tempio. Giovanni Paolo II ha scelto questa memoria liturgica per la Giornata pro orantibus, cioè per le claustrali dedite alla preghiera e alla contemplazione. La figura di Maria dedicata totalmente al Signore esprime bene l'ideale di vita perseguito dalle contemplative, donne chiamate a "stare con il Signore", a "concentrare in Dio" la loro attenzione esistenziale.
Perché una Giornata per le "oranti"? È un gesto di attenzione verso le religiose di vita contemplativa, è un dire loro:  sappiamo che siete presenti nella Chiesa, abbiamo bisogno della vostra preghiera, vi diciamo grazie per la vostra testimonianza silenziosa, per il vostro ricordarci che Dio va amato "con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la forza e con tutta la mente" (Lc 10, 27).
Vi è il rischio che la comunità cristiana non solo si dimentichi di queste presenze, non le avverta, ma anche che non comprenda la loro vocazione. Tra gli stessi cristiani praticanti sembra sorgere talora il dubbio che si tratti di una forma di vita incomprensibile e inutile. In una società che punta molto sull'efficienza, ma forse anche in una Chiesa affannata nel "fare", sia pure un fare "apostolico", la scelta di queste donne può apparire uno spreco di risorse umane e spirituali, ingiustamente sottratte alle molte cose da fare. Giovanni Paolo ii richiamava questa obiezione nell'esortazione Vita consecrata, applicata in quel caso a tutta la vita consacrata:  "Non è forse, la vita consacrata, una sorta di "spreco" di energie umane utilizzabili secondo un criterio di efficienza per un bene più grande a vantaggio dell'umanità e della Chiesa?". E rispondeva, rifacendosi all'icona evangelica del "profumo di Betania", cioè dell'episodio di Maria che cosparge i piedi di Gesù con del prezioso olio profumato:  "Quello che agli occhi degli uomini può apparire come uno spreco, per la persona avvinta nel segreto del cuore dalla bellezza e dalla bontà del Signore è un'ovvia risposta d'amore" (n. 104).
Benedetto XVI, nella preghiera dell'Angelus di domenica scorsa, ha ricordato la Giornata esprimendo a nome di tutta la Chiesa la "gratitudine a quanti consacrano la loro vita alla preghiera nella clausura, offrendo un'eloquente testimonianza del primato di Dio e del suo Regno" ed esortando tutti i fedeli ad essere loro vicini con il sostegno materiale e spirituale.

Quali sono le questioni di maggiore urgenza che riguardano oggi la vita claustrale nelle diverse aree del mondo?

Diciamo anzitutto che la vita monastica, sia femminile che maschile, è necessaria alla Chiesa, perché ricorda a tutti ciò che è essenziale ad ogni esistenza cristiana:  che Dio è il Bene supremo.
Certo, anche la vita claustrale sperimenta, in alcune aree del mondo, quella aridità vocazionale che sta colpendo la vita religiosa in genere. Trattandosi di una scelta di vita molto radicale, la quale domanda una fede particolarmente robusta, non meraviglia che là dove una certa scristianizzazione si sta diffondendo, vi sia un minor numero di persone aperte a queste vocazione. Perciò oggi vi sono più di ieri monasteri di clausura con piccole comunità e con un considerevole numero di religiose anziane. È inevitabile che in queste condizioni diventi più difficile, per esempio, dare vita ad una preghiera liturgica particolarmente curata - come è tipico della vita monastica - o disporre di persone preparate nel campo formativo, oggi particolarmente importante. E poi si deve riconoscere che è meno naturale che delle giovani siano attratte da comunità composte quasi esclusivamente di anziane.
Ciò non toglie che, anche con comunità più piccole e dall'età media avanzata, il monastero di clausura possa essere un luogo di autentica contemplazione, che può rappresentare nelle Chiese particolari un punto di riferimento per tanta gente che cerca oasi di preghiera, di silenzio, di ricarica spirituale.

Le nuove vocazioni femminili alla vita claustrale sono sufficienti a frenare e a invertire la crisi dei monasteri?

Con riferimento alla situazione italiana, possiamo dire che non ci sarà inversione di tendenza. Secondo una statistica del 2005 i monasteri Italia erano circa 550 e le monache circa 7.000; le postulanti circa 200 e le novizie 250. La situazione del 2008 non è variata di molto. Senza dubbio le nuove entrate non sono sufficienti a compensare i decessi.
Le cause del minor numero di ingressi sono ormai oggetto di frequenti analisi e le risposte sono note:  la denatalità, la maggior possibilità di realizzazione della donna in ambiti diversi, il sorgere di nuove forme di vita evangelica, una diversa percezione della vita religiosa sul piano sociale, e poi la secolarizzazione con tutto ciò che ne consegue... È vero anche che talora nella stessa zona geografica i monasteri sono molti, troppi per garantire un ricambio generazionale.
Di fronte a questi dati una scelta possibile è quella di rinforzare i monasteri con vocazioni provenienti da altri Paesi. Forse occorre essere cauti al riguardo, pur non escludendo del tutto questa possibilità, giacché la vita religiosa ha da tempo una grande "mobilità" al suo interno. Non si deve dimenticare però che anche le nuove Chiese e i Paesi di recente evangelizzazione hanno bisogno della vita monastica e anch'essi hanno il "diritto" di avere presenze monastiche e claustrali. Non dobbiamo pertanto avere paura se cambia la "geografia" della presenza monastica.
Detto questo, la preoccupazione principale nella vita religiosa non è mai quella del numero. Lo ha detto bene Giovanni Paolo ii, ancora in Vita consecrata:  "La vera sconfitta della vita consacrata non sta nel declino numerico, ma nel venir meno dell'adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione" (n. 63).

La qualità delle nuove vocazioni alla vita claustrale e come questa scelta può mettere in comunicazione con la società odierna.

Nella nostra società non è facile per i giovani donne mettersi in contatto con un monastero di claustrali, anche perché esse probabilmente percepiscono i monasteri come realtà estranee alla normalità della vita. Non mancano però giovani - e anche meno giovani - che chiedono di passare un periodo di riflessione e di preghiera in un monastero. Nella società della fretta, del frastuono, della superficialità, dell'affanno, questa richiesta non dovrebbe stupire:  nasce il bisogno di un "riposo dell'anima", di un contatto con persone che testimoniano una vita che attinge in maniera sovrabbondante alla fonte della pace, con persone che hanno trovato la propria realizzazione nell'incontro con Cristo, che hanno appreso - pur nella fatica quotidiana - a coniugare ascolto della Parola, preghiera e lavoro, con persone di comunione autentica e perseverante, capaci di accoglienza e di gratuità.
In genere, queste giovani sono vocazioni adulte e pertanto ben coscienti delle proprie scelte, maturate dopo aver vissuto anche altre esperienze di vita, ma proprio per questo consapevoli di dover fare i conti con abitudini e atteggiamenti acquisiti che devono passare attraverso una certa purificazione, devono essere rimodellati per armonizzarsi e integrarsi con quelli propri della vita monastica. Ma spesso è proprio il "vissuto" precedente - non rinnegato ma assunto - che, a mio avviso, le rende capaci di mettersi in sintonia con la società e con la gente e di essere credibili e disponibili ad entrare in dialogo con tutti.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)


 







Una vocazione esistenziale particolare ma alla quale tutti sono chiamati

Il faticoso cammino
dell'esperienza contemplativa


di Marta della Madre di Dio
Carmelo "Tre Madonne" (Roma)

"Lo sguardo di Dio è amare e donare grazia" (S. Giovanni della Croce):  riconoscere e accogliere sempre più profondamente questo sguardo che lo avvolge e lo penetra fino alle radici dell'essere è l'esperienza vitale del contemplativo.
Scoprire l'immensità dell'amore con cui è amato, inabissarsi nell'intimità del proprio cuore per incontrare e conoscere quella Presenza divina che lo inabita, lasciarsi plasmare per rifletterne la luce è la sua avventura esistenziale.
"Voglio vedere Dio" diventa il grido che esprime ciò che tutto il suo essere desidera ardentemente.
Ma Dio nasconde il suo volto, perché l'uomo sulla terra non può sostenerne lo splendore, ma anche per garantire la libertà della sua creatura a cui  non  vuole imporsi. L'amore non si impone,  chiede  di  essere  accolto in libertà. Ma la sua passione sconfinata per l'uomo non si arrende mai, continua a cercarlo, come un innamorato, molto più di quanto l'uomo cerchi lui.
Nell'esperienza contemplativa si scopre che incontrare il volto della Presenza amante e amata che dimora in noi significa in realtà da una parte cercarlo ancora, continuamente, e dall'altra lasciarsi cercare e trovare. Questa esperienza è un lungo, faticoso cammino in un deserto che rivela sempre più al contemplativo, da un lato la profondità della sua povertà, la sua impotenza, l'incapacità a portare a compimento il desiderio che costituisce il cuore della sua vocazione, quello di vedere e conoscere Dio, dall'altro sperimenta un'acuta desolazione per la lontananza, a volte per l'assenza, di Colui che i suoi occhi vogliono contemplare.
La contemplazione fa parte del mistero della persona perché la riconduce al senso della sua origine e del suo destino:  creata da Dio per una comunione infinita ed eterna con Lui. Nella fede nulla è evidente e tantomeno scontato:  credere è un rischio e una fatica.
È necessario liberarsi dall'idolatria a cui tanto facilmente ci si assoggetta, a cominciare da quella delle false idee su Dio che ci siamo creati noi, e dai nostri schemi spirituali in cui pretendiamo di far tornare i conti secondo le nostre misure.
Per questo Dio lascia che le nostre domande rimangano talvolta senza risposta; anzi, egli stesso diventa più domanda che risposta. Il contemplativo viene spogliato da facili sicurezze e consolazioni. È allora che le sue inquietudini e insicurezze cominciano ad essere accettate come ferite aperte attraverso cui la luce e la vita divina fluiscono nascostamente in lui.
È il momento in cui riscopre in tutta verità che tutto è grazia immeritata, che la propria debolezza è lo spazio dove si manifesta il miracolo della misericordia, che l'amore di Dio è pura, assoluta gratuità. Scopre che siamo grandi perché amati e non amati perché grandi. Lo stato di desolazione a volte sarà sperimentato ancora, sicuramente il desiderio dell'unione piena con il Signore continuerà ad essere un fuoco che brucia dolorosamente, ma ora nel suo cammino contemplativo la persona è sostenuta dalla pace profonda che scaturisce dall'abbandono fiducioso e da una gioia così misteriosa da essere quasi impercettibile, ma reale.
Nell'attesa di vivere la comunione eterna con Dio nella sua pienezza definitiva, il contemplativo incontra la sua presenza, il suo volto scolpito nell'intimità del suo cuore, là dove sorge la sua autentica personalità nel cuore a cuore con questa presenza, e nello stesso tempo dilata il proprio cuore ad orizzonti universali, diventando per tutti i fratelli un fermento di liberazione, una rivelazione dell'amore di Dio. I suoi stessi dubbi, le sue inquietudini lo rendono compagno di cammino di tutti coloro che sono "lontani". La preghiera diventa per lui un abbraccio d'amore che stringe tutti nella carità di Cristo.
Anche se alcune persone hanno il dono di una vocazione particolare alla vita contemplativa, tutti sono chiamati alla contemplazione. Lo affermava già santa Teresa di Gesù. Nei suoi insegnamenti, ella ci indica in particolare due "vie" per raggiungere "la perla, o l'acqua viva" della contemplazione:  una "ferma decisione" ad andare avanti, costi quel che costi, fino a raggiungere il suo fine e soprattutto "l'umanità santa di Cristo", come via privilegiata per inabissarsi nel mistero dell'amore trinitario, che ci rivela la tenerezza infinita del Padre e ci dona di vivere la sua stessa vita e di amare con il suo stesso amore nello Spirito che infonde in noi.
Essere contemplativi significa immergersi nel mistero di Dio che ci salva in Cristo rendendoci partecipi della sua stessa vita trinitaria. L'Apostolo Paolo si è inabissato in modo esemplare, scrutando e cantando con la vita e le parole la grandezza di Dio:  "O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Rm 11, 33).




(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)
zsbc08
00venerdì 21 novembre 2008 17:18
La Biblioteca Apostolica e l'Archivio Segreto all'inizio del pontificato di Giovanni XXIII

Le arche vaticane del sapere
sotto la guida dei fratelli Mercati


Il 20 e il 21 novembre si svolge a Bergamo, presso la Sala dei Giuristi, il convegno "Angelo Roncalli - Giovanni XXIII. "L'ora che il mondo sta attraversando"". Pubblichiamo un estratto di una delle relazioni, svolta dal direttore del Dipartimento dei manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana.

di Paolo Vian

Per quasi cinquant'anni tutti gli studiosi che sono entrati in Biblioteca Vaticana attraverso la porta inaugurata da Pio xi nel 1929 si sono trovati di fronte la statua di una figura maschile barbuta seduta su uno scranno. Sul parallelepipedo marmoreo sottostante un'iscrizione latina, datata al 17  luglio 1959, ricorda che fu Giovanni XXIII a volere la collocazione in aditu Bibliothecae Vaticanae della statua che, prima delle ricerche su fronti diversi di Pierre Nautin e di Margherita Guarducci, era pacificamente ritenuta quella dell'ecclesiasticus vir doctissimus Ippolito, teologo orientale attivo a Roma nella prima metà del Terzo secolo, entrato in conflitto con i vescovi Zefirino e Callisto, ma poi alla fine riconciliatosi, anche attraverso la dura prova della comune deportazione in Sardegna, col Papa Ponziano e con lui morto martire; certo, il "primo antipapa" della storia, ma solo per motivi disciplinari, perché l'allievo di Ireneo di Lione, ascoltato persino da Origene, si era schierato contro le eresie adozioniste e monarchiane che allora affliggevano la Chiesa di Roma. La collocazione della statua, che per comodità continueremo a definire di Ippolito, era un gesto simbolico di recupero e valorizzazione di una reliquia storica protocristiana additata a esempio e patrono delle scienze ecclesiastiche, come una settantina d'anni prima Leone XIII aveva fatto per la colossale statua di Tommaso d'Aquino posta all'ingresso della nuova Sala Leonina aperta con liberalità - la grande novità del suo pontificato - alla consultazione degli studiosi.
Se Papa Pecci si era rivolto alla Scolastica, Papa Roncalli guardava dunque ancora più lontano, all'era precostantiniana e, in qualche modo, anche a quell'umanesimo cristiano cinquecentesco e tridentino che gli era caro. La statua di Ippolito, scoperta dal sottosuolo romano sulla via Tiburtina nel 1551, era stata infatti subito acquistata da Marcello Cervini, il primo cardinale Bibliotecario, che l'aveva donata alla Vaticana ove era rimasta sino al XIX secolo, quando era stata trasferita al Museo Lateranense di recente costituzione. Il nuovo trasferimento in Vaticana della statua, anche nell'ambito del ripensamento giovanneo del Laterano, rappresentava così un'esemplare vicenda di ripristino dell'antico:  di quella valorizzazione della più sana tradizione che il Papa andava contemporaneamente promuovendo su altri fronti nel suo primo anno di pontificato e che, proprio nell'annuncio dell'indizione del Concilio, avvenuto a San Paolo fuori le Mura il 25 gennaio 1959, aveva avuto il suo momento saliente.
Il 1959 era stato un anno importante anche per la Biblioteca Apostolica e per l'Archivio Segreto, che nel gergo curiale erano ancora annoverate nell'ambito delle "amministrazioni palatine". Il 22 febbraio, nella festa della Cattedra di San Pietro, il Papa aveva ricevuto il personale della Biblioteca e meno di quattro mesi dopo, nel pomeriggio del 19 giugno, si era recato in Biblioteca, dedicandole una visita di due ore che le cronache definiscono "minuziosa" perché aveva riguardato tutti gli uffici, dall'Economato all'Ufficio Accessioni, dal catalogo alle sale di consultazione, dai depositi ai laboratori di restauro e fotografico. Nella sala di consultazione degli stampati il Papa aveva cercato un libro nello schedario a dizionario, allora orgoglio della biblioteconomia vaticana fecondata ai tempi di Pio XI dalla library science nordamericana - una fotografia ritrae il Papa intento nell'esame delle schede - e, dopo averlo individuato, Giovanni XXIII se lo era fatto portare "sperimentando così direttamente, come fanno gli studiosi durante le loro ricerche, il funzionamento del catalogo stesso e della distribuzione". Entrato dal cortile del Belvedere e uscito in quello di San Damaso, il Papa aveva visitato anche il Medagliere e il Gabinetto delle Stampe. Per garantire quegli equilibri che in Curia non devono mai essere turbati, meno di un mese dopo, nel pomeriggio del 13 luglio, quindi solo quattro giorni prima della datazione del trasferimento della statua di Ippolito, il Papa aveva poi visitato l'Archivio; e anche qui aveva percorso le sale più antiche e i grandi depositi moderni con scaffalature metalliche, soffermandosi nelle sale adiacenti allo studio del Prefetto su una piccola mostra con documenti relativi a san Carlo Borromeo, ai concili di Trento e Vaticano i, alla città e ai vescovi di Bergamo e poi, in altri locali, su un'esposizione dei tesori più celebri dell'Archivio, dal Liber diurnus al registro di Gregorio VII. 
Ancora non pago del tempo dedicato alle due antiche istituzioni, Giovanni XXIII tornò un anno dopo in Biblioteca, nel pomeriggio del 3 luglio 1960. Si trattò questa volta di una visita privata non registrata dalle cronache, guidata dal prefetto benedettino catalano Anselm Albareda e in compagnia di Loris Capovilla; riguardò probabilmente solo il Museo Sacro, evidentemente trascurato, per motivi topografici, nella visita del giugno 1959, colmo di memorie e di reliquie provenienti dalle catacombe romane che forse ricordarono al Papa l'amico Giulio Belvederi da poco scomparso. Dopo il commiato al mattino al cardinale Pietro Fumasoni Biondi morente, fu quella del pomeriggio occasione di una "grande gioia per me - annotò il Papa nelle sue agende - che non mi stancai per nulla, e rivedevo quelle camere da 60 anni".
Giovanni XXIII tornò solo un'altra volta, nel breve periodo che gli rimaneva da vivere, in Biblioteca, per l'inaugurazione il 22 febbraio 1962 di alcuni locali; altri impegni e preoccupazioni, in primo luogo il Vaticano ii, dovettero completamente assorbirlo nei tre anni residui di pontificato. Ma le visite degli anni 1959-1960, soprattutto quella del luglio 1960 che sembrava rinverdire gli anni in cui Gregorio XVI scendeva quotidianamente a passeggiare nei corridoi della Biblioteca col prefetto Gabriele Laureani, mostrano un interesse particolare per le due amministrazioni palatine, peraltro prevedibile e scontato in un uomo che dai primi decenni del secolo aveva insegnato, sotto l'egida di Cesare Baronio commemorato nel 1907, la storia ecclesiastica, e che si era sempre dilettato di studi storici, soprattutto relativi alla nativa diocesi di Bergamo nel Cinquecento.
Scopo di queste note è comprendere se e in che modo quella che è stata definita la "bibliofilia" di Giovanni XXIII, il suo innegabile interesse per la ricerca storica, per i suoi luoghi e i suoi strumenti, si sia tradotto in un piano organico di rinnovamento e di valorizzazione della Biblioteca e dell'Archivio, se e in che modo essi siano entrati in quella che si può definire la politica culturale del pontificato, segnata da altre espressioni come la costituzione Veterum sapientia (22 febbraio 1962) sull'uso del latino.
Solo quattordici mesi prima dell'inizio del pontificato era morto, il 22 agosto 1957, Giovanni Mercati, la veneranda figura del cardinale Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa. Due anni prima, il 3 ottobre 1955, era scomparso anche il fratello minore, Angelo, prefetto, dal 1925, dell'Archivio Vaticano. Con la morte dei due Mercati - superstite rimaneva il fratello bizantinista Silvio Giuseppe, che a sua volta sarebbe scomparso nel 1963 - si chiudeva davvero, e non retoricamente, un'epoca. Furono loro, nella prima metà del Novecento, a dare il tono alla Biblioteca e all'Archivio, al punto che se, per la prima, è lecito parlare di epoche dei Ranaldi, il primo Seicento, e degli Assemani, la metà del Settecento, è altrettanto possibile e opportuno parlare di un'"epoca dei Mercati".
Nella Roma ecclesiastica Giovanni fu, insieme a Louis Duchesne, l'erede migliore e più fedele di Giovanni Battista De Rossi. E furono i Mercati, almeno a partire dalla nomina di Giovanni nella Commissione storico-liturgica della Congregazione dei Riti (1902), a tenere alto il vessillo della ricerca storico-critica in Vaticano e da lì, quasi simbolicamente, nell'orbe cattolico. Sia Giovanni che Angelo avevano vissuto ed erano anzi cresciuti nell'esaltante temperie, così ben descritta nelle memorie di Salvatore Minocchi, che per gli studi ecclesiastici avevano rappresentato le decisioni e gli interventi di Leone xiii, in particolare, ma non solo, la Providentissimus Deus (1893) sugli studi biblici. Molti dei loro iniziali compagni di strada furono coloro che sarebbero poi stati definiti "modernisti"; e fra i corrispondenti dei due giovani fratelli vi fu Alfred Loisy, allora ancora docente all'Institut Catholique di Parigi.
Il cammino dei Mercati fu invece sempre e rigorosamente nel solco dell'istituzione e dell'ortodossia, ma al tempo stesso fedele a quelle esigenze della ricerca storico-critica che avevano scoperto nella Roma degli anni Ottanta del diciannovesimo secolo. Ancora non valutabile, ma certo profondo e duraturo, fu, per esempio, il ruolo di Giovanni, cardinale dal 1936, in numerose congregazioni e commissioni della Santa Sede, come decisivo fu il congiunto sforzo dei fratelli di servire gli studi durante la duplice, per alcuni anni contemporanea prefettura in Biblioteca (1919-1936) e in Archivio (1925-1955):  Giovanni più con l'approfondimento delle ricerche in svariati campi, dalle scienze bibliche alla storia dell'umanesimo, e con un approccio eminentemente filologico; Angelo con lavori soprattutto di storia della Chiesa, ma con più spiccato senso di responsabilità verso l'educazione del clero italiano, da avviare, anche attraverso numerose traduzioni, al sano esercizio della critica storica in un'ottica fondamentalmente sempre apologetica. Certo è che i fratelli Mercati furono sino alla metà degli anni Cinquanta i veri protagonisti della politica culturale della Santa Sede nel campo delle ricerche storiche. Furono essi i promotori e gli attori principali di iniziative come la bibliografia internazionale dell'Archivio Vaticano - dagli anni Trenta agli anni Cinquanta - il censimento degli archivi e delle biblioteche ecclesiastiche dal 1942, il salvataggio dei beni culturali ecclesiastici fra il 1943 e il 1945; e ancora, nel dopoguerra, furono i fratelli Mercati a essere se non i promotori - l'età e una nativa diffidenza per questo genere di imprese lo avrebbero impedito - almeno gli augusti mallevadori della nascita della "Rivista di storia della Chiesa in Italia" nel 1947, della costituzione del Pontificio Comitato di Scienze Storiche nel 1955 e, per mezzo di essa, della partecipazione della Santa Sede al Comité International de Sciences Historiques. 
Insomma attraverso i fratelli Mercati passa, nella prima metà del Novecento, buona parte del rapporto, dal modernismo - ma anche prima - in poi mai scevro di problemi, fra Santa Sede e scienze storiche. La loro scomparsa, alla vigilia del pontificato roncalliano, fu davvero in questo ambito la perdita di una guida e, per il complesso mondo della Biblioteca e dell'Archivio, di una sorta di chiave, di via di accesso, di mediazione e di rappresentazione simbolica. Come riconosceva il Sostituto Montini che, rievocando i suoi frequenti incontri con Giovanni, affermava che non si sarebbe mai stancato di ascoltarlo. Definendo così un rapporto esemplarmente felice fra l'apparato curiale e le due amministrazioni palatine.
Ma anche Roncalli, dall'esterno delle mura leonine, conosceva e apprezzava i Mercati. Il 27 maggio 1936 il delegato apostolico in Turchia e Grecia era alla ricerca ad Atene, presso l'antiquario Kritkis, di un'iconostasi promessa a Silvio Giuseppe e destinata al Museo Sacro della Biblioteca in occasione del congresso internazionale dei bizantinisti; il 15 settembre, ancora a motivo dell'iconostasi, incontrò Fritz Volbach, Emanuele Musso "e lungo le scale quanto mai dimesso il cardinale Mercati". Poco dopo, il 26 settembre 1936 Roncalli aveva recato in dono ad Angelo Mercati - curiosamente per la Biblioteca Vaticana - il primo volume, fresco di stampa, de Gli atti della visita di san Carlo Borromeo a Bergamo. Dieci anni dopo, il 28 settembre 1946, il nunzio a Parigi visitò in Archivio Angelo, che gli mostrò il dossier cinquecentesco del nunzio in Francia Girolamo Ragazzoni. Il 28 luglio 1948 Roncalli partecipò alla commemorazione parigina dell'assunzionista Louis Petit e vi incontrò nuovamente Silvio Giuseppe, casualmente rivisto poco dopo a Roma, sul ponte Sant'Angelo, il 12 settembre. Cinque anni dopo, il 3 novembre 1953, il patriarca di Venezia andò a trovare in Biblioteca il cardinale Mercati che lo accolse "benissimo" e col quale si intrattenne a parlare "del cardinale Mai e di altre cose e questioni"; tornò da lui l'8 ottobre 1956 per una visita "memoranda". Oggetto specifico era la trasmissione di una preziosa edizione di un centinaio di lettere di Angelo Mai curata nel 1883 da Giuseppe Cozza Luzi e annotata dal Mercati che con la consueta generosità la cedette a Gianni Gervasoni, amico bergamasco di Roncalli, per un secondo volume - che poi non avrebbe visto la luce - dell'epistolario di Mai. Ma l'ultimo incontro fu occasione di una "conversazione molto amabile, istruttiva ed edificante" che rimase talmente impressa in Roncalli che la rievocò il 6 novembre 1957 inaugurando il primo convegno degli archivisti ecclesiastici italiani. Un ritratto per certi versi straordinario di Mercati alla vigilia della morte:  "Lo trovai fra le cataste dei suoi libri in biblioteca. Ragionammo del mio illustre antico concittadino, il Cardinale Angelo Mai, il mago di Schilpario, famoso scopritore di palinsesti, a proposito di un volumetto di cento lettere di lui, raccolte da monsignor Cozzaluzi, e dal Cardinale Mercati annotate con molta cura e affidate alla mia custodia perché le passassi al prof. Gianni Gervasoni, mio amico, che preparava col contributo di quelle note il secondo volume del prezioso e completo epistolario dello stesso Mai. C'era nella voce affiochita e nell'occhio ormai opaco - diceva lui - alla distinzione degli oggetti materiali, del Cardinale, il richiamo ripetuto ai suoi novant'anni, e al suo caro fratello Mons. Angelo, che io avevo pure conosciuto, nonché un senso di nostalgia verso lassù, la patria, il premium mortis sacrae, inizio della gloria perenne che l'attendeva. Ecclesiastico insigne ed emerito, degno di figurare fra gli illustratori più distinti della dottrina e della vita della Chiesa, fulgido esempio di virtù sacerdotali".
Padre Albareda, incontrato la sera del 7 novembre in Biblioteca, lo ragguagliò della "tranquilla morte" del cardinale:  "Gli venne incontro senza che per nulla se ne accorgesse. Si era confessato dal p. Albareda il giorno prima. Un pronipote ordinato sacerdote da pochi giorni lo assisteva:  la parola gli si spense in bocca e il sangue si arrestò nel cuore. Anima piissima e santa. Aveva 91 anni".



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)




 Padre Angelo Secchi e il primo meridiano d'Italia

Il gesuita che inventò l'astrofisica


di Tullio Aebischer

Roma è un tesoro di arte e custodisce vestigia antichissime, ma meno conosciuto è l'aspetto di città dedita alla scienza, e in particolare astronomica e geodetica. Sin dal XVIi secolo sui palazzi delle famiglie nobili e sui conventi c'erano luoghi di osservazione del cielo, le specole. Uno di questi, la Torre dei Venti, si trova ancora oggi sui Palazzi Apostolici e fu resa famosa dalle prime discussioni sulla riforma del calendario di Papa Gregorio xiii.
In questa attività è da porre in risalto il ruolo del Collegio romano che, diretto dai gesuiti sin dal XVI secolo, ben presto divenne un centro molto importante degli studi sia naturali che matematici. Lì iniziarono le osservazioni sopra la chiesa di Sant'Ignazio fino alla costruzione della Torre Calandrelli (XVIii secolo e periodo di soppressione della Compagnia) e poi con un osservatorio realizzato da padre Angelo Secchi (1818-1878), scienziato di fama mondiale e fondatore dell'astrofisica con i suoi lavori sulla classificazione delle stelle. Oggi, dopo anni di abbandono e un lungo restauro, gli spogli locali dell'osservatorio potrebbero essere di nuovo visitabili.
Nato a Reggio Emilia, dopo il noviziato padre Secchi insegnò fisica a Loreto e fu ordinato nel 1847. A causa dei moti romani andò in Inghilterra e poi negli Stati Uniti dove insegnò alla Georgetown University e iniziò lo studio dell'astronomia. Nel 1849 ritornò a Roma e l'anno successivo divenne direttore dell'osservatorio astronomico del Collegio romano. Si interessò di meteorologia, geofisica e idraulica divenendo membro di varie accademie. Dopo il 1870 fu l'unico religioso a proseguire la sua attività grazie alla sua fama e alla stima del nuovo Governo italiano. Il 2008, centonovantesimo anniversario dalla sua nascita, ha segnato la riscoperta del suo lavoro nel tessuto urbano di Roma; per rendere fruibile questo patrimonio nascosto, da alcuni anni si è proposto l'"Itinerario geodetico per Roma".
Questo progetto iniziò nel 2005 con una mostra presso la Casanatense che ai tempi del padre domenicano Audiffredi (nel XVIii secolo) fu una delle prime biblioteche aperte agli studiosi e il vicino convento della Minerva fu sede di una specola. Nel 2006 un'altra mostra, presso lo Studium Urbis, volle schedare i punti di questo itinerario.
Nel contempo si iniziò la rivalutazione del primo meridiano d'Italia che fino all'avvento del moderno sistema di localizzazione Gps - Global positioning system - segnò sulla cartografia nazionale l'origine delle longitudini italiane, allo stesso modo che il più famoso meridiano di Greenwich è origine di quelle mondiali.
La storia del primo meridiano d'Italia inizia nel 1862 quando la Prussia decise di misurare la lunghezza del meridiano centrale europeo per continuare gli studi che da due secoli si svolgevano sulla forma della Terra. La posizione dello Stato Pontificio permise di partecipare a questa grande operazione internazionale per la quale fu incaricato proprio padre Secchi, che decise di spostare il punto fondamentale della cartografia pontificia dalla cupola di San Pietro al vicino monte Mario per una migliore visuale. Agli inizi del 1870 sul nuovo punto fondamentale fu costruita una torre alta dodici metri, ma i successivi eventi bellici bloccarono i lavori che furono continuati dall'Istituto geografico militare adottando i risultati già conseguiti. Per cui dallo studio della forma della Terra, la torre su monte Mario (oggi è visibile in zona militare una ricostruzione del 1882) divenne l'origine del sistema cartografico dell'Italia unificata. Nacque così il primo meridiano d'Italia.
A ricordo dell'impresa geodetica, sono stati dipinti lungo il meridiano 39 medaglioni sui marciapiedi di Roma; si è resa visibile una linea che molti vedono disegnata sugli atlanti, ma che attraversano inconsapevolmente ogni giorno. Con questo spirito si è proposto un gemellaggio tra i tre meridiani europei di Greenwich, Parigi e Roma.
Un'altra importante operazione, la misura di una base geodetica, fu eseguita da padre Secchi a metà del xix secolo lungo la via Appia antica, dal Mausoleo di Cecilia Metella alla torre delle Frattocchie. La base, misura molto precisa della distanza tra due punti, è anch'essa utile per il disegno della cartografia di un territorio e seguì una simile operazione di padre Boscovich (metà XVIii secolo) per evidenziare la forma della Terra lungo la penisola italiana.
Per lo studio di questo monumento geodetico immerso tra i monumenti romani si è proposto il progetto "Un secolo di geodesia lungo la via Appia antica" che vuole rendere nota con visite guidate la valenza scientifica di uno dei più grandi parchi archeologici del mondo.
In questa operazione geodetica padre Secchi eseguì le misure con tecniche originali rispetto all'epoca tanto da concludere i rilievi sul terreno, per una lunghezza di dodici chilometri, in meno di quattro mesi. Anche in questo caso la misura fu talmente accurata che i risultati furono adottati dai topografi italiani per raccordare la vecchia cartografia pontificia a quella nuova relazionando il caposaldo iniziale della base con la torre a monte Mario.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)


 Tra Bibbia e archeologia:  Gerusalemme e la Palestina a metà del Novecento nelle fotografie di monsignor Salvatore Garofalo

Un ideale pellegrinaggio nel tempo


Gerusalemme e la Palestina. Uno sguardo tra Bibbia e archeologia è il titolo di un libro nel quale Lorenzo Nigro racconta un itinerario in Terra Santa attraverso le fotografie di monsignor Salvatore Garofalo (Città del Vaticano, Musei Vaticani, 2008, pagine 238). Il volume viene presentato il 20 novembre presso i Musei Vaticani. Pubblichiamo  stralci dei  saluti del cardinale segretario di Stato e del cardinale presidente della  Pontificia  Commissione  per lo Stato della Città del Vaticano, e di uno degli interventi.

di Tarcisio Bertone

La Terra Santa è sempre stata e continua a essere motivo di grande richiamo per tutti i cristiani, e anche per gli appassionati di storia e di religioni. Molte sono pertanto le pubblicazioni che sotto diversi profili ne toccano gli aspetti più significativi; pubblicazioni di vario interesse, alcune di carattere più scientifico e altre più divulgative, talune frutto di ricerche archeologiche e altre di approfondimento  storico  ed  esegetico. Quella che questa sera viene presentata, come già percepiamo nel titolo, ci conduce idealmente  a  Gerusalemme  e  in Palestina,  e  ci  permette  di allargare il nostro  "sguardo tra Bibbia e Archeologia". 
Dobbiamo questa possibilità al fondo fotografico lasciato da monsignor Salvatore Garofalo ai Musei Vaticani, e presentato dall'autore del testo, Lorenzo Nigro, già assistente al Reparto Antichità Orientali dei Musei Vaticani negli anni 1998-2004 e oggi professore associato di Archeologia e Storia dell'arte del Vicino Oriente antico all'Università La Sapienza di Roma, coadiuvato da Anna Rita Lisella.
Quale occasione migliore di questa per pensare con ammirazione e gratitudine a monsignor Garofalo, grande biblista e studioso appassionato di archeologia  cristiana,  che  ha  collezionato  pazientemente  un  ampio archivio  fotografico,  frutto di frequenti viaggi in Terra Santa e nei Paesi limitrofi!
La Terra Santa oggi è profondamente cambiata. Molti luoghi e monumenti che l'illustre fotografo aveva immortalato, non sono più riconoscibili e perciò il suo contributo avvalora ulteriormente questo libro perché ci fa vedere e gustare quello che egli vide e amò. Sfogliare il volume diventa così un ideale pellegrinaggio nel tempo attraverso luoghi cari alla tradizione cristiana, partendo da Gerusalemme sino in Galilea.
Normalmente oggi il percorso parte dalla Galilea per scendere, attraverso la Samaria, in Giudea e terminare a Gerusalemme. L'autore ha preferito mantenere quello di un tempo che accentuava l'importanza di Gerusalemme, città santificata dall'opera del Redentore, dalla sua morte e risurrezione, città che ha visto l'inizio alla Chiesa. L'attenzione si concentra proprio su Gerusalemme e si allarga all'intera Terra Santa.
In effetti, l'interesse della Chiesa per il Medio Oriente risale, in realtà, ai primi anni del cristianesimo. Il destino dei cristiani in questa parte del mondo è mutato nel corso del tempo, in base agli avvenimenti politici e a eventi contrassegnati non raramente dalla violenza; eventi che hanno più volte modificato la configurazione etnica e religiosa delle popolazioni. L'auspicio più volte ribadito dai Papi - che specialmente a partire dal secolo xx si sono fatti costantemente difensori del carattere sacro e unico di Gerusalemme e dell'importanza per le tre grandi religioni monoteiste della Terra Santa - è che quei Luoghi santi siano in qualche modo il laboratorio del dialogo interreligioso; che, in particolare, Gerusalemme la Città Santa per eccellenza diventi il simbolo della pace e del dialogo tra queste grandi religioni.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)


 

La suggestione di un mondo
che inesorabilmente si sta perdendo


di Paolo Matthiae
Università di Roma La Sapienza

Dalle immagini fotografiche scattate diversi decenni fa con fede e passione da un grande biblista come Salvatore Garofalo emerge un quadro straordinariamente affascinante di una Palestina scomparsa, in cui lo splendore austero delle strutture architettoniche antiche e medioevali dei luoghi santi, il puro incanto di paesaggi dominati dai terebinti, dagli ulivi e dalle palme, la semplicità antica degli abitanti dei villaggi e dei borghi di cinquanta anni fa restituiscono a noi un mondo, che i tempi moderni stanno sempre più rapidamente cancellando.
Le testimonianze di queste immagini sono preziose, perché in esse rivive un mondo che, anche a distanza di due millenni, era ancora molto simile a quello del tempo storico della Rivelazione di Gesù, mentre in poco più di cinque decenni quel mondo è mutato radicalmente e intatte, o quasi, sono rimaste solo le emergenze massime dei luoghi più santi, ma l'ambiente e il contesto naturale, fisico e umano di quei luoghi è venuto sempre più stravolgendosi.
Se le immagini di Betlemme, di Betania, di Cafarnao, del Giordano, di Gerusalemme scandiscono itinerari che ricreano il percorso stesso della rivelazione cristiana, quelle di Hebron, di Megiddo, di Sichem, di Gerico, di Ai, di Samaria, della stessa Gerusalemme rievocano non solo eventi, scenari e personaggi  del mondo anticotestamentario,  ma  documentano in maniera viva e attuale momenti epici dell'esplorazione archeologica della Palestina  della  prima  metà del Novecento, quando, per l'intensità dell'impegno dei ricercatori, la Terra Santa è diventata, in assoluto, la regione più intensamente scavata del pianeta.
L'ispirazione biblica, che è stata all'origine stessa dei primi scavi dell'archeologia orientale, quando francesi e inglesi, tra il 1842 e il 1843, si volsero alla ricerca di Ninive, la città ricchissima e crudelissima cui, secondo i redattori biblici, il Signore di Israele aveva affidato il compito di punire il popolo di Israele per le infedeltà al suo Dio, ha continuato ad animare per  decenni  fino  ad  anni  recentissimi l'archeologia della Palestina, creando dilemmi, talora insolubili, all'interpretazione  dei risultati degli scavi.
Nell'ambito del magistero cattolico, proprio negli anni in cui Salvatore Garofalo percorreva la Palestina visitando con tenacia i luoghi più santi dell'Antico e del Nuovo Testamento, un altro grande biblista, archeologo e teologo, il domenicano Roland de Vaux,  scioglieva nel modo più brillante il nodo gordiano del preteso contrasto tra fede religiosa e scienza storica con memorabili quanto dotti interventi e con la pratica militante dello scavo da Tell Farah a Khirbet Qumran.
Le immagini di Gerusalemme e della Palestina di mezzo secolo fa, con la suggestione estrema di un mondo che sempre più inesorabilmente si perde, rendendo con incredibile efficacia l'atmosfera unica di una terra che nei suoi paesaggi naturali, nelle sue rovine materiali, negli sguardi dei suoi abitanti sembra trasmettere quasi naturalmente un messaggio di fede, contengono anche un altro messaggio, oggi attualissimo.
Dai resti diruti delle rocche cananee di Sichem o di Gerico alle visioni delle limpide acque del Giordano, dalle austere architetture delle tombe dei Patriarchi a Hebron alle povere dimore di terra di Betania, dalle desolate lande del Negev dove un tempo sorgevano le città peccatrici di Sodoma e Gomorra ai più santi luoghi della Chiesa del Santo Sepolcro sul Golgota, dalle folle che si accalcano alla fonte di Eliseo presso Gerico ai pastori che suonano il flauto dove Giosuè sarebbe entrato  in  Palestina,  fino  alle splendide architetture della Cupola della Roccia, ognuna di queste immagini antiche sembra reclamare un destino di  pace e di giustizia per i suoi abitanti.
È questo uno dei paradossi più enigmatici dei nostri tempi:  quella Terra Santa di tre grandi religioni, che, prima di ogni altra cosa, è una terra d'amore e che messaggi d'amore ha annunciato dovunque nel mondo, è oggi il luogo di odii apparentemente inespiabili. Il destino di Gerusalemme e della Palestina è, invece, oltre ogni dubbio, un destino di dialogo e di comprensione, ma soprattutto di pace, di libertà, di giustizia.




(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)



 

Lì dove dovrebbero scorrere latte e miele


di Giovanni Lajolo

Nella proposizione 51, che il recente Sinodo dei vescovi ha proposto al Papa, è scritto:  "Paolo vi ha nominato la Terra Santa:  "Il Quinto Vangelo". Il Sinodo raccomanda i pellegrinaggi e, se possibile, lo studio delle Sacre Scritture in Terra Santa e sulle tracce di san Paolo. I pellegrini e gli studenti potranno, per mezzo di questa esperienza, capire meglio l'ambiente fisico e geografico delle Scritture e particolarmente il rapporto fra i due Testamenti. Le pietre dove Gesù ha camminato potrebbero diventare per loro pietre di memorie vive. Intanto i cristiani in Terra Santa hanno bisogno della comunione di tutti i cristiani, specialmente in questi giorni di conflitto, di povertà e di paura".
Tutti coloro che si recano in pellegrinaggio in Terra Santa, ne ritornano sempre profondamente toccati, avendone tratto quasi l'impressione di sentire riecheggiare in quei luoghi le parole di Gesù, il ritmo dei suoi stessi passi.
Mi pare di poter dire che i discepoli di Gesù guardano a quei luoghi con un triplice amore. Un primo amore va a quelle popolazioni, che da millenni vi hanno la loro patria spirituale, prima che politica; e insieme ai pellegrini che vi si recano quasi per rivivere la storia dell'Incarnazione di Dio, che è diventata anche la loro storia. Un secondo amore va ai luoghi stessi, la Terra Promessa ad Abramo, dove dovrebbero scorrere latte e miele, luoghi di suggestiva bellezza, sia nell'incanto delle sue zone verdeggianti, come nel fascino, non meno grande, delle sue regioni aspre e desertiche; dove da troppi anni non latte e miele scorre, ma al sangue di Cristo si mescola l'onda del sangue  di  tante,  troppe altre vittime innocenti.
La memoria va infine, piena di amore per l'uomo di Nazaret:  Gesù, il figlio di Maria, il figlio del fabbro, fratello non solo dei suoi consanguinei, ma di ogni uomo, anche il più lontano; il Figlio di Dio, Figlio di Davide; l'uomo che si è seduto stanco, nell'arsura di un mezzogiorno d'estate, sul pozzo di Sichem con la sete sulle labbra, ma ancor più nel cuore, l'uomo battezzato da Giovanni Battista nelle acque del Giordano e che dal monte ha proclamato la più grande rivoluzione della storia umana, la mite e inarrestabile rivoluzione delle beatitudini; l'uomo che ha calmato le acque del lago di Genezareth in tempesta, che ha insegnato con autorità nel Tempio; egli ha parlato come nessun altro uomo ha parlato, né prima né poi, e ha effuso tutto il suo cuore nella sublime conversazione del cenacolo nell'ultima cena. L'uomo del Calvario e della croce, nuovo e definitivo simbolo dell'amore di Dio per l'uomo.
Di questo amore è stato interprete un illustre biblista, teologo, studioso di alta erudizione, ma anche affascinante divulgatore e ricercato conferenziere e predicatore:  Salvatore Garofalo.
Oggi abbiamo il piacere di presentare un libro che ci fa partecipare a ciò che monsignor Garofalo ha visto con i suoi occhi, e con il suo cuore, nel corso dei suoi viaggi in Terra Santa. Ma qual è la ragione per cui i Musei Vaticani, e quindi il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, sono coinvolti in questa presentazione? La ragione è questa:  che monsignor Garofalo ha legato la sua memoria anche ai Musei Vaticani.
Il 4 maggio 2001 il Reparto per le Antichità Orientali acquisiva il Fondo Fotografico di Garofalo; e il Reparto per le Antichità Orientali, acquisiva senza vincolo di esposizione, una serie di reperti archeologici che facevano parte della sua collezione privata. Tali acquisizioni si devono alla famiglia di Garofalo, nella persona della sorella Giuditta e dei nipoti Benedetta, Massimo e Maurizio De Luca.
Per quanto riguarda i reperti archeologici, si tratta di materiale archeologico di Palestina, la cui acquisizione ha permesso di completare un importante corredo di una tomba di Bab edh-Dhra' (Giordania), oltre a colmare numerose altre mancanze nelle collezioni di Reparto.
La raccolta Garofalo inoltre comprende coppe, olle e brocchette in ceramica, due lucerne dell'VIII secolo prima dell'era cristiana, una figurina fittile, assai rara, del Bronzo Medio i (2900-1900), cinque lucerne di età romana, oltre a due importanti frammenti di pergamena di rotoli di Qumran (Invv. 57241-57242), che illustrano una delle scoperte più affascinanti dell'archeologia biblica del XX secolo.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)



 Il nuovo Messale delle domeniche e delle feste

Il libro che guida la preghiera della Chiesa
e risveglia la memoria della Pasqua


Venerdì 21 vengono presentati a Roma tre volumi editi da Città Nuova, Libreria Editrice Vaticana e Jaca Book:  Messale delle domeniche e delle feste; L'anno di Dio. Una corona di grazia. Commento al nuovo Lezionario festivo anni A, B, C; Preghiere del cristiano. Pubblichiamo la presentazione ai primi due volumi, a firma rispettivamente di Inos Biffi - autore del secondo e curatore degli altri due - e di Stefano Maria Malaspina.

di Inos Biffi

Tra tutti i libri liturgici il Messale, col Lezionario, tiene il primo posto. Esso ispira e guida la preghiera della Chiesa che celebra l'Eucaristia. Le sue formule, antiche e nuove - a cominciare da quella più veneranda che è il canone, o anafora - risvegliano nella Chiesa la memoria della Pasqua. Anzi, tramite la grande prece e in virtù dello Spirito Santo, nell'Eucaristia diviene presente il Corpo e il Sangue del Signore, e la comunità cristiana - la plebs sancta - entra in comunione col sacrificio della croce.
Il Messale appare così un libro vivo. La Chiesa lo apre per ricordare con fedeltà sponsale l'opera della salvezza; per rendere grazie; per implorare Dio con umiltà e confidenza; per dire la propria speranza; per onorare i santi, che via via incontra come amici e intercessori lungo l'anno sacro; per aprire alla redenzione di Cristo le varie circostanze; per offrire l'ultima purificazione ai fratelli di fede già morti nel Signore. 
In tale maniera, giorno dopo giorno, santifichiamo il tempo, che è tutto ormai sotto la forza e la grazia dell'immolazione del Calvario e che tutto va inserito nella carità di Gesù - che si è consegnato per noi - in attesa della sua venuta (cfr. 1 Corinzi 11, 26).
A questo ci aiuta il Messale con le sue orazioni, i suoi canti, i suoi riti, illuminati dalla Parola di Dio:  gli accenti passano sulle labbra, i segni si svolgono all'esterno, i gesti appartengono al mondo sensibile, ma dal cuore e dalla fede interiore della Chiesa tutto viene ravvivato. E così il Messale - o Liber Sacramentorum - diventa il libro della pietà cristiana, insieme con quello della Liturgia delle Ore, che prosegue per fissi appuntamenti durante la giornata il rendimento di grazie dell'Eucaristia. Il Messale rappresenta la grande espressione della preghiera oggettiva della Chiesa, sulla quale è misurata l'orazione personale, e a cui sono attinti l'ispirazione e l'alimento per i pii esercizi e le varie forme dell'orazione popolare. Nel Messale sono dettati i temi e suscitati i sentimenti in sintonia con gli avvenimenti o misteri della salvezza, perché vengano interiorizzati e applicati al proprio spirito e alla propria storia.
Senza dubbio, perché il Messale sia efficace fonte della pietà e ausilio attivo dell'azione eucaristica, non basta che sia ascoltato nei rapidi tratti della celebrazione. Occorre farne materia di studio attento e di illuminata meditazione, dal momento che i suoi testi sono per lo più pregnanti, sintetici, ricchi di dottrina.
Esso sarà per eccellenza il libro del pastore d'anime, chiamato a presiedere la liturgia rappresentando Gesù Cristo - "in persona Christi" -:  "La familiarità con i libri liturgici nutrirà l'anima del pastore posto in mezzo al popolo di Dio in virtù dell'ordine sacro, e lo aiuterà giorno per giorno a plasmare una comunità ecclesiale che si edifica nella celebrazione dei santi misteri e testimonia nella carità la speranza che splende sul volto di Cristo Signore" (Conferenza Episcopale Italiana). Tutti i fedeli, però - chiamati a prendere parte all'azione liturgica "consapevolmente, piamente e attivamente" per mezzo dei riti e delle preghiere (Sacrosanctum Concilium 48), sono interessati all'intelligenza e alla pratica del Messale. Essi lo assumeranno e lo useranno secondo la varietà dei ministeri e dei ruoli nella liturgia, che, nella coralità armonizzata dei servizi, "offre un'immagine della Chiesa che, in tutte le sue esperienze, si costruisce con l'apporto di tutti" (Conferenza episcopale italiana).
Questo dice subito la finalità dell'edizione di un "messalino". Essa non mira a indurre i membri dell'assemblea eucaristica a compiere indifferentemente tutte le parti, di lettura e di azione, contemplate dal Messale e dal Lezionario:  non invita a operare nella liturgia in senso indistinto e sovrapposto, così che risultino confusi i ruoli differenziati che compaginano il rito; come sarebbe deplorevole se i singoli partecipanti col "messalino" si isolassero in una usufruizione solitaria del libro liturgico. Il suo uso invece è felice e costruttivo quando favorisce un'operosa unanimità, una concordia che proviene dallo svolgimento della propria funzione.
L'identità di intenzione e di risultanza della celebrazione eucaristica si ottiene col rifrangersi articolato nelle varie e proprie funzioni degli "attori".
Però l'uso del "messalino" non si limiterà allo spazio delle celebrazioni. Esso offre lo stimolo e la possibilità di preparare la celebrazione stessa, e di mettersi prima in consonanza con i suoi testi di lettura e di preghiera, con le differenze, le singolarità e i caratteri conformi al tempo liturgico e all'indole particolare che la messa ne riceve. Allo stesso modo, il "messalino" suggerirà di rivisitare quella preghiera, e di rimeditare sulla Parola e sui gesti già compiuti in più tranquilla e agiata riassunzione. Sono testi e segni da riscontrare e da far entrare a poco a poco nella memoria e nella sensibilità.
Un altro rilievo. Se la liturgia deve preoccuparsi di avere un linguaggio perspicuo per chiarezza e accessibilità, e diciamo anche attualità, tuttavia non ogni linguaggio chiaro è per ciò stesso liturgicamente valido. Occorre anzitutto che il linguaggio liturgico esprima l'ortodossia della fede, che manifesti l'accoglienza e il consenso della Chiesa al mistero della salvezza. Non è priva di ingenuità e di ambiguità una certa preoccupazione per un linguaggio adeguato alla cultura dell'uomo d'oggi. Potrebbe avvenire che un linguaggio sia sì trasparente, ma non proclami compiutamente il Credo; che ridondi per esempio nell'elogio della promozione umana, ma sottaccia il Vangelo e diluisca la grazia facendola coincidere con traguardi ricondotti alla dimensione dell'uomo.
La condizione prima per vivere efficacemente la liturgia, per dare ispirazione alle formule e animare i segni determinati dal Messale, è la fede; è il senso del mistero. Dalla fede e dall'affinità al mistero nasce ed è vivificata l'espressione liturgica. E proprio questo è ciò che più di tutto è urgente oggi. Diversamente, anche l'Eucaristia perde la sua identità:  non è il sacrificio della croce che si fa disponibile; non è il convito pasquale dove Cristo è colui che presiede e ci fa partecipi del suo Corpo dato e del suo Sangue sparso. La nostra fraternità è generata dalla sua carità. L'Eucaristia fa la Chiesa, perché è Gesù Cristo con il suo Spirito che la rende possibile e la edifica.
E un altro equivoco va superato, se non si vuole che le assemblee eucaristiche siano sterili:  quello di ritenere che debbano diventare più secolarizzate, meno sacrali, meno tese a evidenziare l'assoluto di Dio per fare spazio maggiore ai bisogni dell'uomo.
La liturgia proclama il primato di Dio; è adorazione e rendimento di grazie. È servizio di Dio, come lo fu il sacrificio della croce, dove Gesù ha portato a compimento la volontà del Padre. La carità fraterna ne consegue in proporzione alla verità dell'adorazione, poiché l'amore è una grazia che viene dalla croce, cioè viene da Dio. Nell'Eucaristia impariamo a vedere l'uomo, ma a partire da Cristo e dal Padre, dal quale nasce la nostra fraternità di figli di Dio. Né sarà tanto la ripetizione del tema della fraternità, o la ricorrenza del servizio ai poveri nelle orazioni a dare consistenza vera alla carità fraterna. Saremmo sempre e solo nello spazio delle "voci" e delle intenzioni. La vita incomincia o meglio si conferma dopo:  nella carità concreta, dove dimostriamo che l'Eucaristia è riuscita, e dove il linguaggio si presenta "reale", facilmente comprensibile a tutti. A questa coerenza invita da sempre la liturgia, per esempio quando chiediamo "di testimoniare nella vita il mistero che celebriamo nella fede". Ma ce ne avvertiva espressamente anche il concilio Vaticano ii:  "La rinnovazione dell'alleanza del Signore con gli uomini nell'Eucaristia conduce e accende i fedeli nella pressante carità di Cristo" (Sacrosanctum Concilium 10).



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008) 
 


Commento al nuovo Lezionario festivo

L'anno di Dio


di Stefano Maria Malaspina

Tra le forme con cui la Chiesa è nel mondo segno visibile di Cristo risorto e annuncio di speranza all'uomo, la più frequente e la più diffusa è senza dubbio la preghiera liturgica. In essa, e "specialmente nel divino Sacrificio dell'Eucaristia, "si attua l'opera della nostra redenzione"" (Sacrosanctum Concilium, 2), e da essa sono suggeriti ai fedeli le parole e i gesti perché esprimano e manifestino nella propria vita il mistero di Cristo e la natura della vera Chiesa.
La liturgia è il linguaggio semplice e profondo con cui la comunità dei battezzati si fa intendere e si presenta come realtà "umana e divina, visibile, ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che ciò che in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla futura città verso la quale siamo incamminati (cfr. Ebrei 13, 14)" (ibidem).
Il cuore della liturgia coincide poi con il cuore stesso del mistero cristiano, la Pasqua, presente e raggiungibile grazie alla celebrazione compiuta in obbedienza allo stesso mandato di Gesù, e viene così aperta la fonte da cui scaturisce l'identità ecclesiale:  cui convergono la vita spirituale del singolo credente e dell'intera comunità.
Nel corso dell'anno la Chiesa celebra incessantemente l'opera della salvezza, distribuendo "tutto il mistero di Cristo, dall'Incarnazione e dalla Natività fino all'Ascensione, al giorno di Pentecoste e all'attesa della beata speranza e del ritorno del Signore" (Sacrosanctum Concilium, 102); insieme con la venerazione per Maria e per i santi, giunti alla perfezione "con l'aiuto della multiforme grazia di Dio" (ibidem, 104). Un tesoro da custodire e rendere fruttuoso. Il sapiente svolgersi dei misteri della vita di Gesù nell'anno liturgico sostiene e guida la preghiera ecclesiale. Meditarne le tappe e gustarne le sorgenti, soprattutto la sacra scrittura, nutre la preghiera e la carità, vero compimento dei riti.
Così è stato per i grandi autori cristiani:  "Sia i Padri, sia gli autori medievali hanno lasciato sermoni liturgici mirabili, la cui lettura è una splendida e magnifica introduzione a queste festività. Pensiamo a Gregorio di Nazianzo, ad Agostino, a Leone Magno, a san Bernardo e ad altri deliziosi abati cisterciensi". Così è stato Manzoni:  affascinato dal Vangelo, dalla Chiesa e dall'anno liturgico, si propose di commentare e contemplare il mistero dell'Anno di Dio componendo degli inni per le principali solennità:  ne venne una poesia delle feste, ossia quegli Inni sacri che hanno impreziosito anche il rito ambrosiano e sono stati accolti nella liturgia delle Ore della Chiesa di Milano.
È lo stesso ritmo che seguono molti dei Parochial and Plain Sermons di John Henry Newman, ancora poco conosciuti e studiati; ed è il caso dei Sermones de tempore di san Bernardo, la cui edizione bilingue - latino-italiano - completerà la pubblicazione delle opere dell'abate di Clairvaux, a cura dello "Scriptorium Claravallense".
Anche Paul Claudel, ispirato dal salmista - "Coroni l'anno con i tuoi benefici, i tuoi solchi stillano abbondanza (Benedices coronae anni benignitatis tuae, et campi tui replebuntur ubertate)" (Salmi 64, 12) - ha dedicato alle principali feste liturgiche le composizioni fra le più belle della sua poetica, sotto il titolo di Corona benignitatis anni Dei.
La medesima ispirazione ha portato Inos Biffi a proporre, ripercorrendo l'anno sacro e i suoi misteri a partire da quello pasquale, L'anno di Dio. Una corona di grazia:  una coedizione cui hanno partecipato Jaca Book, Città Nuova e Libreria Editrice Vaticana.
Attraverso il commento al nuovo Lezionario festivo per gli anni A, B e C - recentemente promulgato dalla Conferenza episcopale italiana - il teologo milanese ci conduce ad una più piena preparazione all'azione liturgica, perché vi possiamo prendere parte consapevolmente, attivamente e con frutto, e ci invita alla riflessione, al raccoglimento e alla preghiera, sempre rivolti alla piena celebrazione dei sacramenti, in novità di vita.
Anche i destinatari di questo volume - come scriveva Giovanni Saldarini a proposito di un altro commentario di Biffi - non sono solo i ministri della Parola, ma anche quei laici "che desiderano incontrarsi con la messa domenicale in maniera più adulta e più consapevole per avvertirne tutte le ricchezze. Che è poi l'unico modo per provarne gusto e sentire il desiderio di tornarci". Il lettore non è solo introdotto ad una più compiuta comprensione delle letture proclamate nelle singole domeniche e nelle principali festività:  vi si ritrovano - direbbe il cardinale Giacomo Biffi - una "ricchezza di esperienze intellettuali e pastorali", presente "senza che si appesantisca il discorso e senza che si sia mai intrigati da uno sfoggio vano di erudizione".
Il commento è infatti fruibile da tutti i fedeli per la chiarezza e la proprietà delle meditazioni:  tra le fonti più spesso ricordate si trovano numerosi autori di spiritualità, Dottori della Chiesa - quali Ambrogio, Agostino, Bernardo di Clairvaux, Tommaso d'Aquino, Teresa d'Avila, Teresa di Lisieux - oltre ai principali e più validi esegeti biblici contemporanei - Ernst, Schweitzer, Schnackenburg, Schürmann, e altri -.
Già il celebre biblista Enrico Galbiati, antico prefetto dell'Ambrosiana, metteva in luce e apprezzava in Inos Biffi il riferimento alla più recente teologia biblica, una coerente struttura teologica e la valorizzazione della liturgia. Né mancano, a ulteriore sussidio, i riferimenti alle letture bibliche proposte dalla liturgia e, in appendice, il calendario delle principali celebrazioni, accompagnato da un indice biblico analitico.
L'esito atteso da questo Anno di Dio, che si affianca al Messale delle domeniche e delle feste e alle Preghiere del cristiano - altri due frutti della medesima convergenza fra i tre editori sopra ricordati - non è semplicemente un sussidio all'orazione personale, ma un accompagnamento alla crescita dell'orazione dell'assemblea, nella consapevolezza che la vita di preghiera continua nell'intimo della coscienza e che la carità ne è la riuscita più vera.
Agnès du Sarment, nell'introdurre il proprio studio Claudel et la liturgie, si chiedeva quale rapporto potesse esserci fra un poeta e la liturgia, fra il "lirismo debordante" del poeta, convertitosi a Notre-Dame de Paris, ascoltando il Magnificat durante la messa di Natale del 1866, e le "formule ieratiche, fissate una volta per tutte", dei libri sacri; e sottolineava:  "la liturgia non si gioca solamente nelle nostre chiese, ma anche e soprattutto nel santuario delle nostre anime; non solamente al mattino, in una rapida mezz'ora, ma tutta la giornata, la notte compresa; essa è la pulsazione d'amore di ogni figlio di Dio verso il proprio Padre".
Nel presentare la pubblicazione delle Omelie di Benedetto XVI si è scritto:  "L'anno liturgico è molto più che la narrazione a puntate di un'unica grande storia e dei suoi protagonisti". In questa prospettiva unitaria, l'Avvento non è solo preparazione e attesa della seconda Venuta, ma esperienza della venuta interiore - l'avvento "medio", come lo chiamava san Bernardo -; e la Quaresima è sì preparazione alla Pasqua, ma anche al sacramento del Battesimo:  e così per ogni ciclo liturgico. Umano e divino, scorrere dei giorni ed eternità, Cristo e la Chiesa sono indissolubilmente uniti in un tempo che, vissuto cristocentricamente, assume valore nuovo e diviene memoria, presenza e attesa del Signore.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)
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00domenica 23 novembre 2008 11:28
Benedetto XVI ai partecipanti al pellegrinaggio dell'arcidiocesi di Amalfi-Cava de' Tirreni

Praticare iniquità o giustizia
è una scelta di libertà


Vocazione, missione ed ecumenismo:  sono le tre parole chiave che hanno orientato il cammino della Chiesa di Amalfi-Cava de' Tirreni nell'anno giubilare dedicato a sant'Andrea Apostolo. Lo ha ricordato il Papa durante l'incontro con i fedeli dell'arcidiocesi campana ricevuti sabato mattina 22 novembre, nell'Aula Paolo vi.

Cari fratelli e sorelle!
Benvenuti nella casa del Successore di Pietro:  vi accolgo con affetto e a tutti rivolgo il mio cordiale saluto. In primo luogo va al Pastore della vostra comunità ecclesiale, l'Arcivescovo Mons. Orazio Soricelli, al quale sono grato anche per le parole che mi ha rivolto a vostro nome. Saluto poi i sacerdoti, i diaconi e i seminaristi, i religiosi e le religiose, i laici impegnati nelle varie attività pastorali, i giovani, la corale e gli ammalati con i volontari dell'Unitalsi. Saluto le Autorità civili, i Sindaci dei Comuni della Diocesi con i gonfaloni. Estendo infine il mio pensiero all'intera Arcidiocesi di Amalfi-Cava de' Tirreni, venuta a Roma in pellegrinaggio presso la tomba dell'apostolo Pietro con le venerate reliquie di sant'Andrea, vostro augusto Patrono, conservate sin dal secolo iv nella cripta della vostra Cattedrale. Anzi, questo pellegrinaggio si compie proprio nel nome dell'apostolo Andrea, in occasione dell'viii Centenario della traslazione delle sue reliquie dalla grande Costantinopoli alla vostra città di Amalfi, piccola per dimensione ma grande anch'essa per la sua storia civile e religiosa, come ha ricordato poc'anzi il vostro Arcivescovo. Dinanzi a questo prezioso reliquiario ho potuto sostare in preghiera anch'io in occasione della festa di Sant'Andrea del 30 novembre 1996, e di quella visita conservo ancora grata memoria. 
In tale ricorrenza ormai imminente, si concluderà questo anno giubilare con la Santa Messa celebrata nella vostra Cattedrale dal Cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato. È stato un anno singolare, che ha avuto il suo culmine nel solenne atto commemorativo dell'8 maggio scorso, presieduto dal Cardinale Walter Kasper quale mio Inviato speciale. Guardando all'esempio e ricorrendo all'intercessione di sant'Andrea, voi volete infatti ridare nuovo slancio alla vostra vocazione apostolica e missionaria, allargando le prospettive del vostro cuore alle attese di pace tra i popoli, intensificando la preghiera per l'unità tra tutti i cristiani. Vocazione, missione ed ecumenismo sono pertanto le tre parole-chiave che vi hanno orientato in questo impegno spirituale e pastorale, che oggi riceve dal Papa un incoraggiamento a proseguire con generosità ed entusiasmo. Sant'Andrea, il primo degli Apostoli ad essere chiamato da Gesù sulle rive del fiume Giordano (cfr. Gv 1, 35-40), vi aiuti a riscoprire sempre più l'importanza e l'urgenza di testimoniare il Vangelo in ogni ambito della società. Possa l'intera vostra comunità diocesana, ad imitazione della Chiesa delle origini, crescere nella fede e comunicare a tutti la speranza cristiana.
Cari fratelli e sorelle, questo nostro incontro avviene proprio alla vigilia della solennità di Cristo Re. Pertanto, vi invito a volgere lo sguardo del cuore al nostro Signore Gesù Cristo, Re dell'universo. Nel volto del Pantocrator, noi riconosciamo, come affermava mirabilmente il Papa Paolo vi durante il Concilio Vaticano ii, "Cristo, nostro principio! Cristo, nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine!" (Discorso di apertura del ii periodo, 29.9.1963). La Parola di Dio, che domani ascolteremo, ci ripeterà che il suo volto, rivelazione del mistero invisibile del Padre, è quello del Pastore buono, pronto a prendersi cura delle sue pecore disperse, a radunarle per farle pascolare e poi riposare al sicuro. Egli va in cerca con pazienza della pecora smarrita e cura quella malata (cfr. Ez 34, 11-12.15-17). Solo in Lui possiamo trovare quella pace che Egli ci ha acquistato a prezzo del suo sangue, prendendo su di sé i peccati del mondo e ottenendoci la riconciliazione. 
La Parola di Dio ci ricorderà anche che il volto di Cristo, Re universale, è quello del giudice, perché Dio è al tempo stesso Pastore buono e misericordioso e Giudice giusto. In particolare, la pagina evangelica (Mt 25, 31-46) ci presenterà il grande quadro del giudizio finale. In tale parabola il Figlio dell'uomo nella sua gloria, circondato dai suoi angeli, si comporta come il pastore, che separa le pecore dalle capre e pone i giusti alla sua destra e i reprobi alla sinistra. I giusti li invita ad entrare nell'eredità preparata da sempre per loro, mentre i reprobi li condanna al fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli altri angeli ribelli. Decisivo è il criterio del giudizio. Questo criterio è l'amore, la carità concreta nei confronti del prossimo, in particolare dei "piccoli", delle persone in maggiore difficoltà:  affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. Il re dichiara solennemente a tutti che ciò che hanno fatto, o non hanno fatto nei loro confronti, l'hanno fatto o non fatto a Lui stesso. Cioè Cristo si identifica con i suoi "fratelli più piccoli", e il giudizio finale sarà il rendiconto di quanto è già avvenuto nella vita terrena.
Cari fratelli e sorelle, è questo ciò che interessa a Dio. A Lui non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo:  Egli è re dell'universo intero, ma il punto critico, la zona dove il suo regno è a rischio, è il nostro cuore, perché lì Dio si incontra con la nostra libertà. Noi, e solo noi, possiamo impedirgli di regnare su noi stessi, e quindi possiamo porre ostacolo alla sua regalità sul mondo:  sulla famiglia, sulla società, sulla storia. Noi uomini e donne abbiamo la facoltà di scegliere con chi vogliamo allearci:  se con Cristo e con i suoi angeli oppure con il diavolo e con i suoi adepti, per usare lo stesso linguaggio del Vangelo. Sta a noi decidere se praticare la giustizia o l'iniquità, se abbracciare l'amore e il perdono o la vendetta e l'odio omicida. Da questo dipende la nostra salvezza personale, ma anche la salvezza del mondo. Ecco perché Gesù vuole associarci alla sua regalità; ecco perché ci invita a collaborare all'avvento del suo Regno di amore, di giustizia e di pace. Sta a noi rispondergli, non con le parole, ma con i fatti:  scegliendo la via dell'amore fattivo e generoso verso il prossimo, noi permettiamo a Lui di estendere la sua signoria nel tempo e nello spazio. Vi aiuti sant'Andrea a rinnovare con coraggio la vostra decisione di appartenere a Cristo e di porvi al servizio del suo Regno di giustizia, di pace e di amore, e la Vergine Maria, Madre di Gesù nostro Re, protegga sempre le vostre comunità. Da parte mia, vi assicuro il ricordo nella preghiera mentre, ringraziandovi ancora per la vostra visita, di cuore tutti vi benedico.



(©L'Osservatore Romano - 23 novembre 2008)




Presentata al Papa la terza edizione tipica
del Messale Romano


La terza edizione tipica del Messale Romano edito dalla Libreria Editrice Vaticana in collaborazione con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti è stata presentata dal cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione, a Benedetto XVI, sabato mattina 22 novembre, nella Biblioteca privata del Palazzo Apostolico. Il Papa ha espresso il suo compiacimento per l'iniziativa. Hanno accompagnato il cardinale, l'arcivescovo Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, e monsignor Anthony Ward, rispettivamente segretario e sotto-segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Erano presenti anche don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana e il commendatore Antonio Maggiotto, direttore commerciale della Tipografia Vaticana.



(©L'Osservatore Romano - 23 novembre 2008)
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00martedì 25 novembre 2008 11:30
Senso critico
Le esigenze della vita civile secondo il cardinale segretario di Stato

Senso critico
e prudenza


di Raffaele Alessandrini

"La presenza del cristiano nel mondo non potrà mai essere ridotta a un mero fatto privato, perché ciò in cui crede non è da nascondere, ma, invece, da partecipare. I valori che appartengono alla fede non sono estranei a quelli che la natura conserva e la ragione raggiunge; sono condivisibili con tutti". Tale è la convinzione, e il monito, che il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inserito nelle conclusioni della sua articolatissima Lectio magistralis tenuta sabato 22 novembre al Teatro Pirandello di Agrigento sul tema "Principi su cui radicare e vivere la propria cittadinanza". Al porporato è stato consegnato il premio internazionale "Empedocle" per le scienze umane in memoria del giudice Paolo Borsellino - giunto quest'anno alla sedicesima edizione - e gli è stata altresì conferita la cittadinanza onoraria dal sindaco di Agrigento.
Il cardinale Bertone che si è detto "onorato per essere stato scelto come destinatario del premio per le scienze umane" ha significativamente tenuto a sottolineare la figura di Paolo Borsellino "nobile esempio di magistrato al servizio dello Stato, caduto sulla breccia il 19 luglio del 1992 insieme agli uomini della sua scorta, 57 giorni appena dopo la strage di Capaci che segnò la morte di un altro magistrato amico di Borsellino, Giovanni Falcone".
Alla luce di tali eroici esempi di vita, e di testimonianza umana e civile, va dunque compreso il tema stesso che il cardinale segretario di Stato ha voluto affrontare:  i "principi su cui radicare e vivere la propria cittadinanza". Per dar vita "a un mondo più giusto e solidale, vivificato da una speranza che si traduca in operosità quotidiana al servizio del bene comune".
Il prossimo 10 dicembre ricorrerà il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e nel tracciare un bilancio sul cammino fin qui compiuto dall'umanità, il cardinale Bertone ha sottolineato alcune prospettive rispetto a un reale riconoscimento dei diritti umani in ogni parte del mondo. In particolare c'è da riflettere su "quanto cammino resti da fare perché ogni essere umano si senta a pieno titolo cittadino del nostro pianeta; quale sforzo sia necessario nell'epoca della globalizzazione per dar vita a un dialogo capace di sfociare in una pace duratura, per concretizzare una giustizia non solo formale e una solidarietà che sia effettiva condivisione delle disponibili risorse materiali, umane e culturali. Ci si può infine chiedere quale futuro sia possibile costruire insieme e come costruirlo".
Presupposto di ogni comportamento, osserva realisticamente il cardinale Bertone, è l'onestà. "Puntare sui comportamenti virtuosi dell'uomo è non solo un valore, ma un bisogno. Poiché la corruzione e la carenza di onestà, a qualsiasi livello della vita sociale ed economica si registri, non sono solo un male, ma hanno pure un grave costo sociale ed economico". Pertanto, rifiutare comportamenti disonesti è un bene che reca vantaggi effettivi per tutti. Ecco perché vanno incentivati i comportamenti onesti e puniti quelli disonesti". Pertanto, afferma il cardinale segretario di Stato:  "Occorre scardinare una idea di fondo che spesso sembra guidare il pensare e l'agire della società contemporanea impregnata di un pervasivo individualismo che porta a un pericoloso relativismo culturale ed etico. Il vantaggio personale ricercato e costruito in modo disonesto, non va solo a danno della società, ma finisce per danneggiare lo stesso individuo".
Un secondo rilievo riguarda l'equilibrio tra diritti e doveri dei cittadini. L'ultimo secolo - che pure tante oppressioni e ingiustizie ha visto consumarsi a carico di milioni di infelici e di deboli - è stato a ragione chiamato "il secolo dei diritti", perché l'uomo "ha preso coscienza di essere titolare di fondamentali esigenze che l'ordinamento giuridico è tenuto a riconoscere e a garantire, e perché la stessa comunità ha superato la "nozione di sudditanza" per approdare a quella di "cittadinanza", mettendo in positiva discussione quel "progetto" di organizzazione dei rapporti tra cittadini e istituzioni, quel sistema integrale ed integrato di diritti e di doveri, che ha costituito e deve tuttora costituire la misura e insieme il terreno di sviluppo di una convivenza solidale e responsabile nel Paese".
Ed è soprattutto sul tasto della responsabilità e della partecipazione dei cittadini che il porporato ha voluto insistere; è infatti indispensabile che il cittadino si riappropri in modo maturo della politica nel senso più alto del termine:  ossia come servizio al bene comune. Una visione che risalta in modo nitido lungo tutto il magistero sociale della Chiesa. Il fine cui essa mira è quello dell'ordine sociale non solamente giusto, ma anche fraterno. "In un mio saggio sull'etica del bene comune - ha ricordato il cardinale Bertone - facevo presente che a nulla gioverebbe, infatti, ridistribuire equamente una ricchezza che fosse stata ottenuta in modo efficiente, ma offendendo la dignità di coloro che hanno concorso a produrla. Cosa ce ne faremmo di una società civile come sfera d'azione "separata" dalla società politica? Ecco perché l'agire socio-politico non può essere riduttivamente concepito nei termini di tutto ciò che serve ad assicurare la "convivenza" sociale (istituzioni, regole, strumenti), ma deve anche, e soprattutto, assicurare la "vita in comune" (...) Ne deriva che l'impegno socio-politico appartiene alla concezione cristiana della vita umana e quindi una critica morale alla vita politica va giudicata pertinente, non giustapposta, all'argomentazione politica".
I cristiani laici per tale ragione non possono in alcun modo estraniarsi dalla partecipazione alla politica così intesa, tenendo presente che il dovere della carità non va inteso solo in termini assistenziali, ma punta costruttivamente a incidere sulla realtà sociale e sul suo reale miglioramento. Carità, che è anche "lotta per la rimozione delle "strutture sociali di peccato"; lotta alla corruzione e all'ingiustizia. Impegno questo che non può essere delegato esclusivamente a chi fa politica in senso stretto:  è piuttosto una responsabilità che interessa tutti (...) che trova nella giustizia e nella carità i suoi stimoli più forti ed efficaci". A tal fine occorre un'intelligenza critica:  potremmo dire una prudenza sociale e politica dice il cardinale Bertone:  "Capace di individuare e di comprendere i reali rapporti esistenti nella comunità, gli effettivi schieramenti degli interessi in conflitto, le forze reali - anche se occulte - che operano nel tessuto sociale e che spesso lo condizionano, come pure i pericoli di manipolazione a cui si è purtroppo sottoposti. Senza un'adeguata vigilanza e un'attenta valutazione delle situazioni e dei problemi, la partecipazione rischia di divenire meramente declamatoria e il cittadino, sostanzialmente suddito, corre il pericolo di essere incanalato - specie nell'attuale società telematica e della comunicazione di massa - in una democrazia formale, che è l'antitesi di una vera democrazia diffusa. Questo dovere di discernimento impone la ricerca di strumenti di conoscenza, di analisi e di controllo, che aiutino a valutare in modo oggettivo la realtà che i vari poteri sono spesso tentati di rappresentare in modo interessato o deformato".



(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)
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00mercoledì 26 novembre 2008 16:31
A cosa serve la letteratura

Un laboratorio fotografico
per vedere meglio la vita


Anticipiamo una sintesi della lezione che si terrà il 26 novembre presso la Pontificia Università Lateranense nell'ambito del corso "La bellezza della fede" organizzato dall'Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma.

di Antonio Spadaro

A che cosa "serve" la letteratura? La letteratura col suo immenso patrimonio di storie, immagini, suoni, personaggi... a che serve? A che "mi" serve? Il rapporto tra la vita e la letteratura, in realtà, è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain:  "La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l'amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi". Ma per andar dove? Probabilmente per uscire dal narcisismo dell'"interiorità" autoreferenziale. L'aveva intuito anche Clemente Rebora, poeta convertito e poi sacerdote e religioso:  "Lungi da me la scappatoia dell'arte / per fuggir la stretta via che salva!". L'arte sarebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell'infinita vanità del tutto. Che farsene, dunque, di parole "scarse, e forse senza sole", come le definiva Sandro Penna, o di "qualche storta sillaba e secca come un ramo" (Eugenio Montale)?
"Mi interessa la poesia che parla di grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo" aveva scritto il poeta e narratore statunitense Raymond Carver. La letteratura "serve" solo se ha a che fare, in un modo o nell'altro, con ciò che vogliamo veramente dalla vita, se entra in un rapporto forte e reale con la nostra esistenza concreta, le sue tensioni essenziali, i suoi desideri e i suoi significati. 
L'uomo fa sempre l'esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande:  vive immerso nel concreto e nell'orizzonte delle cose manipolabili. Ecco allora emergere il significato dell'opera letteraria. Essa è "una sorta di strumento ottico", che consente al lettore di "sviluppare" ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé. È questa, ad esempio, la convinzione radicale dello scrittore francese Marcel Proust. Il ruolo della lettura letteraria è fotografico:  gli uomini spesso non vedono la loro vita e così essa diviene ingombra di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l'intelligenza non le ha "sviluppate". La letteratura è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco dunque a che cosa "serve" la letteratura:  a sviluppare le immagini della vita, a interrogarci sul suo significato e a comprenderlo. Serve dunque, in poche parole, a fare veramente ed efficacemente esperienza della vita.
Un'altra bella immagine per dire il ruolo della letteratura è quella "digestiva". Il suo modello è la ruminatio della mucca, come affermavano il monaco Guillaume de Saint-Thierry e il gesuita Jean-Joseph Surin. Quest'ultimo a sua volta parla di "stomaco dell'anima". Michel De Certeau, gesuita anch'egli, ha addirittura indicato una vera e propria "fisiologia della lettura digestiva". Si può pure dire che la lettura sia uno "stomaco per digerire la realtà" (Pier Vittorio Tondelli). La letteratura è quel linguaggio capace di "trasformare in sé" il mondo e le esperienze:  si tratta di una forma di assimilazione. Ecco:  la letteratura serve a dire la nostra presenza nel mondo, a "digerirla" e assimilarla, a cogliere ciò che va oltre la superficie del vissuto.
Serve dunque a interpretarla, a discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Scrivere poesie, romanzi, racconti, persino fiabe è in se stesso un atto di decifrazione del mondo in cui si vive. Chi legge viene in contatto con questo lavoro di decifrazione, ed è egli stesso coinvolto in questo compito. Viene come "contagiato" a vivere lo stesso processo, sollecitato a guardare la realtà, anche quella personale, con occhi più acuti alla ricerca di simboli, valori, significati. E questo si può certamente definire un lavoro di discernimento culturale.
Possiamo definire il discernimento culturale come la capacità critica di leggere la realtà (personale e sociale) e la cultura che essa incarna, cogliendo atteggiamenti profondi, significati, tensioni fondamentali. Per usare l'immagine di Marcel Proust già prima illustrata, il discernimento è la camera oscura che permette di sviluppare le lastre fotografiche che altrimenti rimarrebbero nere:  è la vita che prende coscienza di se stessa, di ciò che è e del suo mistero. Insomma è vero ciò che ha scritto René Latourelle alla voce Letteratura del suo Dizionario di Teologia Fondamentale:  "La letteratura scaturisce dalla persona in ciò che questa ha di più irriducibile, nel suo mistero. È la vita che prende coscienza di se stessa quando raggiunge la pienezza di espressione, facendo appello a tutte le risorse del linguaggio".
Quando questo discernimento è operato alla luce del Vangelo, allora si può parlare distintamente di un discernimento culturale evangelico. Esso cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme "già" piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. Nel discernimento culturale cristiano non si tratta mai di scegliere o Dio o il mondo, ma piuttosto di cercare e riconoscere Dio nel mondo, che lavora per portarlo al compimento.
Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti aveva scritto che la poesia "scopre gli abissi che abitano l'uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli". A questi abissi la letteratura è dunque "via di accesso":  la letteratura e le arti "cercano di esprimere l'indole propria dell'uomo" e "di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità" (Gaudium et spes, 62). La letteratura, infatti, prende spunto dalla quotidianità della vita, dalle sue passioni e dalle sue vicende reali, l'azione, il lavoro, l'amore, la morte e tutte le povere cose che riempiono la vita, anche dall'incredulità scettica. Tutta la letteratura degna di questo nome, per la sua propria indole, non spiega ma "dispiega" la vita, acuisce la percezione, scopre abissi, rivela dinamiche interiori e profonde. È, in un certo senso, un concentrato di vita.
Persino quando un poeta vuol dire che l'uomo è un assurdo, se il suo modo di porre la questione è radicale, può servire a scuotere le coscienze e interrogarle sul significato del vivere. Così la lettura di certa letteratura dell'assurdo può trasformarsi in un pungolo in grado di scuotere il lettore che non si pone domande, che non ascolta e non fa silenzio, che non percepisce la sua radicale condizione di essere bisognoso di salvezza, perché si considera già sazio e soddisfatto. Si possono leggere, ad esempio, queste righe dello scrittore svedese Stig Dagerman:  "Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa". Queste parole, sebbene possano apparire come la mera negazione di una fede vissuta, sanno parlare molto bene dell'uomo, essere incompiuto in attesa di una consolazione che egli non può darsi da se stesso. Persino la letteratura dell'assurdo può lavorare spiritualmente sul lettore, scuotendolo dalle sue false certezze e apparenze. È la stessa dinamica che può innescarsi leggendo, ad esempio, una celebre poesia di un altro celebre svedese, il poeta Pär Lagerkvist:  "Uno sconosciuto è il mio amico, / uno che io non conosco. / Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia. / Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? / Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza?". Qui il senso di nostalgia e di assenza tende a trasformarsi nel calco vuoto di una presenza misteriosa che si desidera in modo inquieto e struggente.
A questo punto però cambiano i parametri valutativi della "religiosità" di un'opera letteraria. Non sono i contenuti religiosi che la rendono tale. L'opera è religiosa se essa "stimola" nel lettore l'esperienza religiosa della trascendenza e della salvezza o il suo desiderio. Quando si legge, il campo della nostra esperienza si amplia perché "viviamo" cose che altrimenti mai potremmo o vorremmo vivere. Cresce la comprensione dell'uomo e anche la capacità di discernere le emozioni che lo agitano e lo spingono ad agire e a scegliere. Aumenta la capacità di cercare e trovare Dio in tutte le cose, persino nel "territorio del diavolo", come scriveva Flannery O'Connor. Anzi - è sempre la O'Connor a scrivere - "spesso la natura della grazia si può spiegare solo descrivendone l'assenza".



(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)





Nel dialogo fra scienza e teologia

La verità
non richiede salti di frontiera


"La  scienza 400 anni dopo Galileo Galilei. Il valore e la complessità etica della ricerca tecno-scientifica contemporanea" è il titolo del convegno - organizzato dalla Finmeccanica in occasione del 60 ° anniversario della sua fondazione - che si svolgerà mercoledì 26 novembre presso il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia. Anticipiamo l'intervento del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

di Gianfranco Ravasi

Tanti sono i sentieri che intercorrono tra le due cittadelle, non opposte ma distinte, della scienza e della teologia. Ne vogliamo ora imboccare uno solo che ruota attorno a una questione imponente a livello ideale e pratico, quella del rapporto con la verità. Il filosofo greco Protagora (v secolo prima dell'era cristiana) aveva proclamato la convinzione che "l'uomo è la misura di tutte le cose", in pratica è al tempo stesso il giocatore e l'arbitro nella partita della vita:  non c'è una verità assoluta che ci precede, ma è il singolo o il gruppo a determinarla nelle situazioni concrete e mutevoli e secondo gli interessi o i vantaggi contingenti. È quello che potremmo classificare come "soggettivismo" o, per usare un termine caro a Papa Benedetto XVI, come "relativismo". 
L'impostazione classica del rapporto con la verità è, però, stata molto differente. La potremmo formulare con un aforisma dei Minima moralia (1951) di Theodor Adorno:  "La verità non la si ha, ma vi si è, come per la felicità". Già nell'Uomo senza qualità (1930-43) Robert Musil affermava:  "La verità non è un cristallo che si può mettere in tasca, bensì un mare sconfinato in cui ci si immerge". Il vero è visto, dunque, come un primum assoluto che ci precede e verso il quale la ricerca dell'uomo tende. La ragione ha intrinsecamente bisogno di questo nutrimento per il suo stesso esercizio, come in modo altamente simbolico ricordava il Fedro platonico:  "Il motivo per cui le anime mettono tanto impegno per poter vedere la Pianura della Verità è questo:  il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là e la natura dell'ala con cui l'anima può volare si nutre proprio di questo" (248 b-c).
Nella concezione filosofica greca, infatti, come l'eunomía, cioè la legge buona e giusta, è la stella polare che incarna il riferimento capitale della giustizia "oggettiva" in sé stante, fonte della norma etica, così l'alètheia antecede come meta di orientamento l'attività dell'intelletto, rendendo la filosofia nella sua intima essenza ricerca e servizio della verità che la trascende e ne costituisce l'oggetto. Potremmo, perciò, affermare che nella concezione classica l'amore per la verità è il paradigma stesso della ricerca filosofica ed è quindi anche il metro della stessa scientificità. La nuda veritas - per usare la famosa espressione delle Odi di Orazio (i, 24, 7) - è l'unica autorità che va rispettata e accolta.
Questa interpretazione ha retto per secoli non solo il pensiero cristiano ma anche l'investigazione di ogni disciplina, sulla scia del famoso appello agostiniano:  Intellectum valde ama (Epistulae, 120, 3, 13), ama molto l'intelligenza la cui missione radicale è appunto quella di conoscere la verità. E "la ricerca della verità - come ricordava Giovanni Paolo II nel suo discorso per il centenario della nascita di Einstein (1979) - è il compito fondamentale della scienza" stessa, proprio perché, continuava il Papa nell'enciclica Fides et ratio (n. 25), riprendendo il celebre passo d'apertura della Metafisica di Aristotele, "tutti gli uomini desiderano sapere e oggetto proprio di questo desiderio è la verità".
La modernità, però, ha impresso a questa concezione una netta torsione proponendo una visione quasi totalmente alternativa. Il percorso ha avuto i suoi prodromi ideali con Thomas Hobbes allorché nel suo Leviatano (c. xXVI) aveva formulato uno dei principi decisivi del positivismo legislativo:  auctoritas non veritas facit legem. Per quanto riguardava il diritto, quindi, alla verità intrinseca dell'eunomía si opponeva l'autorità civile o religiosa che poteva sancire norme e progetti prescindendo dalla verità superiore. In sintesi, secondo il filosofo inglese del Seicento, "la pretesa di possedere la verità e il diritto di imporla, deve essere esclusa dalla politica e lo stabilire leggi e regole che governano i comportamenti, dovrebbe essere riservato non a coloro che conoscono la "verità", soggetta alle interpretazioni individuali o collettive, ma all'autorità indipendente e incontestabile" (così Davis Gress nel saggio Peace and Survival del 1985).
Questa prospettiva si è allargata progressivamente alla stessa filosofia e alla scienza ed è dilagata ai nostri giorni, mettendo profondamente in crisi la funzione della verità. Anzi, si è divenuti sempre più convinti che la verità non solo non va ricercata né obbedita ma che deve essere accantonata e relegata ai margini di una corretta epistemologia. Illuminante è l'asserto che Patricia Smith Churchland in un articolo apparso nel 1987 sul The Journal of Philosophy ha imposto alla sua concezione della scientificità:  Truth, whatever that is, definitely takes the hindmost, la verità, qualunque essa sia, deve occupare chiaramente non più il primo posto di riferimento, ma dev'essere relegata nelle retrovie, come retroguardia e zavorra del pensiero.
Non è mancato il passo successivo di chi ha esorcizzato il concetto stesso di verità ritenendolo persino nocivo. Sappiamo che il famoso detto di Cristo "La verità vi farà liberi" (Giovanni, 8, 32) ha di per sé come soggetto una particolare accezione di "verità", cioè la rivelazione divina offerta dal Figlio; tuttavia la frase è stata assunta nella storia della tradizione come un'esaltazione della funzione liberatoria e liberatrice della verità. Ebbene, ammiccando proprio alla frase giovannea, Sandra Harding in un suo scritto del 1991 (Whose Science? Whose Knowledge? Thinking from Women's Lives) giunge invece alla sua negazione assoluta, dichiarando che "la verità, qualunque essa sia, non ci farà liberi". Ma è noto che già Michel Foucault a più riprese nei suoi scritti aveva percepito la verità come un grave pericolo dell'intelletto e non certo come una dotazione positiva, incline com'è a essere esclusiva, impositiva, schiavizzante.
È in questo particolare e inedito contesto che si colloca non solo l'affermazione di Benedetto XVI secondo cui "l'èthos della scientificità è volontà di obbedienza alla verità", ma anche l'intera impostazione del suo discorso di Ratisbona, così come non pochi spunti del discorso del 17 gennaio 2008 per l'università "La Sapienza" di Roma. La sua è la proposta di restituire alla verità la propria missione intrinseca, formativa e normativa, il suo primato che non è di dominio ma di liberazione, la sua presenza che non è tirannica ma illuminante. Naturalmente questo è possibile solo con un'inversione di tendenza, come già era suggerito da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio (n. 83):  "È necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante".
E già nel 1984, in occasione della consegna del "Premio Internazionale Paolo VI" a Hans Urs von Balthasar, lo stesso Pontefice aveva ribadito che "amare la verità vuol dire non servirsene, ma servirla; cercarla per se stessa, non piegarla alle proprie utilità e convenienze". Ovviamente questo atteggiamento è indispensabile alla teologia, ma deve ritornare a insediarsi anche nella scienza, superando quella concezione riduttiva secondo la quale essa tende a comprimersi nel perimetro della tecnica, amputando qualsiasi domanda ultima, evitando gli orizzonti teorici fondanti, accontentandosi della mera applicabilità o delle ridondanze esclusivamente etico-sociali. È, al riguardo, significativo quanto già lo stesso Giovanni Paolo II aveva indicato nel discorso tenuto a scienziati e studenti nella cattedrale di Colonia nel 1980 in un passo che ben rifletteva e registrava l'attuale temperie scientifica.
"Se la scienza è intesa essenzialmente come "un fatto tecnico", allora la si può concepire come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico. Come "conoscenza" ha valore quindi ciò che conduce al successo. Il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l'oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in riferimento alla sua funzionalità. Una tale scienza può concepirsi soltanto come pura funzione. Il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato. La stessa ragione appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza e della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto".
Benedetto XVI procede ulteriormente ricordando che il concetto stesso di verità deve essere assunto nella sua massima espansione, superando "la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento" e dischiudendosi alla verità tutta intera:  "In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze". Una visione più piena che non impone salti di frontiera, confondendo i modi specifici e gli statuti propri di ogni disciplina ma ne costituisce il dialogo fecondo e gli incroci positivi, essendo tutte le autentiche ricerche in cammino verso la verità che rende autenticamente liberi.



(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)
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00mercoledì 26 novembre 2008 16:41
Un Sinodo riuscito. Un Sinodo riuscito
L'arcivescovo Nikola Eterovic traccia un bilancio a un mese dalla conclusione dell'assemblea sulla Parola di Dio

Un Sinodo riuscito
che ora va realizzato nella Chiesa


di Francesco M. Valiante

"Un Sinodo riuscito". Anche se ci sarà bisogno ancora di tempo. E di riflessioni e analisi più approfondite per confermarlo. Ma a far sbilanciare già ora un tipo abitualmente misurato come l'arcivescovo Nikola Eterovic è il giudizio degli stessi protagonisti della xii assemblea generale ordinaria svoltasi in Vaticano dal 5 al 26 ottobre scorso. "Il segretario generale è contento dell'esito di un Sinodo - spiega - quando sono contenti quelli che vi partecipano. E mi sembra che siano tornati a casa pieni di entusiasmo un po' tutti i padri sinodali". Vale a dire gli oltre 250 tra cardinali, vescovi, sacerdoti e religiosi, riuniti in rappresentanza di 113 conferenze episcopali dei cinque continenti, di 13 Chiese orientali cattoliche, di 25 dicasteri della Curia romana e di alcuni istituti religiosi:  quasi un piccolo concilio della Chiesa contemporanea, con una significativa presenza di consacrati e laici. "Non vorremmo peccare di presunzione - precisa Eterovic - ma va ricordato che il Sinodo è nato proprio nell'ambito del Vaticano ii. E ha come compito anche quello di favorire l'applicazione delle grandi decisioni conciliari alle mutate condizioni pastorali e sociali delle Chiese particolari". Con un metodo - aggiunge - che "riflette quello del concilio, perfino nella struttura generale del regolamento".
Dal 2004 segretario generale del Sinodo dei vescovi, il presule croato - in un colloquio con chi scrive e con il direttore del nostro giornale - traccia un bilancio complessivo dell'assise dedicata alla Parola di Dio. E mentre passa in rassegna novità, indicazioni, prospettive, guarda già alle prossime tappe del cammino sinodale:  la pubblicazione dell'esortazione apostolica di Benedetto XVI e l'assemblea speciale per l'Africa, in programma nell'ottobre del 2009.

A un mese dalla conclusione, che giudizio ha maturato sull'ultima assemblea sinodale?

Penso che più passa il tempo, più vengono alla luce i suoi aspetti positivi. Come ha detto il Papa, si è trattato veramente di "un evento dello Spirito". Tutti noi ne abbiamo fatto esperienza:  nella preghiera, nella testimonianza, nella riflessione, anche nelle difficoltà legate ai ritmi e alla mole del lavoro affrontato in queste tre settimane. Sempre parafrasando una frase di Benedetto XVI, il Sinodo è stato un'autentica "scuola dell'ascolto". Solo ascoltando si può avere un'idea della ricchezza di culture, di lingue, di situazioni sociali e soprattutto di dinamismo ecclesiale che caratterizza le singole diocesi. Da questa pluralità di partenza si giunge poi a una base comune su cui converge tutto il lavoro dei padri sinodali, un po' come per la Sacra Scrittura:  dalle parole bisogna arrivare alla Parola. La sinodalità, del resto, è una dimensione "costitutiva" della Chiesa, secondo un'altra efficace espressione del Papa.

Ma lei crede che questa assemblea abbia coinvolto realmente tutta la Chiesa o sia rimasta un'esperienza per addetti ai lavori?

Una risposta a questa domanda è già implicita nella rappresentatività dei padri sinodali. Oltre il 70 per cento di loro sono stati eletti dalle conferenze episcopali o da altri organismi collegiali. Questo vuol dire che, una volta tornati nelle loro Chiese particolari, hanno portato agli altri vescovi i risultati di questa esperienza, favorendo la concreta realizzazione del Sinodo. Ovviamente si tratta di un processo lungo. già incominciato, ma deve continuare. E una tappa essenziale sarà l'esortazione apostolica post-sinodale.

Che tempi si prevedono per la sua pubblicazione?

C'è un particolare iter di preparazione, in cui il Consiglio ordinario della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi svolge un ruolo molto importante. Che consiste - se così si può dire - nell'aiutare il Papa a raccogliere i frutti del Sinodo e a formularli nel testo dell'esortazione. Per far questo è necessario un tempo adeguato:  bisogna permettere che questa grande ricchezza si sedimenti e venga assorbita anche attraverso il contatto con le Chiese particolari. La nostra prima riunione dedicata all'esortazione è in programma il 20 gennaio del prossimo anno. Da quell'incontro comincerà il lavoro materiale vero e proprio. Difficile fare previsioni sui tempi. Diciamo che in genere occorre un anno, anche perché il testo dell'esortazione deve essere tradotto nelle varie lingue.

Ma non c'è il rischio che in questo anno si affievoliscano la novità e la vivacità della riflessione scaturita dai lavori?

Non credo, perché quello della Parola di Dio è un tema praticamente eterno:  da duemila anni la Chiesa vive della Parola. C'è anche da considerare che moltissimi vescovi hanno deciso di dedicare proprio a questo tema un anno o addirittura un intero quinquennio pastorale. Dunque è un discorso che nei prossimi mesi sarà ben presente nella riflessione di tutte le Chiese particolari. Il Papa stesso continuerà a tenerlo vivo:  pensiamo, per esempio, alle sue catechesi su san Paolo alle udienze generali. Del resto, noi vogliamo uscire da questa sorta di legge non scritta dei mass media, secondo la quale un avvenimento per essere attuale va tenuto ogni giorno "in prima pagina". Credo che occorra trovare un giusto equilibrio tra l'esigenza di essere aggiornati tempestivamente e la necessità di una riflessione approfondita sui temi sinodali.

A proposito di questo aspetto, lei non ha l'impressione che questo Sinodo abbia fatto un po' fatica a emergere sui mass media, soprattutto su quelli di ispirazione non cattolica?

Paradossalmente potrebbe anche trattarsi di un fatto positivo. Nel senso che spesso il Sinodo fa notizia soltanto per polemiche o presunti "scandali" che vengono tirati fuori ad arte ogni qual volta si discute di certe tematiche. Evidentemente stavolta sono mancati gli spunti, visto il clima autenticamente ecclesiale che ha caratterizzato i lavori.

Eppure si è colta qualche difficoltà, soprattutto nel comunicare il vero tema dell'assemblea:  "Parola di Dio" è stata generalmente tradotta come "Bibbia", anche se in realtà si trattava di un discorso più ampio.

Una delle proposizioni presentate a Benedetto XVI parla proprio del senso "analogico" della Parola di Dio. Il Papa stesso ha sottolineato la sua dimensione "polifonica". In effetti, la Parola per eccellenza è Gesù Cristo. E sicuramente i media non hanno colto in pieno questo aspetto. Diciamo comunque che c'è stata anche un'informazione positiva e puntuale, grazie alla quale molti hanno potuto seguire gli aspetti più importanti dell'attività dell'assemblea:  per esempio gli interventi del Papa, che sono stati sempre molto ricchi e stimolanti. Penso non solo alle omelie delle messe che hanno scandito le settimane del Sinodo, ma al suo contributo diretto al dibattito. Per esempio, la meditazione sull'attualità della Parola di Dio in questo momento di crisi economica e finanziaria - svolta a braccio all'inizio della prima giornata di lavori - ha colpito molto e ha avuto vasta eco anche sui media.

Non crede che questo legame tra Parola di Dio e attualità sociale messo in evidenza da Benedetto XVI non sempre sia stato tenuto in considerazione dagli interventi dei padri sinodali?

Questa impressione, in verità, non rispecchia tutta la ricchezza del Sinodo. Basta guardare i contenuti di alcune delle proposizioni. Dove, per esempio, si parla della riconciliazione e dell'impegno per la costruzione di un mondo giusto e pacifico. La riscoperta della Parola di Dio è un richiamo alla Chiesa perché diventi luogo di riconciliazione. Questo ha conseguenze pastorali importanti, perché ai credenti spetta il dovere di trasmettere la riconciliazione al mondo moderno attraversato da conflitti e tensioni. E Cristo, Parola di Dio, è colui che realmente ci riconcilia con gli altri uomini e con tutto il creato. Questi temi sono stati presenti nella riflessione sinodale. A leggere con attenzione le proposizioni si coglie la loro ricchezza di fondo, che rispecchia - sia pure solo in parte - tutta la vivacità del dibattito del Sinodo.

Qual è il rapporto tra i contenuti del messaggio finale e delle proposizioni?

Con il messaggio i padri sinodali hanno voluto comunicare a tutto il popolo di Dio il clima e i temi principali della riflessione sinodale. È stato pubblicato in varie lingue e ci risulta che sia stato ben accolto. Molti padri hanno assicurato che la prima catechesi sul Sinodo nelle Chiese particolari sarà dedicata proprio al messaggio. Le proposizioni - anche questa volta rese pubbliche con il consenso del Papa - sono invece le linee guida su cui è stato raggiunto il consenso dell'assemblea. Tutte sono state approvate con la maggioranza qualificata - oltre due terzi dei padri - o addirittura all'unanimità. E costituiranno l'ossatura dell'esortazione apostolica post-sinodale.

Uno dei temi più dibattuti negli interventi sinodali è stato quello delle omelie. Lo stesso era avvenuto nel Sinodo del 2005 sull'Eucaristia. In questi tre anni le difficoltà e i problemi evidenziati si sono risolti o accentuati?

Quello delle omelie è un tema molto delicato. Io penso che da parte di tutti - preti e fedeli - ci voglia soprattutto un atteggiamento di ascolto e di disponibilità. L'omelia come comunicazione della dottrina della Chiesa ha per scopo fortificare la fede, chiamare alla conversione e preparare alla attuazione del mistero pasquale nella vita di ogni giorno. Ovviamente il primo a sentirsi interpellato è lo stesso predicatore. Pertanto si deve fare tutto il possibile perché ci sia un'adeguata preparazione, a cominciare dai seminari. Esistono strumenti preziosi in vista di questo scopo. Il Sinodo, per esempio, ha insistito molto sulla lettura frequente della Parola di Dio e sulla lectio divina. E poi siamo in attesa di un direttorio sulle omelie, a cui stanno lavorando la Congregazione per la Dottrina della Fede, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e la Congregazione per il Clero.

Di che cosa si tratta?

È un sussidio richiesto dal Sinodo del 2005 sull'Eucaristia e rilanciato nell'esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis. Costituirà un aiuto importante per trattare tutti i temi essenziali della fede cattolica durante il ciclo liturgico triennale. Ovviamente non conterrà omelie già fatte, ma spunti. Lo stanno preparando diversi esperti e penso che la sua pubblicazione avverrà entro il 2009. Così come non è lontana - dovrebbe essere pronto nei prossimi mesi - la pubblicazione del compendio eucaristico, un altro dei frutti del Sinodo di tre anni fa.

Tra i temi più presenti nel dibattito c'è stato anche quello dell'esegesi biblica, su cui Benedetto XVI ha svolto un intervento chiarificatore. Come è stato accolto dai padri sinodali?

Io considero molto importante - e lo sarà ancor più in prospettiva - la proposta del Papa circa la necessità di superare il dualismo o addirittura la contrapposizione tra i due metodi di lettura e di intelligenza della Scrittura:  il metodo storico-critico e il metodo teologico. Questa unità di metodo è importantissima per gli studi esegetici. Magari può sembrare un tema riservato agli addetti ai lavori, ma in realtà è fondamentale per la vita della Chiesa e per la sua missione. L'indicazione di Benedetto XVI è stata accolta pienamente dai padri sinodali, anche se la sua effettiva realizzazione richiederà del tempo.

Questa assemblea verrà ricordata per due presenze inedite:  per la prima volta nella storia del Sinodo dei vescovi hanno preso la parola un rabbino e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli. Eppure anche in questo caso è sembrato che certe polemiche giornalistiche siano riuscite a sviare l'attenzione dal vero significato di questi due interventi.

Proprio per questo io ribadirei il valore religioso della loro presenza. Quella del rabbino è stata un segno importante di apertura della Chiesa cattolica verso i nostri "fratelli maggiori". Noi lo abbiamo accolto con questo spirito. E la sua testimonianza si è inserita nella nostra riflessione sulla relazione tra Antico e Nuovo Testamento. Alla quale ha dedicato un intervento magistrale il cardinale Vanhoye, riproponendo il documento della Pontificia Commissione Biblica dedicato a "Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana". Un intervento, quello del porporato, rivelatosi molto utile all'inizio della riflessione sinodale, perché ha aiutato a calarsi nella grande e viva tradizione della Chiesa che si fonda sull'Antico Testamento, dove noi riconosciamo anche le radici del popolo ebraico. Così la presenza del rabbino ha sottolineato gli aspetti comuni, ma ha offerto anche l'occasione per riproporre una lettura cristiana delle Scritture. Quanto al Patriarca ecumenico, direi che il momento di preghiera nella Cappella Sistina alla presenza dei padri sinodali sia da considerarsi un avvenimento importantissimo, che lo stesso Benedetto XVI ha sottolineato con parole eloquenti. Affermando esplicitamente davanti a Bartolomeo:  "In questo momento abbiamo realmente vissuto il Sinodo".

In questo senso, ritiene che la presenza del Patriarca ecumenico abbia aiutato a valorizzare meglio la dimensione della sinodalità, caratteristica di tutta la Chiesa ma indubbiamente percepita in modo più chiaro dalle Chiese orientali cattoliche e ortodosse?

Certamente il mondo orientale è molto sensibile alla dimensione della sinodalità. Una sensibilità che, peraltro, anche a noi non manca. Ovviamente le nostre differenze vertono sulla questione del primato. Noi abbiamo il privilegio di avere un primato, che si esercita in modo personale ma anche collegiale. In questo senso il Sinodo dei vescovi è un aiuto per il Papa, perché favorisce questa dimensione collegiale - si potrebbe dire proprio "sinodale" - del primato. Tutti i vescovi cattolici, di tradizione latina e orientale, hanno bisogno di questo centro di unità e di carità rappresentato dal vescovo di Roma. Devo dire, comunque, che anche gli ortodossi hanno mostrato grande apertura sulla necessità di avere un punto fermo in ordine al primato. Anche se sul modo di esercitarlo non c'è ancora consenso.

Il Sinodo sulla Parola può aprire prospettive nuove in questa direzione?

L'intervento di Bartolomeo, ma anche la presenza dei delegati fraterni, ha confermato che è in atto uno scambio di doni significativo con i nostri fratelli delle Chiese ortodosse. Ai quali siamo già uniti, anche se l'unione non è ancora piena. Molti sono stati colpiti dall'espressione usata da Benedetto XVI durante l'incontro in Sistina con il Patriarca ecumenico:  "Se abbiamo Padri comuni, come potremmo non essere fratelli tra noi?". Certo, non tutte le Chiese ortodosse hanno lo stesso ritmo ecumenico. La sinodalità è un po' anche questo:  avere pazienza con coloro che sono un po' indietro. Peraltro, io ho trovato molto significativo l'apprezzamento manifestato dai delegati fraterni che hanno partecipato ai lavori. Alcuni avevano forse un'idea troppo verticistica e gerarchica della Chiesa cattolica. Ed è bene, invece, che abbiano visto come si lavora realmente in un Sinodo. Noi non abbiamo niente da nascondere, soprattutto sulla Sacra Scrittura. Che prima era motivo di divisione. Ma ora, riscoperta con obiettività e serenità, sta diventando un denominatore comune che avvicina.

Anche alle altre religioni?

Io penso che il Sinodo abbia avuto e avrà ripercussioni importanti col mondo ebraico e con l'islam. Ho già detto che è stata molto importante la presenza del rabbino. E vorrei ricordare che una delle proposizioni elaborate dai padri sinodali è dedicata al dialogo coi musulmani. Ai quali chiediamo collaborazione ma anche reciprocità e rispetto della libertà di coscienza e di religione. Si stanno facendo dei passi notevoli in questo senso - pensiamo al primo seminario del forum cattolico-musulmano svoltosi a Roma appena pochi giorni dopo la conclusione del Sinodo - anche se noi vorremmo che fossero più spediti.

A confronto con gli ortodossi e, soprattutto, con i protestanti, i cattolici hanno fama di conoscere poco le Sacre Scritture. Dal suo punto di osservazione privilegiato, qual è lo stato di salute biblica del cattolico medio?

Grazie a Dio non è così critico. Ci salvano i praticanti, coloro che frequentano l'Eucaristia tutte le domeniche e i giorni di precetto. È proprio lì, nella liturgia, che apprendono la familiarità con la Parola di Dio. Quello su cui siamo più carenti invece è il rapporto personale e familiare con la Bibbia. Si tratta di una necessità irrinunciabile, anche per poter dare ragione della nostra fede agli altri. Ma, al di là dell'aspetto confessionale, resta comunque un'esigenza culturale. Perché la Bibbia è il codice della civiltà occidentale.

Questo è il suo secondo Sinodo da Segretario generale. Ed è anche il secondo di Joseph Ratzinger da Pontefice. Tra l'assemblea del 2005 sull'Eucaristia e questa del 2008 sulla Parola di Dio quali sono le somiglianze, le differenze, gli sviluppi?

Penso anzitutto che sia stata una grazia aver partecipato a questi Sinodi su due grandi temi della nostra fede. Il legame tra di loro è evidente ed è racchiuso nella liturgia. Siamo partiti dalla mensa del Pane spezzato e siamo arrivati alla mensa della Parola. Si tratta di un unico atto di culto. Il tema del Sinodo di quest'anno è il naturale completamento di quello di tre anni fa.

È stato il Papa a scegliere questo tema?

Sì, dopo che - come sempre avviene - abbiamo consultato l'episcopato mondiale. Quando termina un Sinodo, il Segretario generale scrive a tutte le Conferenze episcopali, ai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche, ai dicasteri della Curia romana, all'Unione dei superiori generali, e chiede di indicare tre temi che potrebbero essere oggetto della successiva assemblea:  in questo caso, la maggioranza delle segnalazioni ha riguardato la Parola di Dio. Proprio seguendo questa prassi, abbiamo già dato il via alla consultazione per il tema del prossimo Sinodo dei vescovi.

Già nello scorso Sinodo sono state introdotte innovazioni significative:  i lavori sono stati concentrati in tre settimane, è stata ridotta la durata degli interventi e ampliata quella della discussione libera in aula. Sono tutte novità positive?

Senz'altro. Penso che abbiano dato un rinnovato dinamismo al Sinodo. Come è giusto che sia, perché un'istituzione al servizio della collegialità e della comunione episcopale deve continuamente rinnovarsi. Anche il nuovo Ordo Synodi Episcoporum, approvato nel 2006, riflette questa volontà di adeguare le norme giuridiche alla realtà in continuo sviluppo.

Riguardo alla discussione libera, in particolare, lei pensa che sia stata un'opportunità utilizzata in modo soddisfacente dai padri sinodali?

Il momento del dibattito libero ha avuto un duplice aspetto. In alcuni casi ci sono state discussioni "a tema" molto riuscite:  per esempio, quella sulla ricezione della Sacramentum caritatis o quella sul messaggio finale. Altre volte, invece, il confronto è stato un po' "a ruota libera". Abbiamo pensato che fosse utile lasciare una certa libertà ai padri sinodali, senza imporre alcuna discussione accademica o specialistica. Mi sembra che in questo Sinodo i vescovi abbiamo profittato maggiormente della discussione libera rispetto a tre anni fa. Si tratta comunque di una novità. E come tale va sottoposta a verifica. In futuro non è escluso che i presidenti delegati possano intervenire più incisivamente, moderando e orientando gli interventi. Personalmente credo che in genere sia meglio lasciare libertà di espressione, perché questo è uno stimolo ulteriore a intervenire anche per chi è più esitante. E ritengo che il risultato ottenuto sinora sia molto positivo.

Si può dire, alla fine, che il Sinodo sia un'istituzione riuscita?

Sì. Ovviamente è sempre aperta alla possibilità di miglioramento. Di per sé è già un evento eccezionale il fatto che la Chiesa cattolica, così grande e diffusa in tutto il mondo, per mezzo dei suoi Pastori abbia la possibilità di incontrarsi e di confrontarsi intorno al Papa. A questo proposito, devo sottolineare il generale apprezzamento per la disponibilità di Benedetto XVI all'ascolto e al dialogo anche personale con ciascuno dei vescovi. Tutti singolarmente hanno potuto incontrare e salutare il Pontefice.

Il Papa è stato più presente nel Sinodo del 2005 o in questo?

Credo che le presenze si equivalgano. Quando gli impegni glielo hanno permesso, ha preso parte ai lavori sempre con disponibilità. Ha pregato con i padri sinodali, ha seguito gli interventi, addirittura sottolineando i testi e prendendo appunti. Lui stesso ha confessato che è stato commovente partecipare al Sinodo. E se lo dice lui, che è stato un grande padre sinodale - è stato presente a quasi tutte le assemblee celebrate sino a oggi -, gli si può credere.

Sono previsti novità o ritocchi in vista del prossimo Sinodo?

Noi siamo aperti a ogni proposta. Gli stessi padri sinodali ci hanno offerto vari suggerimenti. Anche se talvolta le sollecitazioni andavano in senso diametralmente opposto. Per esempio, alcuni hanno fatto notare che la prima parte dei lavori dedicata agli interventi - stavolta sono stati ben 223 - risulta pesante. Altri, invece, l'hanno giudicata molto arricchente e interessante. Direi che in questo momento dobbiamo concentrarci sulla messa a punto delle novità già introdotte, anche perché la prossima assemblea speciale per l'Africa è ormai alle porte.

A che punto è la preparazione?

È già a buon punto. Il tema di riflessione sarà:  "La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. "Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo" (Matteo 5, 13.14)". Il Papa ha stabilito che si celebrerà dal 4 al 25 ottobre 2009 e ha annunciato che andrà in Camerun nel prossimo marzo per presentare l'Instrumentum laboris ai presidenti delle Conferenze episcopali africane. Si tratta di 36 presidenti in rappresentanza di 56 Paesi dell'Africa. Noi stiamo già preparando questo documento con il Consiglio speciale per l'Africa della Segreteria Generale del Sinodo dei vescovi, che si riunisce proprio da domani, 27 novembre. Insomma, non si può proprio dire che il lavoro ci manchi.



(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)

zsbc08
00giovedì 27 novembre 2008 12:08
All'udienza generale il Papa ricorda che l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti ma dall'amicizia con Gesù

Una fede incarnata nell'amore
evita divisioni nella Chiesa


"La fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità". Lo ha ricordato Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 26 novembre, nell'Aula Paolo VI. Nella catechesi il Papa ha sottolineato che "la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell'amore".

Cari fratelli e sorelle,
nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l'uomo diventi giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l'uomo non è in grado di farsi "giusto" con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire "giusto" davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua "giustizia" unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l'uomo l'ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice:  non le nostre opere, ma la fede ci rende "giusti". Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione, un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta. 
Abbiamo quindi trovato nell'ultima catechesi due livelli:  quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della "giustificazione" mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l'accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere:  "In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5, 6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le "opere della carne" che sono "fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria..." (Gal 5, 19-21):  tutte opere contrarie alla fede; dall'altra, vi è l'azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5, 22):  sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.
All'inizio di quest'elenco di virtù è citata l'agape, l'amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l'Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l'agape, nei nostri cuori (cfr. Rm 5, 5); e l'agape, l'amore, per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. Dell'amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica:  Deus caritas est. I credenti sanno che nell'amore vicendevole s'incarna l'amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell'amore (cfr. Gal 6, 2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell'amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell'ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell'amore. È il cosiddetto inno alla carità:  "Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse..." (1 Cor 13, 1.4-5). L'amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall'amore totale di Cristo per noi:  quell'amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per "Colui che è morto e risorto per noi" (cfr. 2 Cor 5, 15). L'amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr. 2 Cor 5, 17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa.
Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell'amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista un'infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive:  "Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta" (2, 26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l'accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr. Gc 2, 2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell'amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata "con rispetto e timore. È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d'amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare... tenendo salda la parola di vita", dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr. Fil 2, 12-14.16).
Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto:  quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, "tutto fosse loro lecito". E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l'Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s'incarna nell'amore, perché si riduce all'arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr. 1 Cor 6, 19). Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto "ragionevole" e insieme "spirituale", per cui siamo esortati da Paolo a "offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12, 1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l'Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti "dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male" (2 Cor 5, 10; cfr. anche Rm 2, 16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno.
Se l'etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale:  l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita:  se è vera si incarna e si realizza nell'amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria:  da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall'amore "folle" di Dio per noi:  nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr. Rm 8, 39). In questa certezza viviamo. È questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell'amore.


(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2008)
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Il saluto di Benedetto XVI al Catholicos di Cilicia degli Armeni presente nell'Aula Paolo VI

Procediamo
verso la piena comunione


 Presenza inedita all'udienza generale di mercoledì 26 novembre. Il Papa ha fatto ingresso nell'Aula Paolo VI insieme con il Catholicos di Cilicia degli Armeni Aram I - in visita in questi giorni a Roma - e, prima di tenere la catechesi su san Paolo, gli ha rivolto un breve saluto in lingua inglese.
This morning I greet with great joy His Holiness Aram I, Catholicos of Cilicia of the Armenians, together with the distinguished delegation accompanying him, and the Armenian pilgrims from various countries. This fraternal visit is a significant occasion for strengthening the bonds of unity already existing between us, as we journey towards that full communion which is both the goal set before all Christ's followers and a gift to be implored daily from the Lord.
For this reason, Your Holiness, I invoke the grace of the Holy Spirit on your pilgrimage to the tombs of the Apostles Peter and Paul, and I invite all present to pray fervently to the Lord that your visit, and our meetings, will mark a further step along the path towards full unity.
Your Holiness, I wish to express my particular gratitude for your constant personal involvement in the field of ecumenism, especially in the International Joint Commission for Theological Dialogue between the Catholic Church and the Oriental Orthodox Churches, and in the World Council of Churches.
On the exterior façade of the Vatican Basilica is a statue of Saint Gregory the Illuminator, founder of the Armenian Church, whom one of your historians has called "our progenitor and father in the Gospel". The presence of this statue evokes the sufferings he endured in bringing the Armenian people to Christianity, but it also recalls the many martyrs and confessors of the faith whose witness bore rich fruit in the history of your people. Armenian culture and spirituality are pervaded by pride in this witness of their forefathers, who suffered with fidelity and courage in communion with the Lamb slain for the salvation of the world.
Welcome, Your Holiness, dear Bishops and dear friends! Together let us invoke the intercession of Saint Gregory the Illuminator and above all the Virgin Mother of God, so that they will enlighten our way and guide it towards the fullness of that unity which we all desire.

Pubblichiamo di seguito una nostra traduzione italiana delle parole del Papa.

Questa mattina saluto con grande gioia Sua Santità Aram I, Catholicos di Cilicia degli Armeni, insieme alla distinta delegazione che lo accompagna e ai pellegrini armeni dei vari Paesi. Questa visita fraterna è un'occasione significativa per rafforzare i vincoli di unità già esistenti fra noi, mentre procediamo verso la piena comunione che è sia un obiettivo di tutti i seguaci di Cristo sia un dono da implorare ogni giorno dal Signore.
Per questo motivo, Santità, invoco la grazia dello Spirito Santo sul suo pellegrinaggio presso le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e invito tutti i presenti a pregare con fervore il Signore affinché la sua visita e i nostri incontri siano un ulteriore passo avanti lungo il cammino verso la piena unità.
Santità, desidero esprimere particolare gratitudine per il suo costante impegno personale nel campo dell'ecumenismo, in particolare nella Commissione congiunta Internazionale per il Dialogo Teologico fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali e nel Consiglio Mondiale delle Chiese.
Sulla facciata esterna della basilica di San Pietro c'è una statua di San Gregorio l'Illuminatore, fondatore della Chiesa armena, che uno dei vostri storici ha definito "nostro progenitore e padre del Vangelo". La presenza di questa statua evoca le sofferenze che ha sopportato nel condurre il popolo armeno al cristianesimo, ma ricorda anche i numerosi martiri e confessori della fede la cui testimonianza ha recato frutti abbondanti nella storia del vostro popolo. La cultura e la spiritualità armene sono pervase dall'orgoglio di questa testimonianza dei loro antenati, che hanno sofferto con fedeltà e coraggio in comunione con l'Agnello ucciso per la salvezza del mondo.
Benvenuti, Santità, cari Vescovi e cari amici! Insieme invochiamo l'intercessione di San Gregorio l'Illuminatore e soprattutto la Vergine Madre di Dio cosicché illuminino il nostro cammino verso la pienezza di quell'unità che noi tutti desideriamo.



(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2008)
zsbc08
00venerdì 28 novembre 2008 09:43
Le riflessioni del vescovo di Nashik e dell'arcivescovo di Kerkûk dei Caldei al convegno della Conferenza episcopale italiana

La giustizia e l'uguaglianza
contro le violenze nel mondo

  Roma, 27. Un appello a spezzare la catena delle violenze nel mondo, in particolare nei confronti delle comunità cristiane, è stato lanciato oggi dal vescovo di Nashik, Felix Anthony Machado, e dall'arcivescovo di Kerkûk dei Caldei, Louis Sako, nel corso dei loro interventi di riflessione sul tema "La difficile testimonianza dei cristiani in Oriente. L'Iraq e l'India", al convegno nazionale dei delegati diocesani per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso. L'iniziativa è stata organizzata dall'Ufficio nazionale per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana.
Il vescovo Machado, nativo della città di Mumbai, in India, si è riferito in primo luogo ai tragici attentati terroristici avvenuti ieri nella città e ha sottolineato:  "La violenza è sempre una catena. Uno fa qualche cosa, l'altro risponde con la violenza, non si finisce mai. Come cristiano, penso alle parole di Gesù, perché si fermi questa catena".
Per il presule, a volte, dietro a queste tragedie "si danno una faccia e un nome, ma dobbiamo vedere in realtà cosa c'è dietro". E, a tal proposito, ha parlato di "ineguaglianza, assenza di giustizia, mancanza di comprensione e soprattutto di coraggio nel dialogo". Monsignor Machado ha ricordato che la violenza in una parte del mondo non è isolata. "Il mondo - ha affermato il presule - è un villaggio per cui tutti gli sforzi che si possono fare, si facciano ovunque".
Alle azioni terroristiche in India ha fatto poi anche riferimento, tra l'altro, il vescovo di Terni-Narni-Amelia, Vincenzo Paglia, presidente della Commissione episcopale per l'ecumenismo e il dialogo. "L'India deve resistere - ha detto il presule - deve essere forte, non deve lasciarsi intimidire da queste schegge impazzite, che sono solo al servizio del male".
Monsignor Paglia ha poi messo in rilievo il pericolo dell'intrecciarsi dei conflitti nel mondo. "Purtroppo quanto accaduto ieri - ha osservato il vescovo - rischia di legarsi ai tanti focolai di conflitto che esistono non solo in India ma in tante parti del mondo. Ecco perché da tutte le religioni e uomini di buona volontà deve sorgere un grande sdegno e un impegno a intraprendere la faticosa ma altrettanto straordinaria strada della pace".
L'arcivescovo Sako da parte sua ha ribadito la difficile situazione in cui versa la comunità cristiana in Iraq. Per il presule "l'Iraq senza cristiani è un Paese più povero". E ha specificato:  "Sarebbe disastroso per la convivenza, per la tolleranza e, questo, non solo per l'Iraq ma per tutto il Medio Oriente". L'arcivescovo ha ribadito, infine, che i cristiani in Iraq hanno sempre agito con fedeltà, lealtà e onestà verso il Paese. Ha poi concluso:  "Ai nostri fratelli musulmani testimoniamo la nostra fede in Dio con la fedeltà, la morale cristiana, la pazienza, il perdono e l'umiltà".


(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)




A colloquio con Éric Jacquinet, nuovo responsabile della sezione giovani del Pontificio Consiglio per i Laici

La Chiesa deve imparare
il linguaggio delle nuove generazioni


di Gianluca Biccini
La sezione giovani del Pontificio Consiglio per i Laici ha un nuovo responsabile:  è Éric Jacquinet, sacerdote quarantaseienne francese, che come il suo predecessore Francis Kohn appartiene alla comunità dell'Emmanuel, proviene dall'arcidiocesi di Lyon e ha una grande esperienza di pastorale giovanile. In quest'intervista al nostro giornale parla in un buon italiano delle aspettative, delle speranze e soprattutto delle sfide che lo attendono.
Da giovane pellegrino alle Giornate mondiali della gioventù negli anni Ottanta a incaricato dell'organizzazione della prossima Gmg, in programma a Madrid nel 2011.
Prima dell'ordinazione sacerdotale avevo partecipato alle Gmg di Roma 1985 e di Santiago de Compostela 1989, quando già frequentavo la Comunità dell'Emmanuel. Questa realtà germogliata in seno al rinnovamento carismatico è nata a Parigi nel 1972 su iniziativa di Pierre Goursat e Martine Laffitte ed è oggi presente in 70 Paesi.
A Santiago ero responsabile di un pullman con ventiquattro giovani francesi e altrettanti fedeli dell'allora Cecoslovacchia. Fu così che conobbi la Chiesa delle catacombe:  avevano il permesso di viaggiare solo per motivi turistici, non religiosi, e tra loro c'era un sacerdote clandestino. Alcune cose mi colpirono molto:  che solo due persone del gruppo sapevano della sua vera identità, che non vestiva la talare né poteva concelebrare l'Eucaristia. Soprattutto mi rimase impressa una frase che mi disse:  "Le cose cambieranno tra poco". E alla fine di quello stesso anno crollò il Muro di Berlino.

E da sacerdote ha partecipato alle altre Gmg?

Sì, a quella del 1997 a Parigi, mentre mi rammarico di non aver potuto essere a Roma nel 2000:  ma ricordo di aver registrato l'omelia di Giovanni Paolo ii e di averla ritrasmessa nella mia parrocchia li0nese.

E poi c'è stata Sydney, la scorsa estate, quando ormai già sapeva del suo nuovo incarico. Com'è andata?

È stata un'esperienza di studio, di formazione, una sorta di passaggio di consegne, nella quale ho imparato molto dal punto di vista del lavoro che mi attende. Ma ho anche potuto vedere come questa metropoli australiana fortemente secolarizzata sia stata trasformata dalla presenza dei giovani nelle strade. Gli stessi sacerdoti locali, alcuni dei quali erano scettici, hanno dovuto ricredersi, perché lo Spirito ha fatto qualcosa di grandioso e il cardinale Pell ha vinto la sfida.

Facciamo un passo indietro e ripercorriamo le tappe principali della sua formazione.

Ho studiato all'Università Cattolica di Lione e per tre anni a Roma al Pontificio Seminario francese e alla Gregoriana. Sono stato ordinato sacerdote nel 1992 dal compianto cardinale Albert Decourtray, che mi nominò vicario per la pastorale giovanile nella cattedrale di San Giovanni; incarico che ho poi ricoperto anche in seno alla mia Comunità.

Successivamente ha svolto il ministero pastorale in due parrocchie dai contesti sociali molto differenti. Quali ricordi conserva?

Nel 1996 sono stato parroco a Saint-Nizer, grande comunità della borghesia di Lione, che una volta assegnata all'Emmanuel è divenuta un centro vivo di formazione e di missione. Poi nel 2004 l'attuale arcivescovo, il cardinale Philippe Barbarin, mi ha affidato la pastorale sacramentale diocesana e l'anno successivo la parrocchia di Vénissieux.

L'antica parrocchia del beato Antoine Chevrier, fondatore della società dei preti del Prado. Dalla Lione-bene a una realtà periferica con tanti problemi?

Un quartiere popolare, segnato dalla presenza di molti immigrati. Una sfida difficile che, confesso, affrontai con la paura nel cuore. Sul territorio, tra i ventinquemila abitanti, i cristiani sono una minoranza. Coadiuvato dall'associazione Le Rocher, che in seno alla comunità dell'Emmanuel lavora per una presenza cristiana nelle periferie difficili, andavamo a evangelizzare porta a porta.

E qual è stata la risposta dei giovani?

A Vénissieux il 65 per cento dei ragazzi ha i genitori separati, ma io ho sempre detto che finché il Signore ama tutti c'è speranza. Oggi notiamo un'incapacità di trasmettere la fede all'interno delle famiglie. La maggior parte delle persone pensa che per una cultura cristiana basti il catechismo e in casa non si fa nulla per avvicinare le nuove generazioni alla fede.

Aumenta così il numero dei lontani?

Sempre più. Oggi non sembra esserci neanche contestazione:  questi giovani non hanno qualcosa "contro" la Chiesa, semplicemente non ne sanno nulla, non la conoscono.

Eppure non manca un certo bisogno di spiritualità?

Piuttosto direi che c'è un desiderio affettivo forte, il quale ingenera una certa confusione con l'esperienza spirituale. In Francia si vanno diffondendo gruppi di preghiera i cui promotori sembrano avere sentimenti molto forti e intensi, ma questo non basta per costruire persone adulte nella fede. Anche chi partecipa alle Gmg, del resto, va accompagnato in una crescita di fede matura, come auspicato da Benedetto XVI.

Ha già pronta una ricetta?

Dobbiamo saper parlare di speranza ai giovani, poiché la vera questione è che abbiamo bisogno di loro per costruire il futuro.

Il tutto nella prospettiva della prossima Gmg madrilena.

Siamo ancora nella fase della riflessione, in attesa che il Papa indichi il prossimo tema. Il cardinale Rylko, presidente  del  nostro  dicastero, ha già incontrato l'arcivescovo della capitale spagnola, il cardinale Rouco Varela, e si stanno coinvolgendo altre diocesi della Spagna, perché con il tempo si è maturata la consapevolezza che la storia delle Gmg è anche fatta dall'accoglienza offerta dalle Chiese locali.

Chi saranno i suoi interlocutori?

Desidero lavorare con tutti, soprattutto con le delegazioni della pastorale giovanile dei cinque continenti:  il primo impegno è quello di mantenere i contatti. Ma mi rendo conto che non c'è solo la Gmg; un aspetto importante è l'accompagnamento dei responsabili di gruppi e associazioni giovanili.

Da dove pensa di cominciare?

C'è bisogno di luoghi di riflessione per una generazione sempre più fragile. Basta guardare alle cappelle universitare sempre più vuote, mentre ci danno speranza alcune esperienze con una storia consolidata come gli scout e i salesiani. Vanno realizzate vere "scuole di vita" che educhino alla fede.

E come pensa di fare?

Un modo potrebbe essere quello di far ripartire i convegni internazionali di pastorale giovanile, come era già stato fatto in Europa a partire dal 1994:  Roma, Loreto e Paderborn.

La Gmg di Sydney ha messo in luce il ruolo di nuovi mezzi di comunicazione capaci di parlare il linguaggio dei giovani. Ritiene che i telefonini e la rete siano un valido strumento di evangelizzazione?

Certamente. Ma ripeto che il problema è alla radice, in quel vuoto che i giovani hanno bisogno di riempire e per colmare il quale dobbiamo dare risposte concrete. Prendiamo l'esempio di internet:  è interessante, però se si passano tante ore al giorno a navigare si rischia di estraniarsi dalla realtà.

Ha un sogno nel cassetto?

Spero di viaggiare molto:  ho ricevuto inviti dal Bahrain, dall'Ucraina, dal Québec e dal Brasile. In particolare mi chiedo spesso cosa fare per l'Africa, che non ha mai avuto la gioia di una Giornata mondiale della gioventù. Non possiamo abbandonare un Continente molto importante, che soffre molto, e ritengo che il viaggio del Papa in questo continente sarà imporantissimo per la fede degli africani.

Nei giorni scorsi si è riunita l'assemblea plenaria del Pontificio Consiglio. Quali impegni ne sono scaturiti per la sezione giovani?

Il primo grande appuntamento è per l'aprile 2009:  da giovedì 2 a domenica 5 ci riuniremo per tracciare un bilancio delle giornate di Sydney 2008 e il lancio di quelle di Madrid 2011; poi ci sarà la celebrazione della domenica delle palme con il tradizionale appuntamento dei giovani a livello diocesano:  nell'occasione in San Pietro ci sarà il passaggio della croce e dell'icona mariana delle Gmg dalle mani dei giovani australiani a quelle dei coetanei spagnoli. Stiamo anche preparando il decimo Forum Internazionale, che si terrà nel marzo 2010 su un tema cruciale:  l'educazione all'amore.


(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)



L'incontro dei direttori dei centri culturali cattolici d'Africa

Il Vangelo non soffoca
ma valorizza la cultura di un popolo

 "Africani e cattolici". È questa l'identità dei centri culturali del Continente tratteggiata da padre Bernard Ardura, segretario del Pontificio Consiglio della Cultura, nel suo intervento di apertura sul tema "La nostra identità culturale:  un'eredità di valori, una capacità di dialogo", del secondo incontro dei direttori dei centri culturali cattolici d'Africa, che si svolge dal 26 al 29 novembre a Ouagodougou in Burkina Faso.
"Africani e cattolici:  offrite la prova - ha detto padre Ardura - che l'espressione più autentica dell'anima di un popolo si rivela quando è toccata dal Vangelo di Cristo che la purifica e le conferisce una nuova fecondità, poiché la Buona Novella si inserisce sempre in una cultura locale e le permette di trasformare la vita quotidiana per mezzo dei valori evangelici che contribuiscono ad arricchire il patrimonio costituito nel corso dei secoli da costumi e da tradizioni".
Ogni Paese e ogni comunità ha una sua specifica cultura. Ciò è tanto più vero in Africa, dove i gruppi etnici e le lingue parlate sono molto numerose. Al di là di questa varietà, l'Africa possiede "un fondo comune di valori tradizionali che esprimono le ricchezze fondamentali del genere umano". Nonostante i rischi della mondializzazione, padre Ardura ha invitato i direttori dei centri culturali a far sì che l'identità culturale non sia "un monumento del passato", perché "i nostri valori non sono dei pezzi da museo:  occorre che oggi siano una risorsa per irrigare le società contemporanee". Fin dai primi secoli, anche i cristiani hanno recepito gli apporti provenienti da culture e da tradizioni religiose d'origine giudaica e perfino pagana. "Questa è una realtà storica di cui dobbiamo scoprire la profonda dimensione religiosa". Il messaggio evangelico, ha precisato padre Ardura, deve essere presentato alle differenti culture "affinché germoglino e portino un frutto abbondante". "Non solo la trasfigurazione dei nostri valori per mezzo di Cristo - ha aggiunto il segretario del Pontificio Consiglio - non implica una perdita della nostra identità culturale, ma tende anche a valorizzare la cultura locale, stimolandola e aiutandola a produrre nuovi frutti e a un livello più elevato, al quale permette di accedere la presenza di Cristo con la grazia dello Spirito Santo e la luce del Vangelo".
Questo significa che i centri culturali cattolici hanno una missione educativa. "Essi devono - ha affermato il religioso premostratense - attingere alle immense risorse culturali e morali, religiose e artistiche dell'Africa, affinché gli africani restino sempre coscienti della loro identità culturale tradizionale, aprendosi a quanto vi è di meglio nell'insieme della società umana. Voi ne fate l'esperienza, in quanto cristiani. Il Vangelo di Cristo, che è un'istanza critica di tutte le culture, richiede una reinterpretazione e degli adattamenti del nostro patrimonio culturale al fine di promuovere i valori che le costituiscono e che sono più in armonia con la vocazione e la dignità della persona umana. Siccome è nella vostra cultura che siete chiamati a vivere e a esprimere la vostra fede cristiana, dovete essere particolarmente attenti a ben conoscere e a trasmettere questo patrimonio che è la vostra ricchezza e la vostra identità".
In particolare, padre Ardura ha sottolineato come la cultura debba condurre la persona umana alla sua piena realizzazione nel suo rapporto alla trascendenza e impedire che si dissolva nel materialismo e nel consumismo. Per quanto riguarda l'inculturazione, essa "ha per scopo di insegnarci a parlare la lingua di Dio nelle lingue degli uomini, in modo che tutti possano lodare il Padre dei cieli nella loro propria cultura. Così dobbiamo imparare a dialogare con coloro che ci appaiono differenti eppure appartengono fondamentalmente, come noi, all'unica natura umana. Aggiungiamo che in quanto cristiani, siamo convinti che l'altro, tutti gli altri, appartengono già o sono ordinati a far parte dell'unica Chiesa famiglia di Dio".
Davanti alle sfide della mondializzazione, c'è sempre il rischio "di identificare in maniera esclusiva la nostra propria cultura con il nostro Paese, la nostra regione, la nostra etnia, il nostro villaggio, ma questo genere di risposte priva in qualche modo la nostra identità culturale della sua capacità di dialogo con le altre culture". Rivolgendosi ai direttori presenti, padre Ardura ha concluso dicendo che i centri culturali cattolici "hanno per prima missione di essere delle scuole d'umanità, dei luoghi privilegiati della formazione delle persone e della società".


(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)    La prolusione per l'apertura dell'anno accademico della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale

Il dialogo tra le religioni
Un rischio da correre



"Il dialogo interreligioso:  una grazia o un rischio?":  se lo chiede il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, nella prolusione per l'inaugurazione dell'anno accademico 2008-2009 della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale, tenutasi a Napoli. Qui di seguito pubblichiamo ampi stralci del discorso del porporato.


di Jean-Louis Tauran

Viviamo in società pluri-culturali e pluri-religiose:  è un'evidenza. La tesi di Huntington, lo scontro delle civiltà, si è rivelata falsa:  proclamare che il mondo è diviso fra sei o sette civiltà differenti, destinate ad affrontarsi, non regge. Non esiste una civiltà religiosamente pura. Esistono soltanto civiltà composite, che evolvono e che si trasformano con un processo permanente di interazione. In Italia, per esempio, un bambino sin dall'asilo pratica il dialogo interreligioso:  si trova in mezzo a compagni musulmani, a volte buddisti, eccetera. Come ha dimostrato Paul Tillich, la storia non conosce una cultura che non sia religiosa.
L'altro giorno in un'edicola dell'aeroporto ho visto tanti libri e le riviste che trattavano argomenti religiosi, esoterici o comunque riferiti a nuove religioni. Non si è mai parlato tanto di religioni come oggi (Gilles Kepel, La Revanche de Dieu). Il presidente francese Sarkozy, ricevendo il Corpo diplomatico all'inizio di quest'anno, ha affermato che, secondo lui, due argomenti determineranno la fisionomia delle società del xxi secolo:  le questioni ambientali e quelle religiose. Come ha fatto Dio a ritornare nelle nostre società? Questo, secondo me, è il grande paradosso. Grazie ai musulmani! Sono i musulmani che, in Europa, diventati una minoranza significativa, hanno chiesto spazio per Dio nella società. Inoltre, una seconda causa, è che le religioni sono percepite come un pericolo:  il fanatismo, il fondamentalismo e il terrorismo sono stati o sono ancora associati a una forma pervertita dell'islam. Non si tratta ovviamente del vero islam, praticato dalla maggioranza dei seguaci di questa religione, ma è un fatto che, ancora oggi, si viene uccisi per motivi religiosi. Basti menzionare l'assassinio dell'arcivescovo cattolico di Mossul. Leggevo che, nel 2007, centoventitré cristiani hanno trovato la morte perché cristiani:  in Iraq, in India e in Nigeria. Le religioni sono capaci del meglio come del peggio. Possono mettersi al servizio di un progetto di santità o di alienazione. Possono predicare la pace o la guerra. Ma qui si deve precisare che non sono le religioni che fanno la guerra, ma i loro seguaci. Di qui la necessità di coniugare fede e ragione, dato che agire contro la ragione, in realtà, è agire contro Dio, come Benedetto XVI ha ricordato nella sua Lectio all'Università di Ratisbona il 12 settembre 2006. 
Forse ci eravamo scordati che la persona umana è l'unica creatura che interroga e che si interroga. È interessante ricordare che la Dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano ii sul dialogo interreligioso, già sottolineava questa dimensione dell'uomo nel suo preambolo:  "Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo:  la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore... la vera felicità, la morte".
Da questo quadro risulta che siamo "condannati" tutti al dialogo. Ma cosa è il dialogo? È la ricerca di comprensione fra due soggetti, con l'aiuto della ragione, in vista di un'interpretazione comune del loro accordo o del loro disaccordo. Suppone un linguaggio comune, onestà nella presentazione del proprio punto di vista, e volontà di fare tutto il possibile per capire gli argomenti dell'altro. Applicati al dialogo interreligioso, questi presupposti aiutano a capire che, quando si parla di dialogo interreligioso, non si tratta di essere gentili con l'altro, per risultargli gradevoli. Non si tratta nemmeno di un negoziato, praticato dai diplomatici:  trovo la soluzione al problema e la questione è chiusa. Nel dialogo interreligioso prendo un rischio. Accetto, ovviamente, non di rinunciare alla mia fede, ma di lasciarmi interpellare dalle convinzioni altrui. Accetto di prendere in considerazione argomenti diversi dai miei o da quelli della mia comunità. Lo scopo è di conoscersi, di considerare la religione dell'altro con benevolenza e di lasciarsi arricchire dagli aspetti positivi celati nella sua religione. Ogni religione ha la sua identità, ma accetto di considerare che Dio è anche all'opera in tutti, nell'anima di chi lo cerca con sincerità. Direi che tre sono gli elementi che vanno insieme:  identità, alterità e dialogo. Non si tratta, ovviamente, di ricercare una specie di religione universale, o di ricercare il più piccolo denominatore comune. La prima condizione perché il dialogo interreligioso sia proficuo è la chiarezza:  ogni credente deve essere consapevole della propria identità spirituale. I capi religiosi devono stare attenti a che il genio proprio di ogni religione sia sempre ben compreso.
Si pone allora il problema di saper come conciliare la nostra fede in Cristo come l'unico mediatore e l'apprezzamento dei valori positivi che troviamo nelle altre religioni. In ogni essere umano c'è la luce di Cristo. Di conseguenza tutto il positivo che esiste nelle religioni non è tenebre. Tutto il positivo partecipa della grande luce che risplende su tutte le luci. E qui dobbiamo rileggere la Nostra aetate:  "La Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini" (n.2).
Si può dire che, dalla fine del concilio Vaticano ii fino ad oggi, i cattolici sono passati dalla tolleranza all'incontro per arrivare al dialogo, che non è tanto dialogo fra le religioni quanto fra credenti. E questo dialogo si svolge secondo quattro modalità:  1) dialogo della vita:  relazioni di buon vicinato con i non cristiani che favoriscono la condivisione delle gioie e delle prove, incontri in occasione delle feste religiose degli uni e degli altri; 2) dialogo delle opere:  collaborazione in vista del benessere degli uni e degli altri, specialmente delle persone che vivono in solitudine, malattia o povertà, collaborazione nelle diverse strutture della vita associativa e in occasione delle grandi catastrofi naturali; 3) dialogo teologico:  quando è possibile, che permette agli esperti di ambedue le parti di capire in profondità le rispettive eredità religiose; 4) dialogo delle spiritualità:  che mette a disposizione degli uni e degli altri la ricchezza della loro vita di preghiera.
Il dialogo interreligioso mobilita quindi tutti quanti sono in cammino verso Dio o verso l'Assoluto. Tutti i credenti e i ricercatori di Dio hanno la stessa dignità. Per un cattolico, dialogare con gli altri credenti è, prima di tutto, un'esperienza spirituale e, in questo, una grazia. È un'attività prettamente religiosa, animata non solamente dalla conoscenza intellettuale o dall'amicizia, ma anche dalla preghiera. Mi porta ad approfondire la mia fede e a testimoniarla:  non devo mai nascondere la mia specificità. Quando parlo con un musulmano, per esempio, non posso mettere fra parentesi i capisaldi del mio credo, quali la Santissima Trinità e l'Incarnazione. Anche semplici gesti, come portare una croce al collo, o avere un rosario in mano, sono gesti che mostrano l'attaccamento alla propria fede. Il dialogo interreligioso suppone da parte mia la sincerità e anche l'umiltà, che porta a riconoscere gli errori del passato e del presente. Non si tratta di sopprimere le differenze, ma di guardarle come mezzi per creare una comprensione e un arricchimento vicendevoli.
Quale servizio il dialogo interreligioso può rendere alla società? È un fatto che i cittadini membri di una religione sono la maggioranza nelle società occidentali. Per il loro numero, la durata delle loro tradizioni, la visibilità delle loro istituzioni e dei loro riti, i credenti sono credenti e visibili. Li si può apprezzare o combattere, ma non lasciano mai indifferenti. Del resto, i responsabili delle società, pur mantenendo il principio della separazione delle Chiese dallo Stato (io preferisco parlare di distinzione) sono costretti a intendersi con le comunità dei credenti, senza confondersi, e a frequentarsi senza opporsi. Le autorità civili devono solo prendere atto del fatto religioso, garantire il rispetto effettivo della libertà di coscienza e di religione, e intervenire solo nel caso in cui l'esercizio di tale libertà nuoccia alla libertà dei non credenti o perturbi l'ordine o la sanità pubblica. Ma, più positivamente, direi che è nell'interesse dei responsabili delle società di favorire il dialogo interreligioso e di attingere, nel patrimonio spirituale e morale delle religioni, tanti valori suscettibili di contribuire all'armonia degli spiriti, all'incontro delle culture e al consolidamento del bene comune. Di fatto, tutte le religioni, attraverso mezzi variegati, spronano i propri fedeli a collaborare dove vivono, con tutti quelli che si sforzano di assicurare il rispetto della dignità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali, di sviluppare il senso della fraternità e della solidarietà, di farsi ispirare dal savoir faire delle comunità dei credenti che, almeno una volta alla settimana, radunano milioni di persone, le più diverse, in un'autentica comunione spirituale, e di aiutare gli uomini e le donne di questo tempo a non essere schiavi delle mode, del consumismo e del profitto. I credenti sono quindi chiamati a contribuire concretamente al bene comune, a un'autentica solidarietà, al superamento delle crisi, al dialogo interculturale:  devono partecipare al dialogo pubblico nelle società di cui sono membri.
Dovevo rispondere a una domanda. Il dialogo interreligioso è una grazia o un rischio? La mia risposta non è molto originale. Rispondo:  le due cose. Un rischio c'è. Quello del sincretismo. Ma direi che potrebbe essere relativo se, come dicevo prima, ogni credente che dialoga esercitasse la sua ragione e, alla luce di essa, fosse spinto ad approfondire la propria fede per renderne conto. Detto questo, c'è un altro rischio, di un'altra natura:  quando chiedo a un buddista o a un musulmano:  dimmi qual è la tua fede e come la vivi, mi espongo al rischio che, un domani, egli rivolga a me la stessa domanda. Allora il dialogo interreligioso, come dicevo prima, in un certo senso è una grazia, perché mi mette in un continuo stato di vigilanza spirituale; mi spinge a essere coerente e testimone. Nella parola "dialogo" il prefisso dia, che significa attraverso, indica bene che dialogare è consentire a che un'altra parola attraversi la mia parola, e così gli uni gli altri possiamo scoprire non solamente le nostre ricchezze spirituali, ma anche eventuali radici comuni.


(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)




L'uomo contemporaneo di fronte alla Pala di Gand

L'assordante belato
che sale dal mondo


Uno dei capolavori dell'arte fiamminga - il polittico dell'Adorazione dell'agnello mistico di Jan e Hubert Van Eyck - viene presentato in un libro d'arte curato da André Pinet (La pala di Gand, Genova-Milano, Marietti 1820, 2008, pagine 113, euro 70). Pubblichiamo ampi stralci della prefazione.

di Davide Rondoni

Cosa chiameremo quando diremo "agnello"? Cosa ci viene in mente, e cosa ci viene agli occhi se diciamo la parola che per secoli ha indicato l'innocente sacrificato sulla pietra, sull'altare? Che belato di bambino o dalla bocca di spastico o da che uomo invecchiato e impotente nella innocenza indecente degli anni? O che vittima tra le migliaia che ci hanno fatto piangere in questi anni bui e sfarzosi? I quattro bambini rubati in un lampo di granata la settimana scorsa? Li han fatti saltare assieme alla madre che preparava loro la colazione in una zona contesa tra guerriglia palestinese ed esercito d'Israele. A noi che Israele non siamo più, né altro popolo formatosi in pastorizia dopo diversi tipi di nomadismo o di esilio, a noi che non sentiamo mai belare nessun agnello se non quello sperduto del cuore, che vittima, che cosa viene in mente che abbia e ci passi almeno un po' di quel tremore? La madre non è morta subito, ha avuto il tempo d'esser portata all'ospedale. mentre i suoi quattro piccoli agnellini erano già stati presi dal fuoco e dal buio. Come se lei volesse avere il tempo per chiedere, per vedere se di là dal lampo tremendo ci fosse dopo il buio una tavola apparecchiata per loro quattro, e una mattina ancora.
Avremo in mente i quattro bambini che il Dio delle colazioni avrà preso con sé o quell'altra piccola di cui mi è giunta notizia, dannata da una malattia rara? Che belato ci ferirà la mente? La supplica di lei che in video piangeva d'essere risparmiata dai tagliatori di gole e non lo fu? 
Perché senza sentire quel belato, l'indescrivibile voce dell'innocente, il suo viso di capretta sperduta, non potremmo mai guardare veramente questo portentoso quadro. Non capiremmo niente. Senza avere nelle fibre, senza sentire addosso il belato infinito, replicato, individuale e orchestrale, non possiamo capire niente del coro di figure che nella pala si dispone. Senza tremare per la voce che più di ogni altra fa tremare, che fa silenzio terribile, senza avere negli occhi un viso ingiustamente condannato, di bambino, o embrione o cucciolo di bestia che sia; sì, senza avere addosso l'assordante belato che sale dal mondo, il belato buio, il belato notte di ogni altra voce, il suo sfaglio, il dolce e tremendo viso di un essere innocente, la sua scandalosa presenza, senza quasi belare noi stessi, o con un nodo, un tronco ritorto di voce anche noi che ci resta in gola sentendo quel belato, no, non vedremmo niente in questo miracoloso e delicato quadro. Non vedremmo nulla della sua pena e della sua gloria. Che attraversano i secoli, immagine sepolta da tante immagini, e pur nitidissima.
Se non ci disponiamo un istante con gli occhi chiusi a sentire il belato che non cessa mai, non avremo lo sguardo pronto per questo trattenuto fulgore.
Feriscici la mente, agnello che non cessi di tornare a brucare nelle nostre mani, negli occhi e nei nostri petti con le mille figure dell'innocenza violata. Feriscici la mente.
E infatti il borgomastro Joos e sua moglie Isabella vollero che si dipingesse la storia intera intorno all'agnello. Per offrire alla nostra mente la sapienza. E la pazienza. Adamo ed Eva che guardano l'agnello. Abele e Caino. Le sibille custodi e suggeritrici dell'enigma. Virgilio tra i profeti. Vollero le Fiandre come Betlemme. Come se la storia non avesse senso senza il mistero tremendo dell'innocenza colpita. Come se non la si potesse raffigurare, e dunque neanche pensare, senza avere al centro il mistero dell'innocente che muore. La Grande Ingiustizia come perno del movimento millenario. Del movimento universale. Come se il borgomastro non potesse reggere nulla, e la sua donna esser donna di niente senza rammentare che al centro della storia sta lo scandalo, e non il tornare dei conti. Il belato dell'innocente che va a morire e non la conversazione amabile tra reggitori e dame della città. Come se non si potesse pensare a niente, nemmeno a se stessi, senza considerare al centro quel maledetto e benedetto altare.
Senza quel belato non avrebbe senso nulla. Sarebbero tutte figure vane. Le colombe dello spirito, come gli sguardi assorti di Adamo ed Eva. Giovanni il Battista, e Giovanni l'Evangelista. E il cartiglio delle parole dell'Arcangelo gentile e nobile rivolte a Maria, che ha il viso teso e imperscrutabile delle dame fiamminghe. E neanche il cartiglio scritto al contrario, delle parole che da lei qui come nel Beato Angelico sono parole che escono e non entrano dalla bocca. Come se la pala della storia, profana e sacra che sia, non si potesse aprire senza trovare al centro il controsenso supremo dell'innocente colpito. Che tiene su le parole al diritto e anche le parole al contrario. Le parole della proposta di Dio e quelle della più alta disponibilità umana. Anche quell'architrave, dell'Angelo e di Maria, non starebbe in piedi, non si reggerebbe, senza l'esposizione dell'agnello. Del sacrificio. Del controsenso. Le parole dette dall'angelo e quelle dette da lei, che ha il volto di chi sa.
Così come sanno anche Adamo ed Eva, colti nel momento in cui si riconoscono davvero. Nudi anche in questa delicatezza di raffigurazione. Nudi di più, se così si può dire, anche e proprio perché così degnamente e decorosamente pitturati. Il loro sguardo iniziale va verso l'altare, come se avessero compreso che anche la loro storia oscura, il loro primario tradimento e il loro ritrovamento non fossero niente se non l'annuncio e il presentimento che doveva accadere qualcosa di più forte ancora. Di più che un tradimento e un ravvedimento. Qualcosa di più radicale. Di più misterioso che non la sola conoscenza del male e del bene. Come se sapessero che doveva accadere qualcosa di più oscuro. E guardano in quella direzione. Maggiormente scandaloso che non la nudità della loro presa di coscienza del bene e del male.
Doveva accadere che male e bene si incontrassero fino al punto più alto della loro forza contraddittoria. Fino al punto più alto e profondo del loro combattimento. Fino alla figura e alla vicenda che non lascia nemmeno spazio tra il bene e il male, perché li assume insieme, contemporaneamente. In una figura sola, in una agonia. Che è dell'innocente sull'altare. Il punto in cui il bene non si accontenta di succedere al male. Non si accontenta di tenergli testa. Di vincere. Come se non bastasse nemmeno quel superamento. Quel mettere in fila, e nella successione giusta, l'esperienza del male e quella del bene. Come se si dovessero addirittura abbracciare. E, scandalosamente, baciare. Cosa è infatti l'innocente che muore se non l'atto imprevedibile dove il male è usato dal bene? Dove non si cancella il male superandolo, lasciandoselo alle spalle come l'albero spogliato. Ma il male diviene attore del bene.
Mistero dei misteri. Figura unica adombrata da sempre sotto ogni latitudine e usanza:  il sacrificio  dell'innocente.
Ma qui c'è ancora da stupire. Da trasalire. Perché non basta che il male sia usato dal bene. Che il sangue coli per un bene. Non basta andare oltre la sola dinamica colpa e punizione. Perché l'agnello, e il sacrificio stavolta è Dio stesso. Non è colui che attende perduto nei reami celesti. No, è lui a belare, a farsi embrione, vecchio da spostare sul letto, bambini uccisi a colazione, donna che supplica in video, ragazzetto morto di fame, lui è l'essere indifeso che poggia la testa e offre la giugulare. È Dio stesso che lascia i cieli e posa la testa sulla pietra. E bela come un abbandonato. O pittore, di due nomi, due cuori e due o quante mani che hai voluto fissare per i secoli questo momento che non passa. Dio che mette se stesso sull'altare. E il suo belato fa tremare la storia intera. 
Si voltano a guardarlo le sibille, i primi umani, i profeti e le Fiandre che sono come la luce ferma e infinita di ogni paese! Cosa hai fatto, pittore... Potevi scegliere altri soggetti o lo hai dovuto fare? Quale congregazione o volere di borgomastro ti ha obbligato a guardare al momento dell'agnello? Al momento che non si riesce a immaginare. Dio non è più colui che attende il sacrificio, e ne resta a godere. Crescendo nella sua divinità. No, è lui a patirlo, sprofondando nella nostra umanità. Belando come un demente. Agnello bellissimo e inguardabile come un figlio che va a morire. Il più grande innocente trattato come il più grande colpevole. Crisi, perno, scandalo e tavola centrale della storia.
Qui si deve trasalire ancora, e stupire ancora. Perché quel belato che ci arriva se chiudiamo gli occhi, se li serriamo dopo aver visto quel che ci tocca di vedere, e che viene da milioni di innocenti è il belato sperduto di Dio.
E noi facciamo coro, davanti alla Pala di Gand, con Adamo ed Eva, con i profeti e le sibille che sapevano e non sapevano, con Maria che sapeva, e con gli avi e le città; facciamo coro muto.
Perché Dio che abita i cieli è sceso nel punto scandaloso della storia. Nel punto che non torna. È sceso nel controsenso. Nel luogo inabitabile. Dove l'innocente soffre. Dove si manda all'aria e saltano come stracci tutti i nostri ragionamenti. E le parole conoscono il buio. È arrivato lì, dove non si vorrebbe guardare. E ha reso il posto più inospitale del mondo il suo posto. Il posto di Dio. Ha preso per sé il posto che è cloaca di tutti i nostri pianti, che è tensione di tutti nostri pugni chiusi nell'ombra e di tutte le nostre bestemmie. Perché è venuto proprio qui dove l'ingiustizia non si colma. Dove la bocca che piange non si chiude. E dove il maledetto belato non cessa. Ne ha fatto il suo reame. Perché lo trovassimo qui dove pensiamo che ci aspetti solo il buio, solo l'amaro scandalo.
E tu, pittore di due nomi, due cuori, più mani, hai dipinto tutto questo delicatamente. I simboli posati sull'erba, i cespugli, la valle, i gentiluomini...
Con una pittura sospesa di stupori e così certa della natura dell'evento. Alla nostra distanza opponi la tua familiare vicinanza con l'esattezza dell'evento. Alla nostra divagata disperanza opponi - e proponi - la tua paziente esattezza paesaggistica e teologica. La tua gentilezza seria. Alla nostra divaricata mente, opponi - e proponi, ti prego proponi - la tua discreta e chiarissima concentrazione. E alla nostra divorante e dolorosa smania opponi la precisione delle figure incise nella luce. Come per raccogliere il dolore e la inconsapevolezza. Come per dare riposo agli occhi e alla mente. Un riposo vigile. Dove l'intornabile torna. Dove il vuoto in cui il belato della vita ci svanisce torni ad agglomerarsi. In tensione d'architettura, in disposizione di spazi. In preziosità di particolari, nelle vesti, nelle sfumature dei volti, l'inclinazione degli sguardi. Alla nostra cecità a riguardo di tutte queste cose proponi la visione lungamente lavorata della tua pazienza.



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

Si è chiuso a Roma il convegno "La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei"

Consigli per la mente di uomini seri


di Marilena Amerise

"La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei", il titolo del convegno che si è svolto ieri, 26 novembre, nel complesso monumentale di Santo Spirito. Un convegno promosso da Finmeccanica e dal Pontificio Consiglio della Cultura e che ha visto la presenza di illustri ospiti, quali il cardinale Tarcisio Bertone che ha rivolto alla nutrita assemblea il saluto iniziale.
Il perché di tale iniziativa, nata dalla collaborazione tra il Dicastero vaticano preposto alla cultura e uno dei più importanti gruppi nel settore dell'alta tecnologia, è stato spiegato da monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, nel suo discorso che ha concluso i lavori, pubblicato dal nostro giornale. 
Finmeccanica sente Galileo come una figura capitale nella sua storia e per questo, in occasione dell'Anno internazionale dell'Astronomia nel 2009 e del sessantesimo anniversario della fondazione del gruppo, essa ha ritenuto opportuno partire da questa figura per far comprendere alla società che la ricerca scientifica non esaurisce le conoscenze su uomo e cosmo, ma deve aprirsi a un dialogo per cogliere la complessità del reale e delle domande ultime dell'esistenza.
Bisogna guardare al futuro con ottimismo nei riguardi dei rapporti tra scienza e fede in quanto "la scienza può purificare la religione dalla superstizione e la religione può purificare la scienza dai falsi assoluti", ha ricordato monsignor Ravasi menzionando la lettera che nel 1988 Giovanni Paolo ii scrisse al gesuita George Coyne, presente all'incontro.
In tal senso, Pier Francesco Guarguaglini, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, ha dichiarato che "questo convegno sulla figura di Galileo Galilei, promosso da Finmeccanica in occasione del suo sessantesimo anniversario, vuole favorire una riflessione sulla relazione tra la scienza, che attraverso la ragione, l'intuizione e le sue conoscenze tecniche verifica ciò che è possibile e ciò che è impossibile in natura, e il mondo spirituale, che accompagna l'uomo nella sua ricerca del bene per sé e per l'umanità".
La collaborazione tra Pontificio Consiglio della Cultura e Finmeccanica nella realizzazione di questo incontro è pertanto motivata dall'esigenza di portare avanti una riflessione sulle implicazioni etiche delle conoscenze scientifiche e della tecnica.
Esplicativo a questo proposito è il sottotitolo del convegno:  "Il valore e la complessità etica della ricerca tecno-scientifica contemporanea", spiega monsignor Melchor Sánchez de Toca, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura, che ha seguito da vicino le fasi di realizzazione di questo evento. Sensibilizzare il mondo scientifico e l'opinione pubblica alle applicazioni della scienza e incentivare in tal modo, attraverso la dimensione etica, un dialogo tra scienza e religione e una riflessione sul rapporto con la fede è sembrato un tema di prioritaria importanza.
Non solo la scienza, ma anche le sue applicazioni e la tecnica suscitano dibattiti etico-filosofici nell'evidente impatto antropologico e sociale che richiede una adeguata considerazione da diversi punti di vista per evitare esclusivismi di ogni sorta che riducano tutto a necessità e tecnicismo o di contro tutto a miracolistico.
I relatori, moderati da Riccardo Chiaberge, hanno messo bene in luce questo aspetto che costituiva il tema conduttore dell'incontro. Edoardo Vesentini, matematico italiano, ha puntualizzato la figura di Galileo scienziato e si è quindi soffermato a illustrare la razionalità del metodo scientifico e in particolare il metodo galileiano. Ugo Amaldi, presidente della Fondazione per Androterapia oncologica, ha sottolineato che "I problemi scientifici, come quelli discussi sinora, sono soltanto una piccola frazione delle domande "generali" che gli uomini pongono e si pongono e che possono essere classificate in problemi scientifici, questioni filosofiche e quesiti esistenziali. Nel rispondere a tutte queste domande ciascun uomo impiega tre componenti di una stessa e unica ratio, dell'unico intelletto:  la razionalità scientifica - che risponde ai problemi scientifici, la ragione filosofica - che considera le questioni filosofiche, e la ragionevolezza sapienziale - che risponde ai quesiti esistenziali. Questa distinzione non è nominalismo, perché a ciascuna di queste componenti corrispondono oggetti, metodologie e criteri di verità diversi".
A sua volta il gesuita George Coyne, direttore emerito della Specola Vaticana, ha tracciato una densa panoramica storica sulle leggi di natura e finalità nell'universo a partire dalla mitologia greca alla nascita della scienza moderna fino alla nuova fisica, arrivando alla conclusione che:  "È legittimo affermare che, da Platone a Newton, la controversia relativa alla parte che la matematica ha avuto nel giungere a una comprensione scientifica dell'universo si è dispiegata in una cornice religiosa. E oggi, dopo un periodo di quello che potrebbe essere definito "razionalismo ateo", si sente di nuovo da parte degli scienziati il ritornello relativo allo scoprire "la mente di Dio"".
Dialogo tra scienza e la sua applicazione e fede, pur nella "casta custodia delle frontiere" che però non devono diventare cortine e nella consapevolezza che anche la teologia è una scienza propria con uso specifico della ragione, come ricordava monsignor Ravasi, che ha terminato l'incontro richiamando una significativa frase di Max Planck:  "Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno l'una dell'altra per completarsi nella mente di un uomo che vuole pensare seriamente".



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

zsbc08
00sabato 29 novembre 2008 12:40
San Tommaso e la teologia morale in un convegno all'Angelicum

Passa ancora per Aquino
il dialogo con la modernità


Il 28 novembre l'università Angelicum a Roma ospita un convegno organizzato in occasione del trentesimo anniversario della fondazione della Società Internazionale Tommaso d'Aquino. Pubblichiamo l'intervento dell'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica.

di Jean-Louis Bruguès

Al termine del noviziato, il maestro aveva l'abitudine di chiamare ciascuno dei novizi e di tracciare con lui un bilancio di questa prima esperienza di vita domenicana, cercando di orientarlo e indirizzarlo.
Di quella esperienza conservo vivo il ricordo e risuonano ancora nella mia mente le parole che egli mi rivolse:  "Per l'avvenire, vi potrà essere chiesto di assumere delle responsabilità di governo e allo stesso tempo l'insegnamento". Ciò non era un giudizio sbagliato. Di fatti, nell'anno che seguì la mia ordinazione sacerdotale, fui nominato socius del provinciale e, contemporaneamente, docente alla facoltà di teologia dell'Institut catholique di Tolosa. 
All'inizio, provavo una certa difficoltà per questa duplice attività:  era impossibile dedicarmi come avrei voluto alle letture, alla ricerca, alla riflessione, tutte cose necessarie per chi è chiamato a insegnare. Successivamente, ho cominciato a considerare che le due vene si nutrono vicendevolmente. La conoscenza dei meandri del cuore umano, la scoperta di sensibilità, di modi di essere e di comportarsi dell'uomo, costituisce una base essenziale della teologia morale, che il Signore mi ha fatto la grazia di acquistare, non primariamente sui libri, ancora meno nei manuali, ma nella consuetudine giornaliera con gli altri frati impegnati, come me, nell'esperienza unica della sequela Christi. Da questo punto di vista posso affermare che la direzione di un convento vale ben più di una biblioteca.
In questo duplice apprendimento, ho avuto la grande fortuna di essere accompagnato da un fratello anziano, un maestro di teologia morale:  il padre Marie-Michel Labourdette, assegnato come me al convento di Tolosa. Vivevo, nel rapporto che avevo con lui, l'esperienza tangibile dell'originalità della vita domenicana:  era il mio maestro nell'insegnamento, mentre io ero il suo superiore in comunità. Egli aveva una capacità singolare, che ho ritrovato qualche anno dopo in un certo cardinale Joseph Ratzinger, di esporre con la più grande semplicità le problematiche più spinose e difficili, e di far nascere, se posso dirlo, in ciascuno l'impressione di scoprire da solo la soluzione cercata. Egli chiariva ciò che sembrava oscuro di primo acchito.
"Perché non ci sono arrivato prima?" mi chiedevo ogni volta. La verità era che quando mi trovavo solo facevo ancora molta fatica a ricostruire le problematiche e a trovare vie di soluzione.
Mi sembra così utile questa mattina riportare due lezioni di vita da lui  ricevute. In quel tempo la teologia morale, almeno in Francia, era caduta in un profondo stato di abbandono.  Per  due  anni,  i  seminaristi  di  Tolosa  non  ricevettero  alcun  insegnamento  in questa  materia,  reputata  tanto  ingrata e noiosa  da non trovare nessuno disposto a insegnarla. Come si faceva a interessarsi ancora di morale, dopo il maggio del 1968? Siccome io ero il più giovane, la sorte toccò a me:  mi fu chiesto di occupare una cattedra trascurata da tempo.
Il padre Labourdette cercava di incoraggiarmi:  "Lei si occupa di una materia oggi disprezzata, ma abbia pazienza:  verrà il giorno in cui sarà invidiata dalle altre". Quel momento arriverà all'inizio degli anni Ottanta. Dopo gli eccessi del "tutto è politica" del maggio 1968, ci si rese conto che le questioni all'ordine del giorno presentavano una dimensione etica sempre più marcata. Basti ricordare il grande interesse per l'ecologia e l'amore per la natura, o anche gli interrogativi posti dallo straordinario sviluppo delle tecniche mediche applicate alla vita umana - quindi la bioetica. Ed ecco che, dall'oggi al domani, gli "eticisti" - neologismo barbaro coniato per non dire "moralisti", in quanto la parola "morale" faceva ancora paura - erano richiesti da tutte le parti. L'etica "faceva tendenza":  tutti la volevano, ovunque si faceva etica, nel disordine più completo - a cominciare da quello terminologico. In breve, il mio vecchio professore aveva visto giusto:  la teologia morale stava diventando la materia più  apprezzata,  l'unica branca della teologia a essere davvero richiesta  in  una  società  secolarizzata.
La seconda lezione che riporterò del padre Labourdette ci introduce in maniera ancora più diretta nella riflessione di queste due giornate. Negli anni Settanta, gli studenti appartenenti al clero erano caratterizzati da una mentalità fondamentalmente critica:  l'idea stessa di fare riferimento a maestri della Tradizione suscitava in loro reazioni allergiche. Era impossibile anche solo pronunciare il nome di Tommaso d'Aquino:  si rischiava di veder tappare di colpo tutte le orecchie. Avevo voluto sottrarmi al discorso sistematico-critico e al "decostruttivismo" che regnava allora in maniera assoluta sulle cattedre parigine, per beneficiare, grazie a una dispensa personale, di ciò che era rimasto della teologia a Saint-Maximin, poi nella città dove riposa il corpo di san Tommaso. Confidando queste difficoltà al padre Labourdette, mi sentii dare un consiglio, sul tomismo:  "Lo insegni sempre, ma senza mai pronunciarne il nome". Pertanto, ho praticato per anni un tomismo per così dire anfibio. Finalmente, un giorno, mi sono sentito  chiedere  delle lezioni imperniate proprio sulla teologia morale di san Tommaso:  il tempo del tomismo  "clandestino" era terminato.
Molte ragioni possono essere portate per spiegare tale mutamento. Innanzitutto il cambio generazionale. La generazione del maggio 1968, che si definiva critica, si era rifiutata di trasmettere la cultura e la tradizione cristiane; così la generazione successiva si era trovata pressoché priva di ogni forma di cultura cristiana:  sapeva di non sapere.  Ciò portò a non condividere i pregiudizi dei predecessori e si poté ricominciare daccapo e ripartire dai grandi maestri. Il Catechismo della Chiesa cattolica è il testo che meglio di altri riflette tale cambiamento.
Promulgato nel 1992, il Catechismo è stato preceduto da molte versioni preparatorie. La seconda bozza provvisoria era stata inviata ai vescovi del mondo intero tra il 1988 e il 1989. I rilievi critici più consistenti manifestati dai vescovi si riferivano alla terza parte, quella morale; circa 9.000 rilievi ed emendamenti - su un totale di 24.000! Gli esperti della commissione, tra cui il sottoscritto, si rimisero al lavoro, rivedendo il progetto da cima a fondo. Si introdussero così due correzioni fondamentali, che permettono di affermare che la morale del Catechismo si ispira a san Tommaso, come mai era accaduto in precedenza in un testo magisteriale di tale importanza. La prima correzione verteva sulla morale particolare:  come esporla? A partire dai comandamenti, come avrebbero suggerito quanti si riferivano a una morale della legge, o a partire dalle virtù come fa la Summa? Il cardinale Ratzinger dispose che fosse esposta a partire dai comandamenti, così da restare fedeli all'uso tradizionale, ma ogni comandamento, dopo la sua enunciazione, doveva essere spiegato in maniera dinamica:  dalle virtù morali e teologali, che nella tradizione cristiana si rifanno a quel determinato comandamento. Il primo comandamento, per esempio, è immediatamente seguito dal richiamo alle tre virtù teologali; il quarto è articolato intorno alle virtù che si riferiscono alla vita familiare e politica; il sesto è centrato sulle virtù legate alla castità, ecc.
La seconda correzione riguardava la morale generale. Gli esperti seguirono più da vicino lo schema della Gaudium et spes, inserendovi molta dottrina di san Tommaso. L'esposizione della morale cristiana, come nella Summa, comincia con la creazione dell'uomo a immagine di Dio. Il trattato tomista della beatitudine non figurava in quanto tale nel testo conciliare; esso appariva dopo la creazione a immagine di Dio; le virtù, poi, si trovavano appena evocate nel testo conciliare:  con le passioni, diventano le articolazioni dello sviluppo della persona umana.
Il Catechismo si basa su una convinzione che è opportuno approfondire:  le grandi intuizioni della morale di san Tommaso costituiscono lo strumento migliore di dialogo critico con la modernità. I concetti di persona umana, di dignità e di libertà, che sono divenuti emblemi della modernità, non trovano in essa le fondamenta più solide? Nell'introduzione al Catechismo Giovanni Paolo ii scriveva:  "Il catechismo, dunque, conterrà dell'antico e del nuovo". Ma è precisamente l'antico che offre le migliori chiavi interpretative del nuovo. In maniera logica, dunque, l'enciclica Fides et ratio ci ricorda che san Tommaso è stato sempre proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero a cui riferirsi costantemente (n. 43). Le sue intuizioni riguardanti il ruolo dello Spirito Santo per far maturare e crescere la conoscenza umana (n. 44) ci autorizzano a presentare la morale cristiana non come un sistema, né come una filosofia particolare, piuttosto come un'arte del vivere, l'arte di incarnare l'infinito nel finito, il senso dell'eternità  nelle  scelte concrete dell'atto libero.
Per concludere, vorrei indicare due direzioni della ricerca morale nelle quali il pensiero di san Tommaso offre dei solidi punti di riferimento per un dialogo costruttivo tra la teologia morale e la modernità. Prima direzione:  san Tommaso fonda la sua morale sul concetto di natura umana, partendo dalla creazione a immagine e somiglianza di Dio. Ebbene, le grandi questioni etiche dell'oggi gravitano tutte attorno alla questione della natura - che cos'è una natura propriamente umana? quali sono i limiti dell'intervento della tecnica sulla natura? Le pressioni delle opinioni dominanti possono permettere alla coscienza personale di accedere alla conoscenza corretta della legge naturale?
Seconda direzione:  con le virtù morali e teologali, san Tommaso sviluppa un modello che Michel Foucault avrebbe definito "modello della costruzione di sé". Ora, il "modello del codice", che esercitava la sua supremazia sulla teologia cattolica fin dal XVI secolo, si sta disfacendo sotto i nostri occhi. Possiamo quindi scommettere che la teoria delle virtù stimolerà un rinnovamento della teologia morale. Del resto, lo constatiamo già negli Stati Uniti, con l'importanza che ha  assunto  la corrente neo-aristotelica detta "contestualismo". In breve,  l'insegnamento  della  teo- logia  morale  a  partire dalle grandi  intuizioni  del  tomismo  ha ancora  un  luminoso  futuro davanti a sé.



(©L'Osservatore Romano - 29 novembre 2008)




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Diritti umani e diritto naturale

La lezione di re Mida


In occasione della giornata inaugurale del master in bioetica del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum a Roma, ha tenuto una relazione l'arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita e rettore della Pontificia Università Lateranense. Ne pubblichiamo un estratto.

di Rino Fisichella

Mida, il mitico re della Frigia, un giorno incontrò nel suo giardino il vecchio Silene, precettore di Dioniso. Il vecchio, alquanto brillo, era caduto dalla groppa del suo asino e girando per il giardino si smarrì. Il re Mida, consapevole di chi avesse dinanzi lo ospitò con grandi onori per ricondurlo poi a Dioniso.
In segno di riconoscenza per il suo aiuto, Dioniso chiese al re in quale modo avrebbe potuto ricompensarlo. Noto per la sua avidità, il re chiese che diventasse oro tutto ciò che avrebbe toccato; la sua richiesta fu prontamente esaudita. Re Mida fu felice:  tutto ciò che toccava diventava davvero oro. Ben presto però si accorse di quanto infausta fosse stata la sua richiesta; diventava oro, infatti, anche ciò che portava alla bocca, ogni sorta di cibo e di bevanda. 
Per non morire di fame e di sete, il re ritornò dal dio Dioniso chiedendogli di accogliere la sua rinuncia al dono ricevuto. Fu accontentato a patto di lavarsi prima nelle acque del fiume Pattolo che, da quel giorno, fu ricolmo di pagliuzze d'oro.
Sappiamo che nella mitologia antica Dioniso rappresenta tutto ciò che vi è di istintivo, sensuale e irrazionale nella vita; non è un caso, quindi, che l'incontro con l'avidità di Mida abbia prodotto una miscela di morte. Il mito antico è una parabola per l'uomo contemporaneo. Se si vuole procedere sulla strada che tutto ciò che si vuole venga riconosciuto come un diritto, alla fine non resterà che dichiarare la morte per incapacità a formare una società.
Chiuso in se stesso, l'uomo non potrà andare troppo lontano; la linfa per vivere gli è data dalla relazionalità, senza della quale non rimane che la più oscura solitudine e, quindi, la sterilità per non poter generare con l'inevitabile conclusione della fine per la vita.
Re Mida dovette compiere un gesto simbolico:  il bagno nelle acque del fiume. La stessa cosa sarà necessaria per il nostro contemporaneo se vuole sopravvivere; avrà bisogno di purificazione e di rinuncia. È una strada che non si vuole percorrere per la presunzione di non aver nulla di cui privarsi che non sia un proprio diritto; eppure, senza questa rinuncia è difficile vedere un reale futuro per la società. Il diritto è fondamentale, ma l'avidità per averne sempre di più conduce all'autodistruzione. Il momento di saper discernere ciò che vale e porta progresso genuino da quanto, invece, è solo frutto del desiderio e di una visione ideologica solipsistica è improrogabile.
Il tema dei diritti umani si coniuga con una visione antropologica che ne determina l'orizzonte interpretativo. Ciò comporta la centralità della persona come essere relazionale. Nessun uomo è un'isola non è solo il titolo di un felice romanzo di Thomas Merton. Indica, giustamente, la verità sottesa alla visione dell'uomo che porta ognuno naturalmente ad entrare in relazione con altri per formare una società di persone.
Le stesse neuroscienze, nel momento in cui indagano il mistero dell'esistenza racchiusa nella mente umana, giungono alla conclusione che l'uomo trova nella relazione interpersonale e sociale il suo spazio vitale. Da soli e rinchiusi in noi stessi non potremmo produrre molto; il linguaggio non esisterebbe, la scienza non sarebbe mai nata né il pensiero avrebbe mai avuto uno sviluppo logico.
Queste semplici realtà, per restare solo nelle esemplificazioni, richiedono l'apertura di noi stessi all'altro come luogo del confronto e della complementarità. Questa relazionalità non si conclude con il proprio simile, ma si apre alla trascendenza; in forza di questa apertura, infatti, ognuno riconosce l'altro come depositario della stessa dignità, perché tutti racchiusi nello stesso abbraccio di un Dio che ama e crea. La centralità della persona, quindi, non annulla l'individuo né umilia la coscienza; al contrario, ne esalta le qualità e ne eleva lo sguardo.
Viviamo un periodo che permette di verificare le grandi conquiste della scienza e della tecnica. L'uomo in questa visione non si sente più intimamente legato alla natura come nel passato; il fatto di poter intervenire in essa e di produrre qualcosa di impensabile nel passato, come ad esempio la clonazione, porta come conseguenza ovvia un mutato atteggiamento nei confronti della natura e dell'uomo stesso. La vita diventa un prodotto da laboratorio, non più un dono della natura o il frutto della provvidenza.
La tentazione che sovrasta costantemente il nostro tempo - in maniera esplicita o implicitamente - è quella di raggiungere un uomo perfetto in tutte le sue componenti; quanti non rientrano più in questo schema devono trovare altre alternative siano esse la soppressione prima della nascita con una evidente selezione eugenetica, l'emarginazione sociale o l'interruzione della vita prima del suo fine naturale. Non bisogna essere nemici della scienza e del progresso per verificare che questo stato di cose non è frutto della fantasia, ma purtroppo realtà dei nostri giorni.
Quale possa essere la reazione dell'uomo comune dinanzi a queste scoperte è facile indovinarlo; da una parte, emerge un tratto di meraviglia ed entusiasmo per le possibili mete che possono essere raggiunte e che produrranno non solo un prolungamento della vita, ma anche una sua migliore qualità; dall'altra, tuttavia, non è esclusa una sorta di paura sempre sottesa quando ci si trova dinanzi a qualcosa di misterioso ed enigmatico che non si riesce a controllare fino in fondo e non si lascia pienamente dominare.
Il giudizio etico, a questo punto, diventa più problematico perché la nuova visione della natura e dell'esistenza personale traccia mete finora inesplorate e la prospettiva ideologica si lascia difficilmente guidare dalla ragione che ricerca il vero bene.
Sottoposta a una pressione comunicativa, spesso legata a interessi economici, la ragione personale non sempre trova la giusta via per il proprio giudizio. Accade così che la notizia può essere manipolata e la verità fatta dipendere non più in relazione al bene, ma ai sondaggi di opinione.
In un simile contesto, appare sempre più evidente quanto sia necessario ritrovare la strada perché laici e cattolici alla luce di un dialogo fecondo possano produrre un pensiero comune al di là delle differenze. Dovremo convincerci tutti, presto o tardi, che esiste un ordine nella creazione e questo fondamento va rispettato e custodito; preservare la natura non può essere il desiderio di pochi, ma la responsabilità di tutti. Il progresso della scienza, d'altronde, è veramente tale quando i risultati raggiunti non sono mai a danno dell'uomo, ma una sua salvaguardia. Ricerca e conquista scientifica, quindi, o si coniugano con i principi etici fondamentali che regolano l'ordine della natura e della vita personale o sono destinate al fallimento.
È urgente, a nostro avviso, recuperare in modo serio il tema della legge naturale come il principio a cui ricorrere, in una società laica e pluralista, per la rinnovata fondazione dei diritti dell'uomo. Questa legge diventa garanzia di libertà e fondamento per un giudizio etico che si relazioni al vero e al bene senza lasciarsi imbrigliare nelle secche del positivismo. Questa legge è ciò che consente di affermare che i diritti a cui facciamo appello non sono un'invenzione dovuta all'ingegno degli uomini di epoche storiche remote, ma la riscoperta perenne che ogni generazione compie di un contenuto che le viene offerto come puro dono. Quanto più cresce la conoscenza del creato e dell'uomo in esso e tanto più si tocca con mano il mistero che circonda la natura e l'esistenza personale. Più la scienza progredisce nel suo indagare sull'universo con le sue forme e maggiormente si scopre l'inadeguatezza dello strumento per entrare fino in fondo nel cosmo.
Se si vuole, la stessa osservazione può valere per il diritto. "Forse nessuna epoca meno della nostra - scriveva Sergio Cotta nel 1987 - ha saputo che cosa sia il diritto. È il comando del potere oppure la decisione dei giudici; una pluralità di ordinamenti chiusi oppure una unità sistematica; una prescrizione esteriore oppure comunitaria o, addirittura, interiore; l'imperativo della storia dello Spirito oppure dei rapporti di produzione?".
L'interrogativo non può rimanere senza risposta; obbliga in qualche modo a fare chiarezza, ma soprattutto a cercare di individuare la fonte stessa del diritto e il suo fondamento inalienabile. Se il diritto si limitasse a un accordo tra gli individui oppure a una convenzione tra gli Stati o a una ratifica di privilegi e obblighi da parte dei cittadini saremmo sempre all'insegna dell'arbitrarietà. Con ragione Benedetto XVI ha potuto affermare:  "È opportuno ricordare che ogni ordinamento giuridico a livello sia interno che internazionale, trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge naturale, nel messaggio etico inscritto nello stesso essere umano. La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. La conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell'uomo aumenta con il progredire della coscienza morale" (Discorso ai partecipanti al congresso internazionale sulla legge morale naturale, febbraio 2007).
Per parlare con coerenza del "diritto naturale" è necessario far riferimento alla "legge naturale" di cui rappresenta il contenuto oggettivo. Nelle sue determinazioni fondamentali, questo diritto è immutabile, ma la consapevolezza del suo valore storico, dei contenuti che esprime e dell'incidenza che questi hanno presso i singoli e le società matura con il crescere della coscienza etica che non può fermarsi mai, pena l'interruzione stessa del progresso spirituale dell'umanità.
La legge naturale non è un'invenzione cattolica come qualcuno vorrebbe semplicisticamente liquidare per non affrontare nei termini dovuti l'importanza e l'attualità del tema. Dietro questa espressione si nasconde la maturazione della ragione umana in diverse epoche storiche nel suo tentativo di saper cogliere il reale e poter dare risposta intelligente ai permanenti interrogativi che essa pone. 
Le prime esperienze filosofiche, d'altronde sono legate alle domanda sulla natura; prima di qualsiasi altra questione, la ragione ha dovuto cercare di rispondere proprio all'interrogativo su cosa fosse la physis, la natura, termine equivoco eppure fondamentale per comprendersi. Bisogna ritornare ai libri della Fisica e della Metafisica di Aristotele per trovare un primo abbozzo articolato del concetto:  "Natura è un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente" (Fisica, ii, 1); in altre parole, la natura è la generazione di tutto ciò che ha vita e si sviluppa.
Il termine physis viene fatto derivare dal verbo phyein che indica tutto ciò che viene generato, che nasce e che cresce; insomma, ciò che ha forma e sostanza è racchiuso nel termine "natura". Per avere una visione ancora più elaborata della legge naturale, si deve prendere tra le mani il famoso testo di Cicerone:  "La legge naturale è la diritta ragione, conforme a natura, universale, costante ed eterna, la quale con i suoi ordini invita al dovere, con i suoi divieti distoglie dal male. Essa non comanda né vieta invano agli onesti pur non smuovendo i malvagi. A questa legge non è lecito fare alcuna modifica né sottrarre qualche parte, né è possibile abolirla del tutto; né per mezzo del Senato o del popolo possiamo affrancarci da essa né occorre cercarne il chiosatore o l'interprete. E non vi sarà una legge a Roma, una ad Atene, una ora, una in seguito; ma una sola legge eterna e immutabile governerà tutti i popoli in tutti i tempi, e un solo dio sarà come la guida e il signore di tutti:  lui, appunto, che ha concepito, redatto e promulgato questa legge; alla quale l'uomo non può disobbedire senza fuggire da se stesso e senza rinnegare la natura umana, e senza per ciò stesso scontare gravissima pena, quand'anche sfuggisse le punizioni ordinarie" (La Repubblica, 3, 22, 33).
Le parole di Cicerone non hanno bisogno di particolare commento; ciò che il romano scriveva, trova riscontro nel filosofo greco e lo stesso può essere ritrovato in Israele sotto l'espressione "legge di Dio".
Nella concezione biblica, il diritto non si limita alla sola legge. Esso è concepito come un ordine che Dio stesso ha posto nel creato e ha stabilito per il suo popolo perché impari a trovare la sua volontà e metterla in pratica come premessa e condizione di felicità. Non è un caso che nella sacra Scrittura il tema del diritto venga spesso associato a quello di giustizia. La relazione riporta al primato della coscienza che si sente sempre impegnata nella ricerca della giustizia mediante l'applicazione di un "diritto" che non può essere solo ciò che è codificato, ma deve cogliere il senso profondo della volontà del Creatore.
È per questo motivo che la concezione biblica aggiunge un'originalità propria alla concezione greco-romana:  la giustizia non consiste solamente nel rispettare una norma, fosse pure la più perfetta che si possa formulare, e non si conclude neppure nel garantire l'uguaglianza fra tutti i soggetti. La giustizia che si coniuga con il diritto deve essere capace di far emergere il vero bisogno di ogni persona, perché possa trovare il suo posto e svolgere il suo ruolo corrispondente in seno alla comunità. Questa esigenza fondamentale appare più necessaria del pane, a tal punto che la ricerca della dignità della persona permane nella visione biblica come il vero fondamento del diritto e la giustizia non corrisponde pienamente al suo scopo fin quando non ha realizzato questo compito.



(©L'Osservatore Romano - 29 novembre 2008)
zsbc08
00lunedì 1 dicembre 2008 15:38
Da: RaiNews.it

Citta del Vaticano | 1 dicembre 2008
Vaticano: no a proposta Ue per depenalizzare omosessualità
Benedetto XVI
Benedetto XVI

L'Onu non deve depenalizzare l'omosessualita' come richiesto dalla Francia perche'
cio' porterebbe a nuove discriminazioni in quanto gli Stati che non riconoscono le unioni gay verranno "mesi alla gogna". E' quanto ha spiegato mons. Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite. "Tutto cio' che va in favore del
rispetto e della tutela delle persone - ha affermato l'arcivescovo - fa parte del nostro patrimonio umano e spirituale. Il Catechismo della Chiesa cattolica, dice, e non da oggi, che nei confronti delle persone omosessuali si deve evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione".

"Ma qui - ha aggiunto Migliore in riferimento alla proposta che la Francia ha intenzione di presentare all'Onu in favore della depenalizzazione dell'omosessualita' nel mondo intero - la questione e' un'altra. Con una dichiarazione di valore politico, sottoscritta da un gruppo di paesi, si chiede agli Stati ed ai meccanismi internazionali di attuazione e controllo dei diritti umani di aggiungere nuove categorie protette dalla discriminazione, senza tener conto che, se adottate, esse creeranno nuove e implacabili discriminazioni".

"Per esempio - ha detto l' arcivescovo - all'agenzia cattolica I-Media - gli Stati che non riconoscono l'unione tra persone dello stesso sesso come "matrimonio" verranno messi alla gogna e fatti oggetto di pressioni".

Monsignor Celestino Migliore si è detto anche rattristato dal progetto di introdurre l'aborto tra i diritti umani promosso da alcune associazioni all'Assemblea generale dell'Onu.  L'aborto - ha detto mosnignor Celestini - rappresenta "la barbarie moderna che, dal di dentro, ci porta a smantellare le nostre società".


zsbc08
00lunedì 1 dicembre 2008 15:52
Il Papa : l'università sia libera da "poteri politici e economici"
Da: RaiNews24.it

Roma | 1 dicembre 2008
Il Papa : l'università sia libera da "poteri politici e economici"
Benedetto XVI
Benedetto XVI

La riforma universitaria deve garantire la liberta' di insegnamento, della ricerca, e l'indipendenza da "poteri economici e politici": lo ha detto il papa, all'università di Parma, precisando che l'universita' non deve "perseguire interessi privati approfittando di risorse pubbliche".

Il Santo Padre ha poi aggiunto che la riforma universitaria deve essere accompagnata "da un serio esame di coscienza da parte dei responsabili a tutti i livelli" senza il quale le "modifiche strutturali e tecniche" non sono "effettivamente efficaci.

"Spesso oggi, anche in Italia - ha spiegato il Papa - si parla di riforma universitaria. Penso che, fatte le debite proporzioni rimanga sempre valido questo insegnamento: le modifiche strutturali e tecniche sono effettivamente efficaci se accompagnate da un serio esame di coscienza da parte dei responsabili a tutti i livelli, ma piu' in generale di ciascun docente, di ogni studente, di ogni impiegato tecnico e amministrativo".

In un'epoca "segnata da particolarismi e incertezze", ha concluso il Pontefice, le universita' "dovrebbero contribuire a qualificare il livello formativo della societa', non solo sul piano della ricerca scientifica strettamente intesa, ma anche, piu' in generale, nell'offerta ai giovani della possibilita' di maturare intellettualmente, moralmente e civilmente, confrontandosi con i grandi
interrogativi che interpellano la coscienza dell'uomo contemporaneo".




Benedetto XVI indica ai seminaristi e ai sacerdoti l'esempio dell'apostolo Paolo

Capaci di dialogare con tutti

 

L'esperienza religiosa non è una scelta soggettiva:  è essenziale e determinante per l'uomo contemporaneo, che appare spesso smarrito e preoccupato per il suo futuro e che, magari anche senza accorgersene, è alla ricerca di Dio. Lo ha detto il Papa durante l'udienza di sabato mattina, 29 novembre, concessa alle comunità dei Pontifici seminari regionali "Pio XI" di Ancona, per le Marche; "Pio XI" di Molfetta, per la Puglia; "San Pio x" di Chieti, per l'Abruzzo e il Molise. L'incontro è avvenuto nella Sala Clementina.

Cari Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari amici dei Seminari Regionali Marchigiano, Pugliese e Abruzzese-Molisano!
Sono particolarmente lieto di accogliervi in occasione del centenario di fondazione dei vostri rispettivi Seminari Regionali, sorti a seguito dell'incoraggiamento del Papa san Pio x, che sollecitò i Vescovi italiani, specialmente del centro-sud della Penisola, ad accordarsi per concentrare i Seminari, al fine di provvedere più efficacemente alla formazione degli aspiranti al sacerdozio. Vi saluto tutti con affetto, ad iniziare dagli Arcivescovi Mons. Edoardo Menichelli, Mons. Carlo Ghidelli e Mons. Francesco Cacucci, che ringrazio per le parole con le quali hanno voluto interpretare i comuni sentimenti. Saluto i rettori, i formatori, i professori e gli alunni e quanti quotidianamente vivono e lavorano in queste vostre istituzioni. In così significativa ricorrenza desidero unirmi a voi nel rendere lode al Signore, che in questo secolo ha accompagnato con la sua grazia la vita di tanti sacerdoti, formati in tali importanti realtà educative. Molti di loro sono impegnati oggi nelle varie articolazioni delle vostre Chiese locali, nella missione ad gentes e in altri servizi alla Chiesa universale; alcuni sono stati chiamati a ricoprire incarichi di alta responsabilità ecclesiale.
Vorrei rivolgermi ora particolarmente a voi, cari Seminaristi, che vi state preparando per essere operai nella vigna del Signore. Come ha ricordato anche la recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi, tra i compiti prioritari del presbitero c'è quello di spargere a larghe mani nel campo del mondo la Parola di Dio che, come il seme della parabola evangelica, sembra in realtà assai piccolo, ma, una volta germinato, diventa un grande arbusto e porta abbondanti frutti (cfr. Mt 13, 31-32). La Parola di Dio che voi sarete chiamati a seminare a larghe mani e che porta in sé la vita eterna, è Cristo stesso, il solo che possa cambiare il cuore umano e rinnovare il mondo. Ma potremmo domandarci:  l'uomo contemporaneo sente ancora bisogno di Cristo e del suo messaggio di salvezza?
Nell'attuale contesto sociale, una certa cultura pare mostrarci il volto di una umanità autosufficiente, desiderosa di realizzare i propri progetti da sola, che sceglie di essere unica artefice dei propri destini, e che, di conseguenza, ritiene ininfluente la presenza di Dio e perciò la esclude di fatto dalle sue scelte e decisioni. In un clima segnato talora da un razionalismo chiuso in sé stesso, che considera quello delle scienze pratiche l'unico modello di conoscenza, il resto diventa tutto soggettivo e di conseguenza anche l'esperienza religiosa rischia di essere vista come una scelta soggettiva, non essenziale e determinante per la vita. Certamente oggi, per queste ed altre ragioni, è diventato sicuramente più difficile credere, sempre più difficile accogliere la Verità che è Cristo, sempre più difficile spendere la propria esistenza per la causa del Vangelo. Tuttavia, come la cronaca quotidianamente registra, l'uomo contemporaneo appare spesso smarrito e preoccupato per il suo futuro, in cerca di certezze e desideroso di punti di riferimento sicuri. L'uomo del terzo millennio, come del resto in ogni epoca, ha bisogno di Dio e lo cerca talora anche senza rendersene conto. Compito dei cristiani, in modo speciale, dei sacerdoti è raccogliere quest'anelito profondo del cuore umano ed offrire a tutti, con mezzi e modi rispondenti alle esigenze dei tempi, l'immutabile e perciò sempre viva e attuale Parola di vita eterna che è Cristo, Speranza del mondo.
In vista di questa importante missione, che sarete chiamati a svolgere nella Chiesa, assumono grande valore gli anni di seminario, tempo destinato alla formazione e al discernimento; anni nei quali al primo posto deve esserci la costante ricerca di un rapporto personale con Gesù, una esperienza intima del suo amore, che si acquisisce attraverso la preghiera innanzitutto e il contatto con la Sacre Scritture, lette, interpretate e meditate nella fede della comunità ecclesiale. In questo Anno Paolino come non proporvi l'apostolo Paolo, quale modello a cui ispirarvi per la vostra preparazione al ministero apostolico? L'esperienza straordinaria sulla via di Damasco lo trasformò, da persecutore dei cristiani, in testimone della risurrezione del Signore, pronto a dare la vita per il Vangelo. Egli era un fedele osservante di tutte le prescrizioni della Torah e delle tradizioni ebraiche, ma, dopo aver incontrato Gesù, "queste cose che per me erano guadagni - scrive nella Lettera ai Filippesi - io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo". "Per lui - aggiunge - ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui" (cfr. 3, 7-9). La conversione non ha eliminato quanto c'era di bene e di vero nella sua vita, ma gli ha permesso di interpretare in modo nuovo la saggezza e la verità della legge e dei profeti e di divenire così capace di dialogare con tutti, seguendo l'esempio del divino Maestro.
Ad imitazione di san Paolo, cari Seminaristi, non stancatevi di incontrare Cristo nell'ascolto, nella lettura e nello studio della Sacra Scrittura, nella preghiera e nella meditazione personale, nella liturgia e in ogni altra attività quotidiana. Importante è, al riguardo, il vostro ruolo, cari responsabili della formazione, chiamati ad essere per i vostri allievi testimoni ancor prima che maestri di vita evangelica. I Seminari Regionali, per le loro tipiche caratteristiche, possono essere luoghi privilegiati per formare i seminaristi alla spiritualità diocesana, iscrivendo con saggezza ed equilibrio tale formazione nel più ampio contesto ecclesiale e regionale. Le vostre istituzioni siano pure "case" di accoglienza vocazionale per imprimere ancor maggiore impulso alla pastorale vocazionale, curando specialmente il mondo giovanile ed educando i giovani ai grandi ideali evangelici e missionari.
Cari amici, mentre vi ringrazio per la vostra visita, invoco su ciascuno di voi la materna protezione della Vergine Madre di Cristo, che la liturgia dell'Avvento ci presenta come modello di chi veglia nell'attesa del ritorno glorioso del suo divin Figlio. A Lei affidatevi con fiducia, ricorrete sovente alla sua intercessione, perché vi aiuti a restare desti e vigilanti. Da parte mia vi assicuro il mio affetto e la mia preghiera quotidiana, mentre di cuore tutti vi benedico.



(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)

Apertura e ragione

 

Gli avvenimenti tragici degli ultimi giorni - che hanno colpito e sconvolto un grande Paese già da mesi teatro di ripetuti episodi di intolleranza e violenza rivolti in particolare contro le minoranze cristiane - confermano una volta di più che il dialogo tra le culture del mondo è l'unica via percorribile per una convivenza umana. Come Benedetto XVI va ripetendo dall'inizio del pontificato e di nuovo ha ora confermato in una lettera al senatore Marcello Pera. Incluso nell'introduzione al libro appena pubblicato dall'esponente politico italiano con il titolo Perché dobbiamo dirci cristiani, il breve testo papale ne sottolinea alcune analisi.
Tra queste, l'affermazione "che all'essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell'immagine cristiana di Dio:  la sua relazione con Dio di cui l'uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà". E urgente appare quel dialogo che - sottolinea con lucidità il Papa - "approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo". In questo modo, ancora una volta Benedetto XVI sottolinea l'importanza del dialogo tra le culture indicando che si tratta di una via più praticabile e suscettibile di conseguenze che vanno esaminate "nel confronto pubblico":  proprio qui, infatti, "il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari".
Anche in tempi difficili come quelli presenti viene così confermata la scelta della Chiesa cattolica di aprirsi al dialogo con le culture del mondo. Con la volontà che questo colloquio - un termine caro a Paolo vi, che di questa apertura fece il tema della sua enciclica programmatica - sia autentico e porti frutti. Non solo dunque un dialogo di superficie che affermi sulla carta principi, ma un confronto vero. Innanzi tutto all'interno della stessa Chiesa, che deve approfondire "la coscienza di se stessa" - come afferma appunto la Ecclesiam suam - per poi "con candida fiducia" affacciarsi "sulle vie della storia" e ripetere "agli uomini:  io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate".
Le parole di Benedetto XVI sono state comprese e apprezzate anche al di là dei confini cattolici, così come la ribadita volontà di confronto e di amicizia con l'ebraismo e con l'islamismo sta portando frutti. Il Papa continua a fare appello alla ragione di tutti e, senza stancarsi, chiede che questa ragione si apra:  al confronto con ogni interlocutore su temi ragionevoli e condivisibili come quelli della dignità di ogni persona umana, creatura e immagine di Dio, e della libertà religiosa.
Sono infatti queste alcune delle "conseguenze culturali" su cui è urgente confrontarsi, come per esempio è avvenuto dopo la lezione di Ratisbona. La Chiesa - scriveva ancora Paolo VI - senza promettere la felicità terrena offre però la sua luce e la sua grazia per poterla conseguire. E "parla agli uomini del loro trascendente destino" ragionando anche "di verità, di giustizia, di libertà, di progresso, di concordia, di pace, di civiltà. Sono parole queste, di cui la Chiesa conosce il segreto; Cristo glielo ha confidato".

g. m. v.



(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)





La misericordia vera forza della giustizia

 

di Giovanni Maria Flick

Il luogo della giustizia è la vita collettiva, perché l'essere-altro, l'essere-separato, dall'altra parte, è ciò che distingue la giustizia, dall'amore, dove è abolita la distanza e gli individui non vengono a contrapporsi l'uno all'altro, quali separate altruità, come degli estranei.
Il giusfilosofo tedesco Josef Pieper ha scritto che "essere giusto vuol dire convalidare l'altro come tale, vuol dire insomma offrire il riconoscimento, là dove non è possibile l'amore. E la giustizia avverte, dal canto suo, che esiste un altro, il quale non è come me e tuttavia ha anche lui il diritto al suo". Dunque, la giustizia è la virtù che ci porta a riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, ciò che è suo.
Ma cosa significa "rendere il suo a ciascuno"? Padre Joseph de Finance, nella sua Etica generale, individua due significati di "suo". Il primo è quello tradizionale, di pronome possessivo, che designa una unità di possedente e di posseduto:  quest'ultimo è riferito al primo come la parte al tutto, l'organo al vivente, lo strumento all'agente. In questo senso - scrive de Finance - si dirà che "ogni esistente "possiede" i suoi principi intrinseci:  (...) essi sono i "suoi" perché maggiormente collegati al suo essere", senza i quali quell'individuo non potrebbe essere quello che è, senza dei quali non potrebbe esistere. Sotto questo aspetto, la giustizia rappresenta, per ciascun individuo, il suo dovuto, proprio per consentirgli di essere, unico e irripetibile.
Ma c'è anche un senso diverso di "suo", un senso riflessivo. In tale prospettiva, "suo" - quale riconoscimento basilare della giustizia - non è semplicemente ciò che è unito al soggetto mediante una relazione oggettiva di possesso, ma è piuttosto la coscienza e la consapevolezza di tale possesso:  è un modo dell'essere sé, un'esperienza intrasoggettiva di ciò che si possiede o che si deve possedere. In questo senso, "rendere a ciascuno il suo" è anche rendere a ciascuno la coscienza di sé, dunque la libertà:  aggiunge de Finance che "volere rendere a ciascuno ciò che è suo" è dunque in fondo, innanzitutto "volere che ciascuno sia sé stesso", cioè che sia libero.
Nell'ordine pratico, la prima manifestazione della giustizia - l'imprescindibile condizione del suo manifestarsi - è dunque la libertà. La volontà costante e perpetua di rendere a ciascuno il suo diritto è, innanzitutto, volontà costante di riconoscergli il diritto alla libertà, primo fondamento di ogni relazione tra gli uomini, pre-condizione dell'eguaglianza:  quest'ultima - e con essa la virtù della giustizia chiamata a garantirne la realizzazione - non potrebbe neppure ipotizzarsi senza il riconoscimento della reciproca libertà. La relazione umana si struttura tra eguali - e può dunque configurarsi come "giusta" - solo se gli "eguali" sono, innanzitutto, egualmente liberi. Dunque, la giustizia è virtù fondata sulla costante autolimitazione, per garantire, innanzitutto, a ciascun altro di essere sé stesso, di essere libero.
Anche per la misericordia iniziamo dal tòpos, dal luogo, attraverso l'origine ebraica di ciò che oggi traduciamo con misericordia. Il termine con il quale l'Antico Testamento indica la misericordia è rehamim, che propriamente designa le "viscere", al singolare, in senso materno ventre. Dunque, a differenza della giustizia, che si struttura nella relazione, la misericordia si colloca, anche topograficamente, nell'antro più segreto della corporeità del singolo uomo.
Ovviamente, si tratta di un senso traslato, metaforico:  serve, linguisticamente, a esprimere quel sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue o di cuore, come la madre o il padre al proprio figlio o un fratello all'altro. Essendo questo legame riposto nella parte più intima dell'uomo - le viscere, appunto, come quando noi parliamo di amore sviscerato o di odio viscerale; ma in genere preferiamo il termine cuore - il sentimento che ne scaturisce è spontaneo e aperto a ogni forma di tenerezza.
La misericordia è, dunque, innanzitutto la irripetibile tenerezza della madre per il figlio, che continua a rimanere nelle sue viscere anche dopo il parto; o la profondità amorosa, incorruttibile dal tempo, che proviamo verso il nostro fratello di sangue, più giovane o anziano che sia. È, per il cristiano, la consapevolezza dell'amore infinito posto a base della nostra creazione. Essa muove - ha ben scritto il giovane prete sardo don Alessandro Simula - da un sentimento spontaneo, non da una deliberazione cosciente.
D'altra parte, della misericordia iniziale, Dio conserva memoria per gli uomini:  a condizione che gli uomini siano fervidi nella speranza di riceverla, fino all'insistenza, fin quasi all'insolenza. Come Abramo allorquando apre la "trattativa" con il suo Signore per cercare di salvare Sodoma, con una intercessione sublime, che finisce per commuovere e fa tremare chi legge (e turba la legge). (...) Si salverà solo Lot, come sappiamo:  ma Abramo insegna la compassione che dovremmo avere per i peccatori, e mostra con quanta intensità dovremmo pregare per loro, cioè per noi stessi.
Nella tradizione ebraica, che non ha ritenuto di far propria l'aurora della Croce, giustizia e misericordia si fronteggiano da sempre:  persino nel nome della divinità.
Il Dio della misericordia subentra, nella tradizione ebraica, a quello della giustizia e del rigore. Ricorda Haim Baharier, anticonformista studioso della Torah e del Talmud, che - come insegnano alcuni maestri della Kabbalà, interpretando, sulla scia del Midràsh, il primo versetto della Genesi - Dio creò e distrusse venticinque volte ciò che aveva creato; alla ventiseiesima volta, creò una parola nuova, dai, in ebraico, che corrisponde al nostro basta - e finalmente contemplò l'opera del suo verbo.
L'atto della creazione è dunque il primo - nell'ordine temporale, ma anche in quello assiologico - atto di misericordia:  si potrebbe dire, è ciò che fonda la misericordia futura tra tutti gli uomini. Anche a costo di annacquare la giustizia, mettendone in forse la sua perfezione, rischiando - e la cancellazione della scena delle precedenti venticinque creazioni ne è la conferma - un mondo claudicante.
La misericordia, nella sua prima epifania, è dunque un atto di ritrosia del perfetto rigore:  un cedimento della giustizia, una rinuncia alla sua perfetta completezza per creare un mondo imperfetto e donarlo agli uomini. Da allora, da quest'atto fondativo, sarà sempre così:  la misericordia sarà un atto di trasfigurazione della giustizia, un subentrare a essa, una sua sublimazione.
Sotto questo aspetto, la misericordia è la forza reale della giustizia. La misericordia intesa come clemenza, come esercizio clemente della giustizia è sintomo della vera forza di quest'ultima:  un po' come il pianto è la vera forza del bambino inerme.
L'apostolo Paolo descrive in una frase la condizione per poter pensare al mistero della giustizia:  in generale, direi, per poter pensare. La condizione - egualitaria quanto la morte - del peccato, che ci accomuna in una umanità diversissima in tutto il resto, ma parificata in questo; la misericordia, che egualmente ci solleva tutti, distribuendo amore infinito a tutti, senza distinzione. Al problema delle disuguaglianze del mondo, la prospettiva cristiana risponde che l'unica possibile eguaglianza - e anche la più importante - è ai punti estremi della nostra condizione umana:  tutti uguali nella caduta; tutti uguali nell'amore che ci solleva. Così, la misericordia diviene la giustizia cui si unisce la carità:  essa è il perfezionamento della giustizia, ma, al tempo stesso, il suo superamento.
Il pensiero paolino è chiarissimo sul punto:  per rendersene conto è sufficiente rileggere uno dei passi più noti e intensi (e, letterariamente, più belli), quale l'Inno alla carità (1 Corinzi, 13, 1-13):  "E se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho la carità, non mi giova a nulla. La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine...".
La giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta, monca:  una dimensione regolativa che scivola, progressivamente, nel legalismo. La finitudine della giustizia, che risalta al cospetto della grandezza infinita della misericordia, è resa bene in due parabole evangeliche.
La prima è la parabola del debitore spietato (Matteo, 18, 23) nella quale il re scopre un servo debitore di diecimila talenti, ma recede, per le sue suppliche, dall'originario proposito di venderlo con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, affinché saldasse il suo debito. Appena uscito, quel servo ne trova un altro come lui che gli doveva cento denari. Lo afferra e lo soffoca, dicendogli di pagare il dovuto. Il debitore spietato non vuole esaudire le suppliche del suo compagno e lo fa gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Venutolo a sapere, il re lo fa richiamare e gli dice:  "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse avere anche tu pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?". E, sdegnato, "lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto".
Il comportamento del debitore spietato è, in punto di giustizia, ineccepibile:  dal condono del suo debito non deriva affatto alcun obbligo, per lui, di condonare a sua volta. E, per averlo fatto gettare in carcere a causa dell'inadempimento, nessun giudice lo avrebbe a sua volta potuto condannare. A condannarlo è, invece, la clemente misericordia che gli è stata usata e che egli non è stato capace di interiorizzare:  la misericordia arriva là dove la giustizia mai potrebbe, e lascia un segno che nessuna decisione di giustizia mai potrebbe lasciare. Il debitore spietato sceglie di scivolare nel legalismo e cade, tuttavia, a sua volta nella rete della giustizia:  chi è stato con lui misericordioso era "al di là del bene e del male", ma il servo ha scelto di ripassare questo confine.
La seconda parabola è quella degli operai nella vigna (Matteo, 20, 1-16). Quale legge, quale principio di giustizia, potrebbe mai prevedere che lavori diversi, per durata, fatica e intensità, siano retribuiti allo stesso modo? E quale giudice mai potrebbe dar torto a quegli operai della mattina che, pensando di essere stati trattati ingiustamente, mormoravano contro il padrone:  "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo"!
Eppure, il padrone della vigna sa mettere in crisi lo stesso concetto umano di giustizia, fondata sulla scala ordinata dei valori e dei meriti ("Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse:  Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi").
La misericordia, abbiamo detto, invece non presuppone meriti:  li supera; evade la logica, come ogni vera grandezza dell'animo; di più, è autenticamente eversiva, nel senso etimologico di "fuori dal verso delle cose, dalla loro direzione ordinaria", come nessuna giustizia umana - nel nome della quale pure si sono intraprese centinaia di rivoluzioni - potrebbe mai esserlo.
L'imprevedibile gratuità della misericordia scardina completamente la limitata visione della mentalità umana e diventa pietra d'inciampo persino dei principi di giustizia. La giustizia di Dio non contrasta, in realtà, con la giustizia umana (ogni operaio della parabola riceve la retribuzione concordata), ma la trascende, completandola e trasformandola con l'amore.
Per il giurista che insegue quotidianamente la giustizia, la consapevolezza di questo superamento è una speranza intensa e irrinunciabile.



(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)






In attesa della visita di Benedetto XVI nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura

Anno laurenziano
Un percorso di rinnovamento

 

di Alessandro Trentin

Tutto è pronto nella Basilica romana di San Lorenzo fuori le mura per accogliere la visita di Benedetto XVI, domani, domenica 30 novembre, in occasione della chiusura delle celebrazioni per il 1750° anniversario del martirio del protodiacono. L'Anno laurenziano era stato aperto il 1º gennaio scorso dall'allora cardinale vicario Camillo Ruini con una solenne messa ed è proseguito con una serie di iniziative che hanno coinvolto la comunità e non solo. Infatti, sono stati numerosi i pellegrini di altre diocesi italiane ma anche provenienti dall'estero, ad esempio Germania, Spagna e Francia, che si sono recati in visita sulla tomba del martire.
A ricevere il Papa saranno, tra gli altri, il cardinale vicario Agostino Vallini e il parroco, fra' Bruno Mustacchio. I fedeli con grande gioia attendono di incontrare Benedetto XVI e i preparativi fervono per salutare l'arrivo del successore di Pietro, che presiederà la solenne concelebrazione eucaristica.
Il parroco commenta:  "Ci prepareremo insieme all'onore di un evento che ci commuove, ci emoziona, ci interroga sul nostro essere Chiesa di Cristo, Chiesa che è in Roma, con l'umiltà di chi riceve lo stesso Gesù nella propria casa". La comunità dei fedeli, tra l'altro, si ritroverà fino alla vigilia della visita, davanti al tabernacolo pregando insieme per il Papa, per le sue intenzioni, per le proprie famiglie, per coloro che soffrono e anche per tutti quelli che hanno bisogno di un sostegno spirituale "certi - aggiunge il parroco - che il Signore non mancherà, ancora una volta, di riempire la nostra vita della sua grazia. Con questo spirito, accogliamo il Vicario di Cristo, sentendoci in comunione con Lui e tra noi". Fra' Bruno Mustacchio aggiunge:  "Il Signore, nel suo immenso amore, ha chiamato il suo Servo Benedetto a tenere il posto di Pietro per essere pastore del suo gregge, di cui ognuno di noi è pecorella prediletta. Se Giovanni, il discepolo che Egli amava, è il primo degli apostoli a riconoscere Gesù nella scena della pesca miracolosa, Pietro è il primo a raggiungerlo, facendosi "ponte" tra il Signore e i suoi".
La Basilica, al cui interno sono custodite oltre alle reliquie del santo anche le tombe di Pio ix e di Alcide De Gasperi, è sede parrocchiale dal 1709, sebbene attualmente nel suo territorio rientrino soltanto una decina di famiglie. Nell'area basilicale, il cosiddetto "Agro Verano" sono anche sepolti i Papi Zosimo, Sisto iii e Ilario.
I cappuccini, che prestano una particolare attenzione alla pastorale dei defunti servendo l'attiguo cimitero monumentale del Verano, hanno avuto in affidamento la chiesa nel 1855.
Il superiore della Casa dei cappuccini e vice parroco, fra' Frumenzio De Donato, riferisce al nostro giornale che l'Anno laurenziano ha costituito "un'occasione per un rinnovamento interiore di tutta la comunità". Per i frati in particolare, aggiunge, si è trattato di un ulteriore passo nel percorso di maturazione della fede e di miglioramento della loro testimonianza. L'obbedienza alla Chiesa, l'osservanza delle sue leggi e dei suoi insegnamenti, costituiscono la regola di vita dell'ordine che impronta il suo cammino sulle orme di san Francesco d'Assisi.
Il vice parroco racconta, tra l'altro, della forte devozione dimostrata anche dai fedeli stranieri, giunti numerosi per ricevere l'indulgenza plenaria. La Basilica dunque, per un anno, è diventata faro illuminante per i pellegrini alla ricerca di un contatto profondo con la fede. La devota partecipazione alle adorazioni eucaristiche serali ne sono, conclude il vice parroco, un forte segno.
Oltre ai momenti di preghiera, per l'Anno laurenziano, sono stati organizzati anche dei seminari riguardanti temi specifici, cui hanno partecipato religiosi e esponenti del mondo della cultura. Le riflessioni si sono accentrare fra l'altro su la solidarietà e la missione e la tutela della vita. Inoltre, le tradizionali catechesi per adulti e giovani, molto seguite dai fedeli e che si svolgono regolarmente da anni, sono state tenute avendo una particolare attenzione per lo speciale evento. Per la comunità locale, inoltre, è a disposizione un centro di ascolto per le persone in difficoltà.
La Casa dei cappuccini è, tra l'altro, particolarmente attiva nel valorizzare l'immenso patrimonio storico-artistico costituito dalla Basilica e dalle altre proprietà attigue. Recentemente sono state scoperte delle antichissime tombe sullo spazio antistante il complesso basilicale che sono oggetto di interesse da parte della Sovrintendenza ai beni culturali.


(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)


zsbc08
00martedì 2 dicembre 2008 16:30
All'Angelus il Papa invita a meditare sul significato del nuovo anno liturgico

Dio ha tempo per noi

 "Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l'inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova". Lo ha detto il Papa all'Angelus di domenica 30 novembre, recitato insieme ai numerosi fedeli presenti in piazza San Pietro.

Cari fratelli e sorelle!
Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico. Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino. Sull'esempio di quanto amava fare Gesù, desidererei tuttavia partire da una constatazione molto concreta:  tutti diciamo che "ci manca il tempo", perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha una "buona notizia" da portare:  Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l'inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova. Sì:  Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all'eterno, per farla diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell'amore di Dio:  un dono che l'uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi "cardini" del tempo, che scandiscono la storia della salvezza:  all'inizio la creazione, al centro l'incarnazione-redenzione e al termine la "parusia", la venuta finale che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì all'origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l'intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure l'incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d'azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta l'ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell'Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti:  dapprima ci invita a risvegliare l'attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l'appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza:  "Vegliate!" (Mc 13, 33.35.37). È rivolto ai discepoli, ma anche "a tutti", perché ciascuno, nell'ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso. Icona dell'Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù. InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.

Dopo la preghiera, il Papa ha ricordato la festa patronale del Patriarcato di Costantinopoli e ha rivolto un appello per India e Nigeria (il cui testo pubblichiamo in prima pagina). Poi ha rivolto saluti in diverse lingue ai gruppi presenti.

Cari amici, il 30 novembre, cioè oggi, ricorre la festa dell'Apostolo sant'Andrea, fratello di Simon Pietro. Entrambi furono dapprima seguaci di Giovanni il Battista e, dopo il battesimo di Gesù nel Giordano, divennero suoi discepoli, riconoscendo in Lui il Messia. Sant'Andrea è patrono del Patriarcato di Costantinopoli, così che la Chiesa di Roma si sente legata a quella costantinopolitana da un vincolo di speciale fraternità. Perciò, secondo la tradizione, in questa felice circostanza una delegazione della Santa Sede, guidata dal Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, si è recata in visita al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I. Di tutto cuore rivolgo il mio saluto e il mio augurio a lui e ai fedeli del Patriarcato, invocando su tutti l'abbondanza delle celesti benedizioni.

[Do il benvenuto ai polacchi. Saluto in particolare i partecipanti all'Incontro Romano dei Giovani, che sono giunti qui da diversi Paesi per cercare insieme nell'insegnamento di Giovanni Paolo ii le ispirazioni e le prospettive per una vita fruttuosa. In questo impegno per la costruzione di un futuro di felicità vi sostenga la protezione di Maria. Dio benedica tutti i presenti].

Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Trieste, Medicina, Praia a Mare, Diamante, Pozzallo e Modica. A tutti auguro una buona domenica e un Avvento ricco di frutti spirituali.



(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)

    L'auspicio di Benedetto XVI nel Messaggio a Bartolomeo I

Segni di speranza
per il dialogo teologico

 Nel quadro dello scambio di Delegazioni per le rispettive feste dei Santi Patroni, il 29 giugno a Roma per la celebrazione dei Santi Pietro e Paolo e il 30 novembre a Istanbul per la celebrazione di Sant'Andrea, il cardinale Walter Kasper guida la Delegazione della Santa Sede per la Festa del Patriarcato Ecumenico 2008. Il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani è accompagnato dal vescovo Brian Farrell, Segretario del Dicastero e da padre Vladimiro Caroli, o.p., officiale della Sezione Orientale del medesimo Dicastero. Ad Istanbul, si è unito il nunzio apostolico in Turchia, arcivescovo Antonio Lucibello.
La Delegazione della Santa Sede ha preso parte alla solenne Divina Liturgia presieduta da Bartolomeo I nella chiesa patriarcale del Fanar, ed ha avuto un incontro con il Patriarca e conversazioni con la Commissione sinodale incaricata delle relazioni con la Chiesa cattolica, alle quali hanno partecipato anche il Co-presidente ed il Co-segretario della "Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme".
Il cardinale Kasper ha portato al Patriarca Ecumenico un dono del Santo Padre, accompagnato da un Messaggio autografo di Benedetto XVI di cui ha dato lettura.
To His Holiness Bartholomew I
Diamo di seguito una nostra traduzione italiana del Messaggio di Benedetto XVI al Patriarca Bartolomeo I. A Sua Santità Bartolomeo I
Arcivescovo di Costantinopoli
Patriarca Ecumenico
 "Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo (Gal 1, 3)
È con profonda gioia che rivolgo queste parole di San Paolo a Vostra Santità, al Santo Sinodo e a tutto il Clero ortodosso e ai fedeli radunati per la festa di Sant'Andrea, il fratello di San Pietro e, come lui, un grande apostolo e martire per Cristo. Sono lieto di essere rappresentato in questa occasione di festa da una delegazione guidata dal mio venerato fratello il Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, al quale ho affidato questo Messaggio augurale. Le mie preghiere si uniscono alle vostre per invocare dal Signore il benessere e l'unità dei discepoli di Cristo nel mondo intero.
Rendo grazie a Dio che ci ha permesso di approfondire i vincoli di amore reciproco fra noi, sostenuti dalla preghiera e da un contatto fraterno sempre più regolare. Nel corso dell'anno che ora sta volgendo al termine, siamo stati benedetti tre volte dalla presenza di Vostra Santità a Roma:  in occasione della Vostra lezione magistrale al Pontificio Istituto Orientale, che si onora di annoverarLa tra i suoi Alunni; all'apertura dell'Anno Paolino nella Festa dei Santi patroni di Roma, Pietro e Paolo; ed alla dodicesima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi della Chiesa Cattolica, tenutasi in ottobre sul tema della Parola di Dio nella Vita e nella Missione della Chiesa, quando avete pronunciato un discorso di profonda riflessione.
Come segno della crescente comunione e vicinanza spirituale, la Chiesa Cattolica, per parte sua, è stata rappresentata alle celebrazioni dell'Anno Paolino guidato da Vostra Santità, incluso un simposio e un pellegrinaggio ai luoghi paolini in Asia Minore. Queste esperienze di incontro e di preghiera condivisa contribuiscono ad un aumento nel nostro impegno per raggiungere la meta del nostro cammino ecumenico.
In questo stesso spirito, Vostra Santità mi ha informato del risultato positivo della Synaxis dei Primati e dei Rappresentanti delle Chiese Ortodosse, che ha avuto luogo recentemente al Fanar. I segni di speranza che sono emersi dai rapporti inter-ortodossi e l'impegno ecumenico sono stati accolti con gioia. Credo e prego che questi sviluppi possano avere un effetto costruttivo sul dialogo teologico ufficiale fra le Chiese Ortodosse e la Chiesa Cattolica, e possano condurre ad una soluzione delle difficoltà incontrate nelle ultime due sessioni. Come Vostra Santità ha rilevato durante l'allocuzione al Sinodo dei Vescovi della Chiesa Cattolica, la Commissione Internazionale Mista per il Dialogo Teologico fra cattolici ed ortodossi sta ora affrontando un argomento cruciale che, una volta risolto, ci porterebbe più vicino alla piena comunione.
In questa festa di Sant'Andrea, riflettiamo con gioia e con animo grato che le relazioni fra noi stanno entrando progressivamente a livelli più profondi, mentre rinnoviamo il nostro impegno sulla via della preghiera e del dialogo. Crediamo che il nostro cammino comune accelererà l'arrivo di quel giorno benedetto in cui loderemo insieme Dio in una Celebrazione condivisa dell'Eucaristia. La vita interiore delle nostre Chiese e le sfide del mondo contemporaneo richiedono urgentemente questa testimonianza di unità fra i discepoli di Cristo.
È con questi sentimenti fraterni che estendo a Vostra Santità i miei saluti cordiali nel Signore, Che assicura a noi la Sua Grazia e la Sua Pace.
Dal Vaticano, 26 novembre 2008
 BENEDETTO PP. XVI  


(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)

  Benedetto XVI celebra i vespri per l'inizio del tempo di Avvento nella basilica di San Pietro

La Chiesa deve diventare speranza
per se stessa e per il mondo

 "L'Avvento è per eccellenza la stagione spirituale della speranza, e in esso la Chiesa intera è chiamata a diventare speranza, per se stessa e per il mondo". Lo ha detto il Papa durante l'omelia dei primi vespri della prima domenica di Avvento, celebrati sabato pomeriggio 29 novembre nella basilica di San Pietro.

Cari fratelli e sorelle!
Con questa liturgia vespertina, iniziamo l'itinerario di un nuovo anno liturgico, entrando nel primo dei tempi che lo compongono:  l'Avvento. Nella lettura biblica che abbiamo appena ascoltato, tratta dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi, l'apostolo Paolo usa proprio questa parola:  "venuta", che in greco è "parusia" e in latino "adventus" (1 Ts 5, 23). Secondo la comune traduzione di questo testo, Paolo esorta i cristiani di Tessalonica a conservarsi irreprensibili "per la venuta" del Signore. Ma nel testo originale si legge "nella venuta"            , quasi che l'avvento del Signore fosse, più che un punto futuro del tempo, un luogo spirituale in cui camminare già nel presente, durante l'attesa, e dentro il quale appunto essere custoditi perfettamente in ogni dimensione personale. In effetti, è proprio questo che noi viviamo nella liturgia:  celebrando i tempi liturgici, attualizziamo il mistero - in questo caso la venuta del Signore - in modo tale da potere, per così dire, "camminare in essa" verso la sua piena realizzazione, alla fine dei tempi, ma attingendone già la virtù santificatrice, dal momento che i tempi ultimi sono già iniziati con la morte e risurrezione di Cristo.
La parola che riassume questo particolare stato, in cui si attende qualcosa che deve manifestarsi, ma che al tempo stesso si intravede e si pregusta, è "speranza". L'Avvento è per eccellenza la stagione spirituale della speranza, e in esso la Chiesa intera è chiamata a diventare speranza, per se stessa e per il mondo. Tutto l'organismo spirituale del Corpo mistico assume, per così dire, il "colore" della speranza. Tutto il popolo di Dio si rimette in cammino attratto da questo mistero:  che il nostro Dio è "il Dio che viene" e ci chiama ad andargli incontro. In che modo? Anzitutto in quella forma universale della speranza e dell'attesa che è la preghiera, che trova la sua espressione eminente nei Salmi, parole umane in cui Dio stesso ha posto e pone continuamente sulle labbra e nei cuori dei credenti l'invocazione della sua venuta. Soffermiamoci perciò qualche istante sui due Salmi che abbiamo pregato poco fa e che sono consecutivi anche nel Libro biblico:  il 141 e il 142, secondo la numerazione ebraica.
"Signore, a te grido, accorri in mio aiuto; / ascolta la mia voce quando t'invoco. / Come incenso salga a te la mia preghiera, / le mie mani alzate come sacrificio della sera" (Sal 141, 1-2). Così inizia il primo salmo dei primi Vespri della prima settimana del Salterio:  parole che all'inizio dell'Avvento acquistano un nuovo "colore", perché lo Spirito Santo le fa risuonare in noi sempre nuovamente, nella Chiesa in cammino tra tempo di Dio e tempi degli uomini. "Signore ... accorri in mio aiuto" (v. 1). È il grido di una persona che si sente in grave pericolo, ma è anche il grido della Chiesa fra le molteplici insidie che la circondano, che minacciano la sua santità, quell'integrità irreprensibile di cui parla l'apostolo Paolo, che deve invece essere conservata per la venuta del Signore. E in questa invocazione risuona anche il grido di tutti i giusti, di tutti coloro che vogliono resistere al male, alle seduzioni di un benessere iniquo, di piaceri offensivi della dignità umana e della condizione dei poveri. All'inizio dell'Avvento la liturgia della Chiesa fa proprio nuovamente questo grido, e lo innalza a Dio "come incenso" (v. 2). L'offerta vespertina dell'incenso è infatti simbolo della preghiera, dell'effusione dei cuori rivolti al Dio, all'Altissimo, come pure "le mani alzate come sacrificio della sera" (v. 2). Nella Chiesa non si offrono più sacrifici materiali, come avveniva anche nel tempio di Gerusalemme, ma si eleva l'offerta spirituale della preghiera, in unione a quella di Gesù Cristo, che è al tempo stesso Sacrificio e Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. Nel grido del Corpo mistico, riconosciamo la voce stessa del Capo:  il Figlio di Dio che ha preso su di sé le nostre prove e le nostre tentazioni, per donarci la grazia della sua vittoria.
Questa identificazione di Cristo con il Salmista è particolarmente evidente nel secondo Salmo (142). Qui, ogni parola, ogni invocazione fa pensare a Gesù nella passione, in particolare alla sua preghiera al Padre nel Getsemani. Nella sua prima venuta, con l'incarnazione, il Figlio di Dio ha voluto condividere pienamente la nostra condizione umana. Naturalmente non ha condiviso il peccato, ma per la nostra salvezza ne ha patito tutte le conseguenze. Pregando il Salmo 142, la Chiesa rivive ogni volta la grazia di questa compassione, di questa "venuta" del Figlio di Dio nell'angoscia umana fino a toccarne il fondo. Il grido di speranza dell'Avvento esprime allora, fin dall'inizio e nel modo più forte, tutta la gravità del nostro stato, il nostro estremo bisogno di salvezza. Come dire:  noi aspettiamo il Signore non alla stregua di una bella decorazione su un mondo già salvo, ma come unica via di liberazione da un pericolo mortale. E noi sappiamo che Lui stesso, il Liberatore, ha dovuto patire e morire per farci uscire da questa prigione (cfr. v. 8).
Insomma, questi due Salmi ci mettono al riparo da qualsiasi tentazione di evasione e di fuga dalla realtà; ci preservano da una falsa speranza, che forse vorrebbe entrare nell'Avvento e andare verso il Natale dimenticando la drammaticità della nostra esistenza personale e collettiva. In effetti, una speranza affidabile, non ingannevole, non può che essere una speranza "pasquale", come ci ricorda ogni sabato sera il cantico della Lettera ai Filippesi, con il quale lodiamo Cristo incarnato, crocifisso, risorto e Signore universale. A Lui volgiamo lo sguardo e il cuore, in unione spirituale con la Vergine Maria, Nostra Signora dell'Avvento. Mettiamo la nostra mano nella sua ed entriamo con gioia in questo nuovo tempo di grazia che Dio regala alla sua Chiesa, per il bene dell'intera umanità. Come Maria e con il suo materno aiuto, rendiamoci docili all'azione dello Spirito Santo, perché il Dio della pace ci santifichi pienamente, e la Chiesa diventi segno e strumento di speranza per tutti gli uomini. Amen!



(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)

    Il Papa a studenti di Parma ricorda che nell'università si realizza la sintesi tra individualismo e comunità

Ogni riforma inizia da se stessi
e si realizza nel rispetto della libertà

 L'università per sua natura vive di un virtuoso equilibrio tra il momento individuale e quello comunitario, tra ricerca e riflessione di ciascuno e condivisione e confronto aperto in un orizzonte tendenzialmente universale. Sono principi che dovrebbero essere oggi riscoperti. Lo ha detto il Papa durante l'udienza concessa lunedì 1 dicembre, a universitari di Parma.

Signor Rettore,
illustri Professori,
cari studenti e membri del personale amministrativo e tecnico!
Sono lieto di accogliervi in questo incontro che avete voluto per commemorare le antiche radici dell'Ateneo di Parma. E sono particolarmente contento che, riferendovi proprio a quel periodo originario, abbiate scelto quale figura rappresentativa san Pier Damiani, di cui abbiamo appena celebrato il millenario della nascita e che nelle scuole parmensi fu dapprima studente e poi maestro. Saluto cordialmente il Rettore, Prof. Gino Ferretti, e lo ringrazio per le cortesi parole con cui si è fatto interprete dei sentimenti di tutti i presenti. Sono lieto di vedere insieme con voi il Vescovo di Parma, Mons. Enrico Solmi, come pure altre Autorità politiche e militari. A tutti voi, Professori, studenti e membri del personale amministrativo e tecnico rivolgo il mio sincero benvenuto.
Come sapete, l'attività universitaria è stata il mio ambito di lavoro per tanti anni, e anche dopo averla lasciata non ho mai smesso di seguirla e di sentirmi spiritualmente legato ad essa. Molte volte ho avuto la possibilità di parlare in diversi Atenei, e ricordo bene di essere venuto anche a Parma, nel 1990, dove svolsi una riflessione sulle "vie della fede" in mezzo ai mutamenti del tempo presente (cfr Svolta per l'Europa?, Edizioni Paoline 1991, pp. 65-89). Oggi vorrei soffermarmi brevemente a considerare con voi la "lezione" che ci ha lasciato san Pier Damiani, cogliendone alcuni spunti di particolare attualità per l'ambiente universitario dei nostri giorni.
Lo scorso anno, in occasione della memoria liturgica del grande Eremita, il 20 febbraio, ho indirizzato una lettera all'Ordine dei monaci Camaldolesi, nella quale ho messo in luce come sia particolarmente valida per il nostro tempo la caratteristica centrale della sua personalità, vale a dire la felice sintesi tra la vita eremitica e l'attività ecclesiale, l'armonica tensione tra i due poli fondamentali dell'esistenza umana:  la solitudine e la comunione (cfr. Lettera all'Ordine dei Camaldolesi, 20 febbraio 2007). Quanti, come voi, si dedicano agli studi a livello superiore - per l'intera vita oppure nell'età giovanile - non possono non essere sensibili a questa eredità spirituale di san Pier Damiani. Le nuove generazioni sono oggi fortemente esposte a un duplice rischio, dovuto prevalentemente alla diffusione delle nuove tecnologie informatiche:  da una parte, il pericolo di vedere sempre più ridursi la capacità di concentrazione e di applicazione mentale sul piano personale; dall'altra, quello di isolarsi individualmente in una realtà sempre più virtuale. Così la dimensione sociale si disperde in mille frammenti, mentre quella personale si ripiega su se stessa e tende a chiudersi a costruttive relazioni con l'altro e il diverso da sé. L'Università, invece, per sua natura vive proprio del virtuoso equilibrio tra il momento individuale e quello comunitario, tra la ricerca e la riflessione di ciascuno e la condivisione e il confronto aperti agli altri, in un orizzonte tendenzialmente universale.
Anche la nostra epoca, come quella di Pier Damiani, è segnata da particolarismi e incertezze, per carenza di principi unificanti (cfr. ibid). Gli studi accademici dovrebbero senz'altro contribuire a qualificare il livello formativo della società, non solo sul piano della ricerca scientifica strettamente intesa, ma anche, più in generale, nell'offerta ai giovani della possibilità di maturare intellettualmente, moralmente e civilmente, confrontandosi con i grandi interrogativi che interpellano la coscienza dell'uomo contemporaneo.
La storia annovera Pier Damiani tra i grandi "riformatori" della Chiesa dopo l'anno Mille. Lo possiamo definire l'anima di quella riforma che va sotto il nome del Papa san Gregorio vii, Ildebrando di Soana, del quale Pier Damiani fu stretto collaboratore da quando, prima di essere eletto Vescovo di Roma, era Arcidiacono di questa Chiesa (cfr. Lettera all'Ordine dei Camaldolesi, 20 febbraio 2007). Ma qual è il genuino concetto di riforma? Un aspetto fondamentale che possiamo ricavare dagli scritti e più ancora dalla testimonianza personale di Pier Damiani è che ogni autentica riforma dev'essere anzitutto spirituale e morale, deve cioè partire dalle coscienze. Spesso oggi, anche in Italia, si parla di riforma universitaria. Penso che, fatte le debite proporzioni, rimanga sempre valido questo insegnamento:  le modifiche strutturali e tecniche sono effettivamente efficaci se accompagnate da un serio esame di coscienza da parte dei responsabili a tutti i livelli, ma più in generale di ciascun docente, di ogni studente, di ogni impiegato tecnico e amministrativo. Sappiamo che Pier Damiani era molto rigoroso con se stesso e con i suoi monaci, molto esigente nella disciplina. Se si vuole che un ambiente umano migliori in qualità ed efficienza, occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso, correggendo ciò che può nuocere al bene comune o in qualche modo ostacolarlo.
Collegato al concetto di riforma, vorrei porre in risalto anche quello di libertà. In effetti, il fine dell'opera riformatrice di san Pier Damiani e degli altri suoi contemporanei era far sì che la Chiesa diventasse più libera, prima di tutto sul piano spirituale, ma poi anche su quello storico. Analogamente, la validità di una riforma dell'Università non può che avere come riscontro la sua libertà:  libertà di insegnamento, libertà di ricerca, libertà dell'istituzione accademica nei confronti dei poteri economici e politici. Questo non significa isolamento dell'Università dalla società, né autoreferenzialità, né tanto meno perseguimento di interessi privati approfittando di risorse pubbliche. Non è di certo questa la libertà cristiana! Veramente libera, secondo il Vangelo e la tradizione della Chiesa, è quella persona, quella comunità o quella istituzione che risponde pienamente alla propria natura e al proprio fine, e la vocazione dell'Università è la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell'intera comunità sociale e civile.
Cari amici, vi ringrazio perché con la vostra visita, oltre che il piacere di incontrarvi, mi avete dato l'opportunità di riflettere sull'attualità di san Pier Damiani, al termine delle celebrazioni millenarie in suo onore. Auguro ogni bene per l'attività scientifica e didattica del vostro Ateneo, e prego perché esso, malgrado le dimensioni ormai notevoli, tenda sempre a costituire una universitas studiorum, in cui ognuno possa riconoscersi ed esprimersi come persona, partecipando alla ricerca "sinfonica" della verità. A questo scopo incoraggio le iniziative di pastorale universitaria in atto, che risultano essere un prezioso servizio alla formazione umana e spirituale dei giovani. E in tale contesto auspico anche che la storica chiesa di san Francesco al Prato possa essere presto riaperta al culto, a beneficio dell'Università e della Città intera. Per tutto questo intercedano san Pier Damiani e la Beata Vergine Maria, e vi accompagni anche la mia Benedizione, che imparto volentieri a voi, a tutti i colleghi ed ai vostri cari.


(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)



Inaugurato a Loppiano l'istituto universitario Sophia

Il carisma dell'unità
diventa dottrina

 Nella mattinata di lunedì 1 ° dicembre, nell'auditorium di Loppiano a Incisa in Val d'Arno, si è svolta l'inaugurazione dell'istituto universitario Sophia fondato da Chiara Lubich. Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato dal presidente del Movimento dei Focolari. di Maria Voce L'inaugurazione dell'istituto universitario Sophia a Loppiano costituisce senza dubbio una tappa particolarmente attesa da tutti noi. Rappresenta, infatti, la realizzazione di un grande sogno che Chiara Lubich ha custodito fin dagli anni Sessanta. Sogno alimentato in lei dalla consapevolezza che il carisma dell'unità, donatole dallo Spirito Santo, racchiudeva un patrimonio di Luce tale che un giorno avrebbe dato espressione a una dottrina. Del resto, la stessa storia della Chiesa attesta che i grandi carismi, che ne hanno costellato il cammino, hanno prodotto dottrine hanno suscitato scuole di pensiero.
Per comprendere il significato di quanto oggi stiamo vivendo bisogna richiamare alcuni episodi che, a partire dalle origini del movimento, ne hanno scandito la storia. In essi si ravvisano le tracce di un disegno divino cui Chiara stessa solitamente ritornava.
Il primo. Siamo nel 1944. Chiara, allora studentessa di filosofia, era alla ricerca della verità che sola soddisfaceva pienamente la sua mente e il suo cuore. Eppure un giorno avverte, decisa, la spinta interiore a deporre i suoi "amatissimi libri in soffitta". Le urgeva dentro l'esigenza di seguire lo sviluppo del nascente movimento, ma soprattutto le pareva assurdo cercare la verità attraverso lo studio della filosofia quando poteva trovarla in Gesù, la Verità incarnata.
Col tempo si sarebbe manifestato più chiaramente il valore fondativo di quell'episodio concreto:  "Avremmo visto - scrive Chiara - splendere una luce, ma essa sarebbe stata l'anima di una vita". In quella luce ella riconobbe essere la sapienza:  dono altissimo che dà la possibilità di scrutare e assaporare in certo modo le profondità stesse di Dio per poi, da lì, tornare a guardare il mondo e la storia, "quasi proiettando su tutto la luce dell'infinito sguardo di Dio".
Più tardi, negli anni Cinquanta, Chiara avverte l'esigenza di riprendere in mano i libri riposti, ma per studiare teologia. La spinge a questo il bisogno di poggiare su una base sicura le molte intuizioni frutto di grazie particolari che avevano caratterizzato quel periodo a partire dall'estate del 1949:  "Un periodo illuminativo della nostra storia", come più volte lo ha definito, durante il quale Dio ha riversato in lei la sua luce donandole una visione nuova di tutta la realtà increata e creata. Luce dalla quale scaturivano anche le linee su cui si sarebbe edificato il movimento.
È da qui che trova origine e fondamento la nostra specifica attività di studio che si sarebbe sviluppata in seguito nel sorgere di vere e proprie scuole. Circa dieci anni dopo, a Loppiano, nascono le prime scuole di formazione per focolarini e focolarine, con l'intento di fornire loro una preparazione dottrinale inerente alle finalità del carisma dell'unità. Più tardi, nel 1980, per portare avanti un'azione capillare di formazione permanente si dà vita all'Università popolare mariana, una scuola per corrispondenza con sede a Rocca di Papa, presso Roma, rivolta ai membri dell'Opera nei vari continenti.
Negli anni Novanta nasce la Scuola Abbà, centro di studi guidato personalmente da Chiara, composto da una trentina di esperti con il compito specifico di enucleare la dottrina insita in quei doni di luce risalenti al 1949, ponendola anzitutto in rapporto con la grande tradizione cristiana ancorata all'eterna verità della Rivelazione, ma anche con tutto il patrimonio di sapienza depositato nel millenario cammino dell'umanità e in dialogo con le diverse culture del nostro tempo.
Vanno così emergendo alcune prime linee di approfondimento che lasciano intravedere tutto l'apporto di novità contenuto nel pensiero di Chiara. Tale apporto può essere ravvisato in una nuova visione dell'uomo, del mondo e della sua storia, incentrata sul modello delle relazioni intratrinitarie, modello in cui si disvela in pienezza l'essenza stessa dell'Amore. Trova qui la sua origine più profonda quella interrelazione fra vita e conoscenza, tipica del carisma, e nella quale Chiara ha sempre riconosciuto una vera sorgente di dottrina.
È da questa emergente visione antropologica che i diversi saperi possono essere illuminati e sospinti verso ulteriori promettenti orizzonti di ricerca. Ne danno prova i numerosi dottorati honoris causa (sedici) nelle più varie discipline, conferiti a Chiara da prestigiose università di tutto il mondo, alcune delle quali qui rappresentate nella persona degli attuali rettori.
L'evento che celebriamo - l'inaugurazione dell'istituto universitario Sophia - non può non apparire consequenziale al cammino percorso. In particolare ne è stato un proficuo banco di prova l'Istituto superiore di cultura, scuola estiva rivolta ai giovani del movimento e svoltasi nei primi anni del 2000. In occasione della sua apertura, Chiara, in un discorso fondamentale, ne ha tracciato le linee programmatiche, delineando un vero e proprio paradigma che auspichiamo possa trovare realizzazione piena nel nascente istituto.
Esso è chiamato a essere - speriamo assieme a lei - luogo di vita e di dottrina; luogo in cui unica materia di insegnamento potrà e dovrà essere la Sapienza - che è Luce, che è Dio - di cui ogni disciplina dovrà essere intrisa; luogo in cui uno solo dovrà essere il Maestro:  Gesù presente tra coloro che sono uniti nel suo nome (cfr. Matteo, 18, 20), presente quindi tra professori, tra studenti, tra professori e studenti. Solo così i corsi proposti potranno davvero fornire "fondamenti e prospettive" di un sapere globale, di una cultura che scaturisce dal carisma dell'unità. Auspichiamo che tale proposta, così innovativa nei contenuti e nella forma, possa avere numerosi e significativi riflessi nella cultura del nostro tempo e raccogliere frutti sempre più abbondanti.

(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008) 

Una formazione integrale della persona

 Il "Sommo Pontefice rivolge un beneaugurante saluto esprimendo vivo apprezzamento per la provvida iniziativa fortemente desiderata dalla compianta Chiara Lubich e auspica che il nuovo centro accademico, promuovendo un autentico pensiero cristiano capace di coniugare fede e ragione, favorisca una visione più ampia e integrata del sapere tesa al dialogo con le altre religioni e culture, come pure la crescita intellettuale e interiore delle giovani generazioni". Con queste parole si apre il telegramma che il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha inviato all'arcivescovo metropolita di Firenze Giuseppe Betori, gran cancelliere dell'istituto universitario Sophia, in occasione dell'inaugurazione solenne dei corsi.
Nascendo e ispirandosi a un carisma dello Spirito Santo riconosciuto e promosso dalla Chiesa cattolica e muovendosi in sintonia con gli orientamenti proposti dal concilio Vaticano ii e dal successivo magistero pontificio, l'istituto ha perseguito la via dell'incardinamento istituzionale nel sistema universitario previsto dalla Costituzione Apostolica Sapientia christiana ed è stato eretto dalla Congregazione per l'Educazione Cattolica con Decreto del 7 dicembre 2007. A partire da qui potrà accedere agli opportuni riconoscimenti accademici a livello internazionale.
In tale contesto accademico - spiega il teologo Piero Coda, preside della nuova università - l'istituto intende qualificarsi, in forma iniziale, per la proposta di una laurea specialistica o master di secondo livello, della durata di due anni, su "Fondamenti e prospettive di una cultura dell'unità" e del corrispettivo dottorato. L'offerta iniziale è rivolta a chi sia in possesso di un diploma universitario di primo ciclo, o abbia ottenuto i 180 crediti formativi previsti nel primo ciclo di studi universitari. I destinatari del secondo ciclo di studi promosso dall'istituto sono pertanto studenti che, al termine del primo ciclo di studi universitari, intendano proseguire la loro specializzazione in una prospettiva interdisciplinare e transdisciplinare allo scopo d'indirizzare i loro studi nell'orizzonte cristiano di una cultura dell'unità, approfondendo al contempo, nell'ottica del dialogo tra le varie discipline, i fondamenti sapienziali ed epistemici della disciplina alla quale si stanno specificamente formando. L'iniziativa è rivolta inoltre a professionisti operanti in vari settori, che intendano effettuare un investimento in capitale umano e in cultura, utilizzando i congedi per motivi di studio previsti dai contratti di lavoro.
Il progetto formativo dell'istituto - tiene a precisare Piero Coda - prevede, come priorità, che studio e vita s'incontrino e si fondano armonicamente tra loro, così che si possa accedere sia al sapere scientificamente istruito (ma reso sapienziale dall'innesto nella vita nutrita dal Vangelo) sia all'intensità della sapienza (ma sviluppata dalla ricerca scientifica nelle diverse articolazioni del sapere). S'intende così superare il rischio di un'istruzione che non sia anche - e prima di tutto - formazione integrale della persona.
La finalità di tale prospettiva è approdare a una conoscenza unitaria e dinamicamente articolata della realtà, presentandosi come uno spazio relazionale dove ogni sapere, aprendosi con il proprio metodo e i propri contenuti agli altri saperi, può più adeguatamente esprimersi e offrire il proprio contributo al progetto comune. Essa può così tendere verso una visione nuova e unitaria della realtà stessa, alimentando un autentico dialogo e una libera cooperazione tra le varie discipline e operando con una razionalità illuminata da quella Sapienza da cui scaturisce e verso cui tende ogni autentica ricerca della verità.
L'importanza di tale progetto formativo è stata sottolineata anche in un messaggio inviato per l'occasione dal cardinale Zenon Grocholewski, prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica. L'organismo della Santa Sede, ha rilevato il porporato, "approvando gli statuti, ha inteso legittimare e sostenere la scelta compiuta dall'Opera di Maria di orientare la portata originale del carisma, riconosciuto dalla Chiesa cattolica, in un percorso di studi accademici, aperto ai vari campi delle discipline umane e scientifiche, illuminato dalla Sapienza e offerto a giovani provenienti da tutti i continenti". "La Chiesa e la società - ha aggiunto - si arricchiscono di una qualificata istituzione accademica, ritenuta particolarmente idonea a rispondere al bisogno di un nuovo umanesimo". Una delle caratteristiche dell'istituto, ha precisato il cardinale, è quella di "promuovere il fecondo incontro tra la ricchezza del messaggio evangelico e la pluralità dei campi di indagine che lo incarnano, rimanendo sempre aperti alla dimensione trascendente per poter valutare le conquiste della scienza e della tecnica nella prospettiva della totalità della persona umana, in rapporto alla società in continuo cambiamento". In particolare egli aggiunge:  "In una società in cui i grandi sistemi di significato hanno perduto credibilità, rendendo difficile comporre le necessarie visioni di sintesi, occorre superare il rischio di un "disordine ontologico", offrendo un orizzonte antropologico in grado di ridare senso e speranza alle persone".



(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)

   Riprodotto in facsimile il più antico esemplare completo della Vulgata

Il Codex Amiatinus
in viaggio tra i secoli

 Un esemplare in facsimile della cosiddetta Bibbia Amiatina, dei primi dell'VIII secolo, è stato presentato presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze. Il volume, realizzato da La Meta Editore, riproduce il prezioso codice trascritto in Northumbria conservato alla Biblioteca Laurenziana Medicea. Riportiamo ampi stralci dell'intervento del direttore dell'Ufficio diocesano di Firenze per la catechesi attraverso l'arte. di Timothy Verdon La storia della Bibbia Amiatina nasce dalla preoccupazione di garantire alle generazioni future l'autentico testo biblico in una forma autorizzata dalla tradizione ecclesiale. L'originale acquisito a Roma era verosimilmente un codice della Vulgata nella versione dell'antiqua translatio corretta personalmente da san Girolamo, forse il codex grandior prodotto nel vi secolo al monastero calabro di Vivarium per volontà dell'erudito abate Cassiodoro. Le copie fatte a Wearmouth e Jarrow e rimaste in Inghilterra giungono a noi in forma frammentaria, mentre la copia tornata in Italia - inviata come dono per il Papa Gregorio ii nell'occasione della sua elezione o poco dopo e finita nel monastero benedettino di Monte Amiata - è intatta, una testimonianza ineguagliata sia alla cultura dei copisti e miniatori inglesi dell'epoca, sia alla perenne consapevolezza cristiana che la Parola di Dio, nella sua forma integra e autentica, infatti costituisce per la Chiesa un tesoro da conservare a tutti i costi e a difendere da ogni manomissione.
Ma cerchiamo di avvicinarci alla straordinaria storia dell'Amiatina e del rapporto tra Italia e Inghilterra alla fine dell'era patristica. Figura emblematica per questo processo è san Gregorio Magno, anch'egli monaco, abate di una comunità da lui stesso fondata a Roma, nella domus della sua famiglia patrizia. Diventato Papa nel 590, coltivò buoni rapporti con la corte costantinopolitana (dove era stato inviato come nunzio dal suo predecessore Pelagio ii), e contemporaneamente inviò il monaco greco Agostino assieme a quaranta confratelli in Inghilterra, a convertire Re Ethelbert di Kent e il suo popolo. Agostino, che rimase in contatti epistolari con Papa Gregorio, fu consacrato arcivescovo e stabilì la sua sede a Canterbury. Prima di morire nel 605 fondò due altre diocesi, a Londra e a Rochester.
L'immediato risvolto culturale di questo processo è suggerito dall'attività di un altro monaco del vii secolo:  il monaco Benedetto Biscop, il quale, nei suoi viaggi nella Gallia romanizzata e a Roma, assicurò ai monasteri di Wearmouth e Jarrow i servigi di artigiani e artisti continentali. Secondo Beda il Venerabile, tra questi ci furono vetrai francesi e addirittura un cantore della Basilica Vaticana:  certo Giovanni, invitato ad attraversare la Manica per insegnare ai monaci della Northumbria i canti sacri "come venivano cantati in San Pietro in Roma". Era forte soprattutto il legame culturale con l'Italia e specificamente con Roma, infatti, come suggeriscono le miniature dell'Amiatina, uniche nella coeva produzione inglese per le reminiscenze classiche:  celebre è l'immagine dello scriba Esdra davanti a un armadio carico di libri, certamente la diretta citazione di un perduto originale tardo antico. Ecco però l'orizzonte culturale dei due monaci, Benedetto Biscop e Ceolfrith, che a Roma intorno al 679-680 vennero in possesso di una copia del codex grandior riproducente il testo integrale della Vulgata.
Non conosciamo le circostanze specifiche dell'acquisizione da parte dei monaci inglesi di questa copia esatta di una versione fidata di un originale unico. Ma un fatto curioso e suggestivo aiuta a immaginarne sia le probabili difficoltà, sia le motivazioni di fondo, permettendo di caratterizzare il quadro culturale che ha prodotto l'Amiatina nonché il ruolo particolare dell'Italia nella cultura monastica del periodo. Per la verità, il fatto risale a un secolo dopo la storia dell'Amiatina, ma serve d'illustrazione di una mentalità.
Quando Carlo Magno visitò l'Abbazia di Montecassino nell'anno 787, gli fu mostrato un manoscritto della Regula Benedicti che i monaci ritenevano autografo:  lo credevano cioè stilato dal santo fondatore di proprio pugno più di due secoli prima. Il loro convincimento risaliva almeno alla metà del secolo, quando Papa Zaccaria (741-52) aveva mandato questo manoscritto all'abate che allora ricostruiva Montecassino, Petronace di Brescia, definendolo "la Regola che il benedetto padre Benedetto scrisse con le proprie sante mani".
La convinzione che il manoscritto fosse autografo era forse più antica. Una coeva fonte carolingia, Paolo il diacono, afferma che quando i monaci di Montecassino sfuggirono all'invasione longobarda alla fine del vi secolo portarono a Roma un testo della Regola. Secondo Leone di Ostia, uno scrittore del xii secolo, questo testo era finito nel monastero lateranense, dal quale è plausibile pensare che sia passato alla biblioteca dell'attiguo palazzo pontificio. Così è concretamente possibile che il manoscritto che Papa Zaccaria mandò a Montecassino (dove verrebbe poi mostrato a Carlo Magno) fosse l'originale. In ogni caso, la filologia moderna è concorde nel considerare la tradizione testuale scaturita dal manoscritto di Montecassino databile all'epoca di san Benedetto.
Questo manoscritto andò perduto, probabilmente nella guerra con i Saraceni nell'Italia meridionale alla fine del ix secolo. Ma la versione del testo che esso conteneva fu preservata attraverso una singolare sequenza di eventi. Carlo Magno aveva richiesto una copia esatta del venerando documento, che gli fu puntualmente preparata e mandata ad Aquisgrana dove - nel medesimo spirito di ammirazione per "originali italiani" - il re dei franchi stava costruendo una cappella sul modello di San Vitale a Ravenna (iniziative, queste, in qualche modo parallele a quelle che diedero vita all'Amiatina).
La copia della Regula Benedicti mandata a Carlo Magno aveva addirittura una garanzia:  una lettera che affermava che era stata fatta secondo il codice "che san Benedetto scrisse con le proprie sante mani". Questa copia di Aquisgrana (anch'essa ora persa) a sua volta venne ricopiata da due monaci mandati dall'abbazia di Reichenau, Grimalt e Tatto, intorno all'anno 820. Uno di questi, Grimalt - diventato abate del monastero di San Gallo vent'anni dopo - vi portò o questa sua copia o una trascrizione, e, tra tanti manoscritti perduti, fu questo l'esemplare della Regula che sopravvisse (Sangallense 914). E nel codice della biblioteca di San Gallo che contiene questa trascrizione, troviamo ancora una lettera di garanzia - risalente al 820 quando i due monaci avevano copiato la versione di Aquisgrana - che conferma che il testo della Regula che stavano allora mandando al bibliotecario di Reichenau "è stato copiato da quell'esemplare (il manoscritto di Aquisgrana) che fu copiato dal vero codice che il benedetto Padre ebbe cura di scrivere con le proprie sacre mani", il manoscritto di Montecassino.
In questo racconto traspaiono diversi aspetti della civiltà monastica prima dell'anno 1000 che aiutano a situare l'Amiatina in senso culturale. Il più impressionante è il ruolo della tradizione:  il processo per cui si tramanda un modo di vivere attraverso la replica materiale di prototipi venerabili. Collegato poi all'importanza della tradizione è la venerazione accordata alla persona di santi iniziatori di una tradizione:  nel caso della Regula, Benedetto; nel caso dell'Amiatina, Girolamo; simili personaggi infatti erano considerati documenti umani che i cristiani di tutte le epoche (e soprattutto i monaci) dovevano copiare. La statura quasi mitica di san Girolamo è in buona parte dovuta all'immagine della sua vita che il grande biblista, esegeta e polemista lima nei suoi scritti. Quella di Benedetto è invece la creazione di san Gregorio Magno, il quale nel secondo dei suoi Dialoghi propone san Benedetto come figura esemplare, e, dopo aver lodato la Regola per la sua "discrezione e chiarezza di linguaggio", insiste che la vita dell'autore non era diversa dal suo insegnamento:  vita e Regula sono "testi" complementari. La Vita Benedicti gregoriana veniva infatti usata nei monasteri, assieme alla Regola, come manuale di formazione.
Un altro fatto che emerge da questa pagina di storia monastica, e che ne condiziona l'indole tradizionalista (focalizzata su copie esatte), è il carattere internazionale della cultura monastica. La transumanza dall'Oriente all'Occidente e dal sud verso il nord (e viceversa), e la sopravvivenza e anzi la fioritura di questa cultura in condizioni storiche di drammatico cambiamento, implicavano adattamenti, innovazioni e compromessi:  la Regula infatti fa notevoli concessioni a necessità e abitudini regionali diverse (nei capitoli 34, 39, 40, 41, 55, ad esempio).
Il carattere internazionale della cultura monastica è perfettamente evidente nell'ambito dell'arte monastica, come suggeriscono le splendide pagine miniate dell'Amiatina, ispiratesi a modelli italici e poi reinterpretate da maestri inglesi per essere infine rinviate in Italia. Numerose sarebbero i casi anche nelle arti monumentali, già prima dell'epoca carolingia, di consonanze tra opere fatte in aree geografiche molto distanziate:  si pensi ad esempio al bellissimo schienale di una sedia abbaziale a Rieti - ora utilizzato come elemento di un leggio - nella sua composizione e nell'astrazione dei simboli degli evangelisti è debitore dell'arte celtica.
In realtà la Regula Benedicti è essa stessa un creativo adattamento dell'austera spiritualità del monachesimo orientale, un po' come il ritratto letterario di Benedetto limato da san Gregorio Magno adatta, per un pubblico italiano, elementi delle vite e delle sentenze dei monaci egiziani. È possibile infatti che, quando loda la Regula benedettina per la sua "discrezione", Papa Gregorio stia pensando precisamente a questa adattabilità. Nella sua corrispondenza con Agostino di Canterbury, proprio Gregorio Magno consiglia elasticità:  rispetto per le usanze pagane locali e, quando possibile, la loro incorporazione nella pratica religiosa cristiana.
Tale "tradizionalismo flessibile" aiuta infine a spiegare un terzo aspetto della cultura monastica che appare nella vicenda del manoscritto di San Gallo come prima in quella dell'Amiatina:  lo stretto rapporto sussistente tra il monachesimo e le istituzioni universalistiche quali il Papato e il Sacro Romano Impero. Se un abate di Wearmouth e Jarrow ha voluto fare dono a Papa Gregorio ii (715-731) di una copia del testo autentico della Vulgata originalmente copiata a Roma trentacinque anni prima, al tempo del pellegrinaggio romano di Ceolfrith e Benet Biscop (circa 679-680), ciò è dovuto anche all'aiuto dato alla Chiesa inglese dieci anni prima dal predecessore di Gregorio ii, Giovanni vi, che nel 704 aveva difeso l'arcivescovo Wilfrid di York contro i suoi nemici, scrivendo ai re di Northumbria e Mercia per indire un sinodo sotto l'autorità dell'arcivescovo di Canterbury; già il predecessore di Giovanni vi, Papa san Sergio i, era intervenuto nell'anno 700 a favore di Wilfrid di York; lo stesso Sergio i nel 693 aveva autorizzato la missione del monaco anglo-sassone Willibrord presso i Frisi; infatti i Papi del periodo si servivano di monaci inglesi come missionari. Dalla prima missione monastica inviata da Gregorio Magno in Inghilterra nel 596-97 vennero frutti notevoli, perché nei successivi duecento anni monaci inglesi evangelizzarono e monasticizzarono l'Europa settentrionale:  il già menzionato san Willibrord nei Paesi Bassi, e i santi Bonifacio e Willibaldo in Germania sono i personaggi più noti; sarà infatti Gregorio ii, destinatario dell'Amiatina, ad autorizzare e sostenere materialmente la missione di san Bonifacio, da lui elevato alla dignità episcopale. Nello stesso modo i Papi dal xii al xiv secolo si serviranno dei cistercensi per convertire i pagani della Prussia e dell'area baltica.
L'attività missionaria gettò poi le basi di un'efficace rete di trasmissione culturale, man mano che suppellettili liturgiche e testi sacri e musicali migravano dal sud verso nord e viceversa; lo stretto legame dell'inglese Bonifacio con la Roma papale porterà ad esempio all'adozione da parte della nascitura chiesa tedesca degli usi e costumi della liturgia romana, non di quella gallicana. Così un elemento di omogeneità venne introdotto nelle usanze religiose europee, mediante la sostituzione delle pratiche rituali del sud della Francia e dell'Irlanda con modelli romani (abbiamo già citato il caso di Benedetto Biscop). Tale unificazione liturgica non era la uniformità della Riforma Cattolica del XVI-XVIi secolo, ma aveva un'analoga funzione simbolica, creando la percezione di una Chiesa unita e universale.
Oltre al suo significato cristiano ed ecclesiale, Roma aveva altre valenze per l'uomo medievale che interessano sia l'Amiatina che la Regula Benedicti. La Vulgata era destinata a diventare l'elemento chiave della futura cultura letteraria europea, e in modo analogo Carlo Magno era interessato alla Regola di san Benedetto perché riconosceva, nell'antica autorevolezza e nel carattere internazionale del testo, uno strumento ideale per realizzare il sogno di un impero cristiano d'Occidente. La scuola di palazzo che egli fondò poi ad Aquisgrana, sotto il monaco inglese Alcuino di York, in effetti mirava alla creazione di una cultura universale, capace di trasmettere a uomini di provenienza diversa un nucleo classico di conoscenze trasmesse dall'Italia, tra cui la Vulgata e la Regula Benedicti. Il sistema monastico doveva fornire i mezzi per raggiungere questa meta, e la riforma e standardizzazione dell'osservanza monastica assunsero grande importanza nel programma politico della renovatio carolingia. Questa pianificazione della vita monastica, realizzata dopo la morte di Carlo Magno dal suo figlio Lodovico il Pio - guidato da san Benedetto di Aniane - nell'817 impose la Regola di Benedetto a tutti i monasteri dell'impero. I sopra menzionati Grimalt e Tatto appartenevano alla prima generazione di questa riforma carolingia, ed erano stati mandati alla scuola imperiale di Aquisgrana appunto per ricevere l'autentica versione del testo, per essere istruiti nella sua interpretazione ufficiale, e infine per riportare tutto questo ai confratelli di Reichenau e, successivamente, San Gallo.
La Bibbia Amiatina, un secolo prima, rientra in un analogo, seppur meno sistematico, sforzo di assicurare concreti elementi di uniformità e continuità alla cultura dell'epoca. In quanto Parola di Dio fedelmente trasmessa, è un tesoro di storia ecclesiastica; in quanto monumento della costruenda Cristianità al sud come al nord delle alpi, è un tesoro di storia europea. Per un'ironia della sorte, nove secoli dopo la sua realizzazione questo manoscritto prodotto per favorire l'unità religioso-culturale verrà impiegato per approntare uno strumento di differenziazione nell'Europa allora polarizzata dalla Riforma protestante:  l'edizione sisto-clementina della Bibbia destinata a distinguere l'interpretazione cattolica da quella dei riformati. Di questo fatto resta testimonianza nella Bibbia Amiatina stessa, sul verso del secondo foglio di guardia su cui è attaccato un cartiglio che reca la seguente nota manoscritta:  "La presente Bibia A dì 12 di luglio 1587 fu portata al illustrissimo Card. Antonio Carafa per l'opera dell'emendatione della Bibia latina vulgata per ordine di S. Santità Sixto v in Roma e fu restituita a dì 19 di gennaro 1592 alli Reverendi Padri D. Marcello Vanni et D. Stefano Bizzotti Monaci di Monastero di S. Salvatore in Montamiata", firmato "Io Arturo de' conti d'Elci".
Davanti alla splendida riproduzione del magnifico codice atlantico in formato dimezzato per favorirne l'utilizzo (l'originale, grande come un tavolo da tè, pesa cinquanta chili) viene spontaneo auspicare che l'Amiatina possa oggi tornare allo scopo originario, invitando a cogliere quanto ci unisce con gli altri, piuttosto delle cose che ci dividono.



(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)

  
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00giovedì 4 dicembre 2008 16:48
All'udienza generale il Papa parla della dottrina sul peccato originale in san Paolo

La notte del male non è invincibile
Più forte è la luce di Cristo

 Cristo oppone "un fiume di luce" al "fiume sporco del male" che avvelena la storia umana. Lo ha ricordato Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 3 dicembre, nell'Aula Paolo vi. Il Papa ha dedicato la catechesi alla dottrina sul peccato originale in san Paolo.

Cari fratelli e sorelle,
nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5, 12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo:  "Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita" (1 Cor 15, 22.45). Con Rm 5, 12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante:  Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del "molto più" riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione:  "Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia" (Rm 5, 20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l'inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.
D'altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo:  si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che "a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte" (Rm 5, 12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l'altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell'umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell'orizzonte  della  giustificazione  in Cristo.
Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci:  che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così:  "C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni  giorno  lo  vediamo:   è  un fatto.
Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una "seconda natura", che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa "seconda natura" fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita:  "questo è umano" ha un duplice significato. "Questo è umano" può voler dire:  quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma "questo è umano" può anche voler dire la falsità:  il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto:  in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.
Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è:  come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice:  l'essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari:  un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in sé il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata:  se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse:  e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.
E così domandiamo di nuovo:  che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice:  esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo:  la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede:  c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.
Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice:  "Hai creato sanabili le nazioni" (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l'uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nella storia:  vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.
Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati:  presenza e attesa. Presenza:  la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio:  "Rorate caeli desuper". E preghiamo con insistenza:  vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!

(©L'Osservatore Romano - 4 dicembre 2008)  Intervento del prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica

Una corretta ermeneutica
per una nuova vita religiosa

 Pubblichiamo alcuni stralci di un intervento pronunciato a Boston dal prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica in occasione di un incontro con religiosi e religiose dell'America del Nord.
 
di Franc Rodé Negli ultimi quarant'anni, la Chiesa è passata attraverso una delle maggiori crisi della propria storia. Noi tutti sappiamo che la drammatica situazione della vita consacrata non è stata marginale in questa faccenda. Praticamente in tutti i Paesi dell'Occidente gli osservatori notano che la maggioranza delle comunità religiose sta entrando nella fase finale di una prolungata crisi il cui risultato - dicono - è già stabilito dalle statistiche.
In molti di questi Paesi occidentali, i religiosi hanno perso speranza. Sono rassegnati alla perdita di vitalità, di significato, di gioia, di attrattiva, di vita. Ma l'America è diversa. La vitalità, la creatività, l'esuberanza che denotano la fiorente cultura degli Stati Uniti si riflettono nella vita cristiana e anche nella vita consacrata. Basti pensare che dal concilio Vaticano ii più di cento nuove comunità religiose sono sbocciate da questo fertile suolo.
Questo è il Paese che Papa Benedetto ha visitato in aprile al fine di portare il messaggio della speranza di Cristo. Ma quando egli è ritornato a Roma, ha detto:  "Ho trovato una grande vitalità e la volontà ferma di vivere e testimoniare la fede in Gesù". Con grande gioia, ha confessato che lui stesso è stato "confermato nella speranza dai cattolici americani".
Lo stato attuale della vita religiosa Nonostante questo passato grandioso e l'attuale vitalità, noi sappiamo - e questa è una delle principali ragioni per cui siamo riuniti qui oggi - che non tutto va bene nella vita religiosa in America. Oggi, le mie osservazioni sono dirette specialmente ai religiosi di vita attiva.
Primo, ci sono numerose nuove comunità, alcune più conosciute di altre, molte delle quali sono fiorenti e le loro statistiche indicano il contrario rispetto alla tendenza generale. Secondo, ci sono comunità più antiche che hanno agito per preservare e riformare la genuina vita religiosa all'interno del proprio carisma; anche queste sono in fase di crescita, contrariamente alla tendenza generale, e l'età media dei loro religiosi è inferiore a quella generale dei religiosi. Nessuno di questi due gruppi vede avvicinarsi "la fine" nel senso che gli osservatori delle tendenze generali sono soliti dire; al contrario il loro futuro si presenta promettente, se continueranno a essere quello che sono e come sono. Terzo, ci sono ancora coloro che accettano l'attuale situazione di declino come - dicono loro - il segno dello Spirito nella Chiesa, il segno di una nuova direzione da seguire. In questo gruppo vi sono coloro che hanno semplicemente accettato la scomparsa della vita religiosa o, per lo meno, delle loro comunità, e si impegnano affinché questo avvenga nella forma più pacifica possibile, ringraziando Dio per i benefici del passato.
Oltre a ciò, dobbiamo ammettere l'esistenza di quelli che hanno optato per vie che li hanno allontanati dalla comunione con Cristo nella Chiesa cattolica, sebbene possano aver deciso di "stare" nella Chiesa fisicamente. Questi possono essere individui o gruppi in istituti che hanno una visione differente, o possono essere intere comunità.
Infine, vorrei distinguere quelli che credono fervidamente nella loro vocazione personale e nel carisma della loro comunità, e cercano mezzi di invertire la tendenza attuale, o, in altre parole, di compiere un autentico rinnovamento. Questi possono essere istituzioni intere, individui, gruppi di individui o persino comunità in seno a un istituto. Mi rivolgo oggi specialmente a quest'ultimo gruppo, con l'intenzione di offrire loro un incoraggiamento e delle idee da seguire. Ma le mie riflessioni possono essere utili anche ai primi due gruppi, perché non perdano quello che già hanno, come avverte san Paolo ai Corinzi:  "Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere" (i Corinzi, 10, 12).
A tal fine, sarà molto importante esaminare le radici della crisi. Qui ci imbatteremo in una domanda necessaria e brutale:  "rinnovamento" non è stato esattamente ciò che abbiamo fatto dopo il concilio? Questo non doveva condurci a una nuova era? E non è stato esattamente questo "rinnovamento" che ci ha fatti giungere dove siamo oggi?
Le ermeneutiche di rottura e discontinuità Il concilio, in realtà, ha offerto chiare e abbondanti direttive per la necessaria riforma della vita consacrata. La questione cruciale è:  come sono state interpretate e applicate queste direttive? Complessivamente, il concilio è stato interpretato e applicato, nel suo insieme, in due forme molto diverse e opposte che noi dobbiamo analizzare più da vicino se vogliamo comprendere quello che è accaduto e tracciare un cammino da seguire in futuro.
"Perché la recezione del concilio, in grandi parti della Chiesa finora si è svolta in modo così difficile?", ha chiesto Benedetto XVI in un importante discorso tre anni fa. La risposta che egli offre è profonda e cristallina:  "Tutto dipende dalla giusta interpretazione del concilio o - come diremmo oggi - dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione". C'è un eccellente equilibrio nei documenti conciliari, ma al momento, dato che il mandato è stato per l'aggiornamento, è stato più facile giustificare i cambiamenti che difendere la continuità.
Nel secondo paragrafo di Perfectae caritatis si legge:  "Il rinnovamento della vita religiosa comporta il continuo ritorno alle fonti di ogni forma di vita cristiana e alla primitiva ispirazione degli istituti, e nello stesso tempo l'adattamento degli istituti stessi alle mutate condizioni dei tempi" (2). Lette attraverso le ermeneutiche di rottura e discontinuità "il continuo ritorno alle fonti di ogni forma di vita cristiana e alla primitiva ispirazione degli Istituti" hanno avuto la tendenza a essere interpretati alla luce dell'"adattamento alle nuove condizioni del nostro tempo" piuttosto che al contrario.
Le conseguenze nella vita religiosa Dobbiamo cominciare col riconoscere che c'è stato, sicuramente, molto da correggere nella vita religiosa e molto da migliorare nella formazione dei religiosi. Dobbiamo anche ammettere che la società ha proposto delle sfide alle quali molti religiosi non erano preparati. In alcuni casi, bisognava scuotersi di dosso la routine e le incrostazioni di usanze superate. In questo senso, dobbiamo affermare categoricamente non solo che il concilio non si sbagliava nel suo impulso al rinnovamento della vita religiosa, ma che è stato veramente ispirato dallo Spirito Santo a farlo.
La vita religiosa, essendo un dono dello Spirito Santo al singolo religioso e alla Chiesa, dipende specialmente dalla fedeltà alle sue origini, fedeltà al fondatore e fedeltà al carisma particolare. La fedeltà a questo carisma è essenziale, poiché Dio benedice la fedeltà, mentre "resiste ai superbi" (Giacomo, 4, 6). La completa rottura di alcuni con il passato va, pertanto, contro la natura di una congregazione religiosa e, in sostanza, provoca il rifiuto di Dio.
Appena il naturalismo è stato accettato come la nuova via, l'obbedienza è diventata la sua prima vittima, perché essa non può sopravvivere senza fede e speranza. La preghiera, specialmente la preghiera comunitaria e la liturgia sacramentale, è stata minimizzata o abbandonata. La penitenza, l'ascetismo, e ciò che è stato denominato come "spiritualità negativa" sono diventate cose del passato. Molti religiosi si sono sentiti a disagio nel vestire l'abito. L'agitazione sociale e politica divenne l'acme della loro azione apostolica. La nuova teologia ha condotto all'interpretazione personale e alla diluizione della fede. Tutto è diventato un problema da discutere. Respinta la preghiera tradizionale, le genuine aspirazioni spirituali dei religiosi hanno cercato forme più esoteriche.
I risultati non si sono fatti attendere, sotto forma di un esodo di membri. Di conseguenza, apostolati e ministeri che erano essenziali per la vita della comunità cattolica e del suo raggio di azione caritativa - soprattutto le scuole - sono scomparsi velocemente. Le vocazioni si sono esaurite rapidamente. Nonostante i risultati cominciassero a parlare di per se stessi, c'erano quelli secondo cui le cose non andavano bene perché non c'erano stati cambiamenti sufficienti, il progetto non era completo. E così il danno è andato aumentando. Si deve notare, inoltre, che molti responsabili delle decisioni e delle azioni disastrose di questi anni postconciliari in seguito hanno essi stessi abbandonato la vita religiosa. Molti di voi si sono mantenuti fedeli. Con immenso coraggio vi siete accollati l'onere di rimediare al danno e ricostruire le vostre famiglie religiose. Il mio cuore e le mie preghiere sono con voi.
L'ermeneutica della continuità e della riforma Il vero spirito del concilio è stato descritto alla sua inaugurazione da Papa Giovanni XXIII, quando ha affermato che esso mira a "trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica". E ha continuato:  "Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell'opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli. (...) Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l'intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, (...); occorre che questa dottrina certa e immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione". Queste parole permettono di interpretare il concilio in modo molto differente da quello descritto in precedenza. Qui abbiamo, in essenza, l'ermeneutica della continuità e della riforma.
La continuità suscita un armonioso dialogo tra fede e ragione. La ragione illuminata dalla fede non cadrà nel tranello del secolarismo moderno. L'autentico profetismo nella Chiesa vuole rettificare i comportamenti e non cambiare la rivelazione apostolica.
I frutti Oggi guardiamo con gratitudine al concilio Vaticano II, per averci provvisto di direttive chiare per distinguere tra la sostanza del deposito della fede e le sue manifestazioni circostanziali. La continuità con ciò che è essenziale nella vita religiosa non sopprime ma incoraggia la riforma di quanto è obsoleto, accidentale e perfettibile. Questo diventa evidente quando leggiamo i criteri e le direttive, attentamente equilibrati, di Perfectae caritatis (1-18), ai quali abbiamo già fatto riferimento parlando della rottura e discontinuità.
Se questi stessi numeri sono interpretati in termini di continuità, si nota che i cambiamenti non sono mai dissociati dalle radici. Quanti cercano la continuità nel rinnovamento noteranno che il concilio ha chiamato a un rinnovamento che è eminentemente rinnovamento dello spirito, enfatizzando la centralità di Cristo come si incontra nei Vangeli, seguendolo nel cammino tracciato dal fondatore attraverso i voti (cfr. Perfectae caritatis, 2).
Cercare il rinnovamento  Dobbiamo ora affrontare la questione:  in quale direzione possiamo andare? C'è una nuova vita per le comunità religiose del Nord America che aspirano a una autentica riforma? Qui dobbiamo notare che, sebbene lo sfondo del problema sia lo stesso, e vi siano problemi e sfide comuni per i religiosi e le religiose (l'ingegneria del linguaggio, il declino verso il relativismo, lo smarrimento del senso del soprannaturale e, in alcuni casi, dubbi sulla rilevanza e centralità di Cristo), è anche vero che ogni gruppo deve affrontare le proprie sfide particolari. Le religiose, in particolare, hanno bisogno di impegnarsi criticamente nei confronti di un certo tipo di femminismo, attualmente fuori moda, ma che continua, nonostante questo, a esercitare molta influenza in certi ambienti. Lasciate che mi concentri su alcuni degli elementi comuni. Se la rottura e la confusione sono ciò che caratterizza le recenti difficoltà nella vita religiosa allora il cammino da seguire deve essere una maggiore ricerca di continuità e chiarezza. Come lo scriba che è stato istruito nel Regno dei Cieli, dobbiamo avere nel nostro tesoro "cose nuove e cose antiche" (cfr. Matteo, 13, 52). Continuità con la fede cattolica Potrebbe apparire superfluo fare questa osservazione, poiché sarebbe giusto immaginare che su questo punto non vi sia discussione. Invece, tutti noi abbiamo fatto esperienza della presenza di gruppi o singole persone che, sotto la propria responsabilità, si sono "spostati oltre la Chiesa", pur rimanendo esteriormente "all'interno" della Chiesa. Sicuramente, un'esistenza così ambivalente non può portare frutti di gioia e pace (cfr. Galati, 5, 22), né per loro stessi né per la Chiesa. Preghiamo affinché lo Spirito Santo li illumini affinché vedano il cammino della vera pace e libertà, e il coraggio di seguirlo.
In accordo con il concilio "la stessa autorità della Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, si è data cura di interpretarli (i consigli evangelici), di regolarne la pratica e anche di stabilire sulla loro base delle forme stabili di vita". L'autorità e la tradizione della Chiesa hanno parlato, nel corso dei secoli, della sostanza della vita consacrata. Benedetto XVI l'ha formulata in questo modo:  "Appartenere al Signore:  ecco la missione degli uomini e delle donne che hanno scelto di seguire Cristo casto, povero e obbediente, affinché il mondo creda e sia salvato".
Continuità col carisma del fondatore Questo punto è di capitale importanza, ed è la chiave per rinnovare e rivitalizzare le nostre congregazioni, attrarre vocazioni e compiere i nostri obblighi nei confronti dei giovani che eventualmente entrano nelle nostre famiglie religiose. Il concilio insiste su questo punto. Dobbiamo garantire che, nelle nostre congregazioni, la vita sia pienamente cattolica e interamente allineata al carisma del fondatore o della fondatrice. Su questa materia, non possono esserci contraddizioni, dal momento che il carisma è stato dato ai fondatori nel contesto ecclesiale ed è stato sottoposto all'approvazione della Chiesa. Molte congregazioni stanno facendo vigorosi sforzi in questo senso.
Ciò nonostante, alcuni superiori religiosi hanno scoperto che questo non è sufficiente. Stanno facendo grandi sforzi per ravvivare la figura e la centralità dei loro fondatori; stanno rinnovando l'osservanza religiosa e la vita nelle loro comunità; ma dicono che le vocazioni ancora non stanno arrivando. Ci sono altri due elementi, entrambi molto importanti, da essere presi in considerazione.
Nelle attuali circostanze, offrire un programma di formazione adeguato e fedele è una sfida particolarmente significativa. Offro alcune considerazioni al riguardo:  vale la pena fare qualsiasi sacrificio per dedicare alla formazione i membri migliori. Essi devono essere pienamente in comunione con la Chiesa. Devono essere prudenti, eminentemente spirituali e pratici. Devono amare la loro congregazione e identificarsi con il carisma del fondatore, possedere un amore spirituale per le loro incombenze, essere consapevoli delle forze e debolezze dei giovani d'oggi, e avere la completa assistenza dei superiori.
I programmi di postulato e noviziato sono più facili da soddisfare, ma la sfida è maggiore per quel che concerne gli studi di filosofia e teologia, o altre carriere universitarie necessarie per l'apostolato svolto dai membri. Quando si rendono necessari studi religiosi in centri al di fuori della congregazione di appartenenza, questi devono essere scelti con prudenza in modo che la dottrina che i giovani religiosi riceveranno sia sicura e profonda, e le circostanze esterne permetteranno che essi vivano un'autentica vita comunitaria e religiosa, continuando a coltivare tutte le aree della loro formazione, incluse quella spirituale, sacramentale e umana.
Le nuove vocazioni devono essere educate alla luce dei ricchi contributi di Giovanni Paolo ii e Benedetto XVI riguardo la comprensione della dignità della persona umana, la natura della libertà, la natura della dimensione religiosa delle nostre vite, la necessità della formazione umana. Essi devono essere imbevuti d'amore per il loro fondatore, la storia, le tradizioni, i contributi, e di una salutare ambizione a servire le anime.
La fedeltà allo spirito della vita religiosa e a un istituto non dovrebbe essere spersonalizzata o statica. Piuttosto, dovrebbe essere creativa, capace di trovare vie innovative per sviluppare e applicare il carisma e per raggiungere le nuove generazioni di cattolici e i potenziali membri dell'istituto.
Distinguo due modi differenti e complementari per promuovere le vocazioni:  uno lo chiamerei indiretto, l'altro diretto. E, diversamente da quanto si potrebbe intuire, ritengo che la cosiddetta promozione indiretta sia la più importante nell'attuale contesto della Chiesa, perché ciascuno di noi può impegnarsi in essa, l'intero corpo ecclesiale ne trae benefici, e senza di essa la promozione diretta delle vocazioni resta in gran parte sterile.
Promozione indiretta è tutto ciò che costruisce la vita di Cristo nella Chiesa, e può essere sintetizzata in tre dimensioni di vita:  spiritualità, catechesi e apostolato o ministero. Noi dobbiamo centrare l'attenzione su queste dimensioni della vita cristiana nei due luoghi che più influenzano la vocazione alla consacrazione:  sulla famiglia e sul cuore, mente e anima del giovane. Molto spesso nelle nostre vite e comunità la ragione per cui il seme non porta frutti non è perché il suolo sia roccioso o scadente, ma perché molti altri interessi richiamano il nostro tempo e attenzione. Intendo dire che oggi noi siamo coinvolti e preoccupati per molte cose, come Marta (Luca, 10, 41). Comitati, conferenze, dibattiti sulla giustizia sociale, comunicati stampa e cose del genere, riempiono il nostro calendario. Ma c'è una cosa e una cosa sola che, in ultima analisi, cambia il mondo:  l'intima trasformazione della persona attraverso il contatto con la grazia di Cristo.
La spiritualità non è centrata nel vago sentimento religioso dello star bene con Dio e il prossimo, e avere esperienze piacevoli nella preghiera. La sua essenza è la continua conversione, nutrita dai Sacramenti e il compimento del piano di Dio per la propria vita. Essa ha una dimensione oggettiva.
La catechesi non è limitata a una istruzione iniziale, ma è il continuo approfondimento delle ricchezze della nostra fede cattolica che, sola tra tutte le religioni e versioni del cristianesimo, offre un solido e pienamente soddisfacente alimento per l'intelletto come per l'anima. È essenziale che la catechesi vada di pari passo con la spiritualità e sia capace di giustificare le nostre speranze, come ha detto san Pietro (cfr. Pietro, 3, 15). Come testimonia Papa Benedetto.
La terza dimensione è l'azione:  vivere esternamente la carità di Cristo che porta al di là dei confini della propria comodità. Per la persona, questa è una nuova esperienza di Cristo.
Normalmente Dio andrà a piantare il seme di una vocazione nelle famiglie e nella vita delle persone. E questo ci conduce al prossimo punto:  la promozione diretta. La promozione diretta delle vocazioni si verifica quando abbiamo iniziato a trovare e incoraggiare quei giovani che Dio sta chiamando alle nostre comunità. Questo suppone che noi realmente crediamo che Dio stia lavorando in quelle anime, per questa ragione ci impegniamo con fiducia e non ci scoraggiamo se il successo non arriva immediatamente.
Facciamo promozione diretta in molte forme:  facciamo propaganda, parliamo in scuole e università, scriviamo, invitiamo, offriamo ritiri ed esperienze, e così via. Questo deve e può continuare e aumentare se possibile, utilizzando tutti i mezzi che oggi abbiamo a nostra disposizione.
Io credo che tre elementi contribuiscano a rendere questa promozione diretta effettiva:  primo, la preparazione indiretta sopra menzionata (che sia stata fatta per mezzo di un apostolato o ministero di una delle nostre comunità, o di un'altra comunità o movimento ecclesiale, o anche nella parrocchia della persona). Secondo:  ciò che noi offriamo deve essere genuino. In altre parole, la vita della comunità e la formazione alla quale io invito questo giovane, deve riflettere il carisma particolare della mia famiglia religiosa ed essere in piena e gioiosa comunione con la Chiesa. Infine, i promotori vocazionali devono possedere una preparazione umana, intellettuale e spirituale adatta al loro delicato compito.
Conclusione Non deve sorprenderci il fatto che il cammino da seguire sia irto di difficoltà e sfide. Tuttavia, desidero che siate sicuri del mio totale appoggio a qualsiasi sforzo sincero di rinnovamento di ognuna delle famiglie religiose sulla linea della fedeltà alla Chiesa e al fondatore. Molta onestà, umiltà, coraggio, apertura di mente, dialogo, sacrificio, perseveranza e preghiera saranno necessari, come ci ha ricordato Papa Benedetto. Nel Vangelo, Gesù ci ha avvertito che due sono le vie:  una è la via stretta che conduce alla vita, l'altra è la via larga che conduce alla perdizione (cfr. Matteo, 7, 13-14).
Lasciatemi concludere con una preghiera tratta dall'orazione di apertura e da quella dopo la Comunione della messa per i religiosi del Messale Romano:  "O Dio, che ispiri e porti a termine ogni buon proposito, guida i tuoi servi e le tue serve nella via della salvezza. Concedi, a quelli che fanno ogni cosa per amore tuo, di seguire Cristo e rinunciare al mondo, servendo Te e i loro fratelli e sorelle, con spirito di povertà e umiltà di cuore. Concedi che le religiose e i religiosi, riuniti nel tuo amore, si animino gli uni con gli altri nell'esercizio della carità e nella pratica delle buone opere, siano con la loro vita santa autentici testimoni di Cristo nel mondo. Per il Nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, nell'unità dello Spirito Santo. Amen".


(©L'Osservatore Romano - 4 dicembre 2008)   A venti anni dal documento della Congregazione per l'Educazione Cattolica

La mariologia
nei centri accademici della Chiesa

 di Salvatore M. Perrella
Pontificia Facoltà Teologica Marianum
L'insegnamento della mariologia nei centri accademici della Chiesa negli ultimi venti anni è progredito in quantità e qualità e la situazione appare incoraggiante per il futuro. È il dato più evidente emerso dal recente convegno - 28-29 novembre - che si è svolto presso l'università Antonianum su iniziativa della Pontificia Accademia Mariana Internationale e della Pontificia Facoltà Teologica Marianum, a vent'anni dalla lettera circolare sull'insegnamento della mariologia nei centri accademici della Chiesa, pubblicata dalla Congregazione per l'Educazione Cattolica con il titolo "La Vergine Maria nella formazione intellettuale e spirituale". Al convegno hanno partecipato il prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica, cardinale Zenon Grocholewski e il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi. Una scienza di raccordo La circolare del 25 marzo 1988, a un anno dalla promulgazione dell'enciclica Redemptoris Mater e nel pieno svolgimento dell'Anno mariano indetto da Giovanni Paolo ii è indirizzata ai vescovi delle Chiese locali e loro tramite ai rettori dei seminari, ai presidi e decani delle facoltà teologiche ed ecclesiastiche, allo scopo di fornire agli studenti di teologia una formazione mariologica integrale che abbracci lo studio, il culto e la vita, dando praticamente all'insegnamento della mariologia il giusto posto e l'adeguato spazio nel curriculum studiorum.
Rispetto al passato, la mariologia come disciplina teologica non si può isolare dalle altre scienze teologiche. Addentrarsi nella conoscenza di Maria significa penetrare più a fondo nella conoscenza di Cristo, della Chiesa e dell'uomo. A sua volta la verità su Cristo, sulla Chiesa e sull'uomo illumina la verità circa Maria; per queste ragioni la mariologia realizzata e insegnata con criteri scientifici e con la doverosa sensibilità interdisciplinare fornisce un contributo importante all'investigazione teologica. Essa, infatti, è strettamente legata alle altre discipline teologiche, ciò significa che non è una disciplina né autonoma né isolata, ma è una disciplina teologica eminentemente relazionale. Come Maria nella sua realtà di grazia e di natura è donna di relazione e di dialogo, così la mariologia si può considerare una "disciplina di raccordo", un luogo d'incontro dei vari trattati teologici - cristologia, pneumatologia, ecclesiologia, trinitaria, antropologia, liturgia, escatologia, ecumenismo - quindi un eminente "spazio di sintesi". La riflessione teologica sulla persona, sul ruolo-servizio e sul significato della Vergine nell'ambito della fede, della celebrazione della fede e della vita di fede, è necessariamente connessa con gli altri grandi temi del cristianesimo. Un corso formativo La lettera circolare del 1988, riferendosi dell'insegnamento della mariologia, tocca un punto importante della questione, stabilendo la necessità e la congruità formativa, intellettuale e pastorale di tale insegnamento:  "Considerata l'importanza della figura della Vergine nella storia della salvezza e nella vita del popolo di Dio, e dopo le indicazioni del Vaticano ii e dei sommi Pontefici, sarebbe impensabile che oggi l'insegnamento della mariologia fosse trascurato:  occorre pertanto dare a esso il giusto posto nei seminari e nelle facoltà teologiche" (Ibidem, 27). La lettera non dice nulla sul "come" e il "quando" tale insegnamento sia entrato nel curriculum studiorum dei centri accademici; per cui non contesta né difende il passato di tale insegnamento. Al documento sta a cuore "l'oggi" e il "futuro" della mariologia e del suo insegnamento; un insegnamento che dovrà essere "organico, inserito cioè adeguatamente nel piano di studi del curricolo teologico" (Ibidem, 28). Ciò significa che bisogna offrire in modo adeguato agli alunni l'intera connessione interna dei vari aspetti della persona, del ruolo e del significato della Madre di Gesù, collegandoli con le principali discipline teologiche e nel contesto del principio conciliare della hierarchia veritatum (cfr. Unitatis redintegratio 11). Il mistero-evento mariano deve essere insegnato e studiato in tutte le sue parti, con metodo rispondente ai criteri dettati da Optatam totius 13-18, adatto per la retta sua comprensione e nel quadro globale della teologia. Per cui l'insegnamento deve perciò essere:  "Completo, in modo che la persona della Vergine sia considerata nell'intera storia della salvezza, cioè nel suo rapporto con Dio; con Cristo, Verbo incarnato, salvatore e mediatore; con lo Spirito Santo, santificatore e datore di vita; con la Chiesa, sacramento di salvezza; con l'uomo - le sue origini e il suo sviluppo nella vita della grazia, il suo destino di gloria" (La Vergine Maria nella formazione intellettuale e spirituale, 28). Maria di Nazaret non è un elemento marginale della fede cristiana, ma in lei umile serva del Signore si concentra, si riassume e si riverbera il Mistero (cfr. Lumen gentium 65). Perciò, l'insegnamento su di lei deve essere "completo"; cioè Maria deve essere considerata nel suo singolare rapporto con il mistero di Dio Padre, di Cristo, dello Spirito, della Chiesa, dell'uomo-donna, del cosmo; al contrario una presentazione solipsistica della Madre di Gesù rischia quasi di deformare l'icona biblica, teologale e simbolica, con deleteri effetti nella prassi pastorale ed ecumenica. Perciò l'insegnamento della mariologia dovrà anche essere:  "Rispondente ai vari tipi di istituzione (centri di cultura religiosa, seminari, facoltà teologiche...) e a livello degli studenti:  futuri sacerdoti e docenti di mariologia, animatori della pietà mariana nelle diocesi, formatori di vita religiosa, catechisti, conferenzieri e quanti sono desiderosi di approfondire la conoscenza mariana" (La Vergine Maria nella formazione intellettuale e spirituale, 28). La lettera circolare parla di inserire l'insegnamento mariologico "nel giusto posto". Come materia dalla grande rilevanza dottrinale, pastorale ed ecumenica, essa dovrebbe essere insegnata, per un'ora settimanale in un semestre, ma sarebbero ideali due ore settimanali in un semestre del triennio istituzionale; tale servizio accademico darebbe agli studenti, specie quelli di prima formazione teologica, l'opportunità di una buona e sufficiente conoscenza. Riguardo alla collocazione dell'insegnamento in questione, Bruno Forte ritiene:  "La mariologia, inserita organicamente nell'insieme della teologia, è al tempo stesso cifra dell'intero:  contenuta dal tutto, essa contiene il tutto in forma densa, fedele riflesso di quell'evento della storia, la Pasqua, in cui la storia intera si lascia contenere. In altri termini, proprio perché rinvia ai vari capitoli della dogmatica cristiana, la mariologia può costituirne efficacemente l'ultimo capitolo, una sorta di verbum abbreviatum, di compendio argomentativo, narrativo e simbolico insieme, ricco di forza evocativa e di stimoli pratico-critici". Un trattato teologico sensibile alle indicazioni che provengono dalla vita della Chiesa, dalla liturgia e dalla pietà del popolo, e alle esigenze ecumeniche, interreligiose e pastorali, grazie alla doverosa attenzione ed empatia prestata ai problemi, alle gioie e alle speranze degli uomini e delle donne del nostro tempo. Quindi un trattato e un insegnamento in cui non si dovranno lamentare eccessi di astrattismo, di mariocentrismo o di mariofobia, o nel contempo denunciare incresciose assenze o reticenze. Risulta evidente il riferimento al capitolo viii della Lumen gentium del Vaticano ii, alla Marialis cultus di Paolo vi, alla Mulieris dignitatem e alla Redemptoris Mater di Giovanni Paolo ii, alla Deus caritas est e alla Spe salvi di Benedetto XVI, che ritengono la parabola evangelica, teologale, teologica e tipologico-ecclesiale della Vergine "paradigmatica e significativa" per la fede del nostro tempo. Prospettive incoraggianti Circa la questione della struttura dell'insegnamento mariologico tra il "corso unitario" e il "corso frazionato", sulla base della nostra esperienza di docenza, ci pronunciamo a favore del primo nel senso che tra la proposta del "corso frazionato" e quella del "corso unitario", sia preferibile la seconda, cioè quella di un corso in cui il docente, con uno "spazio" sufficiente, con rigorosa adesione alle fonti e con apertura a rigorose prospettive interdisciplinari, illustri sistematicamente quanto la Chiesa insegna su Maria, santa sorella dell'umanità. Infatti:  la formazione degli studenti deve "possedere una conoscenza completa ed esatta della dottrina della Chiesa sulla Vergine Maria, che consenta loro di discernere la vera dalla falsa devozione, e l'autentica dottrina dalle sue deformazioni, per eccesso o per difetto; e soprattutto che dischiuda a essi la via per contemplare e comprendere la superna bellezza della gloriosa madre del Cristo; alimentare un amore autentico verso la Madre del Salvatore e madre degli uomini, che si esprima in genuine forme di venerazione e si traduca in imitazione delle sue virtù e soprattutto in un deciso impegno a vivere secondo i comandamenti di Dio e a fare la sua volontà (cfr. Matteo 7, 21; Giovanni 15, 14); sviluppare la capacità di comunicare tale amore con la parola, gli scritti, la vita, al popolo cristiano, la cui pietà mariana è da promuovere e coltivare" (La Vergine Maria nella formazione intellettuale e spirituale, 34). La lettera nella conclusione si sofferma sul rapporto stretto esistente tra mariologia e spiritualità mariana, affermando che lo studio della mariologia tende, come sua ultima meta, all'acquisizione di una solida spiritualità mariana, aspetto qualificante l'unica spiritualità cristiana. Questo rapporto, inoltre, si prolunga in un altro importante passaggio:  dalla spiritualità mariana alla corrispondente devozione mariana, che trova la massima espressione nella celebrazione liturgica dei misteri di Cristo e di Dio a cui è stata associata la Madre del Signore. La recente indagine statistica compiuta da Jean-Pierre Sieme Lasoul ha dimostrato che all'interno dei centri accademici della Chiesa ci sono diversità sul modo di interpretare e attuare il dispositivo della lettera circolare. Infatti, su 282 istituti dell'urbe e dell'orbe cattolico presi in considerazione, il 68% hanno un corso di mariologia all'interno del triennio teologico istituzionale; ciò significa che il rimanente 32% di essi non hanno ancora dato corso alla disposizione della Congregazione per l'Educazione Cattolica. Tra quelli che offrono agli studenti di teologia un corso di mariologia, il 60% ha un corso sistematico (intero) mentre il 40% offrono un corso frazionato (mariologia inclusa nel corso dell'ecclesiologia o della cristologia). Il risultato dell'indagine, comunque, è tutto sommato incoraggiante; la mariologia sempre più diventa materia di insegnamento e questo è stato ed è lo scopo principale della lettera circolare del 1988.


(©L'Osservatore Romano - 4 dicembre 2008)   La liturgia fra innovazione e tradizione

Con la pazienza
dell'amore

 Viene presentato giovedì 4 dicembre a Bari il volume La riforma di Benedetto XVI (Casale Monferrato, Piemme, 2008, pagine 128, euro 12). Ne pubblichiamo le conclusioni.
 
di Nicola Bux Sta nascendo un nuovo movimento liturgico che guarda alle liturgie di Benedetto XVI; non bastano le istruzioni preparate da esperti, ci vogliono liturgie esemplari che facciano incontrare Dio. Solo degli spiriti volontariamente superficiali non se ne accorgerebbero. È un nuovo inizio che nasce dal profondo della liturgia proprio come il movimento liturgico del secolo scorso giunto al culmine col concilio. La liturgia come luogo dell'incontro col Dio vivente, non uno show per rendere interessante la religione, non un museo di forme rituali grandiose. Il popolo di Dio celebra il nuovo rito con rispetto e solennità, ma resta disorientato dalle contraddizioni dei due estremi. La liturgia torna a essere azione ecclesiale, non di specialisti ed équipe liturgiche ma di padri e maestri che grazie alla conoscenza delle fonti vedevano la liturgia occidentale come frutto di uno sviluppo storico e quella orientale riflesso di quella eterna. Questi ultimi si opposero alla mistificazione della liturgia e conoscendo la storia ci hanno mostrato le forme molteplici del suo cammino. Di essi il Santo Padre raccoglie l'eredità e la fa fruttificare, ne ha esaudito l'auspicio che le forme antica e nuova del rito romano coesistessero una accanto all'altra come già avviene con l'ambrosiana e le orientali.
Fidiamoci di lui:  egli porta pazientemente la saggezza dell'immaginazione cattolica nella vita della Chiesa odierna. Egli comprende bene quanto l'innovazione non sia ostile alla tradizione ma ne faccia parte come linfa dello Spirito Santo. Non è un conservatore e nemmeno un innovatore, ma un missionario "umile lavoratore della vigna del Signore". Nel libro Gesù di Nazaret egli mette in rilievo la "comprensione" che nel vangelo di Luca - a differenza dagli altri vangeli - Gesù dimostra nei confronti degli israeliti:  "A me sembra particolarmente significativo - egli osserva - il modo in cui egli conclude la storia del vino nuovo e degli otri vecchi o nuovi. In Marco si legge:  "Nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi" (Marco 2, 22). In Matteo, 9, 17 il testo è simile. Luca ci tramanda la stessa conversazione, aggiungendo tuttavia alla fine:  "Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice:  "Il vecchio è buono'" (5, 39) - un'aggiunta che forse è lecito interpretare come un'espressione di comprensione nei confronti di coloro che volevano restare "al vino vecchio" (pp. 216-217)". Non è applicabile questo apologo al dibattito tra usus antiquior e usus novus della messa, seguito al motu proprio?
La liturgia cristiana, come lo stesso avvenimento cristiano, non è fatta da noi. Un termine come attualizzazione ha ingenerato l'idea che noi avessimo le capacità per replicarlo, creare le condizioni giuste perché possa accadere, di organizzarlo, quasi fossimo creatori di ciò che affermiamo di credere. In realtà è Gesù Cristo che fa la sacra liturgia con lo Spirito Santo. A noi tocca seguire, fare spazio alla sua opera. Il metodo a portata di tutti è guardare a quello che accade - si usava dire "assistere" cioè ad-stare - stare davanti alla sua presenza; significa aderire a Qualcosa che viene prima, seguire quello che lui fa in mezzo a noi, capace sempre di capovolgere in un attimo l'idea che il culto sia fatto da noi. La liturgia è sacra e divina perché è una Cosa che viene dall'altro mondo.
Vorremmo aiutare a comprendere e a celebrare degnamente la liturgia come possibilità di incontro con la realtà di Dio e causa della moralità dell'uomo, a leggere le degradazioni sintomo di vuoto spirituale indicando la via per restaurarne lo spirito nel segno dell'unità della fede apostolica e cattolica, a promuovere un dibattito serio e un cammino educativo seguendo il pensiero e l'esempio del Papa che consenta di riprendere il movimento liturgico. Bisogna mirare allo spirito della liturgia come adorazione di Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito Santo e come pedagogia per entrare nel mistero ed esserne trasformati in moralità e santità. È un invito anche ai laici non credenti ma desiderosi del vero, perché nessuno è immune dal dubbio che forse esista Qualcun altro a cui dedicare il tempo! Su questo "forse", che la liturgia non svela del tutto, - per questo si chiede che venga preservato il senso del mistero e del sacro, - si instaurerà la comunicazione tra credenti e non o diversamente credenti.


(©L'Osservatore Romano - 4 dicembre 2008)  
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