PINOCCHIO (17 - 19) di Carlo Collodi

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vanni-merlin
00mercoledì 24 giugno 2009 14:05
XVII.

Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi:

però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga.

Poi dice una bugia e per castigo gli cresce il naso.




Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accòrse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:

— Bevila, e in pochi giorni sarai guarito. —

Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi dimandò con voce di piagnisteo:

— È dolce o amara?

— È amara, ma ti farà bene.

— Se è amara non la voglio.

— Da’ retta a me: bevila.

— A me l’amaro non mi piace.

— Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca.

— Dov’è la pallina di zucchero?

— Eccola qui — disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.

— Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara...

— Me lo prometti?

— Sí... —

La Fata gli dètte la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un àttimo, disse leccandosi i labbri:

— Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei tutti i giorni.

— Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute. —

Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:

— È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.

— Come fai a dirlo se non l’hai nemmeno assaggiata?

— Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero... e poi la beverò! —

Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.

— Cosí non la posso bere! — disse il burattino, facendo mille smorfie.

— Perché?

— Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiú su i piedi. —

La Fata gli levò il guanciale.

— È inutile! Nemmeno cosí la posso bere.

— Che cos’altro ti dà noia?

— Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto. —

La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.

— Insomma — gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto — quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!...

— Ragazzo mio, te ne pentirai...

— Non me n’importa...

— La tua malattia è grave...

— Non me n’importa...

— La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo...

— Non me n’importa...

— Non hai paura della morte?

— Nessuna paura!... Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva. —

A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.

— Che cosa volete da me? — gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto.

— Siamo venuti a prenderti — rispose il coniglio piú grosso.

— A prendermi?... Ma io non sono ancora morto!...

— Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita, avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito della febbre!...

— O Fata mia, o Fata mia! — cominciò allora a strillare il burattino — datemi subito quel bicchiere... Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire, no... non voglio morire. —

E preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo votò in un fiato.

— Pazienza! — dissero i conigli. — Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. — E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.

Fatto sta che di lí a pochi minuti, Pinocchio saltò giú dal letto, bell’e guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.

E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:

— Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?

— Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!...

— E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?

— Egli è che noi ragazzi siamo tutti cosí! Abbiamo piú paura delle medicine che del male.

— Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte...

— Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle... e allora piglierò subito il bicchiere in mano, e giú!...

— Ora vieni un po’ qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.

— Gli andò, che il burattinaio Mangiafoco mi dètte cinque monete d’oro, e mi disse: «To’, portale al tuo babbo!», e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: «Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei miracoli». E io dissi: «Andiamo»; e loro dissero: «Fermiamoci qui all’osteria del Gambero rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo». E io, quando mi svegliai, loro non c’erano piú, perché erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: «Metti fuori i quattrini»; e io dissi: «non ce n’ho»; perché le monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri che ti corro, finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco col dire: «Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e cosí ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua».

— E ora le quattro monete dove le hai messe? — gli domandò la Fata.

— Le ho perdute! — rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in tasca.

Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di piú.

— E dove le hai perdute?

— Nel bosco qui vicino. —

A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.

— Se le hai perdute nel bosco vicino — disse la Fata — le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre.

— Ah! ora che mi rammento bene — replicò il burattino imbrogliandosi — le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene, le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. —

A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo cosí straordinario, che il povero Pinocchio non poteva piú girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ piú il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.

E la Fata lo guardava e rideva.

— Perché ridete? — gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate.

— Rido della bugia che hai detto.

— Come mai sapete che ho detto una bugia?

— Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo. —

Pinocchio, non sapendo piú dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera; ma non gli riuscí. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava piú dalla porta.






XVIII.

Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare

le quattro monete nel Campo de’ miracoli.




Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che non passava piú dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione e perché si correggesse dal brutto vizio di dire le bugie, il piú brutto vizio che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, batté le mani insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.

— Quanto siete buona, Fata mia, — disse il burattino, asciugandosi gli occhi — e quanto bene vi voglio!

— Ti voglio bene anch’io — rispose la Fata — e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina...

— Io resterei volentieri... ma il mio povero babbo?

— Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui.

— Davvero? — gridò Pinocchio, saltando dall’allegrezza. — Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l’ora di poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!

— Va’ pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicura che lo incontrerai. —

Pinocchio partí: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre come un capriòlo. Ma quando fu arrivato a un certo punto, quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i due compagni di viaggio coi quali aveva cenato all’osteria del Gambero rosso.

— Ecco il nostro caro Pinocchio! — gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo. — Come mai sei qui?

— Come mai sei qui? — ripeté il Gatto.

— È una storia lunga — disse il burattino — e ve la racconterò a comodo. Sappiate però che l’altra notte, quando mi avete lasciato solo sull’osteria, ho trovato gli assassini per la strada...

— Gli assassini?... Oh povero amico! E che cosa volevano?

— Mi volevano rubare le monete d’oro.

— Infami!... — disse la Volpe.

— Infamissimi! — ripeté il Gatto.

— Ma io cominciai a scappare — continuò a dire il burattino — e loro sempre dietro: finché mi raggiunsero e m’impiccarono a un ramo di quella quercia... —

E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lí a due passi.

— Si può sentir di peggio? — disse la Volpe. — In che mondo siamo condannati a vivere! Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini? —

Nel tempo che parlavano cosí, Pinocchio si accòrse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò:

— Che cosa hai fatto del tuo zampetto? —

Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s’imbrogliò. Allora la Volpe disse subito:

— Il mio amico è troppo modesto, e per questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un’ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l’amico mio, che ha davvero un cuore di Cesare? Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l’ha gettato a quella povera bestia, perché potesse sdigiunarsi. —

E la Volpe, nel dir cosí, si asciugò una lagrima.

Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi:

— Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!...

— E ora che cosa fai in questi luoghi? — domandò la Volpe al burattino.

— Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento.

— E le tue monete d’oro?

— Le ho sempre in tasca, meno una che la spesi all’osteria del Gambero rosso.

— E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dài retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?

— Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.

— Un altro giorno sarà tardi!... — disse la Volpe.

— Perché?

— Perché quel campo è stato comprato da un gran signore, e da domani in là non sarà piú permesso a nessuno di seminarvi i denari.

— Quant’è distante di qui il Campo dei miracoli?


— Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila, e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi? —

Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finí col fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio e senza cuore; finí, cioè, col dare una scrollatina di capo, e disse alla Volpe e al Gatto:

— Andiamo pure: io vengo con voi. —

E partirono.

Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome «Acchiappa-citrulli». Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano piú volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre.

In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche Volpe, o qualche Gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.

— E il Campo dei miracoli dov’è? — domandò Pinocchio.

— È qui a due passi. —

Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giú, somigliava a tutti gli altri campi.

— Eccoci giunti — disse la Volpe al burattino. — Ora chinati giú a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete d’oro. —

Pinocchio obbedí. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprí la buca con un po’ di terra.

— Ora poi — disse la Volpe — va’ alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato. —

Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lí per lí una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:

— C’è altro da fare?

— Nient’altro — rispose la Volpe. — Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti, e troverai l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. —

Il povero burattino, fuori di sé dalla gran contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.

— Noi non vogliamo regali — risposero que’ due malanni. — A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come pasque. —

Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.






XIX.

Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro,

e per gastigo, si busca quattro mesi di prigione.




Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.

E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé:

«E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila? e se invece di cinquemila, ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che diventerei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna».

Cosí fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lí si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo... andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dètte una lunghissima grattatina di capo.

In quel mentre sentí fischiarsi negli orecchi una gran risata: voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso Pappagallo che si spollinava le poche penne che aveva addosso.

— Perché ridi? — gli domandò Pinocchio con voce di bizza.

— Rido, perché nello spollinarmi mi sono fatto il solletico sotto le ali. —

Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose novamente ad annaffiare la terra, che ricopriva le monete d’oro.

Quand’ecco che un’altra risata, anche piú impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo.

— Insomma — gridò Pinocchio, arrabbiandosi — si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?

— Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è piú furbo di loro.

— Parli forse di me?

— Sí, parlo di te, povero Pinocchio; di te che sei cosí dolce di sale da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagiuoli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.

— Non ti capisco — disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.

— Pazienza! Mi spiegherò meglio — soggiunse il Pappagallo. — Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo! —

Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca cosí profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non c’erano piú.

Preso allora dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.

Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.
Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dètte il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finí chiedendo giustizia.

Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerí, si commosse: e quando il burattino non ebbe piú nulla da dire, allungò la mano e sonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:

— Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione. —


Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.

E lí v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di piú se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una bella vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e di velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.

— Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io — disse Pinocchio al carceriere.

— Voi no, — rispose il carceriere — perché voi non siete del bel numero...

— Domando scusa; — replicò Pinocchio — sono un malandrino anch’io.

— In questo caso avete mille ragioni — disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprí le porte della prigione e lo lasciò scappare.



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