Benedetto XVI indica ai seminaristi e ai sacerdoti l'esempio dell'apostolo Paolo Capaci di dialogare con tutti
L'esperienza religiosa non è una scelta soggettiva: è essenziale e determinante per l'uomo contemporaneo, che appare spesso smarrito e preoccupato per il suo futuro e che, magari anche senza accorgersene, è alla ricerca di Dio. Lo ha detto il Papa durante l'udienza di sabato mattina, 29 novembre, concessa alle comunità dei Pontifici seminari regionali "Pio XI" di Ancona, per le Marche; "Pio XI" di Molfetta, per la Puglia; "San Pio x" di Chieti, per l'Abruzzo e il Molise. L'incontro è avvenuto nella Sala Clementina.
Cari Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari amici dei Seminari Regionali Marchigiano, Pugliese e Abruzzese-Molisano!
Sono particolarmente lieto di accogliervi in occasione del centenario di fondazione dei vostri rispettivi Seminari Regionali, sorti a seguito dell'incoraggiamento del Papa san Pio x, che sollecitò i Vescovi italiani, specialmente del centro-sud della Penisola, ad accordarsi per concentrare i Seminari, al fine di provvedere più efficacemente alla formazione degli aspiranti al sacerdozio. Vi saluto tutti con affetto, ad iniziare dagli Arcivescovi Mons. Edoardo Menichelli, Mons. Carlo Ghidelli e Mons. Francesco Cacucci, che ringrazio per le parole con le quali hanno voluto interpretare i comuni sentimenti. Saluto i rettori, i formatori, i professori e gli alunni e quanti quotidianamente vivono e lavorano in queste vostre istituzioni. In così significativa ricorrenza desidero unirmi a voi nel rendere lode al Signore, che in questo secolo ha accompagnato con la sua grazia la vita di tanti sacerdoti, formati in tali importanti realtà educative. Molti di loro sono impegnati oggi nelle varie articolazioni delle vostre Chiese locali, nella missione ad gentes e in altri servizi alla Chiesa universale; alcuni sono stati chiamati a ricoprire incarichi di alta responsabilità ecclesiale.
Vorrei rivolgermi ora particolarmente a voi, cari Seminaristi, che vi state preparando per essere operai nella vigna del Signore. Come ha ricordato anche la recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi, tra i compiti prioritari del presbitero c'è quello di spargere a larghe mani nel campo del mondo la Parola di Dio che, come il seme della parabola evangelica, sembra in realtà assai piccolo, ma, una volta germinato, diventa un grande arbusto e porta abbondanti frutti (cfr. Mt 13, 31-32). La Parola di Dio che voi sarete chiamati a seminare a larghe mani e che porta in sé la vita eterna, è Cristo stesso, il solo che possa cambiare il cuore umano e rinnovare il mondo. Ma potremmo domandarci: l'uomo contemporaneo sente ancora bisogno di Cristo e del suo messaggio di salvezza?
Nell'attuale contesto sociale, una certa cultura pare mostrarci il volto di una umanità autosufficiente, desiderosa di realizzare i propri progetti da sola, che sceglie di essere unica artefice dei propri destini, e che, di conseguenza, ritiene ininfluente la presenza di Dio e perciò la esclude di fatto dalle sue scelte e decisioni. In un clima segnato talora da un razionalismo chiuso in sé stesso, che considera quello delle scienze pratiche l'unico modello di conoscenza, il resto diventa tutto soggettivo e di conseguenza anche l'esperienza religiosa rischia di essere vista come una scelta soggettiva, non essenziale e determinante per la vita. Certamente oggi, per queste ed altre ragioni, è diventato sicuramente più difficile credere, sempre più difficile accogliere la Verità che è Cristo, sempre più difficile spendere la propria esistenza per la causa del Vangelo. Tuttavia, come la cronaca quotidianamente registra, l'uomo contemporaneo appare spesso smarrito e preoccupato per il suo futuro, in cerca di certezze e desideroso di punti di riferimento sicuri. L'uomo del terzo millennio, come del resto in ogni epoca, ha bisogno di Dio e lo cerca talora anche senza rendersene conto. Compito dei cristiani, in modo speciale, dei sacerdoti è raccogliere quest'anelito profondo del cuore umano ed offrire a tutti, con mezzi e modi rispondenti alle esigenze dei tempi, l'immutabile e perciò sempre viva e attuale Parola di vita eterna che è Cristo, Speranza del mondo.
In vista di questa importante missione, che sarete chiamati a svolgere nella Chiesa, assumono grande valore gli anni di seminario, tempo destinato alla formazione e al discernimento; anni nei quali al primo posto deve esserci la costante ricerca di un rapporto personale con Gesù, una esperienza intima del suo amore, che si acquisisce attraverso la preghiera innanzitutto e il contatto con la Sacre Scritture, lette, interpretate e meditate nella fede della comunità ecclesiale. In questo Anno Paolino come non proporvi l'apostolo Paolo, quale modello a cui ispirarvi per la vostra preparazione al ministero apostolico? L'esperienza straordinaria sulla via di Damasco lo trasformò, da persecutore dei cristiani, in testimone della risurrezione del Signore, pronto a dare la vita per il Vangelo. Egli era un fedele osservante di tutte le prescrizioni della Torah e delle tradizioni ebraiche, ma, dopo aver incontrato Gesù, "queste cose che per me erano guadagni - scrive nella Lettera ai Filippesi - io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo". "Per lui - aggiunge - ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui" (cfr. 3, 7-9). La conversione non ha eliminato quanto c'era di bene e di vero nella sua vita, ma gli ha permesso di interpretare in modo nuovo la saggezza e la verità della legge e dei profeti e di divenire così capace di dialogare con tutti, seguendo l'esempio del divino Maestro.
Ad imitazione di san Paolo, cari Seminaristi, non stancatevi di incontrare Cristo nell'ascolto, nella lettura e nello studio della Sacra Scrittura, nella preghiera e nella meditazione personale, nella liturgia e in ogni altra attività quotidiana. Importante è, al riguardo, il vostro ruolo, cari responsabili della formazione, chiamati ad essere per i vostri allievi testimoni ancor prima che maestri di vita evangelica. I Seminari Regionali, per le loro tipiche caratteristiche, possono essere luoghi privilegiati per formare i seminaristi alla spiritualità diocesana, iscrivendo con saggezza ed equilibrio tale formazione nel più ampio contesto ecclesiale e regionale. Le vostre istituzioni siano pure "case" di accoglienza vocazionale per imprimere ancor maggiore impulso alla pastorale vocazionale, curando specialmente il mondo giovanile ed educando i giovani ai grandi ideali evangelici e missionari.
Cari amici, mentre vi ringrazio per la vostra visita, invoco su ciascuno di voi la materna protezione della Vergine Madre di Cristo, che la liturgia dell'Avvento ci presenta come modello di chi veglia nell'attesa del ritorno glorioso del suo divin Figlio. A Lei affidatevi con fiducia, ricorrete sovente alla sua intercessione, perché vi aiuti a restare desti e vigilanti. Da parte mia vi assicuro il mio affetto e la mia preghiera quotidiana, mentre di cuore tutti vi benedico.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)
Apertura e ragione
Gli avvenimenti tragici degli ultimi giorni - che hanno colpito e sconvolto un grande Paese già da mesi teatro di ripetuti episodi di intolleranza e violenza rivolti in particolare contro le minoranze cristiane - confermano una volta di più che il dialogo tra le culture del mondo è l'unica via percorribile per una convivenza umana. Come Benedetto XVI va ripetendo dall'inizio del pontificato e di nuovo ha ora confermato in una lettera al senatore Marcello Pera. Incluso nell'introduzione al libro appena pubblicato dall'esponente politico italiano con il titolo Perché dobbiamo dirci cristiani, il breve testo papale ne sottolinea alcune analisi.
Tra queste, l'affermazione "che all'essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell'immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l'uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà". E urgente appare quel dialogo che - sottolinea con lucidità il Papa - "approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo". In questo modo, ancora una volta Benedetto XVI sottolinea l'importanza del dialogo tra le culture indicando che si tratta di una via più praticabile e suscettibile di conseguenze che vanno esaminate "nel confronto pubblico": proprio qui, infatti, "il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari".
Anche in tempi difficili come quelli presenti viene così confermata la scelta della Chiesa cattolica di aprirsi al dialogo con le culture del mondo. Con la volontà che questo colloquio - un termine caro a Paolo vi, che di questa apertura fece il tema della sua enciclica programmatica - sia autentico e porti frutti. Non solo dunque un dialogo di superficie che affermi sulla carta principi, ma un confronto vero. Innanzi tutto all'interno della stessa Chiesa, che deve approfondire "la coscienza di se stessa" - come afferma appunto la Ecclesiam suam - per poi "con candida fiducia" affacciarsi "sulle vie della storia" e ripetere "agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate".
Le parole di Benedetto XVI sono state comprese e apprezzate anche al di là dei confini cattolici, così come la ribadita volontà di confronto e di amicizia con l'ebraismo e con l'islamismo sta portando frutti. Il Papa continua a fare appello alla ragione di tutti e, senza stancarsi, chiede che questa ragione si apra: al confronto con ogni interlocutore su temi ragionevoli e condivisibili come quelli della dignità di ogni persona umana, creatura e immagine di Dio, e della libertà religiosa.
Sono infatti queste alcune delle "conseguenze culturali" su cui è urgente confrontarsi, come per esempio è avvenuto dopo la lezione di Ratisbona. La Chiesa - scriveva ancora Paolo VI - senza promettere la felicità terrena offre però la sua luce e la sua grazia per poterla conseguire. E "parla agli uomini del loro trascendente destino" ragionando anche "di verità, di giustizia, di libertà, di progresso, di concordia, di pace, di civiltà. Sono parole queste, di cui la Chiesa conosce il segreto; Cristo glielo ha confidato".
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)
La misericordia vera forza della giustizia
di Giovanni Maria Flick
Il luogo della giustizia è la vita collettiva, perché l'essere-altro, l'essere-separato, dall'altra parte, è ciò che distingue la giustizia, dall'amore, dove è abolita la distanza e gli individui non vengono a contrapporsi l'uno all'altro, quali separate altruità, come degli estranei.
Il giusfilosofo tedesco Josef Pieper ha scritto che "essere giusto vuol dire convalidare l'altro come tale, vuol dire insomma offrire il riconoscimento, là dove non è possibile l'amore. E la giustizia avverte, dal canto suo, che esiste un altro, il quale non è come me e tuttavia ha anche lui il diritto al suo". Dunque, la giustizia è la virtù che ci porta a riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, ciò che è suo.
Ma cosa significa "rendere il suo a ciascuno"? Padre Joseph de Finance, nella sua Etica generale, individua due significati di "suo". Il primo è quello tradizionale, di pronome possessivo, che designa una unità di possedente e di posseduto: quest'ultimo è riferito al primo come la parte al tutto, l'organo al vivente, lo strumento all'agente. In questo senso - scrive de Finance - si dirà che "ogni esistente "possiede" i suoi principi intrinseci: (...) essi sono i "suoi" perché maggiormente collegati al suo essere", senza i quali quell'individuo non potrebbe essere quello che è, senza dei quali non potrebbe esistere. Sotto questo aspetto, la giustizia rappresenta, per ciascun individuo, il suo dovuto, proprio per consentirgli di essere, unico e irripetibile.
Ma c'è anche un senso diverso di "suo", un senso riflessivo. In tale prospettiva, "suo" - quale riconoscimento basilare della giustizia - non è semplicemente ciò che è unito al soggetto mediante una relazione oggettiva di possesso, ma è piuttosto la coscienza e la consapevolezza di tale possesso: è un modo dell'essere sé, un'esperienza intrasoggettiva di ciò che si possiede o che si deve possedere. In questo senso, "rendere a ciascuno il suo" è anche rendere a ciascuno la coscienza di sé, dunque la libertà: aggiunge de Finance che "volere rendere a ciascuno ciò che è suo" è dunque in fondo, innanzitutto "volere che ciascuno sia sé stesso", cioè che sia libero.
Nell'ordine pratico, la prima manifestazione della giustizia - l'imprescindibile condizione del suo manifestarsi - è dunque la libertà. La volontà costante e perpetua di rendere a ciascuno il suo diritto è, innanzitutto, volontà costante di riconoscergli il diritto alla libertà, primo fondamento di ogni relazione tra gli uomini, pre-condizione dell'eguaglianza: quest'ultima - e con essa la virtù della giustizia chiamata a garantirne la realizzazione - non potrebbe neppure ipotizzarsi senza il riconoscimento della reciproca libertà. La relazione umana si struttura tra eguali - e può dunque configurarsi come "giusta" - solo se gli "eguali" sono, innanzitutto, egualmente liberi. Dunque, la giustizia è virtù fondata sulla costante autolimitazione, per garantire, innanzitutto, a ciascun altro di essere sé stesso, di essere libero.
Anche per la misericordia iniziamo dal tòpos, dal luogo, attraverso l'origine ebraica di ciò che oggi traduciamo con misericordia. Il termine con il quale l'Antico Testamento indica la misericordia è rehamim, che propriamente designa le "viscere", al singolare, in senso materno ventre. Dunque, a differenza della giustizia, che si struttura nella relazione, la misericordia si colloca, anche topograficamente, nell'antro più segreto della corporeità del singolo uomo.
Ovviamente, si tratta di un senso traslato, metaforico: serve, linguisticamente, a esprimere quel sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue o di cuore, come la madre o il padre al proprio figlio o un fratello all'altro. Essendo questo legame riposto nella parte più intima dell'uomo - le viscere, appunto, come quando noi parliamo di amore sviscerato o di odio viscerale; ma in genere preferiamo il termine cuore - il sentimento che ne scaturisce è spontaneo e aperto a ogni forma di tenerezza.
La misericordia è, dunque, innanzitutto la irripetibile tenerezza della madre per il figlio, che continua a rimanere nelle sue viscere anche dopo il parto; o la profondità amorosa, incorruttibile dal tempo, che proviamo verso il nostro fratello di sangue, più giovane o anziano che sia. È, per il cristiano, la consapevolezza dell'amore infinito posto a base della nostra creazione. Essa muove - ha ben scritto il giovane prete sardo don Alessandro Simula - da un sentimento spontaneo, non da una deliberazione cosciente.
D'altra parte, della misericordia iniziale, Dio conserva memoria per gli uomini: a condizione che gli uomini siano fervidi nella speranza di riceverla, fino all'insistenza, fin quasi all'insolenza. Come Abramo allorquando apre la "trattativa" con il suo Signore per cercare di salvare Sodoma, con una intercessione sublime, che finisce per commuovere e fa tremare chi legge (e turba la legge). (...) Si salverà solo Lot, come sappiamo: ma Abramo insegna la compassione che dovremmo avere per i peccatori, e mostra con quanta intensità dovremmo pregare per loro, cioè per noi stessi.
Nella tradizione ebraica, che non ha ritenuto di far propria l'aurora della Croce, giustizia e misericordia si fronteggiano da sempre: persino nel nome della divinità.
Il Dio della misericordia subentra, nella tradizione ebraica, a quello della giustizia e del rigore. Ricorda Haim Baharier, anticonformista studioso della Torah e del Talmud, che - come insegnano alcuni maestri della Kabbalà, interpretando, sulla scia del Midràsh, il primo versetto della Genesi - Dio creò e distrusse venticinque volte ciò che aveva creato; alla ventiseiesima volta, creò una parola nuova, dai, in ebraico, che corrisponde al nostro basta - e finalmente contemplò l'opera del suo verbo.
L'atto della creazione è dunque il primo - nell'ordine temporale, ma anche in quello assiologico - atto di misericordia: si potrebbe dire, è ciò che fonda la misericordia futura tra tutti gli uomini. Anche a costo di annacquare la giustizia, mettendone in forse la sua perfezione, rischiando - e la cancellazione della scena delle precedenti venticinque creazioni ne è la conferma - un mondo claudicante.
La misericordia, nella sua prima epifania, è dunque un atto di ritrosia del perfetto rigore: un cedimento della giustizia, una rinuncia alla sua perfetta completezza per creare un mondo imperfetto e donarlo agli uomini. Da allora, da quest'atto fondativo, sarà sempre così: la misericordia sarà un atto di trasfigurazione della giustizia, un subentrare a essa, una sua sublimazione.
Sotto questo aspetto, la misericordia è la forza reale della giustizia. La misericordia intesa come clemenza, come esercizio clemente della giustizia è sintomo della vera forza di quest'ultima: un po' come il pianto è la vera forza del bambino inerme.
L'apostolo Paolo descrive in una frase la condizione per poter pensare al mistero della giustizia: in generale, direi, per poter pensare. La condizione - egualitaria quanto la morte - del peccato, che ci accomuna in una umanità diversissima in tutto il resto, ma parificata in questo; la misericordia, che egualmente ci solleva tutti, distribuendo amore infinito a tutti, senza distinzione. Al problema delle disuguaglianze del mondo, la prospettiva cristiana risponde che l'unica possibile eguaglianza - e anche la più importante - è ai punti estremi della nostra condizione umana: tutti uguali nella caduta; tutti uguali nell'amore che ci solleva. Così, la misericordia diviene la giustizia cui si unisce la carità: essa è il perfezionamento della giustizia, ma, al tempo stesso, il suo superamento.
Il pensiero paolino è chiarissimo sul punto: per rendersene conto è sufficiente rileggere uno dei passi più noti e intensi (e, letterariamente, più belli), quale l'Inno alla carità (1 Corinzi, 13, 1-13): "E se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho la carità, non mi giova a nulla. La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine...".
La giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta, monca: una dimensione regolativa che scivola, progressivamente, nel legalismo. La finitudine della giustizia, che risalta al cospetto della grandezza infinita della misericordia, è resa bene in due parabole evangeliche.
La prima è la parabola del debitore spietato (Matteo, 18, 23) nella quale il re scopre un servo debitore di diecimila talenti, ma recede, per le sue suppliche, dall'originario proposito di venderlo con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, affinché saldasse il suo debito. Appena uscito, quel servo ne trova un altro come lui che gli doveva cento denari. Lo afferra e lo soffoca, dicendogli di pagare il dovuto. Il debitore spietato non vuole esaudire le suppliche del suo compagno e lo fa gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Venutolo a sapere, il re lo fa richiamare e gli dice: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse avere anche tu pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?". E, sdegnato, "lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto".
Il comportamento del debitore spietato è, in punto di giustizia, ineccepibile: dal condono del suo debito non deriva affatto alcun obbligo, per lui, di condonare a sua volta. E, per averlo fatto gettare in carcere a causa dell'inadempimento, nessun giudice lo avrebbe a sua volta potuto condannare. A condannarlo è, invece, la clemente misericordia che gli è stata usata e che egli non è stato capace di interiorizzare: la misericordia arriva là dove la giustizia mai potrebbe, e lascia un segno che nessuna decisione di giustizia mai potrebbe lasciare. Il debitore spietato sceglie di scivolare nel legalismo e cade, tuttavia, a sua volta nella rete della giustizia: chi è stato con lui misericordioso era "al di là del bene e del male", ma il servo ha scelto di ripassare questo confine.
La seconda parabola è quella degli operai nella vigna (Matteo, 20, 1-16). Quale legge, quale principio di giustizia, potrebbe mai prevedere che lavori diversi, per durata, fatica e intensità, siano retribuiti allo stesso modo? E quale giudice mai potrebbe dar torto a quegli operai della mattina che, pensando di essere stati trattati ingiustamente, mormoravano contro il padrone: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo"!
Eppure, il padrone della vigna sa mettere in crisi lo stesso concetto umano di giustizia, fondata sulla scala ordinata dei valori e dei meriti ("Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi").
La misericordia, abbiamo detto, invece non presuppone meriti: li supera; evade la logica, come ogni vera grandezza dell'animo; di più, è autenticamente eversiva, nel senso etimologico di "fuori dal verso delle cose, dalla loro direzione ordinaria", come nessuna giustizia umana - nel nome della quale pure si sono intraprese centinaia di rivoluzioni - potrebbe mai esserlo.
L'imprevedibile gratuità della misericordia scardina completamente la limitata visione della mentalità umana e diventa pietra d'inciampo persino dei principi di giustizia. La giustizia di Dio non contrasta, in realtà, con la giustizia umana (ogni operaio della parabola riceve la retribuzione concordata), ma la trascende, completandola e trasformandola con l'amore.
Per il giurista che insegue quotidianamente la giustizia, la consapevolezza di questo superamento è una speranza intensa e irrinunciabile.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)
In attesa della visita di Benedetto XVI nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura Anno laurenziano
Un percorso di rinnovamento
di Alessandro Trentin
Tutto è pronto nella Basilica romana di San Lorenzo fuori le mura per accogliere la visita di Benedetto XVI, domani, domenica 30 novembre, in occasione della chiusura delle celebrazioni per il 1750° anniversario del martirio del protodiacono. L'Anno laurenziano era stato aperto il 1º gennaio scorso dall'allora cardinale vicario Camillo Ruini con una solenne messa ed è proseguito con una serie di iniziative che hanno coinvolto la comunità e non solo. Infatti, sono stati numerosi i pellegrini di altre diocesi italiane ma anche provenienti dall'estero, ad esempio Germania, Spagna e Francia, che si sono recati in visita sulla tomba del martire.
A ricevere il Papa saranno, tra gli altri, il cardinale vicario Agostino Vallini e il parroco, fra' Bruno Mustacchio. I fedeli con grande gioia attendono di incontrare Benedetto XVI e i preparativi fervono per salutare l'arrivo del successore di Pietro, che presiederà la solenne concelebrazione eucaristica.
Il parroco commenta: "Ci prepareremo insieme all'onore di un evento che ci commuove, ci emoziona, ci interroga sul nostro essere Chiesa di Cristo, Chiesa che è in Roma, con l'umiltà di chi riceve lo stesso Gesù nella propria casa". La comunità dei fedeli, tra l'altro, si ritroverà fino alla vigilia della visita, davanti al tabernacolo pregando insieme per il Papa, per le sue intenzioni, per le proprie famiglie, per coloro che soffrono e anche per tutti quelli che hanno bisogno di un sostegno spirituale "certi - aggiunge il parroco - che il Signore non mancherà, ancora una volta, di riempire la nostra vita della sua grazia. Con questo spirito, accogliamo il Vicario di Cristo, sentendoci in comunione con Lui e tra noi". Fra' Bruno Mustacchio aggiunge: "Il Signore, nel suo immenso amore, ha chiamato il suo Servo Benedetto a tenere il posto di Pietro per essere pastore del suo gregge, di cui ognuno di noi è pecorella prediletta. Se Giovanni, il discepolo che Egli amava, è il primo degli apostoli a riconoscere Gesù nella scena della pesca miracolosa, Pietro è il primo a raggiungerlo, facendosi "ponte" tra il Signore e i suoi".
La Basilica, al cui interno sono custodite oltre alle reliquie del santo anche le tombe di Pio ix e di Alcide De Gasperi, è sede parrocchiale dal 1709, sebbene attualmente nel suo territorio rientrino soltanto una decina di famiglie. Nell'area basilicale, il cosiddetto "Agro Verano" sono anche sepolti i Papi Zosimo, Sisto iii e Ilario.
I cappuccini, che prestano una particolare attenzione alla pastorale dei defunti servendo l'attiguo cimitero monumentale del Verano, hanno avuto in affidamento la chiesa nel 1855.
Il superiore della Casa dei cappuccini e vice parroco, fra' Frumenzio De Donato, riferisce al nostro giornale che l'Anno laurenziano ha costituito "un'occasione per un rinnovamento interiore di tutta la comunità". Per i frati in particolare, aggiunge, si è trattato di un ulteriore passo nel percorso di maturazione della fede e di miglioramento della loro testimonianza. L'obbedienza alla Chiesa, l'osservanza delle sue leggi e dei suoi insegnamenti, costituiscono la regola di vita dell'ordine che impronta il suo cammino sulle orme di san Francesco d'Assisi.
Il vice parroco racconta, tra l'altro, della forte devozione dimostrata anche dai fedeli stranieri, giunti numerosi per ricevere l'indulgenza plenaria. La Basilica dunque, per un anno, è diventata faro illuminante per i pellegrini alla ricerca di un contatto profondo con la fede. La devota partecipazione alle adorazioni eucaristiche serali ne sono, conclude il vice parroco, un forte segno.
Oltre ai momenti di preghiera, per l'Anno laurenziano, sono stati organizzati anche dei seminari riguardanti temi specifici, cui hanno partecipato religiosi e esponenti del mondo della cultura. Le riflessioni si sono accentrare fra l'altro su la solidarietà e la missione e la tutela della vita. Inoltre, le tradizionali catechesi per adulti e giovani, molto seguite dai fedeli e che si svolgono regolarmente da anni, sono state tenute avendo una particolare attenzione per lo speciale evento. Per la comunità locale, inoltre, è a disposizione un centro di ascolto per le persone in difficoltà.
La Casa dei cappuccini è, tra l'altro, particolarmente attiva nel valorizzare l'immenso patrimonio storico-artistico costituito dalla Basilica e dalle altre proprietà attigue. Recentemente sono state scoperte delle antichissime tombe sullo spazio antistante il complesso basilicale che sono oggetto di interesse da parte della Sovrintendenza ai beni culturali.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)